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    Predefinito Avvento - Tempo dell'attesa del Signore

    Da dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 21-26

    AVVENTO

    Capitolo Primo

    STORIA DELL'AVVENTO

    Il nome dell'Avvento


    Si dà, nella Chiesa latina, il nome di Avvento [1] al tempo destinato dalla Chiesa a preparare i fedeli alla celebrazione della festa di Natale, anniversario della Nascita di Gesù Cristo. Il mistero di questo grande giorno meritava senza dubbio l'onore d'un preludio di preghiera e di penitenza: cosicché sarebbe impossibile stabilire in maniera certa la prima istituzione di questo tempo di preparazione, che ha ricevuto solo più tardi il nome di Avvento [2].

    L'Avvento deve essere considerato sotto due diversi punti di vista: come un tempo di preparazione propriamente detta alla Nascita del Salvatore, mediante gli esercizi della penitenza, o come un corpo d'Uffici ecclesiastici organizzato con lo stesso fine. Fin dal secolo V troviamo l'uso di fare delle esortazioni al popolo per disporlo alla festa di Natale; ci sono rimasti a questo proposito due sermoni di san Massimo di Torino, senza parlare di parecchi altri attribuiti una volta a sant'Ambrogio e a sant'Agostino, e che sembrano essere invece di san Cesario d'Arles. Se tali documenti non ci indicano ancora la durata e gli esercizi di questo tempo sacro, vi riscontriamo almeno l'antichità dell'uso che distingue mediante particolari predicazioni il tempo dell'Avvento. Sant'Ivo di Chartres, san Bernardo, e parecchi altri dottori dell'XI e del XII secolo hanno lasciato speciali sermoni de adventu Domini, completamente distinti dalle Omelie domenicali sui Vangeli di questo tempo. Nei Capitolari di Carlo il Calvo dell'anno 864, i vescovi fanno presente a quel principe che egli non deve richiamarli dalle loro chiese durante la Quaresima né durante l'Avvento sotto il pretesto degli affari di Stato o di qualche spedizione militare, perché essi hanno in quel periodo dei doveri particolari da compiere, principalmente quello della predicazione.

    Un antico documento in cui si trovano, precisati, in maniera sia pure poco chiara, il tempo e gli esercizi dell'Avvento, è un passo di san Gregorio di Tours, al decimo libro della sua Storia dei Franchi nel quale riferisce che san Perpetuo, uno dei suoi predecessori, che occupava la sede verso il 480, aveva stabilito che i fedeli digiunassero tre volte la settimana dalla festa di san Martino fino a Natale [3]. Con quel regolamento, san Perpetuo stabiliva un'osservanza nuova, o sanzionava semplicemente una legge già esistente? È impossibile determinarlo con esattezza oggi. Rileviamo almeno questo intervallo di quaranta giorni o piuttosto di quarantatré giorni, designato espressamente, e consacrato con la penitenza come una seconda Quaresima, sebbene con minor rigore [4].

    Troviamo quindi il nono canone del primo Concilio di Mâcon, tenutosi nel 583, il quale ordina che, durante lo stesso intervallo da san Martino al Natale, si digiunerà il lunedì, il mercoledì, il venerdì, e si celebrerà il sacrificio secondo il rito Quaresimale. Qualche anno prima, il secondo Concilio di Tours, tenutosi nel 567, aveva ordinato ai monaci di digiunare dall'inizio del mese di dicembre fino a Natale. Questa pratica di penitenza si estese a tutti i quaranta giorni per i fedeli stessi; e si chiamò volgarmente la Quaresima di san Martino. I Capitolari di Carlo Magno, al libro sesto, non ne lasciano alcun dubbio; e Rabano Mauro attesta la medesima cosa nel secondo libro della Istituzione dei chierici. Si facevano anche particolari festeggiamenti nel giorno di san Martino, come si fa ancor oggi all'avvicinarsi della Quaresima e a Pasqua.

    Variazioni nelle osservanze.

    L'obbligo di questa Quaresima che, cominciando a pesare in modo quasi impercettibile, era cresciuto successivamente fino a diventare una legge sacra, diminuì grado a grado; e i quaranta giorni da san Martino a Natale si trovarono ridotti a quattro settimane. Si è visto come l'usanza di tale digiuno fosse cominciata in Francia; ma di qui si era diffusa in Inghilterra, come apprendiamo dalla Storia del Venerabile Beda; in Italia, come consta da un diploma di Astolfo, re dei Longobardi († 753); in Germania, in Spagna [5], ecc., ma se ne possono vedere le prove nella grande opera di dom Martène sugli antichi riti della Chiesa. Il primo indizio che riscontriamo della riduzione dell'Avvento a quattro settimane si può ritenere che sia, fin dal IX secolo, la lettera del Papa san Nicola I ai Bulgari. La testimonianza di Raterio di Verona e di Abbondio di Fleury, autori appartenenti entrambi allo stesso secolo, serve anche a provare che fin d'allora si discuteva molto per diminuire d'un terzo la durata del digiuno dell'Avvento. È vero che san Pier Damiani, nell'XI secolo, suppone ancora che il digiuno dell'Avvento fosse di quaranta giorni e che san Luigi, due secoli dopo, continuava ad osservarlo in questa misura; ma forse questo santo re lo praticava in tal modo per un trasporto di devozione particolare.

    La disciplina della Chiesa d'Occidente, dopo essersi rilassata sulla durata del digiuno dell'Avvento, si raddolcì presto al punto da trasformare tale digiuno in una semplice astinenza; si trovano inoltre dei Concili fin dal XII secolo, come quello di Selingstadt del 1122, che sembrano obbligare soltanto i chierici a tale astinenza [6]. Il Concilio di Salisbury, nel 1281, pare anch'esso obbligarvi solo i monaci. D'altra parte, è tale la confusione su questa materia, senza dubbio perché le diverse chiese d'Occidente non ne hanno fatto l'oggetto di una disciplina uniforme, che, nella sua lettera al Vescovo di Braga, Innocenzo III attesta che l'uso di digiunare per tutto l'Avvento esisteva ancora a Roma al suo tempo, e Durando, sempre nel XIII secolo, nel suo Razionale dei divini Uffici, testimonia ugualmente che il digiuno era continuo in Francia per tutta la durata di quel tempo sacro.

    Comunque sia, questa usanza venne sempre più diminuendo di modo che tutto quello che poté fare nel 1362 il Papa Urbano V per arrestarne la caduta completa, fu di obbligare tutti i chierici della sua corte a conservare l'astinenza dell'Avvento, senza alcuna menzione del digiuno, e senza comprendere affatto gli altri chierici, e tanto meno i laici, sotto questa legge. San Carlo Borromeo cercò anch'egli di risuscitare lo spirito, se non la pratica, dei tempi antichi nelle popolazioni del Milanese. Nel suo quarto Concilio, ordinò ai parroci di esortare i fedeli a comunicarsi almeno tutte le domeniche della Quaresima e dell'Avvento, e indirizzò quindi ai suoi stessi diocesani una lettera pastorale in cui, dopo aver loro ricordato le disposizioni con le quali si deve celebrare questo sacro tempo, faceva istanza per condurli a digiunare almeno il lunedì, il mercoledì e il venerdì di ciascuna settimana. Infine, Benedetto XIV ancora arcivescovo di Bologna, calcando così gloriose orme, ha consacrato la sua undicesima Istituzione Ecclesiastica a ridestare nello spirito dei fedeli della sua diocesi la sublime idea che i cristiani avevano un tempo del tempo dell'Avvento, e a combattere un pregiudizio diffuso in quella regione, cioè che l'Avvento riguardava le sole persone religiose, e non i semplici fedeli. Egli dimostra che questa asserzione, salvo che la si intenda semplicemente del digiuno e dell'astinenza, è di per sé temeraria e scandalosa, poiché non si potrebbe dubitare che esiste, nelle leggi e nelle usanze della Chiesa universale, tutto un insieme di pratiche destinate a mettere i fedeli in uno stato di preparazione alla grande festa della Nascita di Gesù Cristo.

    La Chiesa greca osserva ancora il digiuno dell'Avvento, ma con molto minore severità rispetto a quello della Quaresima. Esso consta di quaranta giorni, a partire dal 14 novembre, giorno in cui quella Chiesa celebra la festa dell'apostolo san Filippo. Per tutto questo tempo, si osserva l'astinenza dalla carne, dal burro, dal latte e dalle uova; ma si fa uso di pesce, olio e vino, cose tutte vietate durante la Quaresima. Il digiuno propriamente detto è d'obbligo soltanto per sette giorni sui quaranta; e tutto l'insieme si chiama volgarmente la Quaresima di san Filippo. I Greci giustificano queste mitigazioni dicendo che la Quaresima di Natale è solo di istituzione monastica, mentre quella di Pasqua è d'istituzione apostolica.

    Ma se le pratiche esteriori di penitenza che consacravano una volta il tempo dell'Avvento presso gli Occidentali, si sono a poco a poco mitigate, in maniera che oggi non ne resta alcun vestigio fuori dei monasteri, l'insieme della Liturgia dell'Avvento non è cambiato; ed è nello zelo per appropriarsene lo spirito che i fedeli daranno prova d'una vera preparazione alla festa di Natale.

    Variazioni nella Liturgia.

    La forma liturgica dell'Avvento, quale si ha oggi nella Chiesa Romana, ha subito alcune variazioni. San Gregorio (590-604) sembra aver istituito per primo questo Ufficio che avrebbe abbracciato dapprima cinque domeniche, come si può vedere dai più antichi Sacramentari di quel grande Papa. Si può anche dire a questo proposito, secondo Amalario di Metz e Bernone di Reichenau, seguiti da Dom Martène e da Benedetto XIV, che san Gregorio sembrerebbe essere l'autore del precetto ecclesiastico dell'Avvento, benché l'uso di consacrare un tempo più o meno lungo a prepararsi alla festa di Natale sia del resto immemorabile, e l'astinenza e il digiuno di questo tempo sacro siano iniziati dapprima in Francia. San Gregorio avrebbe determinato, per le Chiese di rito romano, la forma dell'Ufficio durante questa specie di Quaresima, e sanzionato il digiuno che l'accompagnava, lasciando tuttavia una certa libertà alle diverse Chiese circa la maniera di praticarlo.

    Fin dal IX e X secolo, come si può vedere da Amalario, san Nicola I, Bernone di Reichenau, Reterio di Verona, ecc., le domeniche erano già ridotte a quattro; è lo stesso numero che porta il Sacramentario gregoriano dato da Pamelio, e che sembra sia stato trascritto a quell'epoca. Da allora, nella Chiesa Romana, la durata dell'Avvento non ha subito variazioni, ed è sempre consistito in quattro settimane, di cui la quarta è quella stessa nella quale cade la festa di Natale, a meno che tale festa non capiti di domenica. Si può dunque assegnare all'usanza attuale una durata di mille anni, almeno nella Chiesa Romana; poiché vi sono delle prove che fino al secolo XIII alcune Chiese di Francia hanno conservato l'usanza delle cinque domeniche [7].

    La Chiesa ambrosiana conta ancor oggi sei settimane nella sua liturgia dell'Avvento; il Messale gotico o mozarabico mantiene la stessa usanza. Per la Chiesa gallicana, i frammenti che Dom Mabillon ci ha conservati della sua liturgia non ci attestano nulla a questo riguardo; ma è naturale pensare con questo studioso la cui autorità è rafforzata anche da quella di Dom Martène, che la Chiesa delle Gallie seguiva su questo punto, come su tanti altri, le usanze della Chiesa gotica, cioè che la liturgia del suo Avvento si componeva ugualmente di sei domeniche e di sei settimane [8].

    Quanto ai Greci, le loro Rubriche per il tempo dell'Avvento si leggono nei Nenei, dopo l'Ufficio del 14 novembre. Essi non hanno un Ufficio proprio dell'Avvento, e non celebrano durante questo tempo la Messa dei Presantificati, come fanno in Quaresima. Si trovano soltanto, nel corpo stesso degli Uffici dei Santi che occupano il periodo dal 15 novembre alla domenica più vicina a Natale, parecchie allusioni alla Natività del Salvatore, alla maternità di Maria, alla grotta di Betlemme, ecc. Nella domenica che precede il Natale, celebrano quella che chiamano la Festa dei santi Avi, cioè la Commemorazione dei Santi dell'Antico Testamento, per celebrare l'attesa del Messia. Il 20, 21, 22 e 23 dicembre sono decorati del titolo di Vigilia della Natività; e benché in quei giorni si celebri ancora l'Ufficio di parecchi Santi, il mistero della prossima Nascita del Salvatore domina tutta la Liturgia.

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    NOTE

    [1] Dal latino Adventus, che significa Venuta.

    [2] La proclamazione del dogma della Maternità divina, avvenuta ad Efeso nel 431, diede vivo impulso al culto mariano e una grande celebrità alla commemorazione della Natività del Signore. È infatti poco dopo il Concilio di Nicea (325) che la Chiesa romana istituì la festa di Natale e la fissò al 25 dicembre, ma è dall'Oriente che attinse i primi elementi dell'Avvento.

    [3] Secondo i più recenti lavori dei liturgisti, si possono segnalare testimonianze ancora più antiche di questa. Così un frammento di un testo di sant'Ilario, quindi anteriore al 366, dice che "la Chiesa si dispone al ritorno annuale della venuta del Salvatore, con un tempo misterioso di tre settimane". Il Concilio di Saragozza, da parte sua, fin dal 380 impone ai fedeli di assistere agli uffici dal 17 dicembre al 6 gennaio. In questo periodo di ventun giorni, la parte che precede il Natale formava un quadro ben indicato per la preparazione di questa festa e costituiva una specie di Avvento. Ma siccome si era introdotto l'uso, nel IV secolo, di considerare l'Epifania e il Natale stesso come festa battesimale, potrebbe qui trattarsi solo d'una preparazione al battesimo e non d'una liturgia dell'Avvento.

    In Oriente, nel V secolo, a Ravenna, nelle Gallie e nella Spagna, una festa della Vergine era celebrata la domenica prima di Natale, e talvolta anche una festa del Precursore la domenica precedente. Si avrebbe qui ancora una breve preparazione al Natale, un Avvento primitivo, a meno che non si tratti d'un semplice ampliamento della festa di Natale. Infine, il Rotolo di Ravenna, di cui sarebbe autore san Pier Crisologo (433-450), possiede 40 orazioni che possono essere considerate come preparatorie al Natale.

    [4] Bisogna notare anche che questo digiuno non era proprio del Tempo dell'Avvento, poiché, tra la Pentecoste e la metà di febbraio, i fedeli digiunavano due volte la settimana e i monaci tre volte. Il carattere penitenziale dell'Avvento derivò a poco a poco, a causa dell'analogia che si presentava naturalmente tra questa stagione e la Quaresima.

    [5] Forse il digiuno esisteva già in Spagna a quell'epoca. Una lettera del 400 circa, ci parla di tre settimane che pongono fine all'anno e ne cominciano uno nuovo, comprendenti la festa di Natale e quella dell'Epifania, durante le quali conviene darsi al ritiro e alle pratiche dell'ascetismo: la preghiera e l'astinenza (Rev. Bén. 1928, p. 289). Le chiese d'Oriente che ricevettero dall'Occidente la celebrazione della Natività di Nostro Signore, adottarono ugualmente, nell'VIII secolo, il digiuno dell'Avvento.

    [6] Il Concilio di Avranches (1172) prescrive il digiuno e l'astinenza a tutti coloro che lo potranno, in particolare ai chierici e ai soldati.

    [7] Si può oggi stabilire in una maniera molto più dettagliata lo sviluppo della Liturgia dell'Avvento. Mentre il Sacramentario leoniano, (fine del VI secolo) non porta alcuna messa, il che sembra indicare che a quell'epoca Roma ignorava ancora l'Avvento, il Sacramentario gelasiano antico (fine del VI e inizio del VII secolo) contiene cinque messe "De adventu Domini". Il Sacramentario gelasiano d'Angoulême e gli altri Sacramentari dell'VIII secolo contengono essi pure cinque messe, o in più le tre messe delle Quattro Tempora di dicembre. Infine, nel Sacramentario gregoriano, troviamo delle messe per quattro domeniche e per le tre ferie delle Quattro Tempora. Forse anche la messa dell'ultima domenica dopo la Pentecoste era considerata come messa "de Adventu". Aggiungiamo infine che san Benedetto († dopo il 546) ha scritto, nella sua Regola, un capitolo sulla Quaresima, che parla del Tempo pasquale ma non menziona l'Avvento.

    [8] Segnaliamo che il Sacramentario mozarabico: Liber mozarabicus sacramentorum (del IX secolo, ma che rappresenta la liturgia del VII), contiene cinque domeniche, e infine che i Lezionari gallicani portano sei domeniche dell'Avvento.

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    Da dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 27-31

    Capitolo Secondo

    MISTICA DELL'AVVENTO

    La triplice Venuta.


    Se ora, dopo aver descritto le caratteristiche che distinguono il tempo dell'Avvento da qualsiasi altro, vogliamo penetrare nelle profondità del mistero che occupa la Chiesa in questa epoca, troviamo che questo mistero della Venuta di Gesù Cristo è insieme uno e triplice. È uno, perché è lo stesso Figlio di Dio che viene; triplice, perché egli viene in tre tempi e in tre modi.

    "Nella prima venuta, dice san Bernardo nel quinto sermone sull'Avvento, egli viene nella carne e nell'infermità; nella seconda viene in spirito e in potenza; nella terza, viene in gloria e in maestà; e la seconda Venuta è il mezzo attraverso il quale si passa dalla prima alla terza".

    Ecco il mistero dell'Avvento. Ascoltiamo ora la spiegazione che ci dà Pietro di Blois di questa triplice visita di Cristo, nel suo terzo sermone de Adventu: "Vi sono tre Venute del Signore, la prima nella carne, la seconda nell'anima, la terza con il giudizio. La prima ebbe luogo nel cuore della notte, secondo le parole del Vangelo: Nel cuore della notte si fece sentire un grido: Ecco lo Sposo! E questa prima Venuta è già passata, poiché Cristo è stato visto sulla terra ed ha conversato con gli uomini. Noi ci troviamo ora nella seconda Venuta: purché, tuttavia, siamo tali che egli possa venire a noi; poiché egli ha detto che se lo amiamo, verrà a noi e stabilirà in noi la sua dimora. Questa seconda Venuta è dunque per noi una cosa mista d'incertezza; poiché chi altro fuorché lo Spirito di Dio conosce coloro che sono di Dio? Coloro che il desiderio delle cose celesti trasporta fuor di se stessi, sanno bene quando egli viene; tuttavia, non sanno né donde viene né dove va. Quanto alla terza Venuta, è certissimo che avrà luogo; incertissimo il quando: poiché non vi é niente di più certo che la morte, e niente di più incerto che il giorno della morte. Al momento in cui si parlerà di pace e di sicurezza, dice il Savio, allora la morte apparirà d'improvviso, come le doglie del parto nel seno della donna, e nessuno potrà fuggire. La prima Venuta fu dunque umile e nascosta, la seconda è misteriosa e piena d'amore, la terza sarà risplendente e terribile. Nella sua prima Venuta, Cristo è stato giudicato dagli uomini con ingiustizia; nella seconda, ci rende giusti mediante la sua grazia; nella terza, giudicherà tutte le cose con equità: Agnello nella prima Venuta, Leone nell'Ultima, Amico pieno di tenerezza nella seconda" (De Adventu, Sermo III).

    La prima Venuta.

    Stando cosi le cose, la santa Chiesa, durante l'Avvento, aspetta con lacrime ed impazienza la visita di Cristo Redentore nella sua prima Venuta. Essa prende per questo le ardenti espressioni dei Profeti, alle quali aggiunge le proprie suppliche. Sulla bocca della Chiesa, i sospiri rivolti al Messia non sono una semplice commemorazione dei desideri dell'antico popolo: hanno un valore reale, un influsso efficace sul grande atto della munificenza del Padre celeste che ci ha dato il suo Figlio. Fin dall'eternità, le preghiere dell'antico popolo e quelle della Chiesa cristiana unite insieme sono state presenti all'orecchio di Dio; e appunto dopo averle tutte ascoltate ed esaudite, egli ha mandato a suo tempo sulla terra quella rugiada benedetta che ha fatto germogliare il Salvatore.

    La seconda Venuta.

    La Chiesa aspira anche verso la seconda Venuta, sèguito della prima, e che consiste, come abbiamo visto, nella visita che lo Sposo fa alla Sposa. Ogni anno questa Venuta ha luogo nella festa di Natale e una nuova nascita del Figlio di Dio libera la società dei Fedeli da quel giogo di servitù che il nemico vorrebbe far pesare su di essa (Colletta del giorno di Natale). La Chiesa, durante l'Avvento, chiede di essere visitata da colui che è il suo Capo e il suo Sposo, visitata nella sua gerarchia, nelle sue membra, di cui le une sono vive e le altre morte, ma possono rivivere; infine in quelli che non fanno parte della sua comunione, e negli infedeli stessi, affinché si convertano alla vera luce che splende anche per loro. Le espressioni della Liturgia che la Chiesa usa per sollecitare questa amorosa e invisibile Venuta, sono le stesse con le quali sollecita la venuta del Redentore nella carne; poiché, fatte le debite proporzioni, la situazione è la medesima. Invano il Figlio di Dio sarebbe venuto venti secoli or sono, a visitare e a salvare il genere umano, se non ritornasse, per ciascuno di noi e in ogni momento della nostra esistenza, ad apportare e fomentare quella vita soprannaturale il cui principio viene solo da lui e dal suo divino Spirito.

    La terza Venuta.

    Ma questa visita annuale dello Sposo non soddisfa la Chiesa; essa aspira alla terza Venuta che consumerà ogni cosa, aprendo le porte dell'eternità. Ha raccolto queste ultime parole dello Sposo: Ecco che io vengo presto (Ap 22,20) e dice con ardore: Vieni, Signore Gesù! (ibid.). Ha fretta di essere liberata dalle condizioni del tempo; sospira il compimento del numero degli eletti, per veder apparire sulle nubi del cielo il segno del suo liberatore e del suo Sposo. Fino a questo punto, dunque, si estende il significato dei voti che essa ha deposti nella Liturgia dell'Avvento; questa è la spiegazione delle parole del discepolo prediletto nella sua profezia: Ecco le nozze dell'Agnello, e la Sposa si è preparata (Ap 19,7).

    Ma il giorno dell'arrivo dello Sposo sarà nello stesso tempo un giorno terribile. La santa Chiesa spesso freme al solo pensiero delle formidabili assise dinanzi alle quali compariranno tutti gli uomini. Chiama quel giorno "un giorno d'ira, del quale Davide e la Sibilla hanno detto che deve ridurre il mondo in cenere; un giorno di lacrime e di spavento". Non già che essa tema per se stessa, poiché quel giorno fisserà per sempre sul suo capo la corona della Sposa; ma il suo cuore di Madre soffre pensando che allora parecchi dei suoi figli saranno alla sinistra del Giudice, e che, privati di ogni contatto con gli eletti, saranno gettati con le mani e i piedi legati in quelle tenebre in cui non vi sarà che pianto e stridor di denti. Ecco perché nella Liturgia dell'Avvento, la Chiesa si ferma cosi spesso a mostrare la Venuta di Cristo come una Venuta terribile, e sceglie nelle Scritture i passi più adatti a ridestare un salutare spavento nella anima di quelli tra i suoi figli che dormirebbero il sonno di peccato.

    Le forme liturgiche.

    Questo è dunque il triplice mistero dell'Avvento. Ora, le forme liturgiche di cui è rivestito, sono di due specie: le une consistono nelle preghiere, letture, e altre formule, dove le parole stesse sono usate per rendere i sentimenti che abbiamo esposti; le altre sono riti esteriori adatti a questo tempo sacro e destinati a completare ciò che esprimono i canti e le parole.

    Gli occhi del popolo si accorgono della tristezza che preoccupa il cuore della santa Chiesa dal colore di penitenza di cui si copre. Fuorché nelle feste dei Santi, non veste più che di viola; il Diacono depone la Dalmatica, e il Suddiacono la Tunicella. Un tempo anzi, si usava in parecchi luoghi il colore nero, come ad esempio a Tours, a Le Mans, ecc. Questo lutto della Chiesa mette in rilievo con quanta verità essa si unisca ai veri Israeliti che aspettavano il Messia sotto la cenere e il cilicio, e piangevano la gloria di Sion scomparsa, e "lo scettro tolto a Giuda, fino a quando non venga colui che deve essere mandato, e che forma l'attesa delle genti" (Gen 49,10). Esso significa ancora le opere di penitenza con le quali si prepara alla seconda Venuta piena di dolcezza e di mistero che ha luogo nei cuori nella misura in cui si mostrano sensibili alla tenerezza che testimonia loro quell'Ospite divino che ha detto: Io trovo la mia delizia nello stare con i figli degli uomini (Prov 8,31). Essa geme sulla montagna, come la tortora, fino a quando non si faccia sentire la voce che dirà: "Vieni dal Libano, o mia Sposa, vieni: sarai incoronata perché tu hai ferito il mio cuore" (Ct 5,8).

    Durante l'Avvento, la Chiesa sospende anche, salvo nelle Feste dei Santi, l'uso dell'Inno Angelico: Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonœ voluntatis. Questo canto meraviglioso si fece sentire solo a Betlemme sulla mangiatoia del celeste Bambino; la lingua degli Angeli non è dunque ancora sciolta; la Vergine non ha deposto il suo divino fardello; non è tempo di cantare, non è ancora esatto dire: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà!
    Cosi pure, al termine del Sacrificio, la voce del Diacono non fa più sentire le parole solenni che congedano l'assemblea dei fedeli: Ite, Missa est. Le sostituisce con la semplice esclamazione: Benedicamus Domino! quasi che la Chiesa temesse di interrompere le preghiere del popolo, che non sono mai troppo prolungate in questi giorni d'attesa.

    Nell'Ufficio della Notte, la santa Chiesa toglie anche in questi giorni l'inno di giubilo Te Deum laudamus. Essa aspetta nell'umiltà il supremo beneficio, e nell'attesa non può far altro che chiedere, supplicare, sperare. Ma nell'ora solenne, quando in mezzo alle ombre più dense, il Sole di giustizia si leverà d'improvviso, essa ritroverà la voce del ringraziamento; e il silenzio della notte lascerà il posto, su tutta la terra, al grido d'entusiasmo: "Noi ti lodiamo, o Dio! Signore, noi ti celebriamo! O Cristo! Re di gloria, Figlio eterno del Padre! per la liberazione dell'uomo non hai avuto orrore del seno d'una umile Vergine".

    Nei giorni di Feria, prima di concludere ciascun'ora dell'Ufficio, le Rubriche dell'Avvento prescrivono particolari preghiere che si devono fare in ginocchio; anche il Coro deve stare in quella posizione in tali giorni, per una parte considerevole della Messa. Sotto questo aspetto, le usanze dell'Avvento sono del tutto identiche a quelle della Quaresima.

    Tuttavia, vi è una caratteristica speciale, che distingue questi due tempi: il canto dell'allegrezza, il gioioso Alleluia, non è sospeso durante l'Avvento, tranne nei giorni di Feria. Nella Messa delle quattro domeniche, si continua a cantarlo; e forma un certo contrasto con il colore austero degli ornamenti. C'è anche una domenica, la terza, in cui persino l'organo ritrova la sua grande e melodiosa voce, e il triste apparato viola può per un poco lasciare il posto al rosa. Questo ricordo delle gioie passate, che si trova così in fondo alle sante tristezze della Chiesa, esprime abbastanza chiaramente che, pur unendosi all'antico popolo per implorare la venuta del Messia e pagare così il grande debito dell'umanità verso la giustizia e la clemenza di Dio, essa non dimentica tuttavia che l'Emmanuele è già venuto per lei, che è in lei, e che prima che apra la bocca per implorare la salvezza, già è riscattata e segnata per l'unione eterna. Ecco perché ai suoi sospiri unisce l'Alleluia, perché sono impresse in lei tutte le gioie e tutte le tristezze, nell'attesa che la gioia sovrabbondi sul dolore, nella notte santa che sarà più radiosa del giorno più fulgido.

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    Capitolo Terzo

    PRATICA DELL'AVVENTO

    Vigilanza.


    Se la santa Chiesa, madre nostra, passa il tempo dell'Avvento in questa solenne preparazione alla triplice Venuta di Gesù Cristo; se, sull'esempio delle vergini savie, tiene la lampada accesa per l'arrivo dello Sposo, noi che siamo le sue membra e i suoi figli, dobbiamo partecipare ai sentimenti che la animano, e prendere per noi quell'avvertimento del Salvatore: "Siano i vostri lombi precinti come quelli dei viandanti; nelle vostre mani brillino fiaccole accese; e siate simili a servi che aspettano il loro padrone" (Lc 12,35). Infatti, i destini della Chiesa sono anche i nostri; ciascuna delle anime è, da parte di Dio, l'oggetto d'una misericordia e d'un'attenzione simili a quelle che egli usa nei riguardi della Chiesa stessa. Essa è il tempio di Dio perché composta di pietre vive; è la Sposa perché è formata da tutte le anime che sono chiamate all'eterna unione. Se è scritto che il Salvatore ha acquistato la Chiesa con il suo sangue (At 20,28), ognuno di noi può dire parlando di se stesso, come san Paolo: Cristo mi ha amato e si è sacrificato per me (Gal 2,20). Essendo dunque uguali i destini, dobbiamo sforzarci, durante l'Avvento, di entrare nei sentimenti di preparazione di cui abbiamo visto ripiena la Chiesa.

    Preghiera.

    E innanzitutto, è per noi un dovere di unirci ai Santi dell'Antica Legge per implorare il Messia, e soddisfare così quel debito di tutto il genere umano verso la divina misericordia. Onde animarci a compiere questo dovere, trasportiamoci con il pensiero nel corso di quelle migliaia di anni rappresentate dalle quattro settimane dell'Avvento, e pensiamo a quelle tenebre, a quei delitti di ogni genere in mezzo ai quali si agitava il vecchio mondo. Che il nostro cuore senta viva la riconoscenza che deve a Colui che ha salvato la sua creatura dalla morte, e che è disceso per vedere più da vicino e condividere tutte le nostre miserie, fuorché il peccato! Che esso gridi, con l'accento dell'angoscia e della fiducia, verso Colui che volle salvare l'opera delle sue mani, ma che vuole pure che l'uomo chieda ed implori la propria salvezza! Che i nostri desideri e la nostra speranza si effondano dunque in quelle ardenti suppliche degli antichi Profeti che la Chiesa ci mette sulle labbra in questi giorni di attesa. Disponiamo i nostri cuori, nella più larga misura possibile, ai sentimenti che essi esprimono.

    Conversione.

    Compiuto questo primo dovere, penseremo alla Venuta che il Salvatore vuol fare nel nostro cuore: Venuta, come abbiamo visto piena di dolcezza e di mistero, e che è la conseguenza della prima, poiché il buon Pastore non viene soltanto a visitare il suo gregge in generale, ma estende la sua sollecitudine a ciascuna delle pecore anche alla centesima che si era smarrita. Ora, per ben comprendere tutto questo ineffabile mistero, bisogna ricordare che, siccome non possiamo essere accetti al nostro Padre celeste se non in quanto egli vede in noi Gesù Cristo, suo Figlio, questo Salvatore pieno di bontà si degna di venire in ciascuno di noi, e, se noi lo vogliamo, di trasformarci in lui, di modo che non viviamo più della vita nostra ma della sua. Il fine di tutto il Cristianesimo è appunto di divinizzare l'uomo attraverso Gesù Cristo: questo è il compito sublime imposto alla Chiesa. Essa dice ai Fedeli con san Paolo: "Voi siete i miei figlioletti; poiché io vi do una seconda nascita, affinché si formi in voi Gesù Cristo" (Gal 4,19).

    Ma, come nella sua apparizione in questo mondo il divino Salvatore si è dapprincipio mostrato sotto le sembianze d'un bambino prima di giungere alla pienezza dell'età perfetta che era necessaria porche nulla mancasse al suo sacrificio, egli intende prendere in noi gli stessi sviluppi. Ora è nella festa di Natale che si compiace di nascere nelle anime, e diffonde per tutta la sua Chiesa una grazia di Nascita alla quale, purtroppo, non tutti sono fedeli.

    Ecco infatti la situazione delle anime all'avvicinarsi di quella ineffabile solennità. Alcune, ed è il numero minore, vivono pienamente della vita del Signore Gesù che è in esse, ed aspirano in ogni istante all'aumento di tale vita. Altre, in numero maggiore, sono vive, sì, per la presenza del Cristo, ma sono malate e languenti, non desiderando il progresso della vita divina, perché la loro carità si è raffreddata (Ap 2, 4). Il resto degli uomini non gode di questa vita, e si trova nella morte; poiché Cristo ha detto: Io sono la Vita (Gv 14,6).

    Nei giorni dell'Avvento, il Salvatore va a bussare alla porta di tutte le anime, in una maniera ora sensibile, ora nascosta. Viene a chiedere se hanno posto per lui, affinché possa nascere in loro. Ma, benhé la casa che egli chiede sia sua, poiché lui l'ha costruita e la conserva, si è lamentato che i suoi non l'hanno voluto ricevere (Gv 1,11), almeno il numero maggiore tra essi. "Quanto a quelli che l'hanno ricevuto, ha concesso loro di diventare figli di Dio, e non più figli della carne e del sangue " (Gv 1, 12-13).

    Preparatevi dunque a vederlo nascere in voi più bello, più radioso, più forte di come l'avete conosciuto, o anime fedeli che lo custodite in voi stesse come un prezioso deposito, e che da lungo tempo, non avete altra vita che la sua, altro cuore che il suo, altre opere che le sue. Sappiate cogliere, nelle parole della sacra Liturgia, quelle che fanno per il vostro amore, e che commuoveranno il cuore dello Sposo.

    Aprite le porte per riceverlo nella sua nuova venuta, voi che già l'avevate in voi, ma senza conoscerlo; che lo possedevate, ma senza gustarlo. Egli torna con una nuova tenerezza; ha dimenticato il vostro rifiuto; vuole rinnovare tutte le cose (Ap 21,5). Fate posto al celeste Bambino, che vuol crescere in voi. Il momento è vicino: che il vostro cuore dunque si desti; perché non vi abbia sorpreso il sonno quando egli passerà, vegliate e pregate. Le parole della Liturgia sono anche per voi, perché esse parlano di tenebre che Dio solo può dissipare, di piaghe che solo la sua bontà può risanare, di languori che cesseranno solo per sua virtù.

    E voi, cristiani, per cui la buona novella è come se non ci fosse perché i vostri cuori sono morti per il peccato, sia che questa morte vi tenga stretti nei suoi lacci da lunghi anni, sia che la ferita che l'ha causata sia stata inferta più di recente alla vostra anima, ecco venire colui che è la vita. "Perché dunque vorreste morire? Egli non vuole la morte del peccatore, ma vuole che si converta e viva" (Ez 18,31). La grande Festa della sua Nascita sarà un giorno di misericordia universale per tutti quelli che vorranno lasciarlo entrare. Questi ricominceranno a vivere con lui; ogni altra vita precedente sarà abolita, e sovrabbonderà la grazia là dove prima aveva abbondato l'iniquità (Rm 5,29).

    E se la tenerezza e la dolcezza di questa misteriosa Venuta non vi attraggono, perché il vostro cuore non potrebbe ancora comprendere la fiducia o perché avendo per lungo tempo ingoiato l'iniquità come l'acqua, non sapete che cosa significhi aspirare mediante l'amore alle carezze d'un padre di cui avevate disprezzato gli inviti, pensate alla Venuta piena di terrore che seguirà quella che si compie silenziosamente nelle anime. Sentite lo scricchiolio dell'universo all'avvicinarsi del terribile Giudice; osservate i cieli che fuggono davanti a lui, e si aprono come un libro alla sua vista (Ap 6,41); sostenete, se ne siete capaci, il suo aspetto, i suoi sguardi fiammeggianti; guardate senza fremere la spada a doppio taglio che esce dalla sua bocca (Ap 1,16); ascoltate infine quelle grida di lamento: o monti cadete su di noi; rocce, copriteci, toglieteci alla sua vista terrificante (Lc 23,30)! Sono le grida che faranno risuonare invano le anime sventurate che non hanno saputo conoscere il tempo della visita (Lc 19,44). Per aver chiuso il loro cuore a quell'Uomo-Dio che pianse su di esse – tanto le amava! – scenderanno vive nel fuoco eterno la cui fiamma è cosi bruciante che divora il germe della terra e le fondamenta più nascoste dei monti (Dt 32,22). Ivi si sente il verme eterno d'un rimorso che non muore mai (Mc 9,43).

    Coloro dunque, i quali non si sentono commossi dalla dolce notizia dell'avvicinarsi del celeste Medico, del generoso Pastore che dà la vita per le sue pecorelle, meditino durante l'Avvento sul terribile eppure incontestabile mistero della Redenzione, resa inutile dal rifiuto che l'uomo oppone troppo spesso di associarsi alla propria salvezza. Misurino le loro forze, e se disprezzano il bambino che sta per nascere (Is 9,6), pensino se saranno in grado di lottare con il Dio forte, il giorno in cui verrà non più a salvare, ma a giudicare. Per conoscerlo più da vicino, questo Giudice davanti al quale tutto deve tremare, interroghino la sacra Liturgia: qui impareranno a temerlo.

    Del resto, questo timore non è soltanto proprio dei peccatori; è un sentimento che ogni cristiano deve provare. Il timore, se è da solo, rende schiavi; se compensa l'amore, conviene al figlio colpevole, che cerca il perdono del padre adirato; anche quando l'amore lo spinge fuori (1Gv 4,18), esso ritorna talora come un subitaneo lampo, e il cuore fedele ne è felicemente scosso fin nelle fondamenta. Sente allora ridestarsi il ricordo della sua miseria e della misericordia gratuita dello Sposo. Nessuno deve dunque disperarsi, in questo sacro tempo dell'Avvento, dall'associarsi ai pii timori della Chiesa che, per quanto amata, dice spesso nei suoi Uffici: Trafiggi la mia carne, o Signore, con il pungolo del tuo timore! Ma questa parte della Liturgia sarà utile soprattutto a coloro che cominciano a consacrarsi al servizio di Dio.

    Da tutto ciò, si deve concludere che l'Avvento è un tempo consacrato soprattutto agli esercizi della Vita Purgativa; come indicano quelle parole di san Giovanni Battista, che la Chiesa ci ripete così spesso in questo sacro periodo: Preparate le vie del Signore! Ciascuno dunque operi seriamente a spianare il sentiero attraverso il quale Gesù entrerà nella sua anima. I giusti, secondo la dottrina dell'apostolo dimentichino ciò che hanno fatto nel passato (Fil 3,13), e attendano a nuovi impegni. I peccatori cerchino di rompere subito i legami che li tengono stretti, di lasciare le abitudini che li fanno prigionieri castighino la carne, e diano inizio al duro lavoro di sottometterla allo spirito; preghino soprattutto con la Chiesa; e quando il Signore verrà, potranno sperare che non rimarrà sulla soglia della porta, ma entrerà, perché egli ha detto: "Ecco che io sono alla porta e busso; se qualcuno sente la mia voce e mi apre, entrerò da lui" (Ap 3,20).

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    BENEDETTO XVI

    DISCORSO ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE
    DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI


    Giovedì, 22 dicembre 2005

    Signori Cardinali,
    venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
    cari fratelli e sorelle!

    “Expergiscere, homo: quia pro te Deus factus est homo -Svegliati, uomo, poiché per te Dio si è fatto uomo” (S. Agostino, Discorsi, 185). Con quest’invito di Sant’Agostino a cogliere il senso autentico del Natale di Cristo, apro il mio incontro con voi, cari collaboratori della Curia Romana, in prossimità ormai delle festività natalizie. A ciascuno rivolgo il mio saluto più cordiale, ringraziandovi per i sentimenti di devozione e di affetto, di cui si è fatto efficace interprete il Cardinale Decano, al quale va il mio pensiero riconoscente. Iddio si è fatto uomo per noi: è questo il messaggio che ogni anno dalla silenziosa grotta di Betlemme si diffonde sin nei più sperduti angoli della terra. Il Natale è festa di luce e di pace, è giorno di interiore stupore e di gioia che si espande nell’universo, perché “Dio si è fatto uomo”. Dall’umile grotta di Betlemme l’eterno Figlio di Dio, divenuto piccolo Bambino, si rivolge a ciascuno di noi: ci interpella, ci invita a rinascere in lui perché, insieme a lui, possiamo vivere eternamente nella comunione della Santissima Trinità.

    Con il cuore colmo della gioia che deriva da questa consapevolezza, riandiamo col pensiero alle vicende dell’anno che volge al suo tramonto. Stanno alle nostre spalle grandi avvenimenti, che hanno segnato profondamente la vita della Chiesa. Penso innanzitutto alla dipartita del nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II, preceduta da un lungo cammino di sofferenza e di graduale perdita della parola. Nessun Papa ci ha lasciato una quantità di testi pari a quella che ci ha lasciato lui; nessun Papa in precedenza ha potuto visitare, come lui, tutto il mondo e parlare in modo diretto agli uomini di tutti i continenti. Ma, alla fine, gli è toccato un cammino di sofferenza e di silenzio. Restano indimenticabili per noi le immagini della Domenica delle Palme quando, col ramo di olivo nella mano e segnato dal dolore, egli stava alla finestra e ci dava la benedizione del Signore in procinto di incamminarsi verso la Croce. Poi l'immagine di quando nella sua cappella privata, tenendo in mano il Crocifisso, partecipava alla Via Crucis nel Colosseo, dove tante volte aveva guidato la processione portando egli stesso la Croce. Infine la muta benedizione della Domenica di Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere la promessa della risurrezione, della vita eterna. Il Santo Padre, con le sue parole e le sue opere, ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio. Nel suo ultimo libro “Memoria e Identità” (Rizzoli 2005) ci ha lasciato un’interpretazione della sofferenza che non è una teoria teologica o filosofica, ma un frutto maturato lungo il suo personale cammino di sofferenza, da lui percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso. Questa interpretazione, che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso alla sua sofferenza vissuta in comunione con quella del Signore, parlava attraverso il suo muto dolore trasformandolo in un grande messaggio. Sia all'inizio come ancora una volta alla fine del menzionato libro, il Papa si mostra profondamente toccato dallo spettacolo del potere del male che, nel secolo appena terminato, ci è stato dato di sperimentare in modo drammatico. Dice testualmente: “Non è stato un male in edizione piccola… È stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema" (pag. 198). Il male è forse invincibile? È la vera ultima potenza della storia? A causa dell'esperienza del male, la questione della redenzione, per Papa Woytiła, era diventata l'essenziale e centrale domanda della sua vita e del suo pensare come cristiano. Esiste un limite contro il quale la potenza del male s'infrange? Sì, esso esiste, risponde il Papa in questo suo libro, come anche nella sua Enciclica sulla redenzione. Il potere che al male mette un limite è la misericordia divina. Alla violenza, all'ostentazione del male si oppone nella storia – come “il totalmente altro” di Dio, come la potenza propria di Dio – la divina misericordia. L'agnello è più forte del drago, potremmo dire con l'Apocalisse.

    Alla fine del libro, nello sguardo retrospettivo sull'attentato del 13 maggio 1981 ed anche sulla base dell'esperienza del suo cammino con Dio e con il mondo, Giovanni Paolo II ha approfondito ulteriormente questa risposta. Il limite del potere del male, la potenza che, in definitiva, lo vince è – così egli ci dice – la sofferenza di Dio, la sofferenza del Figlio di Dio sulla Croce: “La sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle altre… Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza, l'ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell'amore… La passione di Cristo sulla Croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l'ha trasformata dal di dentro… È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore… Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza… Il male… esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l'amore, che è dono di sé… a chi è visitato dalla sofferenza… Cristo è il Redentore del mondo: ‘Per le sue piaghe noi siamo stati guariti’ (Is 53, 5)” (pag. 198 ss.). Tutto questo non è semplicemente teologia dotta, ma espressione di una fede vissuta e maturata nella sofferenza. Certo, noi dobbiamo fare del tutto per attenuare la sofferenza ed impedire l'ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti. Tuttavia dobbiamo anche fare del tutto perché gli uomini possano scoprire il senso della sofferenza, per essere così in grado di accettare la propria sofferenza e unirla alla sofferenza di Cristo. In questo modo essa si fonde insieme con l'amore redentore e diventa, di conseguenza, una forza contro il male nel mondo. La risposta che si è avuta in tutto il mondo alla morte del Papa è stata una manifestazione sconvolgente di riconoscenza per il fatto che egli, nel suo ministero, si è offerto totalmente a Dio per il mondo; un ringraziamento per il fatto che egli, in un mondo pieno di odio e di violenza, ci ha insegnato nuovamente l'amare e il soffrire a servizio degli altri; ci ha mostrato, per così dire, dal vivo il Redentore, la redenzione, e ci ha dato la certezza che, di fatto, il male non ha l'ultima parola nel mondo.

    Due altri avvenimenti, avviati ancora da Papa Giovanni Paolo II, vorrei ora menzionare, se pur brevemente: si tratta della Giornata Mondiale della Gioventù celebrata a Colonia e del Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia che ha concluso anche l'Anno dell’Eucaristia, inaugurato da Papa Giovanni Paolo II.

    La Giornata Mondiale della Gioventù è rimasta nella memoria di tutti coloro che erano presenti come un grande dono. Oltre un milione di giovani si radunarono nella Città di Colonia, situata sul fiume Reno, e nelle città vicine per ascoltare insieme la Parola di Dio, per pregare insieme, per ricevere i sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia, per cantare e festeggiare insieme, per gioire dell’esistenza e per adorare e ricevere il Signore eucaristico durante i grandi incontri del sabato sera e della domenica. Durante tutti quei giorni regnava semplicemente la gioia. A prescindere dai servizi d'ordine, la polizia non ebbe niente da fare – il Signore aveva radunato la sua famiglia, superando sensibilmente ogni frontiera e barriera e, nella grande comunione tra di noi, ci aveva fatto sperimentare la sua presenza. Il motto scelto per quelle giornate – “Andiamo ad adorarlo” – conteneva due grandi immagini che, fin dall'inizio, favorirono l'approccio giusto. Vi era innanzitutto l'immagine del pellegrinaggio, l'immagine dell'uomo che, guardando al di là dei suoi affari e del suo quotidiano, si mette alla ricerca della sua destinazione essenziale, della verità, della vita giusta, di Dio. Questa immagine dell'uomo in cammino verso la meta della vita racchiudeva in se ancora due indicazioni chiare. C'era innanzitutto l’invito a non vedere il mondo che ci circonda soltanto come la materia grezza con cui noi possiamo fare qualcosa, ma a cercare di scoprire in esso la “calligrafia del Creatore”, la ragione creatrice e l'amore da cui è nato il mondo e di cui ci parla l'universo, se noi ci rendiamo attenti, se i nostri sensi interiori si svegliano e acquistano percettività per le dimensioni più profonde della realtà. Come secondo elemento si aggiungeva poi l'invito a mettersi in ascolto della rivelazione storica che, sola, può offrirci la chiave di lettura per il silenzioso mistero della creazione, indicandoci concretamente la via verso il vero Padrone del mondo e della storia che si nasconde nella povertà della stalla di Betlemme. L'altra immagine contenuta nel motto della Giornata Mondiale della Gioventù era l'uomo in adorazione: “Siamo venuti per adorarlo”. Prima di ogni attività e di ogni mutamento del mondo deve esserci l'adorazione. Solo essa ci rende veramente liberi; essa soltanto ci dà i criteri per il nostro agire. Proprio in un mondo in cui progressivamente vengono meno i criteri di orientamento ed esiste la minaccia che ognuno faccia di se stesso il proprio criterio, è fondamentale sottolineare l'adorazione. Per tutti coloro che erano presenti rimane indimenticabile l’intenso silenzio di quel milione di giovani, un silenzio che ci univa e sollevava tutti quando il Signore nel Sacramento era posto sull'altare. Serbiamo nel cuore le immagini di Colonia: sono una indicazione che continua ad operare. Senza menzionare singoli nomi, vorrei in questa occasione ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la Giornata Mondiale della Gioventù; soprattutto, però, ringraziamo insieme il Signore, perché in definitiva solo Lui poteva donarci quelle giornate nel modo in cui le abbiamo vissute.

    La parola "adorazione" ci porta al secondo grande avvenimento di cui vorrei parlare: il Sinodo dei Vescovi e l'Anno dell’Eucaristia. Papa Giovanni Paolo II, con l'Enciclica Ecclesia de Eucharistia e con la Lettera apostolica Mane nobiscum Domine ci aveva già donato le indicazioni essenziali e al contempo, con la sua esperienza personale della fede eucaristica, aveva concretizzato l'insegnamento della Chiesa. Inoltre, la Congregazione per il Culto Divino, in stretto collegamento con l'Enciclica, aveva pubblicato l'istruzione Redemptionis Sacramentum come aiuto pratico per la giusta realizzazione della Costituzione conciliare sulla liturgia e della riforma liturgica. Oltre tutto ciò, era veramente possibile dire ancora qualcosa di nuovo, sviluppare ulteriormente l’insieme della dottrina? Proprio questa fu la grande esperienza del Sinodo quando, nei contributi dei Padri, si è vista rispecchiarsi la ricchezza della vita eucaristica della Chiesa di oggi e si è manifestata l'inesauribilità della sua fede eucaristica. Quello che i Padri hanno pensato ed espresso dovrà essere presentato, in stretto collegamento con le Propositiones del Sinodo, in un documento post-sinodale. Vorrei qui solo sottolineare ancora una volta quel punto che, poco fa, abbiamo già registrato nel contesto della Giornata Mondiale della Gioventù: l'adorazione del Signore risorto, presente nell'Eucaristia con carne e sangue, con corpo e anima, con divinità e umanità. È commovente per me vedere come dappertutto nella Chiesa si stia risvegliando la gioia dell'adorazione eucaristica e si manifestino i suoi frutti. Nel periodo della riforma liturgica spesso la Messa e l'adorazione fuori di essa erano viste come in contrasto tra loro: il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa. Nell'esperienza di preghiera della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di una tale contrapposizione. Già Agostino aveva detto: “… nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit;… peccemus non adorando - Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; … peccheremmo se non la adorassimo” (cfr Enarr. in Ps 98,9 CCL XXXIX 1385). Di fatto, non è che nell'Eucaristia riceviamo semplicemente una qualche cosa. Essa è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione. Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui. Perciò, lo sviluppo dell'adorazione eucaristica, come ha preso forma nel corso del Medioevo, era la più coerente conseguenza dello stesso mistero eucaristico: soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri.

    L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524). Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.

    All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.

    Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la pura ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che senza riserva facevano professione di un proprio metodo in cui Dio non aveva accesso, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande, che ora attendevano una risposta. Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato. In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

    Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento. Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

    Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8). Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo. La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.

    Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno, in cui il Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha eletto a successore di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san Pietro sulla cattedra del Vescovo di Roma? Un tale compito stava del tutto fuori di ciò che avrei mai potuto immaginare come mia vocazione. Così, fu soltanto con un grande atto di fiducia in Dio che potei dire nell'obbedienza il mio “sì” a questa scelta. Come allora, così chiedo anche oggi a tutti Voi la preghiera, sulla cui forza e sostegno io conto. Al contempo desidero ringraziare di cuore in quest'ora tutti coloro che mi hanno accolto e mi accolgono tuttora con tanta fiducia, bontà e comprensione, accompagnandomi giorno per giorno con la loro preghiera.

    Il Natale è ormai vicino. Il Signore Dio alle minacce della storia non si è opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo, in questi giorni natalizi, andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti dell'Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di vincere Egli stesso la violenza nel mondo e di farci sperimentare il potere della sua bontà. Con questi sentimenti imparto di cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.


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    DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
    ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE
    DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI


    Venerdì, 22 dicembre 2005

    Signori Cardinali,
    venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
    cari fratelli!

    Con grande gioia vi incontro oggi e rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Vi ringrazio per la vostra presenza a questo tradizionale appuntamento, che si tiene nell’imminenza del Santo Natale. Ringrazio in particolare il Cardinale Angelo Sodano per le parole con cui si è fatto interprete dei sentimenti di tutti i presenti, prendendo spunto dal tema centrale dell’Enciclica Deus caritas est. In questa significativa circostanza desidero rinnovargli l’espressione della mia gratitudine per il servizio che in tanti anni ha reso al Papa e alla Santa Sede, segnatamente in qualità di Segretario di Stato, e chiedo al Signore di ricompensarlo per il bene che ha compiuto con la sua saggezza e il suo zelo per la missione della Chiesa. Al tempo stesso, mi piace rinnovare uno speciale augurio al Cardinale Tarcisio Bertone per il nuovo compito che gli ho affidato. Estendo volentieri questi miei sentimenti a quanti, nel corso di quest’anno, sono entrati al servizio della Curia Romana o del Governatorato, mentre con affetto e gratitudine ricordiamo coloro che il Signore ha chiamato a sé da questa vita.

    L'anno che volge al termine - lo ha detto Lei, Eminenza - rimane nella nostra memoria con la profonda impronta degli orrori della guerra svoltasi nei pressi della Terra Santa come anche in generale del pericolo di uno scontro tra culture e religioni – un pericolo che incombe tuttora minaccioso su questo nostro momento storico. Il problema delle vie verso la pace è così diventato una sfida di primaria importanza per tutti coloro che si preoccupano dell'uomo. Ciò vale in modo particolare per la Chiesa, per la quale la promessa che ne ha accompagnato gli inizi significa insieme una responsabilità e un compito: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra per gli uomini che egli ama" (Lc 2,14).

    Questo saluto dell'angelo ai pastori nella notte della nascita di Gesù a Betlemme rivela una connessione inscindibile tra il rapporto degli uomini con Dio e il loro rapporto vicendevole. La pace sulla terra non può trovarsi senza la riconciliazione con Dio, senza l'armonia tra cielo e terra. Questa correlazione del tema "Dio" col tema "pace" è stato l'aspetto determinante dei quattro Viaggi Apostolici di quest'anno: ad essi vorrei riandare con la memoria in questo momento. C'è stata innanzitutto la Visita Pastorale in Polonia, il Paese natale del nostro amato Papa Giovanni Paolo II. Il viaggio nella sua Patria è stato per me un intimo dovere di gratitudine per tutto ciò che egli, durante il quarto di secolo del suo servizio, ha donato a me personalmente e soprattutto alla Chiesa e al mondo. Il suo dono più grande per tutti noi è stata la sua fede incrollabile e il radicalismo della sua dedizione. "Totus tuus" era il suo motto: in esso si rispecchiava tutto il suo essere. Sì, egli si è donato senza riserve a Dio, a Cristo, alla Madre di Cristo, alla Chiesa: al servizio del Redentore ed alla redenzione dell’uomo. Non ha serbato nulla, si è lasciato consumare fino in fondo dalla fiamma della fede. Ci ha mostrato così come, da uomini di questo nostro oggi, si possa credere in Dio, nel Dio vivente resosi vicino a noi in Cristo. Ci ha mostrato che è possibile una dedizione definitiva e radicale dell’intera vita e che, proprio nel donarsi, la vita diventa grande e vasta e feconda. In Polonia, ovunque sono andato, ho trovato la gioia della fede. "La gioia del Signore è la vostra forza" – questa parola che, in mezzo alla miseria del nuovo inizio, lo scriba Esdra gridò al popolo di Israele appena tornato dall'esilio (Ne 8,10), qui si poteva sperimentarla come realtà. Sono rimasto profondamente colpito dalla grande cordialità con cui sono stato accolto dappertutto. La gente ha visto in me il successore di Pietro a cui è affidato il ministero pastorale per tutta la Chiesa. Vedevano colui al quale, nonostante tutta la debolezza umana, allora come oggi è rivolta la parola del Signore risorto: "Pasci le mie pecorelle" (cfr Gv 21,15-19); vedevano il successore di colui al quale Gesù presso Cesarèa di Filippo disse: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa" (Mt 16,18). Pietro, da sé, non era una roccia, ma un uomo debole ed incostante. Il Signore, però, volle fare proprio di lui la pietra e dimostrare che, attraverso un uomo debole, Egli stesso sostiene saldamente la sua Chiesa e la mantiene nell’unità. Così la visita in Polonia è stata per me, nel senso più profondo, una festa della cattolicità. Cristo è la nostra pace che riunisce i separati: Egli, al di là di tutte le diversità delle epoche storiche e delle culture, è la riconciliazione. Mediante il ministero petrino sperimentiamo questa forza unificatrice della fede che, sempre di nuovo, partendo dai molti popoli edifica l’unico popolo di Dio. Con gioia abbiamo fatto realmente questa esperienza che, provenendo da molti popoli, noi formiamo l’unico popolo di Dio, la sua santa Chiesa. Per questo il ministero petrino può essere il segno visibile che garantisce questa unità e forma un’unità concreta. Per questa toccante esperienza di cattolicità vorrei ringraziare la Chiesa in Polonia ancora una volta in modo esplicito e di tutto cuore.

    Nei miei spostamenti in Polonia non poteva mancare la visita ad Auschwitz-Birkenau nel luogo della barbarie più crudele – del tentativo di cancellare il popolo di Israele, di vanificare così anche l’elezione da parte di Dio, di bandire Dio stesso dalla storia. Fu per me motivo di grande conforto veder comparire nel cielo in quel momento l’arcobaleno, mentre io, davanti all’orrore di quel luogo, nell'atteggiamento di Giobbe gridavo verso Dio, scosso dallo spavento della sua apparente assenza e, al contempo, sorretto dalla certezza che Egli anche nel suo silenzio non cessa di essere e di rimanere con noi. L’arcobaleno era come una risposta: Sì, Io ci sono, e le parole della promessa, dell’Alleanza, che ho pronunciato dopo il diluvio, sono valide anche oggi (cfr Gn 9,12-17).

    Il viaggio in Spagna – a Valencia – è stato tutto all'insegna del tema del matrimonio e della famiglia. È stato bello ascoltare, davanti all’assemblea di persone di tutti i continenti, la testimonianza di coniugi che – benedetti da una schiera numerosa di figli – si sono presentati davanti a noi e hanno parlato dei rispettivi cammini nel sacramento del matrimonio e all'interno delle loro famiglie numerose. Non hanno nascosto il fatto di aver avuto anche giorni difficili, di aver dovuto attraversare tempi di crisi. Ma proprio nella fatica del sopportarsi a vicenda giorno per giorno, proprio nell'accettarsi sempre di nuovo nel crogiolo degli affanni quotidiani, vivendo e soffrendo fino in fondo il sì iniziale – proprio in questo cammino del "perdersi" evangelico erano maturati, avevano trovato se stessi ed erano diventati felici. Il sì che si erano dato reciprocamente, nella pazienza del cammino e nella forza del sacramento con cui Cristo li aveva legati insieme, era diventato un grande sì di fronte a se stessi, ai figli, al Dio Creatore e al Redentore Gesù Cristo. Così dalla testimonianza di queste famiglie ci giungeva un’onda di gioia, non di un’allegrezza superficiale e meschina che si dilegua presto, ma di una gioia maturata anche nella sofferenza, di una gioia che va nel profondo e redime veramente l’uomo. Davanti a queste famiglie con i loro figli, davanti a queste famiglie in cui le generazioni si stringono la mano e il futuro è presente, il problema dell’Europa, che apparentemente quasi non vuol più avere figli, mi è penetrato nell’anima. Per l’estraneo, quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia. Perché le cose stanno così? Questa è la grande domanda. Le risposte sono sicuramente molto complesse. Prima di cercare tali risposte è doveroso un ringraziamento ai tanti coniugi che anche oggi, nella nostra Europa, dicono sì al figlio e accettano le fatiche che questo comporta: i problemi sociali e finanziari, come anche le preoccupazioni e fatiche giorno dopo giorno; la dedizione necessaria per aprire ai figli la strada verso il futuro. Accennando a queste difficoltà si rendono forse anche chiare le ragioni perché a tanti il rischio di aver figli appare troppo grande. Il bambino ha bisogno di attenzione amorosa. Ciò significa: dobbiamo dargli qualcosa del nostro tempo, del tempo della nostra vita. Ma proprio questa essenziale "materia prima" della vita – il tempo – sembra scarseggiare sempre di più. Il tempo che abbiamo a disposizione basta appena per la propria vita; come potremmo cederlo, darlo a qualcun altro? Avere tempo e donare tempo – è questo per noi un modo molto concreto per imparare a donare se stessi, a perdersi per trovare se stessi. A questo problema si aggiunge il calcolo difficile: di quali norme siamo debitori al bambino perché segua la via giusta e in che modo dobbiamo, nel fare ciò, rispettare la sua libertà? Il problema è diventato così difficile anche perché non siamo più sicuri delle norme da trasmettere; perché non sappiamo più quale sia l’uso giusto della libertà, quale il modo giusto di vivere, che cosa sia moralmente doveroso e che cosa invece inammissibile. Lo spirito moderno ha perso l’orientamento, e questa mancanza di orientamento ci impedisce di essere per altri indicatori della retta via. Anzi, la problematica va ancora più nel profondo. L’uomo di oggi è insicuro circa il futuro. È ammissibile inviare qualcuno in questo futuro incerto? In definitiva, è una cosa buona essere uomo? Questa profonda insicurezza sull’uomo stesso – accanto alla volontà di avere la vita tutta per se stessi – è forse la ragione più profonda, per cui il rischio di avere figli appare a molti una cosa quasi non più sostenibile. Di fatto, possiamo trasmettere la vita in modo responsabile solo se siamo in grado di trasmettere qualcosa di più della semplice vita biologica e cioè un senso che regga anche nelle crisi della storia ventura e una certezza nella speranza che sia più forte delle nuvole che oscurano il futuro. Se non impariamo nuovamente i fondamenti della vita – se non scopriamo in modo nuovo la certezza della fede – ci sarà anche sempre meno possibile affidare agli altri il dono della vita e il compito di un futuro sconosciuto. Connesso con ciò è, infine, anche il problema delle decisioni definitive: può l’uomo legarsi per sempre? Può dire un sì per tutta la vita? Sì, lo può. Egli è stato creato per questo. Proprio così si realizza la libertà dell’uomo e così si crea anche l’ambito sacro del matrimonio che si allarga diventando famiglia e costruisce futuro.

    A questo punto non posso tacere la mia preoccupazione per le leggi sulle coppie di fatto. Molte di queste coppie hanno scelto questa via, perché – almeno per il momento – non si sentono in grado di accettare la convivenza giuridicamente ordinata e vincolante del matrimonio. Così preferiscono rimanere nel semplice stato di fatto. Quando vengono create nuove forme giuridiche che relativizzano il matrimonio, la rinuncia al legame definitivo ottiene, per così dire, anche un sigillo giuridico. In tal caso il decidersi per chi già fa fatica diventa ancora più difficile. Si aggiunge poi, per l'altra forma di coppie, la relativizzazione della differenza dei sessi. Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso. Con ciò vengono tacitamente confermate quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana, come se si trattasse di un fatto puramente biologico; teorie secondo cui l’uomo – cioè il suo intelletto e la sua volontà – deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia. C'è in questo un deprezzamento della corporeità, da cui consegue che l’uomo, volendo emanciparsi dal suo corpo – dalla "sfera biologica" – finisce per distruggere se stesso. Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo? Non è piuttosto il loro - il nostro - dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima, è immagine di Dio? Il viaggio a Valencia è diventato per me un viaggio alla ricerca di che cosa significhi l’essere uomo.

    Proseguiamo mentalmente verso la Baviera – München, Altötting, Regensburg, Freising. Lì ho potuto vivere giornate indimenticabilmente belle dell’incontro con la fede e con i fedeli della mia patria. Il grande tema del mio viaggio in Germania era Dio. La Chiesa deve parlare di tante cose: di tutte le questioni connesse con l’essere uomo, della propria struttura e del proprio ordinamento e così via. Ma il suo tema vero e – sotto certi aspetti – unico è "Dio". E il grande problema dell’Occidente è la dimenticanza di Dio: è un oblio che si diffonde. In definitiva, tutti i singoli problemi possono essere riportati a questa domanda, ne sono convinto. Perciò, in quel viaggio la mia intenzione principale era di mettere ben in luce il tema "Dio", memore anche del fatto che in alcune parti della Germania vive una maggioranza di non-battezzati, per i quali il cristianesimo e il Dio della fede sembrano cose che appartengono al passato. Parlando di Dio, tocchiamo anche precisamente l'argomento che, nella predicazione terrena di Gesù, costituiva il suo interesse centrale. Il tema fondamentale di tale predicazione è il dominio di Dio, il "Regno di Dio". Con ciò non è espresso qualcosa che verrà una volta o l’altra in un futuro indeterminato. Neppure si intende con ciò quel mondo migliore che cerchiamo di creare passo passo con le nostre forze. Nel termine "Regno di Dio" la parola "Dio" è un genitivo soggettivo. Questo significa: Dio non è un’aggiunta al "Regno" che forse si potrebbe anche lasciar cadere. Dio è il soggetto. Regno di Dio vuol dire in realtà: Dio regna. Egli stesso è presente ed è determinante per gli uomini nel mondo. Egli è il soggetto, e dove manca questo soggetto non resta nulla del messaggio di Gesù. Perciò Gesù ci dice: il Regno di Dio non viene in modo che si possa, per così dire, mettersi sul lato della strada ed osservare il suo arrivo. "È in mezzo a voi!" (cfr Lc 17,20s). Esso si sviluppa dove viene realizzata la volontà di Dio. È presente dove vi sono persone che si aprono al suo arrivo e così lasciano che Dio entri nel mondo. Perciò Gesù è il Regno di Dio in persona: l’uomo nel quale Dio è in mezzo a noi e attraverso il quale noi possiamo toccare Dio, avvicinarci a Dio. Dove questo accade, il mondo si salva.

    Con il tema di Dio erano e sono collegati due temi che hanno dato un’impronta alle giornate della visita in Baviera: il tema del sacerdozio e quello del dialogo. Paolo chiama Timoteo – e in lui il Vescovo e, in genere, il sacerdote – "uomo di Dio" (1 Tim 6,11). È questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio. Ciò è espresso meravigliosamente in un versetto di un Salmo sacerdotale che noi – la vecchia generazione – abbiamo pronunciato durante l’ammissione allo stato chiericale: "Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita" (Sal 16 [15],5). L’orante-sacerdote di questo Salmo interpreta la sua esistenza a partire dalla forma della distribuzione del territorio fissata nel Deuteronomio (cfr 10,9). Dopo la presa di possesso della Terra ogni tribù ottiene per mezzo del sorteggio la sua porzione della Terra santa e con ciò prende parte al dono promesso al capostipite Abramo. Solo la tribù di Levi non riceve alcun terreno: la sua terra è Dio stesso. Questa affermazione aveva certamente un significato del tutto pratico. I sacerdoti non vivevano, come le altre tribù, della coltivazione della terra, ma delle offerte. Tuttavia, l’affermazione va più in profondità. Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. La Chiesa, in questa interpretazione anticotestamentaria dell’esistenza sacerdotale – un’interpretazione che emerge ripetutamente anche nel Salmo 118 [119] – ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli Apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: "Dominus pars hereditatis meae et calicis mei". Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza. Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l'umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la "terra", sulla quale tutto questo può stare e prosperare.

    Il celibato, che vige per i Vescovi in tutta la Chiesa orientale ed occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli Apostoli, per i sacerdoti in genere nella Chiesa latina, può essere compreso e vissuto, in definitiva, solo in base a questa impostazione di fondo. Le ragioni solamente pragmatiche, il riferimento alla maggiore disponibilità, non bastano: una tale maggiore disponibilità di tempo potrebbe facilmente diventare anche una forma di egoismo, che si risparmia i sacrifici e le fatiche richieste dall’accettarsi e dal sopportarsi a vicenda nel matrimonio; potrebbe così portare ad un impoverimento spirituale o ad una durezza di cuore. Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: Dominus pars – Tu sei la mia terra. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi grazie ad un più intimo stare con Lui a servire pure gli uomini. Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini. Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi, ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come terra su cui si fonda la propria esistenza. Per questo il celibato è così importante proprio oggi, nel nostro mondo attuale, anche se il suo adempimento in questa nostra epoca è continuamente minacciato e messo in questione. Occorre una preparazione accurata durante il cammino verso questo obiettivo; un accompagnamento persistente da parte del Vescovo, di amici sacerdoti e di laici, che sostengano insieme questa testimonianza sacerdotale. Occorre la preghiera che invoca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a Lui nelle ore di confusione come nelle ore della gioia. In questo modo, contrariamente al "trend" culturale che cerca di convincerci che non siamo capaci di prendere tali decisioni, questa testimonianza può essere vissuta e così, nel nostro mondo, può rimettere in gioco Dio come realtà.

    L’altro grande tema collegato col tema di Dio è quello del dialogo. Il cerchio interno del complesso dialogo che oggi occorre, l’impegno comune di tutti i cristiani per l’unità, si è reso evidente nei Vespri ecumenici nel duomo di Regensburg, dove oltre ai fratelli e alle sorelle della Chiesa cattolica, ho potuto incontrare molti amici dell’Ortodossia e del Cristianesimo Evangelico. Nella recita dei Salmi e nell’ascolto della Parola di Dio eravamo lì tutti riuniti, e non è una cosa da poco che questa unità ci sia stata donata. L'incontro con l'Università era dedicato – come si addice a quel luogo – al dialogo tra fede e ragione. In occasione del mio incontro col filosofo Jürgen Habermas, qualche anno fa a Monaco, questi aveva detto che ci occorrerebbero pensatori capaci di tradurre le convinzioni cifrate della fede cristiana nel linguaggio del mondo secolarizzato per renderle così efficaci in modo nuovo. Di fatto diventa sempre più evidente, quanto urgentemente il mondo abbia bisogno del dialogo tra fede e ragione. Immanuel Kant, a suo tempo, aveva visto espressa l'essenza dell'illuminismo nel detto "sapere aude": nel coraggio del pensiero che non si lascia mettere in imbarazzo da alcun pregiudizio. Ebbene, la capacità cognitiva dell'uomo, il suo dominio sulla materia mediante la forza del pensiero, ha fatto nel frattempo progressi allora inimmaginabili. Ma il potere dell'uomo, che gli è cresciuto nelle mani grazie alla scienza, diventa sempre più un pericolo che minaccia l'uomo stesso e il mondo. La ragione orientata totalmente ad impadronirsi del mondo non accetta più limiti. Essa è sul punto di trattare ormai l'uomo stesso come semplice materia del suo produrre e del suo potere. La nostra conoscenza aumenta, ma al contempo si registra un progressivo accecamento della ragione circa i propri fondamenti; circa i criteri che le danno orientamento e senso. La fede in quel Dio che è in persona la Ragione creatrice dell'universo deve essere accolta dalla scienza in modo nuovo come sfida e chance. Reciprocamente, questa fede deve riconoscere nuovamente la sua intrinseca vastità e la sua propria ragionevolezza. La ragione ha bisogno del Logos che sta all'inizio ed è la nostra luce; la fede, per parte sua, ha bisogno del colloquio con la ragione moderna, per rendersi conto della propria grandezza e corrispondere alle proprie responsabilità. È questo che ho cercato di evidenziare nella mia lezione a Regensburg. È una questione che non è affatto di natura soltanto accademica; in essa si tratta del futuro di noi tutti.

    A Regensburg il dialogo tra le religioni venne toccato solo marginalmente e sotto un duplice punto di vista. La ragione secolarizzata non è in grado di entrare in un vero dialogo con le religioni. Se resta chiusa di fronte alla questione di Dio, questo finirà per condurre allo scontro delle culture. L'altro punto di vista riguardava l'affermazione che le religioni devono incontrarsi nel compito comune di porsi al servizio della verità e quindi dell'uomo. La visita in Turchia mi ha offerto l'occasione di illustrare anche pubblicamente il mio rispetto per la Religione islamica, un rispetto, del resto, che il Concilio Vaticano II (cfr Dich. Nostra Aetate, 3) ci ha indicato come atteggiamento doveroso. Vorrei in questo momento esprimere ancora una volta la mia gratitudine verso le Autorità della Turchia e verso il popolo turco, che mi ha accolto con un'ospitalità così grande e mi ha offerto giorni indimenticabili di incontro. In un dialogo da intensificare con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica. Si tratta dell'atteggiamento che la comunità dei fedeli deve assumere di fronte alle convinzioni e alle esigenze affermatesi nell'illuminismo. Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura. D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione. Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte. Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà. In questo senso, i due dialoghi di cui ho parlato si compenetrano a vicenda.

    Ad Istanbul, infine, ho potuto vivere ancora una volta ore felici di vicinanza ecumenica nell'incontro con il Patriarca ecumenico Bartholomaios I. Giorni fa egli mi ha scritto una lettera le cui parole di gratitudine provenienti dal profondo del cuore mi hanno reso di nuovo molto presente l'esperienza di comunione di quei giorni. Abbiamo sperimentato di essere fratelli non soltanto sulla base di parole e di eventi storici, ma dal profondo dell'animo; di essere uniti dalla fede comune degli Apostoli fin dentro il nostro pensiero e sentimento personale. Abbiamo fatto l'esperienza di un'unità profonda nella fede e pregheremo il Signore ancora più insistentemente affinché ci doni presto anche la piena unità nella comune frazione del Pane. La mia profonda gratitudine e la mia preghiera fraterna si rivolgono in quest'ora al Patriarcha Bartholomaios e ai suoi fedeli come anche alle diverse comunità cristiane che ho potuto incontrare ad Istanbul. Speriamo e preghiamo che la libertà religiosa, che corrisponde alla natura intima della fede ed è riconosciuta nei principi della costituzione turca, trovi nelle forme giuridiche adatte come nella vita quotidiana del Patriarcato e delle altre comunità cristiane una sempre più crescente realizzazione pratica.

    "Et erit iste pax" – tale sarà la pace, dice il profeta Michea (5,4) circa il futuro dominatore di Israele, di cui annuncia la nascita a Betlemme. Ai pastori che pascolavano le loro pecore sui campi intorno a Betlemme gli angeli dissero: l'Atteso è arrivato. "Pace in terra agli uomini" (Lc 2,14). Egli stesso Cristo, il Signore, ha detto ai suoi discepoli: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace" (Gv 14,27). Da queste parole si è sviluppato il saluto liturgico: "La pace sia con voi". Questa pace che viene comunicata nella liturgia è Cristo stesso. Egli si dona a noi come la pace, come la riconciliazione oltre ogni frontiera. Dove Egli viene accolto crescono isole di pace. Noi uomini avremmo desiderato che Cristo bandisse una volta per sempre tutte le guerre, distruggesse le armi e stabilisse la pace universale. Ma dobbiamo imparare che la pace non può essere raggiunta unicamente dall'esterno con delle strutture e che il tentativo di stabilirla con la violenza porta solo a violenza sempre nuova. Dobbiamo imparare che la pace – come diceva l'angelo di Betlemme – è connessa con l'eudokia, con l'aprirsi dei nostri cuori a Dio. Dobbiamo imparare che la pace può esistere solo se l'odio e l'egoismo vengono superati dall'interno. L'uomo deve essere rinnovato a partire dal suo interno, deve diventare nuovo, diverso. Così la pace in questo mondo rimane sempre debole e fragile. Noi ne soffriamo. Proprio per questo siamo tanto più chiamati a lasciarci penetrare interiormente dalla pace di Dio, e a portare la sua forza nel mondo. Nella nostra vita deve realizzarsi ciò che nel Battesimo è avvenuto in noi sacramentalmente: il morire dell'uomo vecchio e così il risorgere di quello nuovo. E sempre di nuovo pregheremo il Signore con ogni insistenza: Scuoti tu i cuori! Rendici uomini nuovi! Aiuta affinché la ragione della pace vinca l'irragionevolezza della violenza! Rendici portatori della tua pace!

    Ci ottenga questa grazia la Vergine Maria, alla quale affido voi e il vostro lavoro. A ciascuno di voi qui presenti e alle persone care rinnovo i miei più fervidi voti augurali. E come segno della nostra gioia, il giorno di domani sarà un giorno libero per la Curia, per prepararsi bene, materialmente e spiritualmente, al Natale. Ai collaboratori dei vari Dicasteri e Uffici della Curia Romana e del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano imparto con affetto la Benedizione Apostolica. Buon Natale e tanti auguri anche per il Nuovo Anno.




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    BENEDETTO XVI

    UDIENZA A UNA DELEGAZIONE DI RAGAZZI DELL’AZIONE CATTOLICA ITALIANA (A.C.R.)


    21 dicembre 2006

    Cari ragazzi e ragazze dell’Azione Cattolica Italiana!

    Anche quest’anno avete voluto far visita al Papa, nell’immediata vicinanza del santo Natale. Vi accolgo con affetto e vi ringrazio di cuore per la vostra presenza, portatrice come sempre di gioia e di entusiasmo. In voi saluto tutti i ragazzi dell’A.C.R. (Azione Cattolica Ragazzi), sparsi nelle diocesi italiane e che voi qui rappresentate. Saluto di cuore il vostro Assistente Generale, Mons. Francesco Lambiasi, ed il Presidente, il prof. Luigi Alici, insieme a tutti i vostri educatori.

    Mi avete detto che il vostro cammino formativo, quest’anno, percorre la via della bellezza nella ricerca della verità. Per questo avete scelto uno slogan semplice ed efficace: "Bello, vero!". Il Natale è il grande mistero della Verità e della Bellezza di Dio che viene in mezzo a noi per la salvezza di tutti. La nascita di Gesù non è una fiaba: è una storia realmente accaduta, avvenuta a Betlemme duemila anni fa. La fede ci fa riconoscere in quel piccolo Bambino, nato da Maria Vergine, il vero Figlio di Dio, che per amore nostro si è fatto uomo. "Re del cielo, viene in una grotta al freddo e al gelo", così dice l’inno natalizio "Tu scendi dalle stelle", conosciuto in tutto il mondo.

    Nel volto del piccolo Gesù contempliamo il volto di Dio che non si rivela nella forza o nella potenza, ma nella debolezza e nella fragile costituzione di un bambino. Questo "Bambino divino", avvolto in fasce e posto nella mangiatoia con materna attenzione dalla Madre, Maria, rivela tutta la bontà e l’infinita bellezza di Dio. Mostra la fedeltà e la tenerezza dell’amore sconfinato con cui Dio circonda ciascuno di noi. Per questo facciamo festa a Natale, rivivendo la stessa esperienza dei pastori di Betlemme. Insieme a tanti papà e mamme che si affaticano ogni giorno affrontando continui sacrifici, assieme ai piccoli, ai malati, ai poveri facciamo festa, perché con la nascita di Gesù il Padre celeste ha risposto al desiderio di verità, di perdono e di pace del nostro cuore. E ha risposto con un amore così grande da sorprenderci: nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo, se Gesù non ce lo avesse rivelato!

    Lo stupore che proviamo davanti all’incanto del Natale si riflette in qualche misura nella meraviglia di ogni nascita e ci invita a riconoscere il Bambino Gesù in tutti i bambini, che sono la gioia della Chiesa e la speranza del mondo. Il Neonato che viene al mondo a Betlemme è lo stesso Gesù che camminava per le strade della Galilea e che ha donato la vita per noi sulla Croce; è lo stesso Gesù che è risuscitato e, dopo la sua ascesa al Cielo, continua a guidare la sua Chiesa con la forza del suo Spirito. Questa è la verità bella e grande della nostra fede cristiana!

    Cari ragazzi dell’A.C.R.! Il Papa vi vuole bene, ha fiducia in voi e vi affida oggi il compito di essere amici e testimoni di Gesù, venuto a Betlemme tra noi. Non è forse bello farlo conoscere sempre di più tra i vostri amici, nelle città, nelle parrocchie e nelle vostre famiglie? La Chiesa ha bisogno di voi, per essere vicina a tutti i bambini e ragazzi che vivono in Italia. Testimoniate che Gesù non toglie nulla alla vostra gioia, ma vi rende più umani, più veri, più belli. Grazie ancora per la vostra visita. Vi benedico con affetto, insieme con i vostri cari, con gli educatori, gli assistenti e con tutti gli amici dell’A.C.R. Buon Natale!

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    Bernardino Luini, Vergine con Bambino e S. Giovannino, 1523-25, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid

 

 
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