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    Predefinito 14 novembre (12 novembre) - S. Giosafat, martire

    Dal sito SANTI E BEATI:

    San Giosafat Kuncewycz, Vescovo e martire

    12 novembre

    Wolodymyr in Volynia (Ucraina), 1580 - Vitesbk, Bielorussia, 12 novembre 1623

    Nasce a Wolodymyr in Volynia (Ucraina) nel 1580 e viene ricordato come il simbolo di una Russia ferita dalle lotte tra ortodossi e uniati. La diocesi di Polock si trovava in Rutenia, regione che dalla Russia era passata in parte sotto il dominio del Re di Polonia, Sigismondo III. La fede dei Polacchi era quella cattolica romana; in Rutenia invece, come nel resto della Russia, i fedeli aderivano alla Chiesa greco-ortodossa. Si tentò allora un'unione della Chiesa greca con quella latina. Si mantennero cioè i riti e i sacerdoti ortodossi, ma si ristabilì la comunione con Roma. Questa Chiesa, detta «uniate», incontrò l'approvazione del Re di Polonia e del Papa Clemente VIII. Gli ortodossi, però, accusavano di tradimento gli uniati, che non erano ben accetti nemmeno dai cattolici di rito latino. Giovanni Kuncevitz, che prese il nome di Giosafat, fu il grande difensore della Chiesa uniate. A vent'anni era entrato tra i monaci basiliani. Monaco, priore, abate e finalmente arcivescovo di Polock, intraprese una riforma dei costumi monastici della regione rutena, migliorando così la Chiesa uniate. Ma a causa del suo operato nel 1623 un gruppo di ortodossi lo assalì e lo uccise a colpi di spada e di moschetto. (Avvenire)

    Patronato: Ecumenisti

    Emblema: Bastone pastorale, Palma

    Martirologio Romano: Memoria della passione di san Giosafat (Giovanni) Kuncewicz, vescovo di Polotzk e martire, che spinse con costante zelo il suo gregge all’unità cattolica, coltivò con amorevole devozione il rito bizantino-slavo e, a Vitebsk in Bielorussia, a quel tempo sotto la giurisdizione polacca, crudelmente assalito in un tumulto dalla folla a lui avversa, morì per l’unità della Chiesa e per la verità cattolica.

    Martirologio tradizionale (14 novembre): San Giosafat, dell'Ordine di san Basilio Vescovo di Polosk e Martire, il cui giorno natalizio è ricordato il dodici di questo mese.

    (12 novembre): A Vitepsk, in Polonia, la passione di san Giosafat, dell'Ordine di san Basilio, Vescovo di Polosk e Martire, il quale fu crudelmente ucciso dagli scismatici per odio dell'unità e verità cattolica, e dal Papa Pio nono fu ascritto tra i santi Martiri.

    Si chiamò Giosafat un antico Re di Giuda, e dal suo nome fu chiamata una valle, forse quella del Cedron, presso Gerusalemme. Secondo uno dei Profeti della Bibbia, la Valle di Giosafat doveva diventare teatro dell'ultimo atto della storia del mondo, cioè del Giudizio Finale.
    Ecco perché tutti conoscono l'espressione " Valle di Giosafat ", per indicare il luogo dell'ultimo giudizio, mentre meno noto è il Santo che ripete nel Calendario della Chiesa il nome dell'antico Re di Giuda, e che visse pochi secoli fa, morendo per la fede nel 1623.
    Nella dimensione geografica del nuovo e veramente universale calendario, San Giosafat rappresenta la Russia, dove il Santo oggi ricordato fu Vescovo e mori martire per la fede.
    La diocesi di Polock, retta dal Vescovo San Giosafat, si trovava in Rutenia, regione che, dalla Russia, era passata in parte sotto il dominio del Re di Polonia, Sigismondo III. La religione dei Polacchi era quella cattolica romana; in Rutenia invece, come nel resto della Russia, i fedeli aderivano alla Chiesa scismatica Greco-ortodossa.
    Si tentò allora una unione della Chiesa greca con quella latina. Si mantennero cioè i riti e i sacerdoti ortodossi, ma si ristabilì la comunione con Roma. Questa Chiesa, detta " Uniate ", incontrò l'approvazione del Re di Polonia e del Papa Clemente VIII, che vi vide un primo passo verso la composizione dello Scisma d'Oriente.
    Fu però anche molto avversata, sia per interessi privati, sia per ignoranza, sia per settarismo. Gli scismatici ortodossi accusavano di tradimento gli uniati, che si erano riconciliati con Roma; i cattolici, d'altra parte, disprezzavano le lunghe e complicate cerimonie orientali e l'ignoranza dei " popi " di origine russa. Giovanni Kuncevitz, che in religione prese il nome di Giosafat, fu il grande difensore della Chiesa Uniate. A vent'anni era entrato tra i monaci basiliani, ma nell'antico Ordine orientale portò le nuove idee e le direttive d'azione dei Gesuiti, pattuglia avanzata del Cattolicesimo nei paesi europei minacciati dall'eresia.
    Monaco, priore, Abate e finalmente Arcivescovo di Polock, intraprese una salutare riforma dei costumi monastici della regione rutena, migliorando così la Chiesa uniate. La sua predicazione fruttò numerosissime conversioni e gli valse il titolo di " rapitore di anime ".
    " Voi - diceva Giosafat a questi avversari -voi mi odiate a morte, mentre io vi porto tutti nel cuore, e sarei ben lieto di morire per voi ". Furono parole profetiche. Alleandosi ai poteri civili, e approfittando di un periodo di torbidi politici in Polonia, gli scismatici penetrarono nell'abitazione del Vescovo, per ucciderlo a colpi di spada e di moschetto. Poi il suo cadavere nudo fu gettato nel fiume Duna.
    Quella morte sembrò segnare il fragile destino della Chiesa Uniate. Invece ne segnò il definitivo consolidamento, per la commozione che destò nei Polacchi, le molte conversioni che ne seguirono, e il nuovo più diretto interesse che Roma portò alla situazione dei fedeli ruteni.
    Assai presto, Giosafat venne dichiarato Beato (16 maggio 1643), poi, nel secolo scorso, Santo (29 giugno 1867). Oggi la Chiesa l'onora come Martire non soltanto della comunità rutena, cattolica di rito greco, ma dello spirito stesso dell'unione tra Chiese sorelle e fratelli separati ancora attuale, anzi ancor più attuale oggi che al tempo del vescovo San Giosafat.
    Le spoglie dell'invitto martire riposano nella Basilica di S. Pietro, a Roma.

    Fonte: Archivio Parrocchia






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    Ovviamente, nel nuovo "martirologio" ogni riferimento al delitto degli scismatici ortodossi scompare, parlandosi generalmente di "tumulto di folla". Ma così vengono stemperate sino a scomparire le ragioni del martirio, l'odio alla fede.
    E questa non sarebbe una colpa di Giovanni Paolo II e del suo "ecumenismo"?

  3. #3
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    Predefinito Un oltraggio al martirio di S. Giosafat

    Crescono il dialogo e la collaborazione con la Chiesa ortodossa russa

    Il 50° di Russia Cristiana a Mosca, occasione di incontro ecumenico


    MOSCA, domenica, 11 novembre 2007 (ZENIT.org).- Dal Patriarcato di Mosca giungono segnali positivi sul rispetto dei cattolici per la tradizione ortodossa della Russia.

    Intervenendo il 31 ottobre alla serata organizzata da Russia Cristiana per celebrare il suo 50° anniversario presso la “Biblioteca dello Spirito”, padre Igor Vizhanov, segretario del Dipartimento del Patriarcato di Mosca per le Relazioni Esterne, ha affermato che “è molto importante che i cattolici che vivono in Russia amino le sue tradizioni e la sua lingua e comprendano la cultura del suo popolo”.

    Vizhanov ha espresso la sua gratitudine a Russia Cristiana, che “comprende con grande acutezza il nostro Paese e le nostre tradizioni”. “In questo – ha aggiunto – vedo il pegno che i nostri rapporti saranno costruiti nello spirito d’amore, amicizia e unità nel loro senso più alto”.

    Il segretario del Dipartimento del Patriarcato di Mosca ha ricordato che, quando nel 1957 padre Romano Scalfi ha fondato Russia Cristiana, “noi cristiani russi eravamo perseguitati, ma nello stesso tempo ci sentivamo tutti fratelli, c’era solidarietà e sostegno reciproco”.

    “Anche adesso che il regime non c’è più – ha continuato – dobbiamo essere solidali, tanto più che le sfide del nostro tempo non sono meno gravi; perciò, se queste sfide sono comuni, sono comuni anche i compiti”.

    Padre Vladimir Shmalij, vicepresidente della Commissione teologica sinodale della Chiesa ortodossa russa, ha spiegato che “è necessario fare propri i tentativi di ecumenismo del XX secolo. per essere veramente e cristianamente universali, la Chiesa cattolica e quella ortodossa devono studiare approfonditamente la teologia l'una dell'altra; a questo contribuiscono i progetti in comune, cui appunto partecipa attivamente Russia Cristiana”.

    A questo proposito, l’Arcivescovo della diocesi della Madre di Dio a Mosca, monsignor Paolo Pezzi, ha raccontato che ogni volta che ha incontrato persone di Russia Cristiana lo hanno “sempre colpito per uno spirito particolare, direi quasi per un certo carisma”.

    “La cosa principale che s'impara in Russia Cristiana è ad amare Cristo, ossia ad amare la Verità – ha sottolineato monsignor Pezzi –. L'esperienza di Russia Cristiana testimonia come vivere e lavorare affinché tutte le linee della vita convergano in Cristo. Anche i più brevi incontri con padre Scalfi mi hanno convinto che si può non aver paura di rischiare!”.

    Il rappresentante della Santa Sede in Russia, monsignor Antonio Mennini, ha augurato agli amici di “Russia Cristiana” di continuare a ricercare il dialogo tra le due Chiese, “per testimoniare l'unica fede nel Signore Gesù Cristo”.

    Dal canto suo, il Vescovo di Bobrujsk, Serafim, rappresentante della Fondazione Culturale Internazionale “Cirillo e Metodio” e cofondatore della “Biblioteca dello Spirito”, ha precisato che “Russia Cristiana ha offerto un enorme sostegno spirituale per i credenti in Unione Sovietica e ha lavorato molto per far conoscere tutta la profondità della tradizione ortodossa ai cattolici dell'Occidente”.

    Monsignor Serafim ha evidenziato che “Russia Cristiana non ha lesinato le manifestazioni di amore a Cristo e ai fratelli di altri Paesi e altre Chiese”.

    Padre Romano Scalfi ha invece sottolineato che “l’unità tra i cristiani è un dono che dobbiamo riconoscere e vivere col cuore”.

    “Siamo grati ai cristiani dell’URSS – ha affermato il fondatore di Russia Cristiana –, che hanno scritto nel samizdat e senza paura hanno creato delle comunità in anni di persecuzioni feroci, spesso pagando di persona”.

    “Se crediamo che Cristo è risorto, che è presente in mezzo a noi, significa che la Russia è salva”, ha esclamato padre Scalfi. “Siamo grati alla Russia per questa esperienza di fede che può trasformare il mondo”, ha aggiunto.

    Secondo il fondatore di Russia Cristiana, “non si può separare l’unità tra i cristiani dalla missione, che non va confusa col proselitismo. È meglio un ortodosso con una fede profonda che un cattolico con una fede debole: per questo a noi interessa che gli ortodossi siano veramente ortodossi”.

    Ai 50 anni di Russia Cristiana è stata dedicata anche la mostra fotografica dal titolo “L'unità in Cristo supera ogni divisione”, esposta fino all'8 novembre nei locali del Centro culturale Biblioteca dello Spirito.

    Fonte: Zenit, 11.11.2007

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    St. Josaphat Kuncevyc

    Martyr, born in the little town of Volodymyr in Lithuania (Volyn) in 1580 or -- according to some writers -- 1584; died at Vitebsk, Russia, 12 November, 1623.

    The saint's birth occurred in a gloomy period for the Ruthenian Church. Even as early as the beginning of the sixteenth century the Florentine Union had become a dead-letter; in the case of the Ruthenian Church, complete demoralization followed in the wake of its severance from Rome, and the whole body of its clergy became notorious alike for their gross ignorance and the viciousness of their lives. After the Union of Berest’ in 1596 the Ruthenian Church was divided into two contending parties -- the Uniates and those who persevered in schism -- each with its own hierarchy. Among the leaders of the schismatic party, who laboured to enkindle popular hatred against the Uniates, Meletius Smotryckyj was conspicuous, and the most celebrated of his victims was Josaphat.

    Although of a noble Ruthenian stock, Josaphat's father had devoted himself to commercial pursuits, and held the office of town-councilor. Both parents contributed to implant the seeds of piety in the heart of their child. In the school at Volodymyr Josaphat -- Johannes was the saint's baptismal name -- gave evidence of unusual talent; he applied himself with the greatest zeal to the study of ecclesiastical Slav, and learned almost the entire casoslov (breviary), which from this period he began to read daily. From this source he drew his early religious education, for the unlettered clergy seldom preached or gave catechetical instruction. Owing to the straitened circumstances of his parents, he was apprenticed to the merchant Popovyc at Vilna. In this town, remarkable for the corruption of its morals and the contentions of the various religious sects, he seemed specially guarded by Providence, and became acquainted with certain excellent men (e.g. Benjamin Rutski), under whose direction he advanced in learning and in virtue.

    At the age of twenty-four (1604) he entered the Basilian monastery of the Trinity at Vilna. The fame of his virtues rapidly spread, and distinguished people began to visit him. After a notable life as a layman, Rutski also joined the order, bringing with him a wide erudition. When Josaphat reached the diaconate, regular services and labour for the salvation of souls had been already begun; the number of novices steadily increased, and under Rutski -- who had meanwhile been ordained priest -- there began the regeneration of religious life among the Ruthenians. In 1609, after private study under the Jesuit Fabricius, Josaphat was ordained priest. He subsequently became superior in several monasteries, and on 12 November, 1617, was reluctantly consecrated Bishop of Vitebsk, with right of succession to the Archbishopric of Polotsk. He became archbishop in 1618.

    While each succeeding year saw fresh evidence of his fruitful labours, it also witnessed the steady growth of the hatred of the schismatic party. Finally on 12 November, 1623, an axe-stroke and a bullet brought Josaphat his martyr's crown. After numerous miracles had occurred, a commission was appointed by Urban VIII in 1628 to inquire into the cause of Josaphat, and examined on oath 116 witnesses. Although five years had elapsed since Josaphat's death, his body was still incorrupt. In 1637 a second commission investigated the life of the martyr, and in 1643 -- twenty years after his death -- Josaphat was beatified. His canonization took place in 1867.

    Great were the virtues of the saint. As a boy he shunned the usual games of childhood, prayed much, and lost no opportunity of assisting at the Divine services. Children especially regarded him with the greatest affection, and found in him a worthy model. As an apprentice, he devoted every leisure hour to prayer and study. At first Popovyc viewed this behaviour with displeasure, but Josaphat gradually won such a position in his esteem, that Popovyc offered him his entire fortune and his daughter's hand. But Josaphat's love for the religious life never wavered. At first without a human guide along the paths of virtue, he received all spiritual direction immediately from the Holy Ghost.

    His favourite pious exercise was to make a poklony (i.e. a reverence, in which the head touches the ground) with the ejaculation: "Jesus Christ, Son of God, have mercy on me, a poor sinner." Never eating meat, he fasted much, wore a hair-shirt and an angular chain, slept on the bare floor, and chastised his body until the blood flowed. The Jesuits frequently urged him to set some bounds to his austerities.

    From his zealous study of the liturgical books he drew many proofs of Catholic truth, using his knowledge in the composition of several works -- "On the Baptism of St. Volodymyr"; "On the Falsification of the Slavic Books by the Enemies of the Metropolitan"; "On Monks and their Vows". As deacon, priest, and bishop, he was distinguished by his extraordinary zeal in the service of souls. Not alone in the church did he preach and hear confessions, but likewise in the fields, hospitals, prisons, and even on his journeys. Even where his words of instruction might by themselves have failed, his entreaties and tears ensured him success. This zeal, united with his kindness and extraordinary love for the poor, won numbers to the Catholic Faith. Among his converts were included many important personages such as Ignatius, Patriarch of Moscow, and Emmanuel Cantacuzenus, who belonged to the family of the Greek Emperor Palæologus.

    As archbishop he restored the churches; issued a catechism to the clergy with instructions that it should be learned by heart; composed rules for the priestly life, entrusting to the deacons the task of superintending their observance; assembled synods in various towns in the dioceses, and firmly opposed the Imperial Chancellor Sapieha, when he wished to make many concessions in favour of the schismatics. Throughout all his strivings and all his occupations, he continued his exemplary life as a religious, and never abated his zeal for self-mortification and prayer.

    He awaited death with a certain yearning, refusing to avail himself of the opportunity of flight afforded him. After his death his influence was still greater: conversions were numerous, and veneration for him continued to extend. His feast is kept on the first Sunday after 12 November, according to the Julian Calendar. [Note: His feast is currently kept on November 12 on the Universal Calendar.]

    Bibliography

    GUÉPIN, Un Apòtre de l'Union des Eglises en XVIIe siècle (2 vols., Paris, 1898); CONTIERI, Vita di S. Giosafat Arcivescovo e Martire Ruteno dell' Ordine di S.Basilio il Grande (Rome, 1867); SUSZA, Cursus vitæ et certamen martyrii B. Josaphat Kuncewicz (Rome, 1665), ed. MARTINOV (Paris, 1865); SUSZA, Saulus et Paulus Ruthenæ Unionis sanguine B. Josaphat transformatus (Rome, 1666); GUÉPIN AND KALINKA, Zywot S. Józafata Kuncewicza, meczennika, arcybiskupa polockiego (Lemberg, 1885); KOZANEVYC, Zytje sv. Svjašcenomucenyka Josafata Kuncevyca (Zovkva, 1902); URBAN, Swiety Józafat Kuncewicz, biskup i meczennik (Krakow, 1906) -- the two last-mentioned are popular works.

    Fonte: The Catholic Encyclopedia, vol. VIII, New York, 1910

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    Da dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1275-1277

    14 NOVEMBRE

    SAN GIOSAFAT, VESCOVO E MARTIRE

    Unità della Chiesa.


    Abbiamo festeggiato all'inizio dell'anno liturgico un vescovo martire dell'unità della Chiesa, san Tommaso da Cantorbery. "Dio, egli diceva, niente ama in questo mondo quanto la libertà della sua Chiesa ", libertà che è completa indipendenza di fronte a qualsiasi potenza secolare e in vista della sua missione di salvezza per tutti gli uomini. Si potrebbe dire con altrettanta verità che "Dio nulla ama in questo mondo quanto l'unità della sua Chiesa".

    La veste inconsutile di Cristo, che egli non permise fosse divisa dai soldati ai piedi della Croce, era simbolo di questa unità della quale parla spesso agli Apostoli e al Padre celeste, chiedendo che "tutti siano una cosa sola, come il Padre e Lui sono una cosa sola e tutti siano perfezionati nella unità".

    Perché spiacevoli malintesi e miserabili passioni umane sono venute a spezzare il desiderio di Cristo e a rendere vana la sua ardente preghiera? Le Chiese d'Oriente, che ricevettero per prime la buona novella della Redenzione e la divulgarono nel mondo intero, che brillarono per la santità e la dottrina dei loro vescovi e per il martirio di tanti loro fedeli, dopo secoli si sono in parte separate dall'unità cattolica e non vogliono più riconoscere l'autorità del Pontefice romano.

    I Papi non si sono mai rassegnati a questo stato di cose così doloroso e hanno moltiplicato gli appelli, impegnato gli sforzi, perché lo scisma cessi. Soprattutto da Leone XIII in poi, ascoltiamo si può dire in modo incessante la loro voce, che chiama le Chiese separate a rientrare nell'unità romana, affinché vi sia un solo gregge e un solo pastore.

    La Chiesa nota con consolazione numerosi ritorni, li conta ogni anno con gioia materna e prega i suoi figli di sostenere in tutti i modi possibili le opere, che possono affrettare l'ora in cui tutti si stringeranno attorno a lei, in unità perfetta di spiriti e di cuori, ma sa che gli sforzi umani saranno inefficaci, se non si appoggiano alla preghiera.

    La festa di oggi deve essere per noi occasione di ricordare il desiderio di Cristo, di unire le nostre preghiere alle preghiere della Chiesa, i nostri sacrifici ai sacrifici, alle sofferenze e alla morte del martire dell'unità, san Giosafat.

    Il vescovo dei Ruteni.

    Sono molti davvero i meriti di questo santo vescovo per la causa dell'unità cattolica. Dopo un'infanzia trascorsa in perfetta castità ed eroica mortificazione, si fece monaco e si impegnò nella riforma dell'antico Ordine Basiliano. Zelo, scienza, santità gli meritarono di essere designato all'episcopato. Egli moltiplicò allora i suoi sforzi, da vero pastore delle anime. Predicazione, scritti, ministero, appoggiati alla preghiera, furono da Dio tanto benedetti che molti scismatici si convertirono e ciò gli attirò l'odio dei nemici e minacce di morte. Ma la morte, anche la morte violenta, non intimorisce i veri servi di Dio. Egli non fuggì, ma attese tranquillo i suoi carnefici e cadde sotto i loro colpi, levando la mano per benedirli e perdonarli.

    VITA. - Giosafat Kuncewicz nacque a Wlodimir, nella Volinia, da genitori cattolici e nobili nel 1584. Mentre fanciullo ascoltava la madre, che gli parlava della passione del Signore, un dardo partito dal fianco dell'immagine di Gesù crocifisso lo colpì al cuore e, acceso di amore divino, si dedicò alla preghiera e alle opere pie in modo da diventare esempio a tutti i suoi compagni, superiori in età. A venti anni abbracciò la regola monastica nel monastero basiliano della Trinità a Wilna e fece tosto progresso meraviglioso nella perfezione evangelica. Camminava a piedi nudi nei giorni freddi dell'inverno in quelle regioni rigidissimo, non si cibava mai di carne né beveva vino, se non quando ve lo costringeva l'obbedienza. Portò sulle carni, fino alla morte, un ruvido cilizio e conservò il fiore della purezza che, adolescente, aveva consacrato alla Vergine Madre di Dio. La fama delle sue virtù e della sua scienza fu presto tale che, nonostante la giovane età (1613), fu messo a capo del monastero di Byten e quindi fatto archimandrita di Wilna (1614) e poi, suo malgrado e con gioia di tutti i cattolici, proclamato arcivescovo di Polock nel 1617.

    La nuova dignità non gli fece mutare la sua regola di vita e tutto il suo cuore fu per il culto divino e per la salvezza delle pecore a lui affidate. Campione instancabile dell'unità cattolica e della verità, dedicò le energie alla conversione degli eretici e degli scismatici. Empi errori e calunnie impudenti erano diffuse contro il Sommo Pontefice e la pienezza dei suoi poteri ed egli non mancò mai al dovere di difenderli, nei discorsi e negli scritti ricchi di pietà e di dottrina. Rivendicò i diritti vescovili e i beni della Chiesa usurpati da laici e il numero di eretici ricondotti da lui alla Madre comune è incredibile. Fu promotore inimitabile dell'unione della Chiesa greca con la Chiesa latina, lo attestano dichiarazioni esplicite del supremo pontificato. Le rendite del suo vescovado furono da lui impegnate nel restaurare il culto divino, lo splendore dei templi, gli asili delle vergini consecrate a Dio e mille opere pie. La sua carità verso i miserabili era così viva che un giorno, non avendo mezzi per soccorrere una povera vedova, impegnò il suo omoforio o pallio episcopale. Visti gli enormi progressi della fede cattolica, uomini perversi cospirarono, nel loro odio, contro l'atleta di Cristo, per provocarne la morte, cosa che egli annunciò in un discorso al suo popolo. In occasione della visita pastorale, i congiurati invasero la sua casa, spezzando e ferendo quanto e quanti incontravano ed egli spontaneamente intervenne con dolcezza dicendo: Perché picchiate i miei, o figliuoli? se avete qualche cosa contro di me, sono qui. Fu allora aggredito, ucciso, trafitto, finito con un colpo d'ascia e gettato nel fiume. Era il 12 novembre del 1623 e Giosafat aveva 43 anni. Il suo corpo, avvolto da una luce miracolosa, fu ripescato dal fiume. Il suo sangue giovò subito anche ai parricidi, perché, condannati a morte, tutti abiurarono lo scisma e detestarono il delitto commesso. La morte del grande vescovo fu seguita da miracoli strepitosi, che indussero Papa Urbano VIII a dichiararlo Beato. Il 29 giugno del 1867, nella solennità centenaria del principe degli Apostoli, presente il Collegio dei Cardinali e circa 500 Patriarchi, Arcivescovi e Vescovi di tutti i riti, convenuti da ogni parte del mondo nella basilica Vaticana, Pio IX iscrisse nell'Albo dei Santi il grande difensore dell'unità della Chiesa. Fu il primo degli orientali glorificato con tanta solennità. Leone XIII ne estese alla Chiesa intera l'Ufficio e la Messa.

    Preghiera.

    "Degnati, o Signore di ascoltarci e suscita nella tua Chiesa lo Spirito di cui fu pieno il. Beato Giosafat, tuo vescovo e martire" (Colletta della Messa). La Chiesa prega così e il Vangelo esprime in modo ancora più completo il suo desiderio di ottenere dei capi che ti rassomiglino (Gv 10,11,16). Il testo sacro ci parla di falsi pastori, che fuggono quando vedono venire il lupo, ma l'omelia che lo commenta nell'Ufficio della notte, bolla di mercenario non solo colui che fugge, ma anche il guardiano che, senza fuggire, permette al nemico di consumare la rovina dell'ovile (San Giovanni Crisostomo, Omelia LIX). Preservaci, o Giosafat, da uomini simili, flagello del gregge, che pensano solo a pascere se stessi (ibid.). Possa rivivere il Pastore divino, tuo modello, fino alla fine (Gv 13,1), fino alla morte per le pecorelle (ivi 10,11), in tutti coloro che egli si degna chiamare come Pietro ad essere partecipi di un più grande amore! (ivi 21,15-17).

    Asseconda, o apostolo dell'unità i voti del sommo Pontefice, che richiama all'unico ovile le pecore disperse (ivi 10,16). Gli Angeli che vegliano sulla famiglia slava applaudirono alla tua lotta: dal tuo sangue sono germogliati altri eroi e le grazie meritate dalla effusione di quel sangue sostengano sempre l'ammirabile, umile e povero popolo di Rutenia e sconfiggano lo scisma strapotente. Possano quelle grazie straripare sui figli dei persecutori e condurre anche quelli a Roma, che, sola, anche per essi ha le promesse del tempo e dell'eternità.

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    Predefinito Dall'enciclica «Ecclesiam Dei» di Pio XI, papa (AAS 15 [1923] 573-582)

    La Chiesa di Dio, per ammirabile provvidenza, fu costituita in modo da riuscire nella pienezza dei tempi come un'immensa famiglia. Essa è destinata ad abbracciare l'universalità del genere umano e perciò, come sappiamo, fu resa divinamente manifesta per mezzo dell'unità ecumenica che è una delle sue note caratteristiche. Cristo, Signor nostro, non si appagò di affidare ai soli apostoli la missione che egli aveva ricevuto dal Padre, quando disse: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 18-19). Ma volle pure che il collegio apostolico fosse perfettamente uno, con doppio e strettissimo vincolo. Il primo è quello interiore della fede e della carità, che è stata riversata nei cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5, 5). L'altro è quello esterno del governo di uno solo sopra tutti. A Pietro, infatti, fu affidato il primato sugli altri apostoli come a perpetuo principio e visibile fondamento di unità. Ma perché tale unità e concordia si perpetuasse, Iddio, sommamente provvido, la volle consacrare, per così dire, col sigillo della santità e, insieme, del martirio. Un onore così grande è toccato appunto a san Giosafat, arcivescovo di Polock, di rito slavo orientale, che a buon diritto va riconosciuto come gloria e sostegno degli Slavi orientali. Nessuno diede al loro nome una rinomanza maggiore, o provvide meglio alla loro salute di questo loro pastore ed apostolo, specialmente per aver egli versato il proprio sangue per l'unità della santa Chiesa. C'è di più. Sentendosi mosso da ispirazione divina a ristabilire dappertutto la santa unità, comprese che molto avrebbe giovato a ciò il ritenere nell'unione con la Chiesa cattolica il rito orientale slavo e l'istituto monastico basiliano.
    E parimenti, avendo anzitutto a cuore l'unione dei suoi concittadini con la cattedra di Pietro, cercava da ogni parte argomenti efficaci a promuoverla e a consolidarla, principalmente studiando quei libri liturgici che gli Orientali, e i dissidenti stessi, sono soliti usare secondo le prescrizioni dei santi padri.
    Premessa una così diligente preparazione, egli si accinse quindi a trattare, con forza e soavità insieme, la causa della restaurazione dell'unità, ottenendo frutti così copiosi da meritare dagli stessi avversari il titolo di «rapitore delle anime».

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    Predefinito

    PIO XI

    LETTERA ENCICLICA
    ECCLESIAM DEI
    IN OCCASIONE DEL
    TRECENTESIMO ANNIVERSARIO DEL MARTIRIO DI
    SAN GIOSAFAT, ARCIVESCOVO DI POLOTSK


    Ai Venerabili Fratelli Patriarchi,
    Primati, Arcivescovi, Vescovi
    e agli altri Ordinari locali
    che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.

    Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

    La Chiesa di Dio, per ammirabile provvidenza, fu costituita in modo da riuscire nella pienezza dei tempi come un’immensa famiglia, che abbracci l’universalità del genere umano, e perciò, come sappiamo, fu resa divinamente manifesta, tra le altre sue note caratteristiche, per mezzo dell’unità ecumenica. Giacché Cristo Signor nostro non si appagò di affidare ai soli Apostoli la missione che Egli aveva ricevuta dal Padre, quando disse: « È data a me ogni potestà in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le genti » [1], ma volle pure che il Collegio apostolico fosse perfettamente uno, con doppio e strettissimo vincolo: intrinseco l’uno, con la stessa fede e carità che « è diffusa nei cuori… dallo Spirito Santo » [2]; l’altro estrinseco col regime di uno solo sopra tutti, avendo a Pietro affidato il primato sugli altri Apostoli come a perpetuo principio e visibile fondamento di unità. Quest’unità, al chiudersi della sue vita mortale, Egli con somma premura raccomandò loro [3]; questa stessa, con ardentissime preci, domandò al Padre [4], e l’impetrò, « esaudito per la sua riverenza » [5].

    Pertanto la Chiesa si formò e si accrebbe in « un corpo unico » animato e vigoroso di un medesimo spirito, del quale poi « è capo Cristo, da cui tutto il corpo è compaginato e connesso per via di tutte le giunture di comunicazione » [6]; e di esso per questa stessa ragione, è capo visibile colui che di Cristo tiene in terra le veci, il Pontefice Romano. In lui, come successore di Pietro, si avvera perpetuamente quella parola di Cristo: « Su questa pietra edificherò la mia Chiesa » [7]; ed egli, perpetuamente esercitando quell’ufficio che a Pietro fu affidato, non cessa mai di confermare, ove sia necessario, nella fede i suoi fratelli e di pascere tutti gli agnelli e le pecorelle del gregge del Signore.

    Orbene nessun’altra prerogativa mai « l’uomo nemico » avversò più ostilmente che l’unità di governo nella Chiesa, come quella cui va congiunta, « nel vincolo della pace » [8], l’unità dello spirito; e se il nemico non poté giammai prevalere contro la Chiesa stessa, ottenne nondimeno di strappare dal seno di lei non piccolo numero di figli, e perfino popoli interi. A sì gran danno non poco conferirono sia le lotte delle nazionalità fra di loro, sia le leggi contrarie alla religione e alla pietà, sia anche l’amore soverchio ai beni perituri della terra.

    Fra tutte la maggiore e la più lagrimevole fu la separazione dei Bizantini dalla Chiesa ecumenica. Sebbene fosse sembrato che i Concilii di Lione e di Firenze potessero porvi rimedio, tuttavia essa si rinnovò successivamente e perdura tuttora con immenso danno per le anime. Vediamo quindi come furono traviati e andarono, perduti, insieme con altri, gli Slavi orientali, benché questi fossero rimasti più a lungo degli altri nel seno della madre Chiesa. Si sa, infatti, che essi mantennero ancora qualche relazione con questa Sede Apostolica, anche dopo lo scisma di Michele Cerulario: e queste relazioni, interrotte dalle invasioni dei Tartari e dei Mongoli furono riprese successivamente e continuarono sin tanto che non ne furono impediti dalla caparbietà ribelle dei potenti.

    Ma in questa causa i Romani Pontefici nulla omisero di quanto spetta al loro ufficio; anzi alcuni di essi presero a cuore in modo speciale la salvezza degli Slavi orientali. Così Gregorio VII mandò con benignissima lettera [9] auguri d’ogni celeste benedizione al principe di Kiev, « a Demetrio, re dei Russi ed alla regina sua consorte » negli inizi del loro regno, su richiesta del loro figlio presente in Roma. Così Onorio III inviò suoi legati alla città di Novgorod; e lo stesso fece Gregorio IX e, non molto dopo, Innocenzo IV, il quale vi spedì come legato un uomo di animo grande e forte, Giovanni da Pian del Carpine, lustro della famiglia francescana. Il frutto di tanta sollecitudine dei Nostri Predecessori si vide nell’anno 1255, quando si ebbe il ristabilimento della concordia e dell’unità, ed a celebrarlo a nome del Pontefice, e per sua autorità, il legato di lui, l’abate Opizone, incoronò, con solenne pompa, Daniele, figlio di Romano. E così, secondo la veneranda tradizione e le usanze più antiche degli Slavi Orientali, si ottenne che al Concilio di Firenze, Isidoro, Metropolita di Kiev e di Mosca, Cardinale della Santa Romana Chiesa, anche a nome e nella lingua dei suoi connazionali, promise di conservare santa e inviolata l’unità cattolica nella fede della Sede Apostolica.

    Pertanto questa restaurazione dell’unità durò a Kiev per molti anni; ma vi si aggiunsero poi nuove ragioni di rottura coi rivolgimenti politici, maturatisi negli inizi del secolo XVI. Senonché fu di nuovo felicemente rinnovata nel 1595, e l’anno successivo, al Concilio di Brest, promulgata per opera del metropolita di Kiev e di altri Vescovi Ruteni. Clemente VIII li accolse con ogni affetto, e pubblicando la costituzione «Magnus Domini » invitò tutti i fedeli a rendere grazie a Dio, « il quale ha sempre pensieri di pace, e vuole che tutti gli uomini siano salvi e pervengano alla conoscenza della verità ».

    Ma perché tali unità e concordia si perpetuassero, Iddio, sommamente provvido, le volle consacrare, per così dire, col sigillo della santità e del martirio. Un così grande vanto è toccato a San Giosafat, Arcivescovo di Polotsk, di rito slavo orientale, che a buon diritto va riconosciuto come gloria e sostegno degli Slavi Orientali, poiché a fatica si troverà un altro che abbia dato al loro nome un lustro maggiore, o che meglio abbia provveduto alla loro salute, di questo loro Pastore ed Apostolo, specialmente per aver egli versato il proprio sangue per l’unità della santa Chiesa. Ricorrendo dunque il trecentesimo anniversario del suo gloriosissimo martirio, Ci è sommamente caro rinnovare la memoria di un così grande personaggio, affinché il Signore, invocato dalle suppliche più fervorose dei buoni, « susciti nella sua Chiesa quello spirito, di cui il beato Martire e Pontefice Giosafat era ripieno… tanto che diede la sua vita per le sue pecorelle »[10], così che, crescendo tra il popolo lo zelo nel promuovere l’unità, ne abbia incrementato l’opera che gli fu tanto a cuore, finché si avveri quella promessa di Cristo e insieme il desiderio di tutti i Santi, che « vi sia un solo ovile ed un solo Pastore » [11].

    Egli nacque da genitori separati dall’unità, ma, religiosamente battezzato col nome di Giovanni, incominciò fin dall’età più tenera a coltivare la pietà; e mentre seguiva lo splendore della liturgia slava, cercava soprattutto la verità e la gloria di Dio: e per questo, non per impulso di ragioni umane, si rivolse, fanciulletto ancora, alla comunione della Chiesa ecumenica, cioè cattolica, a cui giudicava di essere già destinato per la stessa validità del suo battesimo. Anzi, sentendosi mosso da ispirazione divina a ristabilire dappertutto la santa unità, comprese che molto avrebbe giovato a ciò il ritenere nell’unione con la Chiesa cattolica il rito orientale slavo e l’istituto monastico Basiliano. Perciò, accolto nell’anno 1604 fra i monaci di San Basilio, e mutato il nome di Giovanni in quello di Giosafat, si consacrò interamente all’esercizio di tutte le virtù, specialmente della pietà e della penitenza, dimostrando sempre un singolare amore per la Croce: amore che fino dai primi anni egli aveva concepito dalla contemplazione di Gesù Crocifisso.

    Così il metropolita di Kiev, Giuseppe Velamin Rutsky, il quale era a capo di quello stesso monastero in qualità di archimandrita, testimonia che « egli in breve tempo fece tali progressi nella vita monastica da poter esser maestro agli altri ». Sicché, appena ordinato sacerdote, Giosafat si vide eletto a governare il monastero in qualità di archimandrita. Nell’esercizio di tale ufficio non solo si adoperò a mantenere e a difendere il monastero e l’attiguo tempio, assicurandoli contro gli assalti nemici, ma inoltre, avendoli trovati pressoché abbandonati dai fedeli, fece di tutto per farli nuovamente frequentare dal popolo cristiano. E in pari tempo, avendo anzitutto a cuore l’unione dei suoi concittadini con la cattedra di Pietro, cercava da ogni parte argomenti giovevoli a promuoverla e a consolidarla, principalmente studiando quei libri liturgici che gli Orientali, e i dissidenti stessi, sono soliti usare secondo le prescrizioni dei Santi Padri.

    Premessa una così diligente preparazione, egli si accinse quindi a trattare, con forza e soavità insieme, la causa della restaurazione dell’unità, ottenendo frutti così copiosi da meritare dagli stessi avversari il titolo di « rapitore delle anime ». Ed è veramente mirabile il gran numero delle anime da lui condotte all’unico ovile di Gesù Cristo, da tutti gli ordini e da tutte le classi sociali, plebei, negozianti, cavalieri, e anche prefetti e governatori di province, come narrano del Sokolinski di Polotsk, del Tyszkievicz di Novogrodesc, del Mieleczko di Smolensk. Ma ad un campo ben più vasto ancora estese il suo apostolato, quando venne nominato vescovo a Polotsk: apostolato che doveva essere di una straordinaria efficacia, mentre egli offriva l’esempio di una vita di somma castità, povertà e frugalità ed insieme di tanta liberalità verso gli indigenti da giungere fino ad impegnare l’omophorion per sovvenire alla loro miseria. Nel frattempo si manteneva rigidamente nell’ambito della religione, non occupandosi minimamente di negozi politici, sebbene a lui non mancassero più d’una volta grandi sollecitazioni ad ingerirsi delle cure e delle lotte civili, mentre infine si sforzava, con lo zelo insigne d’un Vescovo santissimo, ad inculcare senza posa, con la parola e con gli scritti, la verità. Egli infatti pubblicò diversi scritti, da lui redatti in forma del tutto adatta all’indole del suo popolo, quali sul primato di San Pietro, sul battesimo di San Vladimiro, un’apologia dell’unità cattolica, un catechismo fatto sul metodo del beato Pietro Canisio, ed altri simili. Siccome poi insisteva molto nell’esortare alla diligenza del proprio ufficio l’uno e l’altro clero, ridestatosi nei sacerdoti lo zelo del loro ministero, riuscì ad ottenere che il popolo, debitamente ammaestrato nella dottrina cristiana e nutrito da un’appropriata predicazione della parola di Dio, si avvezzasse a frequentare i Sacramenti e le sacre funzioni e si desse ad un tenore di vita sempre più corretta. E così, ampiamente diffuso lo spirito di Dio, San Giosafat consolidò stupendamente l’opera dell’unità, a cui si era dedicato. Ma soprattutto allora egli la consolidò, e consacrò anzi, quando per essa incontrò il martirio, e l’incontrò col più vivo entusiasmo e con la magnanimità più mirabile. Al martirio sempre pensava, spesso ne parlava. Il martirio si augurò in una celebre predica. Il martirio ardentemente domandava a Dio quale singolare beneficio, tanto che, pochi giorni prima della morte, quando fu avvertito delle insidie che gli si macchinavano: « Signore — disse — concedimi di poter versare il sangue per l’unità e per l’obbedienza della Sede Apostolica ». Il suo desiderio fu appagato la domenica 12 novembre 1623 quando, circondato dai nemici che andavano in cerca dell’Apostolo dell’unità, egli si fece loro incontro sorridente e benigno, e pregatili, ad esempio del suo Maestro e Signore, che non toccassero i suoi familiari, si diede da sé nelle loro mani; e mentre veniva crudelissimamente ferito, non cessò sino all’estremo di invocare il perdono di Dio sopra i suoi uccisori.

    Grandi furono i vantaggi di un così famoso martirio, soprattutto tra i Vescovi Ruteni che ne trassero vivo esempio di fermezza e coraggio, come essi stessi attestarono, due mesi dopo, in una lettera spedita alla Sacra Congregazione di Propaganda: «Ci offriamo prontissimi a dare il sangue e la vita per la fede cattolica, come la diede già uno di noi ». Inoltre moltissimi, e fra questi gli uccisori stessi del Martire, fecero ritorno, subito dopo, al seno dell’unica Chiesa.

    Il sangue dunque di San Giosafat, come tre secoli fa, anche e specialmente ora riesce pegno di pace e suggello di unità: specialmente ora, diciamo, dopo che quelle sfortunate province slave, sconvolte da torbidi e da sommosse, sono state insanguinate da guerre furiose e spietate. E a Noi sembra di udire la voce di quel sangue, « che parla meglio di quello di Abele » [12], e di vedere quel martire rivolgersi ai fratelli Slavi ripetendo, come un tempo, con le parole di Gesù: « Le pecorelle giacciono senza pastore. Ho compassione di questa moltitudine ». E veramente, quanto miseranda è la loro condizione! Quanto terribili le loro angustie! Quanti esuli dalla patria! Quanta strage di corpi e quanta rovina di anime! Osservando le presenti calamità degli Slavi, certamente assai più gravi di quelle ch’ebbe a lamentare il nostro Santo, a stento Ci riesce, per il nostro affetto paterno, di frenare le lacrime.

    Ad alleviare sì grande cumulo di miserie, Noi, per parte Nostra, Ci affrettammo, è vero, a recare soccorsi ai bisognosi, senza alcuna mira umana, senza far altra distinzione che non fosse quella della più stringente necessità. Ma la Nostra possibilità non poté arrivare a tutto. Anzi, non potemmo impedire che si moltiplicassero le offese contro la verità e la virtù, col disprezzo di ogni sentimento religioso, con il carcere e con la persecuzione, in più luoghi anche sanguinosa, dei cristiani e degli stessi sacerdoti e vescovi.

    Nella considerazione di tanti mali, Ci conforta non poco la solenne commemorazione dell’insigne Pastore degli Slavi, perché Ci porge propizia l’occasione di manifestare i sentimenti paterni che Ci animano verso tutti gli Slavi Orientali e di mettere loro dinanzi, come la sintesi di tutti i beni, il ritorno all’unità ecumenica della santa Chiesa.

    Mentre invitiamo i dissidenti a tale unità, desideriamo ardentemente che tutti i fedeli, seguendo le orme e gli insegnamenti di San Giosafat, si studino, ciascuno secondo le proprie forze, a cooperare con Noi. Ed essi intendano bene che tale unità, meglio che con le discussioni e altri stimoli, è da promuovere con gli esempi e le opere di una vita santa, specialmente con la carità verso i fratelli Slavi e verso gli altri Orientali, secondo ciò che dice l’Apostolo, « avendo la stessa carità, una sola anima, uno stesso sentimento, senza nulla fare per ripicca o per vanagloria; ma per umiltà l’uno creda l’altro superiore a sé, badando ognuno non a ciò che torna bene per lui ma a quello che torna bene per gli altri » [13].

    A questo fine, come è necessario che gli Orientali dissidenti, deponendo antichi pregiudizi, procurino di conoscere la vera vita della Chiesa, senza voler imputare alla Chiesa Romana le colpe dei privati, colpe che essa per la prima condanna e cerca di correggere; così i Latini cerchino di conoscere meglio e più profondamente la storia e i costumi degli Orientali; perché appunto da quest’intima conoscenza derivò sì grande efficacia all’apostolato di San Giosafat.

    Questo fu il motivo per cui cercammo di promuovere con rinnovato ardore l’Istituto Pontificio Orientale, fondato dal compianto Nostro Predecessore Benedetto XV, persuasi che dalla retta conoscenza dei fatti sorgerà il giusto apprezzamento degli uomini e parimenti quella schietta benevolenza, la quale, congiunta alla carità di Cristo, con l’aiuto di Dio, gioverà moltissimo all’unità religiosa.

    Animati da tale carità, tutti sperimenteranno quanto l’Apostolo divinamente ispirato insegna: «Non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, perché egli è il Signore di tutti, ricco verso tutti coloro che l’invocano » [14]. E, ciò che più importa, ubbidendo scrupolosamente al medesimo Apostolo, non solo deporranno i pregiudizi, ma anche le vane diffidenze, i rancori e gli odii: in una parola, tutte quelle animosità così contrarie alla carità cristiana, che dividono tra di loro le nazioni. Avverte infatti lo stesso San Paolo: «Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore. Qui non c’è più Gentile e Giudeo… Barbaro e Scita, servo e libero, ma Cristo è tutto in tutti » [15].

    In tal modo, con la riconciliazione degli individui e dei popoli, si otterrà anche l’unione della Chiesa col ritorno al suo seno di tutti quelli che, per qualsivoglia motivo, se ne separarono. E il compimento di tale unione avverrà non già per l’impegno umano, ma per bontà, di quel solo Dio che « non fa preferenza di persone » [16], e che « non fece differenza alcuna tra noi e loro » [17]; e così, uniti tra essi, godranno degli stessi diritti tutti i popoli, di qualunque schiatta o lingua, e quali si siano i loro riti sacri; riti che la Chiesa Romana sempre venerò e ritenne religiosamente, decretandone anzi la conservazione ed ornandosene come di vesti preziose, quasi « regina in manto d’oro con varietà d’ornamenti » [18].

    Ma siccome questo accordo di tutti i popoli nell’unità ecumenica è anzitutto opera di Dio, e perciò da doversi procurare con l’aiuto e l’assistenza divina, ricorriamo con ogni diligenza alla preghiera, seguendo in ciò gli insegnamenti e gli esempi di San Giosafat, il quale nel suo apostolato per l’unità confidava soprattutto nel valore dell’orazione.

    E sotto la guida e col patrocinio di lui, veneriamo con culto speciale il Sacramento dell’Eucaristia, pegno e causa principale dell’unità, quel mistero della fede per la quale quegli Slavi Orientali, che nella separazione dalla Chiesa Romana conservarono gelosamente l’amore e lo zelo, riuscirono ad evitare l’empietà delle peggiori eresie. Da qui è lecito sperare il frutto che la santa madre Chiesa domanda con pia fiducia nella celebrazione di questi augusti misteri, cioè che « Iddio conceda propizio i doni dell’unità e della pace, che misticamente vengono simboleggiati nelle oblazioni fatte all’Altare » [19]. E questa grazia unitamente implorano nel santo Sacrificio della Messa i Latini e gli Orientali: questi « pregando il Signore per l’unità di tutti », quelli col supplicare lo stesso Cristo Signor nostro che « riguardando alla fede della sua Chiesa, si degni di pacificarla e unificarla secondo la sua volontà ».

    Un altro vincolo di reintegrazione dell’unità con gli Slavi Orientali sta nella loro devozione singolare verso la gran Vergine Madre di Dio, in forza della quale molti si allontanano dall’eresia e si avvicinano maggiormente a noi. E in questa devozione, nella quale si segnalava assai, il nostro Santo altrettanto confidava moltissimo per favorire l’opera dell’unità: onde soleva con particolare venerazione onorare, all’usanza degli Orientali, una piccola icona della Vergine Madre di Dio, la quale dai Monaci Basiliani e dai fedeli di qualsiasi rito, anche in Roma nella chiesa dei santi Sergio e Bacco, è molto venerata con il titolo di « Regina dei pascoli ». Lei, dunque, invochiamo, quale benignissima Madre, con questo titolo specialmente, perché guidi i fratelli dissidenti ai pascoli della salute, dove Pietro, sempre vivente nei suoi successori, come Vicario dell’eterno Pastore, pasce e governa tutti gli agnelli e tutte le pecorelle del gregge di Cristo.

    Infine, ai Santi tutti del Cielo ricorriamo come a nostri intercessori per una grazia così grande, a quelli soprattutto che presso gli Orientali maggiormente fiorirono un tempo per fama di santità e di sapienza, e fioriscono tuttora per venerazione e culto dei popoli. Ma primo fra tutti invochiamo a patrono San Giosafat, perché, come fu in vita fortissimo propugnatore dell’unità, così ora presso Dio la promuova e vigorosamente la sostenga. E così Noi lo preghiamo le supplichevoli parole del Nostro antecessore di immortale memoria, Pio IX: « Dio voglia che quel tuo sangue, o San Giosafat, che tu versasti per la Chiesa di Cristo, sia pegno di quell’unione con questa Santa Sede Apostolica, a cui tu sempre anelasti, e che giorno e notte implorasti con fervida preghiera da Dio, somma Bontà e Potenza. E perché tanto si avveri alfine, vivamente desideriamo di averti intercessore assiduo presso Dio stesso e la Corte del Cielo ».

    Auspice dei divini favori e a testimonianza della Nostra benevolenza, impartiamo con ogni affetto Venerabili Fratelli, a voi, al clero e al popolo vostro l’Apostolica Benedizione.

    Dato a Roma, presso San Pietro il 12 novembre 1923, anno secondo del Nostro Pontificato.

    PIUS PP. XI
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    [1] Matth., XXVIII, 18, 19.

    [2] Rom., V, 5.

    [3] Ioann., XVII, 11, 21, 22.

    [4] Ibid.

    [5] Hebr., V, 7.

    [6]Eph., IV, 4, 5, 15, 16.

    [7] Matth., XVI, 18.

    [8] Eph., IV, 3.

    [9] Ep., lib. 2, ep. 74, apud Migne, Patr. lat., t. 148, col. 425.

    [10] In officio S. Iosaphat.

    [11] Ioann., X, 16.

    [12] Hebr., XII, 24.

    [13] Phil., II, 2-4.

    [14] Rom., X, 12.

    [15] Coloss., III, 9-11.

    [16] Act., X, 34.

    [17] Ibid., XIV, 9.

    [18] Psalm. XLIV, 10.

    [19] Secreta Missae in solemnitate Corporis Christi.

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    Predefinito

    PIO XII

    LETTERA ENCICLICA
    ORIENTALES OMNES ECCLESIAS
    IN OCCASIONE DEL 350° ANNIVERSARIO
    DELL'UNIONE DELLA CHIESA RUTENA
    ALLA SEDE APOSTOLICA DI ROMA


    23 dicembre 1945 (1)

    Tutte le chiese orientali - come insegna la storia - sono state sempre amate di tenerissimo affetto dai romani pontefici, e perciò essi, mal tollerando il loro allontanamento dall'unico ovile e «spinti non già da umani interessi, ma soltanto da divina carità e dal desiderio della comune salvezza»,(2) le invitarono con ripetute istanze a far ritorno il più presto possibile a quell'unità dalla quale miseramente si allontanarono. Poiché i medesimi sommi pontefici ben sanno per esperienza l'abbondanza dei frutti che deriveranno da questa unione felicemente reintegrata a tutta la cristiana società, e in particolare modo agli stessi orientali. Infatti dalla piena e perfetta unità di tutti i cristiani non può non derivare un grande incremento al corpo mistico di Gesù Cristo e alle sue singole membra.

    A questo proposito è da notare che gli orientali non hanno per nulla a temere d'essere costretti, per il ritorno all'unità di fede e di governo, ad abbandonare i loro legittimi riti e usi: la qual cosa i Nostri predecessori più di una volta apertamente dichiararono. «Non c'è ragione di dubitare che perciò o Noi o i Nostri successori detrarremo alcunché dal vostro diritto, dai privilegi patriarcali e dai rituali usi di ciascuna chiesa».(3)

    E sebbene non sia ancor giunto quel fausto giorno nel quale Ci sarà dato di abbracciare con paterno affetto tutti i popoli d'oriente, tornati all'unico ovile, tuttavia vediamo con gioia che non pochi figli di queste regioni, i quali, avendo riconosciuto la cattedra del beato Pietro come la rocca della cattolica unità, perseverano con somma tenacia nel difendere e stabilire questa stessa unità.

    A tal riguardo Ci compiacciamo di ricordare oggi i singolari meriti della chiesa rutena non solo perché si distingue per il numero dei seguaci e per lo zelo di conservare la fede, ma anche perché ora si compiono 350 anni da quando essa ritornò felicemente alla comunione della sede apostolica. Il qual fausto evento, se conviene sia celebrato con grato animo particolarmente da coloro cui appartiene, pure stimiamo opportuno richiamarlo alla memoria di tutti i cattolici, sia perché rendano a Dio perenni grazie di questo singolare beneficio, sia perché lo supplichino con Noi di sollevare benignamente e mitigare le presenti angustie e ansietà di questo dilettissimo popolo, di difenderne la santa religione, di sostenerne la costanza e di conservarne intatta la fede.

    I

    Crediamo quindi, venerabili fratelli, che non sia inutile ricordare succintamente tali eventi con questa Nostra enciclica, secondo le testimonianze della storia. E al principio bisogna rilevare come prima ancora che si fosse con lieti auspici stretta a Roma l'unione dei ruteni con la sede apostolica negli anni 1595 e 1596, e fosse stata ratificata nella città di Brest, più volte questi popoli guardarono alla chiesa romana come all'unica madre di tutta la società cristiana, prestandole la debita obbedienza e venerazione conforme alla coscienza del proprio dovere. Così, per esempio, san Vladimiro - quell'esimio principe che da quasi innumerevoli popoli della Russia è venerato come autore e fautore della loro conversione alla fede cristiana - quantunque avesse preso dalla chiesa orientale i riti liturgici e le sacre cerimonie, non solamente, memore del proprio dovere, perseverò nella unità della chiesa cattolica, ma ebbe anche diligente cura che fra la sede apostolica e la sua nazione passassero relazioni amichevoli. Non pochi dei suoi nobili discendenti, anche dopo che la chiesa di Costantinopoli si era funestamente separata, ricevettero coi debiti onori i legati dei romani pontefici, restando uniti con vincoli di fraterno amore con le altre comunità cattoliche.

    Pertanto non agì in modo difforme dalle antichissime tradizioni storiche della chiesa rutena Isidoro, metropolita di Kyew e della Russia, quando nell'anno 1439, nel concilio ecumenico di Firenze sottoscrisse col proprio nome il decreto col quale la chiesa Greca fu solennemente riunita alla Latina. Nondimeno, di ritorno dal concilio, quantunque fosse stato ricevuto con grande gaudio nella sede della sua dignità a Kyew, pure di lì a poco, incarcerato a Mosca, fu costretto a fuggire dal suo territorio.

    Non si estinse però del tutto nel corso degli anni il ricordo di questa felice unione dei ruteni con la sede apostolica, benché, attese le tristi condizioni dei tempi, occorressero varie cause per farlo del tutto cancellare. Così sappiamo che nell'anno 1458 Gregorio Mammas, patriarca di Costantinopoli, consacrò in quest'alma città un certo Gregorio, metropolita dei ruteni, allora sudditi del granduca di Lituania; e sappiamo anche che l'uno o l'altro dei successori di detto metropolita si sforzò di ristabilire il vincolo d'unità con la chiesa romana, quantunque le avverse congiunture non permettessero che si facesse la solenne promulgazione di questa unità.

    Sul finire del secolo XVI, apparve ogni dì più manifesto che non si poteva sperare la desiderata riforma della chiesa rutena, oppressa da gravi mali, se non ripristinando l'unione con la sede apostolica. Persino gli stessi storici dissidenti narrano e confessano apertamente lo stato infelicissimo di questa chiesa. E la nobiltà rutena, riunita a Varsavia nell'anno 1585, nell'esporre al metropolita le sue lagnanze con parole acerbe e violente, affermò che la chiesa era vessata da mali così grandi come non ce n'erano mai stati per il passato né sarebbero stati possibili in avvenire.

    Ed essa non dubitava di chiamare in colpa lo stesso metropolita, i vescovi e i superiori dei monasteri; al qual proposito, essendo insorti contro la gerarchia alcuni laici, sembrava che i vincoli della disciplina ecclesiastica si rilassassero non poco.

    Non fa quindi meraviglia se finalmente gli stessi vescovi, dopo aver usato inutilmente vari rimedi, ritenessero che l'unica speranza della chiesa rutena stesse nel procurare il suo ritorno all'unità cattolica. In quel tempo il principe Costantino di Ostroh - di cui nessuno era più potente fra i ruteni - favoriva l'attuazione di questo ritorno, a condizione però che tutta la chiesa orientale si congiungesse con l'occidentale; ma in seguito, vedendo che un tale disegno non si sarebbe compiuto com'egli desiderava, si oppose strenuamente a questa unione. Nondimeno il 2 dicembre 1594, il metropolita e sei vescovi, dopo aver deliberato, fecero una pubblica dichiarazione con la quale si dissero pronti a promuovere la desiderata concordia e unità, scrivendo: «Venimmo a questa decisione considerando con nostro immenso dolore quanti impedimenti abbiano gli uomini per la salvezza senza questa unione delle chiese di Dio, nella quale i Nostri predecessori, cominciando da Cristo nostro salvatore e dai suoi santi apostoli, perseverarono, professando che uno solo è il sommo pastore e primo vescovo nella chiesa di Dio qui in terra - come ne abbiamo aperta testimonianza nei concili e nei canoni - e questi non altri è che il santissimo papa romano, e gli obbedivano in tutto, e finché ciò durò unanimemente in vigore, vi fu sempre nella chiesa di Dio ordine e incremento del culto divino».(4)

    Prima però che potessero felicemente attuare così lodevole consiglio, dovettero frapporsi lunghi e difficilissimi negoziati. Finalmente, dopo una nuova dichiarazione dello stesso genere, fatta in nome di tutti i vescovi ruteni il 22 maggio 1595, sul finire di settembre la cosa era progredita a tal punto, che Cirillo Terletskyi, vescovo di Luck ed esarca del patriarcato di Costantinopoli, e similmente Ipazio Potij, vescovo di Vladimir, come procuratori di tutti gli altri vescovi, poterono intraprendere il loro viaggio a Roma, portando con sé un documento, in cui si proponevano le condizioni, con le quali tutti i vescovi ruteni erano pronti ad abbracciare l'unità della chiesa. Ricevuti con grande benevolenza i legati, il Nostro predecessore di felice memoria Clemente VIII affidò il documento da essi recato a una commissione di cardinali perché fosse diligentemente esaminato e approvato. Le trattative subito iniziate ebbero finalmente il felice e desiderato successo: il 23 dicembre 1595 i medesimi legati ammessi alla presenza del sommo pontefice, dopo avergli presentato in solenne adunanza la dichiarazione di tutti i vescovi, fecero in nome loro e in nome proprio una solenne professione della fede cattolica, promettendo la debita obbedienza e il debito ossequio.

    Lo stesso giorno il Nostro predecessore Clemente VIII, con la costituzione apostolica Magnus Dominus et laudabilis nimis,(5) comunicò, congratulandosene, a tutto il mondo la notizia di questo lieto evento. Con quanto gaudio inoltre e con quanta benevolenza la chiesa romana abbracciasse i ruteni ritornati all'unità dell'ovile, appare altresì dalla lettera apostolica Benedictus sit Pater del 7 febbraio 1596, con la quale il sommo pontefice informa il metropolita e gli altri vescovi ruteni dell'unione felicemente compiuta di tutta la loro chiesa con l'apostolica sede. Con tale lettera il romano pontefice, dopo aver brevemente narrato quanto in Roma si era fatto e trattato intorno a questa causa, e dopo averne esaltato con grato animo il successo ottenuto finalmente per divina misericordia, dichiarò che si potevano conservare inviolati gli usi e i legittimi riti della chiesa rutena. «Poiché i riti e le vostre cerimonie, che non impediscono l'integrità della fede cattolica e la mutua Nostra unione per lo stesso motivo e nello stesso modo che fu permesso dal concilio Fiorentino, anche Noi permettiamo che siano da voi conservati».(6) Assicura inoltre di aver domandato all'augusto re di Polonia che voglia prendere sotto il suo patrocinio non solo i vescovi con tutto ciò che ad essi appartiene, ma di onorarli anche ampiamente e di ammetterli nel senato del regno secondo i loro desideri. Infine esorta fraternamente quei vescovi che si radunino quanto prima da tutto il paese in un concilio generale per ratificare e confermare l'ottenuta riunione dei ruteni con la chiesa cattolica.

    A questo concilio, celebratosi a Brest, parteciparono non soltanto tutti i vescovi ruteni e molti altri ecclesiastici insieme coi regi legati, ma anche i vescovi latini delle diocesi di Leopoli, Luck e Cholm, che rappresentavano la persona del romano pontefice; e sebbene i vescovi di Leopoli e Peremislia venissero miseramente meno al consenso dato, tuttavia l'8 ottobre 1596 l'unione della chiesa rutena con la cattolica fu felicemente confermata e proclamata. Dalla quale conciliazione e consociazione, che rispondeva sì grandemente alle necesssità del popolo ruteno, erano in verità da aspettarsi, per unanime consenso, abbondanti frutti.

    Ma venne il «nemico» e «seminò zizzania in mezzo al frumento» (Mt 13,25). Sia per cupidigia di alcuni uomini potenti, sia per inimicizie politiche, sia infine per negligenza usata nell'istruire e preparare precedentemente il clero e il popolo intorno a siffatta materia, seguirono veementissime contese e continue sventure per cui talvolta sembrava doversi temere che quest'opera dell'unione iniziatasi con ottimi auspici andasse miseramente sommersa.

    Che ciò non sia accaduto fin dall'inizio a causa delle persecuzioni e insidie tese non solo dai fratelli dissidenti, ma anche da alcuni cattolici, fu opera soprattutto dei due metropoliti Ipazio Potiej e Giuseppe Velamin Rutskyj, i quali con instancabile diligenza lavorarono per difendere e far progredire questa causa; e in modo speciale si adoperarono perché i sacerdoti e i monaci venissero formati secondo la sacra disciplina e i buoni costumi e che tutti i fedeli fossero educati secondo i retti dettami della vera fede.

    Non molti anni dopo, questa iniziata opera di conciliazione fu consacrata dal sangue di un martire; il 12 novembre dell'anno 1623, Giosafat Kuncevyc, arcivescovo di Polotsk e di Vitebsk, chiarissimo per santità di vita e ardore apostolico come pure invitto assertore dell'unità cattolica, cercato a morte dagli scismatici con acerbissima persecuzione, fu colpito da frecce e con una grossa scure fu ucciso. Ma il sacro sangue di questo martire divenne in un certo senso il seme di cristiani, poiché gli stessi parricidi, tutti ad eccezione di uno solo, pentiti del delitto commesso, e abiurato lo scisma, prima di essere colpiti dalla pena capitale, detestarono il proprio misfatto. Parimenti Melezio Smotrytskyj, acerrimo competitore di Giosafat nell'ambire la sede di Polotsk, l'anno 1627 ritornò alla fede cattolica e, quantunque avesse per un certo tempo tentennato fra le due parti, presto con animo deciso difese fino alla morte il pattuito ritorno dei ruteni al grembo della chiesa cattolica; cosa che sembra doversi attribuire anch'essa al patrocinio di questo santissimo martire.

    Tuttavia con l'andar degli anni aumentavano le difficoltà di ogni genere, che ostacolavano questa conciliazione felicemente cominciata. Tra le più gravi era il fatto che i re di Polonia, i quali da principio pareva volessero promuovere la cosa con la loro protezione, in seguito, costretti sia dalla forza dei nemici esterni, sia dai dissidi delle fazioni interne, avevano sempre più ceduto agli avversari dell'unità cattolica, che certo non mancavano. Così, in breve tempo, questa santissima causa giunse a tal punto, come confessarono gli stessi vescovi ruteni, da non aver altro sostegno che l'aiuto dei romani pontefici, i quali mediante la spedizione di lettere piene di affetto e la concessione degli aiuti a loro possibili, specialmente per mezzo del nunzio apostolico in Polonia, difesero la chiesa rutena con cuore forte e paterno.

    Quanto più tristi erano i tempi, tanto più risplendente lo zelo dei sacri prelati ruteni, i quali si sforzarono non solo di istruire la popolazione rude nella dottrina cristiana, ma di promuovere i sacerdoti non abbastanza colti a un grado più alto di scienza sacra e infine di riempire di rinnovato ardore per la regola e di desiderio di perfezione i monaci, là dove la loro condotta fosse per fragilità decaduta. Né si perdettero d'animo quando nell'anno 1632 i beni ecclesiastici furono in gran parte assegnati alla gerarchia dei fratelli dissidenti poco prima costituita, e nei patti stipulati tra i cosacchi e il re di Polonia fu decretata la dissoluzione dell'instaurata unione fra ruteni e sede apostolica; anzi continuarono a difendere con costanza e tenacia i greggi loro affidati.

    Dio però, il quale non permette che il suo popolo venga oltre misura tormentato da avversità, dopo che fu stabilita finalmente la pace di Andrussiw nel 1667, fece rifulgere nuovamente, dopo tante amarezze e sciagure, tempi più favorevoli per la chiesa rutena, dalla cui tranquillità la santa religione prese di giorno in giorno nuovi incrementi. Infatti i costumi e la fede cristiana fiorirono così eccellentemente che anche in quelle due eparchie, che nell'anno 1596 erano rimaste miseramente staccate dall'unità, si trattò del loro ritorno ogni giorno più copioso all'ovile cattolico, col consenso di tutti. E così felicemente avvenne che nell'anno 1691 l'eparchia di Peremislia e nel 1700 quella di Leopoli venissero ricongiunte con la sede apostolica, e in tal modo quasi tutto il popolo ruteno, che dimorava in quei tempi entro i confini della Polonia, godesse finalmente dell'unità cattolica. Fiorendo pertanto ogni giorno più le cose, con grande vantaggio degli interessi cristiani, nell'anno 1720, il metropolita e gli altri vescovi della chiesa rutena si radunarono in concilio a Zamość per provvedere in modo più idoneo, di comune accordo per quanto era in loro potere, alle crescenti necessità dei fedeli di Cristo. Dai decreti di tale concilio, confermati dal Nostro predecessore di v.m. Benedetto XIII con la costituzione apostolica Apostolatus officium data il 19 luglio 1724, non mediocri utilità provennero alla comunità dei ruteni.

    Tuttavia per imperscrutabile consiglio di Dio accadde che verso il tramonto del secolo XVIII questa medesima comunità in quelle regioni, che, dopo lo smembramento della Polonia, erano state congiunte all'impero russo, venisse afflitta da non poche persecuzioni e vessazioni, che furono talora molto gravi e acerbe. Quando poi morì l'imperatore Alessandro I si venne di proposito con temerario ardimento nella deliberazione di distruggere l'unità dei ruteni con la chiesa romana. Già prima le eparchie di questa nazione erano state in gran parte completamente messe fuori da ogni comunicazione con la sede apostolica. Ma ora furono eletti vescovi che, imbevuti e sollecitati dalla volontà di scisma, potessero rivelarsi ciechi fautori dell'autorità civile; nel seminario di Vilna, eretto dall'imperatore Alessandro I, s'insegnavano ai chierici d'ambo i riti dottrine avverse ai romani pontefici; l'Ordine Basiliano, i cui membri erano sempre stati di massimo aiuto alla chiesa cattolica di rito orientale, fu privato del proprio governo e della propria amministrazione, e i suoi monaci furono completamente sottoposti ai concistori eparchiali; infine i sacerdoti di rito latino ebbero la proibizione sotto gravi pene di amministrare i sacramenti e gli altri aiuti religiosi ai ruteni. E infine purtroppo nell'anno 1839 fu dichiarata solennemente l'unione della chiesa rutena con la chiesa russa dissidente.

    Chi potrà narrare, venerabili fratelli, i dolori, i danni, le privazioni con cui venne allora colpita la nobilissima gente rutena, accusata di delitto e di colpa solo per aver reclamato contro l'ingiuria fattale nel trascinarla a forza e con frode allo scisma, e aver cercato quanto poteva di conservare la sua fede?

    A buon diritto dunque il Nostro predecessore di p.m. Gregorio XVI denunziò a tutto il mondo nella sua allocuzione del 22 novembre 1839, lamentandosene e deplorandola, l'indegnità di questo modo di procedere; ma neppure le sue solenni richieste e proteste furono ascoltate: e così la chiesa cattolica dovette piangere questi suoi figli strappati con iniqua violenza dal suo grembo materno.

    Anzi, non molti anni dopo anche l'eparchia di Cholm, appartenente al regno di Polonia unito all'impero russo, patì la stessa miseranda sorte; e quei fedeli, i quali, per dovere di coscienza, non vollero staccarsi dalla vera fede, e con invitta fortezza resistettero all'unione con la chiesa dissidente, imposta nell'anno 1875, furono indegnamente condannati a pene pecuniarie, a percosse, all'esilio.

    Non così avveniva in questo stesso tempo alle eparchie di Leopoli e di Peremislia che, dopo lo smembramento della Polonia, erano state annesse all'impero d'Austria. In esse infatti la causa dei ruteni veniva sistemata con ordine e tranquillità. Nell'anno 1807 vi fu restituito il titolo metropolitano di Halyc, congiunto in perpetuo con l'archidiocesi di Leopoli. Anzi in questa provincia le cose fiorirono al punto, che due dei suoi metropoliti, Michele Levyckyj (a.1816-1858) e Silvestro Sembratovyc (a.1882-1898), i quali avevano governato con egregia prudenza e intenso zelo la rispettiva parte del gregge loro affidato, venivano in seguito elevati, per le insigni doti del loro animo e i loro singolari meriti, alla porpora romana e accolti nel supremo senato della chiesa. Crescendo di giorno in giorno il numero dei cattolici, il Nostro predecessore di f.m. Leone XIII nell'anno 1885 costituì legittimamente una nuova eparchia, quella di Stanislaviv, e sei anni dopo il felice stato della chiesa Galiziana apparve confermato in modo speciale, quando tutti i vescovi, con il legato del sommo pontefice e molto altro clero, si adunarono per celebrare a Leopoli il concilio provinciale per dare opportune leggi nella liturgia e nella sacra disciplina.

    Quando poi, verso la fine del secolo XIX e all'inizio del XX, molti ruteni spinti dalle difficoltà economiche emigrarono dalla Galizia negli Stati Uniti d'America, nel Canada o nelle repubbliche dell'America meridionale, il Nostro predecessore di f.m. Pio X, temendo con sollecito animo che questi suoi figli dilettissimi, per inesperienza della lingua del luogo e dei riti latini, venissero irretiti negli inganni degli scismatici e degli eretici, o cadendo nei dubbi e negli errori perdessero miseramente ogni religione, costituì nel 1907 un vescovo munito di speciali facoltà per loro. E in seguito, crescendo il numero e le necessità dei suddetti cattolici, vennero nominati speciali vescovi ordinari, uno per i ruteni originari di Galizia e residenti negli Stati Uniti d'America, e un altro nella regione canadese, oltre il vescovo ordinario destinato ai fedeli di questo rito che fossero emigrati dalla Subcarpazia rutena, o dall'Ungheria, o dalla Iugoslavia. Anche in seguito, sia la Congregazione di «Propaganda fide» sia la Sacra Congregazione per la chiesa orientale continuarono con opportune norme e decreti a ordinare le cose ecclesiastiche in quelle regioni sopra ricordate come in quelle dell'America meridionale.

    Non farà dunque meraviglia, venerabili fratelli, se la comunità dei cattolici ruteni, non una volta sola, presentandosene l'occasione, grata di così grandi benefici ricevuti, abbia voluto manifestare apertamente il suo animo riconoscente e il suo profondo attaccamento verso i romani pontefici. Ciò avvenne in modo particolare nell'anno 1895 al compiersi del terzo secolo dacché si era raggiunta a Roma e si era confermata a Brest la riunione dei loro antenati con la sede apostolica. Allora oltre alle celebrazioni con le quali venne opportunamente commemorato il fausto avvenimento nelle singole località della provincia di Galizia, fu inviata a Roma una nobilissima legazione costituita dal metropolita e dai vescovi per testimoniare al supremo dei sacri pastori e successore di san Pietro l'amore della chiesa rutena, il suo ossequio, venerazione e obbedienza. Il Nostro predecessore di p.m. Leone XIII, dopo aver ammesso alla sua presenza con i debiti onori l'insigne legazione, le rivolse un'allocuzione, in cui con paterno gaudio e paterna benevolenza lodò al massimo l'unione dei ruteni con la sede apostolica, come quella che era fonte saluberrima di vera luce, di pace durevole e di frutti soprannaturali per tutti coloro che l'accoglievano sinceramente nell'animo.

    I benefici che i romani pontefici comunicarono a questo carissimo popolo nei nostri tempi non furono minori. Specialmente quando la prima guerra europea devastò quelle regioni, come pure negli anni seguenti, essi non trascurarono cosa alcuna che potesse essere di aiuto e di sollievo alla comunità rutena. E superate col divino aiuto le gravi difficoltà da cui veniva oppressa questa comunità di cattolici, la si poté veder rispondere con animo alacre e volenteroso all'infaticabile lavoro dei suoi vescovi e all'opera coadiutrice del rimanente clero. Ma purtroppo sopraggiunse la seconda guerra, e, come tutti sanno, più grave e molto più perniciosa alla gerarchia rutena e al suo fedele gregge. Ma prima di scrivere brevemente, venerabili fratelli, delle presenti asprezze e angustie, che patisce questa chiesa con sommo pericolo della sua stessa vita, Ci piace aggiungere alcune cose, dalle quali traspaia più completamente e più chiaramente quanto grandi, quanto eccelsi benefici abbia procurato al popolo ruteno e alla sua chiesa quella riunione iniziatasi trecentocinquant'anni fa.

    II

    E in verità, dopo che abbiamo in maniera sommaria brevemente accennato alla storia di questa desideratissima unione e dopo aver vedute le vicende della medesima, ora liete, ora tristissime, Ci si presenta la questione: che cosa ha giovato questa unione al popolo ruteno e alla sua chiesa? Quali vantaggi sono venuti ai medesimi da parte di questa sede apostolica e dei romani pontefici? Alla quale questione mentre Noi, come è giusto, rispondiamo, crediamo di fare cosa quanto mai opportuna e utile, specialmente perché non mancano fierissimi oppositori e negatori di questa unione di Brest.

    In primo luogo si deve osservare che i Nostri predecessori si sono sempre mostrati desiderosi di custodire intatti i riti legittimi dei ruteni. Infatti, quando i loro prelati per il tramite dei vescovi di Vladimir e di Luck, inviati per questo scopo a Roma, chiesero al romano pontefice «che sua santità si degnasse di conservare integri, inviolati e con le forme da loro usate al momento dell'unione, l'amministrazione dei sacramenti, i riti e le cerimonie della chiesa orientale, senza che egli o uno dei suoi successori facessero mai alcuna innovazione in tali cose»,(7) Clemente VIII, benignamente annuendo alle loro preghiere, stabilì che assolutamenteniente si dovesse in tali cose mutare. E neppure l'uso del nuovo calendario gregoriano - il quale dapprima sembrava doversi usare anche dai ruteni pur ritenendo il calendario liturgico del rito orientale - fu in seguito imposto ai medesimi: infatti presso di loro può usarsi, fino a questi nostri tempi, il calendario giuliano.

    Inoltre il medesimo Nostro predecessore, con lettera del 23 febbraio 1596, concesse che l'elezione di coloro che erano stati debitamente nominati vescovi suffraganei dei ruteni venisse confermata dal metropolita, com'era stato proposto nella conclusa riconciliazione e secondo l'antica disciplina della chiesa orientale. Altri Nostri predecessori consentirono che i metropoliti potessero erigere luoghi di istruzione elementare e altre scuole in qualsivoglia parte della Russia, affidandoli liberamente a quei direttori e maestri che loro piacessero; e decretarono che i ruteni per ciò che spetta alla concessione dei favori spirituali non fossero considerati da meno degli altri cattolici e oltre a ciò vollero che né più né meno degli altri fedeli essi fossero allora e in futuro partecipi delle sacre indulgenze purché soddisfacessero anche essi alle necessarie prescritte condizioni. Paolo V poi stabilì che tutti coloro che frequentavano le scuole e i collegi eretti dai metropoliti fossero partecipi di quei particolari favori che i romani pontefici avevano concessi ai membri delle congregazioni mariane erette nelle chiese dalla Compagnia di Gesù. A coloro poi che facessero gli esercizi spirituali presso i monaci di san Basilio, Urbano VIII concesse le medesime indulgenze che erano state concesse ai chierici regolari della Compagnia di Gesù.

    Da questi fatti risulta chiaramente che sempre i Nostri predecessori usarono con i ruteni di quella medesima paterna carità che avevano per gli altri cattolici di rito latino. Non solo, ma ebbero grandemente a cuore di difendere i diritti e i privilegi della loro gerarchia. Infatti quando non pochi tra i latini ebbero ad asserire che il rito dei ruteni era di grado e di dignità inferiore e quando tra gli stessi vescovi latini alcuni andavano dicendo che i prelati ruteni non fruivano di tutti i diritti e di tutti gli uffici episcopali, ma che erano loro soggetti, questa sede apostolica rigettando tali ingiusti modi di pensare emanò il decreto del 28 settembre 1643 in cui viene stabilito quanto segue: «Riferendo l'eminentissimo cardinale Pamphili diversi decreti della congregazione particolare dei ruteni uniti, il santo padre approvò il decreto della medesima congregazione particolare del 14 agosto precedente con cui si stabilisce che i vescovi ruteni uniti sono veri vescovi e che debbono essere chiamati e tenuti come tali. Approvò pure quel decreto della medesima congregazione per cui i vescovi ruteni possono nei loro vescovadi erigere scuole per l'istruzione della loro gioventù nelle lettere e nelle scienze e per cui gli ecclesiastici ruteni godono dei privilegi del canone, del foro, dell'immunità e libertà di cui godono i sacerdoti nella chiesa latina».(8)

    L'instancabile e sollecita cura poi dei pontefici per conservare e custodire i riti ruteni si ricava specialmente dal decorso di quella lunga questione che riguarda il cambiamento di rito. Infatti sebbene per ragioni particolari del tutto aliene dalla loro volontà non potessero per un tempo lunghissimo imporre ai laici un severo divieto di passare ad altro rito, tuttavia dai loro ripetuti tentativi di stabilire un tale divieto nonché dalle esortazioni rivolte ai vescovi e ai sacerdoti latini appare chiaro quanto questa cosa stesse a cuore ai Nostri predecessori. Nel decreto stesso con cui nell'anno 1595 fu felicemente stabilita l'unione dei ruteni con la sede apostolica non viene posta, è vero, una chiara proibizione di passare dal rito orientale a quello latino; tuttavia quale fosse già allora il pensiero della sede apostolica appare da una lettera del preposito generale della Compagnia di Gesù indirizzata nell'anno 1608 ai gesuiti che stavano in Polonia, nella quale si dice che coloro che non fecero mai uso del rito latino non potevano dopo la conciliazione assumere questo rito «poiché è comando della chiesa ed è peculiarmente stabilito nelle lettere dell'unione fatta sotto Clemente VIII che ciascuno rimanga nel rito della sua chiesa».(9)

    Ma poiché c'erano frequenti lamentele intorno a giovani nobili ruteni che prendevano il rito latino, la Sacra Congregazinne di «Propaganda fide» con deéreto del 7 febbraio 1624 comandò «che per l'avvenire sénza speciale licenza della sede apostolica non sia permesso ai rúteni uniti, sia laici sia ecclesiastici, tanto secolari che regolari, e specialmente ai monaci di san Basilio Magno di passare per qualsivoglia ragione, anche urgentissima, al rito latino».(10)

    Tuttavia, avendo il re di Polonia Sigismondo III interceduto perché quel decreto non venisse attuato nella sua integrità - desiderava infatti che il divieto riguardasse solamente gli ecclesiastici - il Nostro predecessore di felice memoria Urbano VIII non poté non accontentare un così grande promotore dell'unità cattolica. Di qui ne venne che quello che per particolari ragioni non fu imposto per legge, questo stesso la sede apostolica cercò di ottenere per via di precetti e di esortazioni; il che si dimostra in più di una maniera.

    E di fatto già nel proemio del decreto del 7 luglio 1624 in cui si proibiva il passaggio al rito latino solamente agli ecclesiastici, si stabiliva che i sacerdoti della chiesa latina venissero ammoniti a non esortare in confessione i fedeli laici a quel passaggio. E tali ammonizioni vennero spesso ripetute e i nunzi apostolici di Polonia per comando dei sommi pontefici si sforzarono con ogni loro potere perché venissero ascoltate. Che poi il pensiero e la volontà della sede apostolica in tale argomento non abbiano cambiato neppure in tempi successivi, lo si ricava pure dalle lettere inviate dal Nostro predecessore Benedetto XIV nel 1751 ai vescovi di Leopoli e di Peremislia, nelle quali si dice tra l'altro: «Ci è stata recata la vostra lettera del 17 luglio nella quale giustamente vi lagnate del passaggio dei ruteni dal rito greco al rito latino, mentre ben sapete, venerabili fratelli, che i Nostri predecessori hanno sempre deplorato tali passaggi e Noi stessi li deploriamo, perché grandemente desideriamo non la distruzione ma la conservazione del rito greco».(11) Di più il medesimo pontefice promise che avrebbe rimosso ogni impedimento in questa materia e che finalmente con solenne decreto avrebbe proibito un tale passaggio. Ma condizioni avverse di cose e di tempi non permisero che i desideri e le promesse di quel pontefice conseguissero allora l'effetto desiderato.

    Finalmente dopo che i romani pontefici Clemente XIV e Pio VII decretarono che i cattolici di rito ruteno esistenti nelle regioni della Russia non potessero passare al rito latino, in quella convenzione che vien detta concordia fatta nell'anno 1863 tra i vescovi latini e ruteni col favore e la guida della Sacra Congregazione di «Propaganda fide», venne stabilito che tale proibizione valesse per tutti i ruteni.

    Dai fatti che fin qui, venerabili fratelli, secondo le testimonianze storiche abbiamo sommariamente esposti, si ricava facilmente con quanto impegno questa sede apostolica abbia vigilato alla piena conservazione del rito ruteno sia per quanto riguarda l'intera comunità, sia per ciò che si riferisce alle singole persone; nessuno tuttavia si meraviglierà se la medesima Santa Sede, salvi sempre quei riti precipui che appartengono all'essenza della cosa, abbia per le particolari circostanze di cose e di tempi permesse o approvate provvisoriamente alcune minori immutazioni. Così, per esempio, nei riti liturgici non permise che si facesse alcuna mutazione di quelle che pian piano s'erano introdotte, se si eccettuino quelle poche che nel sinodo di Zamość erano state decretate dagli stessi vescovi ruteni.

    Tuttavia, allorché alcuni astutissimi fautori dello scisma in apparenza per difendere la genuina integrità del loro rito, ma in realtà perché più facilmente la plebe non istruita si staccasse dalla fede cattolica - si sforzavano di introdurre di nuovo con privata autorità antiche usanze già in parte antiquate, i romani pontefici consapevoli del loro dovere, denunziando apertamente le occulte e astute arti di quelli, resistettero a simili tentativi e decretarono che «niente senza aver prima consultata la sede apostolica doveva innovarsi nei riti della sacra liturgia - neppure col pretesto di ripristinare quelle cerimonie che sembrassero più conformi alle liturgie approvate dalla medesima Santa Sede - se non per ragioni gravissime e con l'assenso dell'autorità della sede apostolica».(12)

    Del resto tanto è lontana la volontà della sede apostolica dal recar danno all'integrità di questo rito, che anzi essa incitò la chiesa rutena a trattare con la massima riverenza i monumenti tramandati dall'antichità in materia liturgica. Testimonianza illustre di questo benevolo interessamento per il rito ruteno si può vedere nelle nuova edizione romana dei Libri Sacri, cominciata sotto il Nostro pontificato e in parte già felicemente compiuta, per cui la sede apostolica, accondiscendendo molto volentieri ai desideri dei vescovi ruteni, si è sforzata di restituire i loro riti liturgici alle loro avite e venerande forme antiche.

    Un secondo beneficio, venerabili fratelli, si presenta ora alla nostra mente, il quale fuori d'ogni dubbio è provenuto alla comunità dei ruteni da questo congiungimento con la sede apostolica. Per esso infatti questa nobilissima nazione si è stretta alla chiesa cattolica e quindi vive della vita di questa, dalla verità di questa viene illuminata, ed è fatta partecipe della sua grazia. Da questa derivano i ruscelli della scaturigine superna, i quali in tal guisa si diramano e penetrano ogni cosa che possono sorgere fiori bellissimi di ogni virtù e prodursi abbondanti e saluberrimi frutti.

    Infatti, mentre prima del ritorno all'unità gli stessi fedeli dissidenti ebbero a lamentare che in quelle regioni la santa religione era stata devastata, che il vizio della simonia nelle elezioni dei vescovi e degli altri sacri ministri si introduceva dappertutto, che erano dilapidati i beni ecclesiastici, corrotti i costumi dei monaci, scaduta la disciplina nei cenobi e i vincoli dell'obbedienza anche con i loro vescovi ogni giorno più indeboliti e pericolanti presso i fedeli, dopo l'unione, invece, con l'aiuto del Signore, le cose pian piano si mutarono in meglio. Ma di quanta fortezza d'animo, di quanta costanza non ebbero bisogno i vescovi per ristabilire dappertutto la disciplina ecclesiastica, specialmente in quei primi tempi tanto agitati da perturbazioni e persecuzioni d'ogni genere! Quanto lunghe e quanto dure fatiche non dovettero sopportare per far sorgere un clero ottimamente formato, per consolare il gregge loro affidato, tribolato da tante pene, per sostenere e fortificare con ogni tipo di aiuti coloro che vacillavano nella fede! Tuttavia contro ogni umana previsione si ottenne felicemente che non solo questa tanto auspicata unità vincesse le avverse tempeste, ma dalla superata lotta uscisse più vegeta e più forte. E non con la spada e con le percosse, non con le promesse o le minacce, ma con l'esempio esimio di vita religiosa e come per una chiarissima manifestazione della grazia divina, i cattolici ruteni ottennero finalmente di condurre all'unico ovile le eparchie dissidenti di Leopoli e di Peremislia.

    Ristabilita finalmente la tranquillità e la pace, la floridezza della chiesa rutena, specialmente nel secolo XVIII, si mostrò in tutto il suo splendore. Ne sono manifestazioni evidenti non solo la cattedrale di Leopoli, dedicata a san Giorgio, ma altresì le chiese e i cenobi eretti a Pociaiw, a Torocany, a Zyrowici e altrove, monumenti veramente insigni di quell'età.

    E qui pare opportuno dire sommariamente qualche cosa dei monaci Basiliani, che con la loro intenta e diligente attività hanno tanto bene e tanto egregiamente meritato in tutta questà vicenda. Dopo che i loro cenobi, per opera di Velamin Rutskyj, furono reintegrati in forma migliore e più santa e costituiti in congregazione, moltissimi religiosi per pietà, dottrina e zelo apostolico vi fiorirono così esemplarmente, da riuscire guide e maestri di vita devota al popolo cristiano. Aperte scuole di lettere con esercizi scolastici, non solo impartirono ai giovani, spesso di chiaro ingegno, un eccellente insegnamento, ma comunicarono quella loro solida virtù, per cui non la cedettero a nessuno di coloro che vengono istruiti nelle scuole latine. La qual cosa era certamente manifesta e conosciuta anche ai fratelli dissidenti, perché non pochi di quei giovani, abbandonata la patria e la famiglia, si chiusero molto volentieri in questi cenacoli della dottrina, per partecipare anch'essi di così soavi frutti.

    Né vantaggi minori la comunità rutena trasse in questi ultimi tempi dalla sua unione con la sede apostolica. Ciò si rende facilmente manifesto a tutti, solo che si dia uno sguardo alla chiesa di Galizia, quale essa era prima delle spaventose rovine e devastazioni della presente guerra. Infatti in questa provincia i fedeli erano quasi tre milioni e seicentomila, i sacerdoti 2.275 con 2.226 parrocchie. Inoltre moltissimi cattolici ruteni, oriundi della Galizia, dimoravano fuori di essa in varie parti, specialmente nell'America, in numero di quattro o cinquecentomila. A questa cospicua moltitudine di fedeli, che forse nel corso dei secoli non fu mai raggiunta, corrispondeva nelle singole eparchie un particolare fervore di virtù, di pietà e di vita cristiana. Nei seminari eparchiali gli alunni venivano educati nel debito modo e con diligenza a raggiungere il sacerdozio; e i fedeli, prendendo parte con grande amore e riverenza al culto divino secondo il proprio rito, ne ricavavano lieti e abbondanti frutti di pietà.

    Nel ricordare brevemente questo felice stato della chiesa rutena, non possiamo non nominare l'illustre metropolita Andrea Szeptyckyj, il quale per circa nove lustri adoperandosi con infaticabile operosità, non per una sola regione, né soltanto per vantaggi spirituali, diede bella prova di sé al gregge a lui affidato. Durante il corso del suo ministero episcopale fu istituita la Società teologica per la valorizzazione di uno studio intenso della sacra dottrina da parte del clero; venne eretta a Leopoli un'accademia, in cui i giovani ruteni d'ingegno più sveglio potessero opportunamente attendere alla filosofia, alla teologia e alle altre più alte discipline, in modo simile a quello che usano le università degli studi; la stampa d'ogni genere, sia con libri, sia con giornali e riviste ebbe un grande sviluppo, e fu lodata anche presso le nazioni estere; altresì le arti sacre furono coltivate secondo le tradizioni degli avi e il genio proprio di questa gente; il museo e le altre sedi delle belle arti furono provveduti di insigni monumenti dell'antichità; e finalmente si iniziarono e si promossero non poche istituzioni atte a venire in soccorso alle necessità delle classi inferiori e all'indigenza dei poveri.

    Non possiamo passare sotto silenzio il merito singolare dei pii sodalizi di uomini e di donne, che in queste case recano non piccolo salutare vantaggio. E prima di tutti Ci piace ricordare i monasteri dei monaci Basiliani e delle vergini consacrate a Dio, i quali, sebbene al tempo di Giuseppe II imperatore soffrissero ingiustamente e con danno l'invasione del potere civile nei loro ordinamenti, tuttavia dopo, cioè nel 1882 e negli anni seguenti, ritornarono all'originale splendore, grazie alla cosiddetta riforma di Dobromil, e con l'amore alla vita nascosta e con quello spirito che si attinge alle norme e agli esempi del santo fondatore, congiungono un acceso amore di apostolato. A questi antichi focolari della vita monastica si aggiunsero con egual lode nuove congregazioni religiose maschili e femminili: così, l'Ordine degli Studiti, i cui monaci attendono soprattutto alla contemplazione delle cose celesti e alle opere della santa penitenza; così, la congregazione religiosa, di rito ruteno, del SS. Redentore, i cui associati lavorano con grande fervore nella Galizia e nel Canada; così, moltissimi istituti che hanno per fine di provvedere all'educazione delle fanciulle e alla cura degli infermi, e che si chiamano o Ancelle dell'immacolata vergine Maria o Mirofore o Suore di san Giuseppe, di san Giosafat, della santa Famiglia, di san Vincenzo de' Paoli.

    Ci piace inoltre rammentare qui il pontificio Seminario di san Giosafat, costruito dal Nostro predecessore Pio XI sul colle Gianicolense e corredato dalla sua munificenza. Dopo che per lunghi secoli giovani scelti si preparavano ai sacerdozio nel pontificio Collegio Greco, un altro Nostro antecessore, Leone XIII di immortale memoria, nell'anno 1897, eresse un collegio proprio per quei giovani ruteni, che si sentissero da divina ispirazione chiamati al sacerdozio. Resosi poi angusto questo edificio per il numero crescente degli alunni, l'immediato Nostro predecessore, per quell'affetto particolare che lo distingueva verso il popolo ruteno, edificò, come abbiamo detto, una nuova e più ampia sede, dove gli aspiranti al sacerdozio, istruiti e formati nelle scienze sacre e nei costumi propri del loro rito, crescessero felicemente nella venerazione, nel rispetto e nell'amore verso il vicario di Cristo e alla speranza della chiesa rutena.

    Un altro pregio di non minor conto e utilità ebbe il popolo ruteno dalla sua unione con la sede apostolica, quando ebbe l'onore di un inclito stuolo di confessori e di martiri, i quali per conservare intatta la fede cattolica e la devota fedeltà verso i romani pontefici, non esitarono a sostenere ogni sorta di calamità e a incontrare con allegrezza la morte stessa, secondo quella sentenza del divin Redentore: «Beati sarete allora, quando gli uomini vi odieranno e scomunicheranno e vi diranno improperi e rigetteranno come abominevole il vostro nome a causa del Figlio dell'uomo: rallegratevi allora e tripudiate, perché grande è la mercede vostra nel cielo» (Lc 6,22-23).

    Nel novero di questi per primo si affaccia alla Nostra mente quel santo vescovo Giosafat Kuncevyc, la cui invitta fortezza più sopra abbiamo commemorato, e che, cercato a morte dai perversi nemici del nome cattolico, spontaneamente si diede ai carnefici, e si offrì quale vittima per il sollecito ritorno dei fratelli dissidenti. Fu egli invero a quel tempo il principale martire della fede cattolica e dell'unità, ma non il solo; perché non pochi altri lo seguirono con la palma della vittoria, tanto ecclesiastici quanto laici che, o uccisi di spada o flagellati spietatamente fino a morire o affogati nelle acque del Dniepr, dal trionfo della morte passarono tra i santi del cielo.

    Ma non molti anni dopo, cioè a metà del secolo XVII, avendo i cosacchi preso apertamente le armi contro la Polonia, il loro odio contro l'unità religiosa di molto crebbe e si accese violentemente. Si erano messi in mente che tutti i mali e le calamità fossero derivate, come da prima origine, dall'essersi stabilita questa unione; perciò si erano proposti di combatterla con tutti i mezzi e in ogni maniera fino alla distruzione. Di qui provennero danni innumerevoli alla chiesa cattolica rutena: molte chiese profanate, dilapidate, distrutte e i loro patrimoni e suppellettili annientati; non pochi sacerdoti e molti fedeli sottoposti a gravi percosse, atrocemente tormentati, spenti con morte crudelissima; perfino gli stessi vescovi spogliati dei loro beni e scacciati dalle loro venerande sedi furono costretti a darsi alla fuga. Eppure essi, anche in mezzo a tanta tempesta, non si perdettero mai d'animo, né abbandonarono, per quanto fu loro possibile, senza custodia e senza difesa il proprio gregge. Anzi, fra tante angustie, si sforzarono con la preghiera, la lotta, la fatica di ricondurre all'unità tutta la chiesa russa e l'imperatore Alessio.

    Anche pochi anni prima che la Polonia venisse lacerata, vi fu una nuova e non meno acerba persecuzione contro i cattolici. Quando cioè i soldati dell'imperatrice delle Russie invasero la Polonia molte chiese di rito ruteno furono a viva forza, con le armi, tolte ai cattolici, e i sacerdoti, che ricusavano di rinnegare la fede, vennero messi in catene, conculcati, feriti e gettati in carcere e tormentati atrocemente con la fame, la sete, il freddo.

    A questi non furono inferiori per costanza e fortezza quei sacerdoti che, verso l'anno 1839, soffrirono piuttosto la perdita dei propri beni e della stessa libertà, che venir meno ai doveri religiosi. Del numero di costoro è quel Giuseppe Ancevskyj, che qui ci piace ricordare in modo speciale, il quale, per trentadue anni tenuto sotto dura prigionia nel monastero di Suzdal, ottenne il premio dell'esimia sua virtù nell'anno 1878 con una piissima morte. Come lui i centosessanta sacerdoti che, professando chiaramente la fede cattolica, vennero strappati alle loro famiglie che lasciavano nella miseria, e rinchiusi nei cenobi, non mai mutarono il santo proposito né per la fame né per le altre vessazioni.

    Né meno si distinsero per fortezza vari chierici e laici dell'eparchia di Cholm, che con mirabile coraggio resistettero ai persecutori della fede. Così, per esempio, gli abitanti del villaggio Pratulin, allorché i soldati vennero per occupare la chiesa e consegnarla agli scismatici, non si opposero alla forza con la forza, ma, strettisi insieme con i loro inermi corpi, opposero agli assalitori come un muro vivente. Perciò molti di essi vennero feriti, molti patirono orrende crudeltà, altri furono chiusi in carcere per lunghi anni o deportati nell'agghiacciata Siberia, altri finalmente passati a fil di spada sparsero il sangue per Cristo. Fra questi, di coloro che suggellarono col proprio sangue la fede cattolica, già si è iniziata la causa nella propria eparchia, per cui si spera di potere un giorno venerarli fra i beati del cielo. Tali delitti furono, per sventura, compiuti non in un luogo solo, ma in più città, nei paesi, nei villaggi; e dopo che tutte le chiese cattoliche furono consegnate agli scismatici, dopo che tutti i sacerdoti, scacciati dalle proprie sedi, furono costretti a lasciare abbandonato il proprio gregge, allora i fedeli vennero iscritti nei registri della chiesa dissidente, senza tenere nessun conto della loro volontà. Essi però, sebbene privi dei loro pastori e degli aiuti e soccorsi della loro religione, si studiarono di mantenere tenacemente la fede. Anzi, essendo in seguito andati da loro, travestiti e con grave rischio della vita, i padri della Compagnia di Gesù, per istruirli nei divini precetti, esortarli e recare loro conforto, essi li ricevettero con grande allegrezza e pietà.

    Nel 1905 essendo stata concessa una certa libertà di professare qualsiasi religione, si vide nei paesi ruteni un meraviglioso e lieto spettacolo. I cattolici quasi senza numero uscirono dai loro nascondigli in pubblico e in lunga processione, innalzato il vessillo della croce ed esposte le immagini dei santi all'aperto alla venerazione, non avendo sacerdoti di rito orientale, si recarono alle chiese latine - il cui ingresso era loro proibito sotto pene severissime - per rendere grazie al Signore. Ivi giunti, domandarono ai legittimi sacerdoti di aprire loro le porte, di ricevere sé e la loro professione di fede e di inscrivere i loro nomi nei registri dei cattolici. Così avvenne che in breve tempo duecentomila fedeli venissero ricevuti nella chiesa.

    Tuttavia neppure in questi ultimi anni mancò occasione ai vescovi, ai sacerdoti e al gregge fedele di mostrare fortezza d'animo e costanza nel conservare la fede cattolica, nel difendere la chiesa e la sua sacra libertà. Fra tutti Ci piace far menzione onorevole particolarmente di Andrea Szeptyckyj, il quale nella prima guerra europea, essendo stata occupata la Galizia dagli eserciti russi, scacciato dalla sua sede e deportato in un cenobio, ivi fu tenuto in prigione almeno per un certo tempo e ivi niente più desiderava che di attestare la sua grandissima devozione alla sede apostolica e, con la grazia divina, di subire anche il martirio, se fosse necessario, per il suo gregge, per la salute del quale già da lungo tempo aveva speso le sue forze e le sue cure.

    III

    Dai fasti della storia brevemente accennati in questa lettera, abbiamo visto, venerabili fratelli, quanti e quali vantaggi e benefici siano derivati alla nazione rutena dalla sua unione con la chiesa cattolica. Non fa meraviglia, perché, se in Gesù Cristo «piacque al Padre che abitasse ogni pienezza» (Col 1,19), di questa stessa pienezza certamente non può usufruire chi è separato dalla chiesa «che è il corpo suo stesso» (Ef 1,23), perché, come afferma il Nostro predecessore di venerata memoria Pelagio II, «chiunque non è in pace e comunione con la chiesa, non può aver Dio dalla sua parte».(13) Abbiamo anche visto quali tribolazioni, danni e maltrattamenti abbia dovuto sopportare questo diletto popolo dei ruteni, per difendere secondo le sue forze l'unità cattolica; tuttavia, più di una volta la Provvidenza divina lo ha felicemente liberato col ritorno della pace.

    Nelle circostanze presenti poi, con profonda angoscia dell'animo paterno notiamo che una nuova e furiosa tempesta incombe su questa chiesa. Notizie pervenuteci, poche in verità, hanno tuttavia di che riempirci l'animo di preoccupazione e di ansia. Ricorre il giorno anniversario da quando, or sono 350 anni, quest'antichissima comunità cristiana si univa sotto lieti auspici al suo supremo pastore e successore del beato Pietro; ma questo stesso giorno Ci si è cambiato in «giorno di tribolazione e d'angustia, giorno di calamità e di miseria, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di bufera» (Sof 1,15).

    Con grande dolore abbiamo appreso che in quelle regioni, recentemente sottoposte alla giurisdizione russa, i fratelli e figli a Noi carissimi appartenenti alla nazione rutena soffrono gravi tribolazioni per la loro fedeltà verso la sede apostolica; e che non mancano coloro che con tutti i mezzi si adoperano per strapparli dal grembo della chiesa madre e spingerli contro la loro volontà e contro la coscienza di un santissimo dovere a entrare nella comunità dei dissidenti. Perciò il clero di rito ruteno, a quanto si dice, in una lettera inviata ai capi della repubblica, si è lamentato che la propria chiesa dell'Ucraina occidentale, come oggi vien chiamata, sia stata messa in una situazione assai difficile, perché tutti i vescovi e molti dei suoi sacerdoti sono stati incarcerati, con la contemporanea proibizione che nessuno osi assumere la direzione della stessa chiesa rutena.

    Sappiamo pure, venerabili fratelli, che simili aspri rigori vengono apparentemente coonestati col pretesto politico. Simile modo di agire non è nuovo, né adoperato oggi per la prima volta: spesso, nel corso dei secoli, i nemici della chiesa, per non confessare apertamente che avversavano la chiesa cattolica e manifestamente perseguitavano, subdolamente e con raggiri speciosi hanno incolpato i cattolici di congiurare contro lo stato; nello stesso modo con cui una volta i giudei accusarono lo stesso divin Redentore dinanzi al pretore romano dicendo: «Abbiamo trovato costui che seduce la nostra nazione e proibisce di pagare il tributo a Cesare» (Lc 23,2). Ma i fatti stessi e gli eventi provano e collocano nella loro luce quelli che furono e sono i moventi di simili persecuzioni. Chi ignora che Alessio, eletto recentemente patriarca dai vescovi dissidenti delle Russie, nella sua lettera alla chiesa rutena - con la quale non poco ha contribuito ad inaugurare tale persecuzione - ha apertamente esaltato e predicato la defezione dalla chiesa cattolica?

    Ora tali vessazioni tanto più acerbamente Ci colpiscono, in quanto, venerabili fratelli, quasi tutte le nazioni della terra essendosi riunite per mezzo dei loro rappresentanti, mentre ancora infuriava l'immane conflitto, avevano tra loro ufficialmente dichiarato che non si sarebbe più per l'avvenire iniziata persecuzione di sorta contro la religione. Ciò Ci aveva fatto nascere la speranza che anche alla chiesa cattolica sarebbe stata ovunque concessa la pace e la dovuta libertà, tanto più che la chiesa ha sempre insegnato e ìnsegna che all'autorità civile legittimamente costituita bisogna sempre ubbidire per dovere di coscienza, quando essa comandi entro la sfera e i limiti della sua giurisdizione. Purtroppo i fatti ai quali abbiamo alluso scrivendo hanno profondamente intaccato e quasi distrutta questa Nostra fiduciosa speranza nei riguardi della nazione rutena.

    Pertanto, poiché in simili gravissime calamità i mezzi umani sembrano rivelarsi impotenti, non Ci resta, venerabili fratelli, se non pregare con perseveranza Dio misericordiosissimo che «farà giustizia ai bisognosi e vendicherà i poveri» (Sal 139,13), perché egli voglia benignamente sedare questa terribile tempesta e imporle finalmente termine. Esortiamo anche voi, e il gregge a voi affidato, perché a Noi uniti, per mezzo di preghiere supplichevoli e pie pratiche di penitenza, vi sforziate di ottenere da colui che illumina della sua celeste luce le menti degli uomini, e piega le loro volontà col suo supremo volere, perché abbia pietà del suo popolo e non esponga la sua eredità allo scherno (cf. Gl 2,17), e affinché al più presto la chiesa dei ruteni sia liberata da questo pericoloso momento critico.

    Ma in modo particolare, in queste circostanze tristi e critiche, il Nostro animo si volge a coloro che tanto duramente ne sono oppressi. A voi prima di tutto, venerabili fratelli, vescovi della nazione rutena che, benché siate travagliati da grandi tribolazioni, più che delle offese e dei torti inferti siete preoccupati e solleciti della salvezza del vostro gregge, secondo quel detto: «Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle» (Gv 10,11). Benché il presente sia oscuro e il futuro pieno di ansie e d'incertezza, tuttavia non perdetevi d'animo, ma «fatti spettacolo al mondo e agli angeli e agli uomini» (1Cor 4,9) sforzatevi, perché tutti i fedeli si specchino sull'esempio della vostra pazienza e della vostra virtù. Sopportando con fortezza e costanza questa persecuzione, infiammati da carità divina per la chiesa, siete diventati «il buon odore di Cristo... a Dio in coloro che si salvano e in coloro che periscono» (2Cor 2,15). Che se trovandovi in carcere e strappati dai vostri figli non vi è data la possibilità di insegnare ad essi i precetti della santa religione, tuttavia le vostre stesse catene annunziano e predicano Cristo in modo più pieno e più nobile.

    Ci rivolgiamo inoltre a voi, diletti figli, che insigniti del sacerdozio di Cristo «il quale patì per noi» (1Pt 2,21) dovete più da vicino seguire le sue orme, e quindi più che gli altri sopportare l'urto della lotta. Mentre da una parte le vostre tribolazioni Ci addolorano profondamente, dall'altra Ci rallegrano, perché facendo nostre le parole del divin Redentore, Ci è permesso di esprimerCi così con la maggior parte di voi: «So le opere tue e la fede e la carità e i servigi e la sapienza tua, e le ultime opere tue più numerose delle prime» (Ap 2,19). Vi esortiamo ad andare avanti in questi tempi luttuosi e a perseverare nella fede vostra con fermezza e costanza. Continuate a sostenere i deboli e a incoraggiare i vacillanti. Ammonite, se occorre, i fedeli a voi affidati che non è mai lecito, neppure apparentemente e con manifestazioni verbali, negare o disertare Cristo e la sua chiesa; smascherate gli astuti procedimenti di coloro che promettono agli uomini vantaggi terreni e una maggiore felicità in questa vita, mentre poi perdono le loro anime. Mostratevi voi stessi «come ministri di Dio, con molta pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie ... con la castità, con la scienza, con la mansuetudine, con la soavità, con lo spirito di santità, con la carità non simulata, con la parola di verità, con la potenza di Dio, con le armi della giustizia, a destra e a sinistra» (2Cor 6,4ss).

    A voi infine Ci rivolgiamo, cattolici tutti della chiesa rutena, ai cui dolori e tribolazioni partecipiamo con animo paterno. Non ignoriamo che alla vostra fede si tendono insidie gravissime. Sembra anzi ci sia da temere che nel prossimo avvenire la persecuzione si inasprisca contro coloro che non si piegheranno a tradire il sacrosanto dovere della religione. Perciò ancora una volta, figli dilettissimi, vi esortiamo insistentemente, perché non sgomenti da minacce e danni di nessun genere, neppure dell'esilio e dello stesso pericolo della vita, non vogliate tradire la vostra fedeltà verso la chiesa madre. Come ben sapete, si tratta del tesoro nascosto in un campo; il qual tesoro un uomo avendolo trovato «lo nasconde, e tutto allegro, va, vende quanto ha, e compra quel campo» (Mt 13,44). E ricordate pure ciò che lo stesso divin Redentore disse nel Vangelo: «Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me. E chi non prende la sua croce e mi segue non è degno di me. Chi tien conto della sua vita, la perderà, e chi avrà perduto la vita per amor mio, la troverà» (Mt 10,37ss). A questa divina sentenza, piace aggiungere quel detto dell'apostolo delle genti: «Parola fedele: se insieme siamo morti, insieme ancor vivremo, se saremo tolleranti, regneremo insieme; se lo rinnegheremo, egli pure rinnegherà noi; se non crediamo, egli rimane fedele, non può negare se stesso» (2Tm 2,11ss).

    Crediamo di non potere meglio confermare e terminare questa Nostra paterna esortazione, diletti figli, se non con questi ammonimenti dello stesso apostolo delle genti: «Vegliate, siate costanti nella fede, operate virilmente, e fortificatevi» (1Cor 16,13). «Siate ubbidienti ai vostri superiori» (Eb 13,17), vescovi e sacerdoti, quando vi comandano per la vostra salvezza e secondo i precetti della chiesa; a tutti coloro che in qualsiasi modo, tendono insidie alla vostra fede, resistete, «solleciti di conservare l'unità dello spirito mediante il vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come siete ancora stati chiamati ad una sola speranza della vostra vocazione» (Ef 4,3-4). In mezzo ai dolori e angosce di ogni sorta, ricordatevi «che i patimenti del tempo presente, non hanno a che fare con la futura gloria che in noi si scoprirà» (Rm 8,18). «Ma fedele è Dio il quale vi conforterà e vi difenderà dal maligno» (2Ts 3,3).

    Fiduciosi intanto che a questa nostra esortazione risponderete, coll'ispirazione e l'aiuto della grazia divina, con fortezza e volontà forte, vi auguriamo e supplici vi impetriamo dal Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione (cf. 2Cor 1,3) tempi per voi migliori e più tranquilli.

    Pegno delle celesti grazie e in attestato della Nostra benevolenza, impartiamo di tutto cuore, a voi singoli, venerabili fratelli, e al vostro gregge, in particolar modo ai vescovi della chiesa rutena, ai sacerdoti e a tutti i fedeli, l'apostolica benedizione.

    Roma, presso San Pietro, il giorno 23 dicembre 1945, VII del Nostro pontificato.

    PIO PP. XII
    ---------------------------------------------------------------------------

    (1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Orientales omnes 350 elapsis annis, ex quo Ruthenorum Ecclesia Apostolicae Sedi feliciter coagmentata est, [Venerabilibus Fra tribus Patriarchis, Primatibus, Archiepiscopis, Episcopis, aliisque locorum Ordinariis, pacem et communionem cum Apostolica Sede habebtibus), 23 decembris 1945: AAS 38 (1946), pp. 33-63.

    Ricostruzione storica delle vicende che portarono la chiesa rutena all'unione con Roma. Il martirio di san Giosafat. Migrazioni verso l'America. Analisi dei vantaggi derivati dall'unione di Brest e difficoltà successive. Angoscia e dolore per la tristissima situazione creatasi dopo la II guerra mondiale: una chiesa perseguitata. Ma fiducia in tempi migliori.

    (2) LEO XIII, Epist. apost. Praeclara gratulationis (20.6.1894): Acta Leonis XIII, t. XIV p. 201.

    (3) LEO XIII, loc. cit.

    (4) BARONIUS, Annales, t. VII, Romae 1596, Appendix, p. 681.

    (5) A. THEINER, Vetera monumenta Poloniae et Lithuaniae, t. III, p. 240ss.

    (6) A. THEINER, Vetera monumenta Poloniae et Lithuaniae, t. III, p. 251.

    (7) A. THEINER, Vetera monumenta Poloniae et Lithuaniae, t. III, p. 237.

    (8) Acta et decr. SS. Conciliorum rec., col. 600, nota 2.

    (9) Acta et decr. SS. Conciliorum rec. , col. 602.

    (10) Acta et decr. SS. Conciliorum rec., col. 603.

    (11) Acta et decr. SS. Conciliorum rec. , col. 606.

    (12) Cf. PIUS IX, Litt. Omnem sollicitudinem (13.5.1874), citans GREGORIUM XVI, Inter gravissimos: Pii IX Acta, VI, 317.

    (13) Epist. ad Episcopos Istriae: Acta Conc. Oecum., IV, II, 107.

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