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Discussione: Chiesa e Stato

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    Predefinito Chiesa e Stato

    Vorrei postare un articolo un po' lungo riguardo al rapporto tra Chiesa e Stato secondo la morale cattolica.
    Mi scuso per la lunghezza e tengo a precisare che posto l'articolo per stimolare ad una riflessione generale e per sentire il vostro parere sul tema trattato: tema interessante e molto attuale. Non esprimo pareri personali sull'articolo, lo ritengo argomentato molto bene anche se alcuni punti mi lasciano alquanto perplesso.
    Direi che si può considerare come una risposta a quasi tutti i miei interventi su testi di Magistero della Chiesa.
    Ho sottolineato le parti che ho ritenuto più interessanti.
    L'articolo è tratto da una rivista lefebvriana.

    Fonte dell'articolo:
    "La Tradizione Cattolica" Anno XVII - n°1 (61) - 2006

    --------------------------------------------------------------------------

    Due ecclesiologie
    a confronto:
    La dottrina della
    libertà religiosa
    e quella delle due spade
    di don Mauro Tranquillo


    «Domine, ecce duo gladii hic»
    «Satis est»
    (Lc 22, 38)


    Il 7 dicembre 2005 ricorreva il quarantesimo anniversario della Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, sul «diritto della persona e delle comunità alla libertà sociale e civile religiosa».

    Vi si legge la notissima frase, al n. 2: «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire secondo la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa, privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce, sia per mezzo della parola di Dio sia tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società»(1).

    Tale affermazione era stata condannata tale e quale dall'Enciclica Quanta cura di Papa Pio IX, che riprendeva Mirari vos di Gregorio XVI, come tutti sanno: del tutto falsa e dannosa alla Chiesa e alle anime, anzi follia è l'opinione che vuole «la libertà di coscienza e dei culti essere diritto proprio di ciascun uomo, che si deve con legge proclamare e sostenere in ogni società ben costituita, ed essere diritto d'ogni cittadino una totale libertà, che non può essere limitata da alcuna autorità vuoi civile, vuoi ecclesiastica, di manifestare e dichiarare i propri pensieri quali che siano sia a viva voce, sia con la stampa, sia in altro modo palesemente e in pubblico»(2).
    Appare chiaro a tutti come sia condannata l'idea che esista un diritto ad una professione esterna di false opinioni senza possibilità di esserne impediti dall'autorità. La Chiesa insegna che -e dunque Nostro Signore ha rivelato che- un tale diritto non esiste. Può essere a volte tollerata l'una o l'altra cattiva azione, ma tale tolleranza non si fonderà mai su un diritto della persona: può fondarsi su un'impossibilità dell'autorità ad intervenire, su una necessità, sul timore di un male più grave, etc. Una cosa è dire che purtroppo non tutti i furti possono essere puniti o impediti, un'altra che il furto è un diritto di ogni persona umana. Si vede bene come Dignitatis humanae si allontani dalla dottrina della Chiesa. Il nostro intento è mostrare, al di là del singolo problema della libertà religiosa, quanto si estenda l'autorità della Chiesa e delPapainfattodicoercizione(dallaquale, in materia religiosa, tutti dovrebbero essere liberi, secondo il Concilio) e di potestà temporale, naturalmente fondandoci sui testi del Magistero di tutti i tempi. Si vedrà come lo spirito e la lettera del Vaticano II si allontanino da tale dottrina.

    ALCUNE NOZIONI DA TENER BEN PRESENTI

    Preliminarmente osserviamo che nella Chiesa Romana nessuno ha mai messo in dubbio che esistano due società perfette: la società temporale, o Stato, che nasce con la creazione della natura umana ed ha per fine il bene comune dei cittadini (l'ordine, la pace, le condizioni chepermettonolavitavirtuosa);elasocietà spirituale, la Chiesa Cattolica, fondata da Gesù Cristo per un fine soprannaturale, cioè la gloria di Dio tramite la salvezza delle anime. Entrambe queste società, essendo perfette, hanno tutti i mezzi necessari per ottenere il rispettivo fine. Ma la loro distinzione non implica assoluta indipendenza, e tanto meno uguaglianza: l'una è superiore all'altra ed ha un potere su di essa. Soprattutto, i membri delle due società spesso coincidono, né si può escludere che le stesse persone ricoprano ruoli d'autorità in entrambe, vuoi per diritto divino, vuoi per diritto umano. Notiamo altresì che distingueremo con cura ciò che è di fede o comunque insegnato dalla Chiesa, e che quindi nessun cattolico può rifiutare, e ciò che i teologi hanno dedotto dal Magistero e le opinioni più generalmente ammesse in accordo con il Magistero stesso. Qualche esempio storico aiuterà a capire meglio i princìpi esposti.

    LA CHIESA COME SOCIETÀ SPIRITUALE: SUOI POTERI

    Consideriamo anzitutto la Chiesa in se stessa, escludendo per ora le sue relazioni con la società temporale. Non ci occuperemo qui dei suoi poteri di santificare e di insegnare, che esulano dal nostro oggetto. Guarderemo invece se, all'internodiquestasocietà,esistaunpotere in grado non solo di legiferare, ma anche di far osservare con i mezzi proporzionati le sue leggi. Ci interessa sapere per ora se la Chiesa ha questo potere in se stessa, non se lo Stato può averglielo concesso o riconosciuto. Ovviamente questo potere tocca direttamente tutti e soli i battezzati, che per il carattere di questo sacramento diventano sudditi della Chiesa. Il Cristo, Re della Chiesa, possiede la pienezza di tutti i poteri (Data est mihi omnis potestas in coelo et in terra, Mt 28,18): questi poteri li ha concessi alla Chiesa, che in casu si identifica con il Papa (Papa, id est Ecclesia): è lui che ricapitola ogni autorità all'interno della Chiesa, in quanto detentore delle somme Chiavi, segno della fonte e dell'origine del potere. Nessuno dubita che la Chiesa abbia la capacità di dare delle leggi e di giudicare: si vedano il potere di legare e sciogliere concesso dal Cristo a san Pietro (Mt 16, 16ss.), alcune citazioni di san Paolo(3) e soprattutto l'anatema delTridentino(4). Fin dai tempi più antichi iVescovi sono giudici dei cristiani in ogni tipo di causa, anche in quelle che potevano essere giudicate dai tribunali civili: san Paolo non vuole che i cristiani si presentino a un giudice pagano, anzi rivendica la capacità di giudicare già quaggiù a coloro che sono chiamati a giudicare con Cristo in Cielo: Nescitis quia et Angelos iudicabimus' quanto magis secularia'(5). Così fanno i Vescovi prima e dopo le persecuzioni, e gli Imperatori riconosceranno tale facoltà come già esistente, del tutto indipendente da quella temporale: il Codex Theodosianus riporta il decreto di Costantino in tal senso(6). Per molti secoli la Chiesa giudicò in modo esclusivo e per qualunque tipo di causa almeno i chierici, per il cosiddetto privilegio del foro ecclesiastico. Pio IX definì che tale privilegio non poteva dirsi una concessione dei Principi, ma un diritto nativo della Chiesa: condannò infatti, nel Sillabo, le seguenti proposizioni: «L'immunità della Chiesa e delle persone ecclesiastiche ebbe origine dal diritto civile» (n. 30) e «Il foro ecclesiastico per le cause temporali dei chierici, siano civili, siano criminali, deve essere assolutamente tolto di mezzo, anche non consultata e reclamante la Sede Apostolica» (n. 31)(7). Un tale potere di legiferare e giudicare comporta, a rigor di logica, il potere di infliggere e applicare delle pene per ottenere il rispetto delle leggi: la Chiesa, essendo una società perfetta, cioè completa, deve trovare in se stessa la fonte di tale autorità. Nostro Signore fa espressamente menzione di tale potere in Mt 18, 17, a proposito della correzione fraterna: Si Ecclesiam non audierit, sit tibi sicut ethnicus et publicanus: tale frase si considera il fondamento scritturale della pena di scomunica.Anche su questo punto si è pronunciato il Magistero infallibile: GiovanniXXII,citando proprio il passaggio qui riportato, con la sua Costituzione Licet (23 ott. 1327) condannò come eretica la proposizione di Marsilio da Padova: «Tutta la Chiesa messa insieme non può punire nessuno di una pena di coazione, a meno che non lo conceda l'Imperatore»(8). Nello stesso senso le condanne di Pio VI (Auctorem fidei, DzS. 2604-2605), di Pio IX (Sillabo, prop. n. 24) e la dottrina esposta da Leone XIII nell'enciclica Immortale Dei. Infine, così si esprime il canone 2213, riassumendo tutta questa dottrina: «Nativum et proprium Ecclesiae ius est, independens a qualibet humana auctoritate, coercendi delinquentes sibi subditos poenis tum spiritualibus tum etiam temporalibus».

    LA QUESTIONE DELL'ESTESIONE DEL POTERE DI COAZIONE

    È dunque verità di fede che la Chiesa abbia il potere di punire, e che possa servirsi non solo di pene spirituali (la scomunica, la sospensione, l'interdetto etc.), ma anche temporali: è infatti una società umana in ragione dei suoi membri, e ha dunque bisogno di mezzi umani e materiali. Tra gli argomenti magisteriali, citiamo senz'altro Pio IX nell'enciclica Quanta cura, in cui si condanna questa proposizione: «Alla Chiesa non compete il diritto di punire i violatori delle sue leggi anche con pene temporali»(9). La questione che si pone è questa: fin dove la Chiesa può arrivare nel punire privando di beni temporali? Fino alla pena di morte? e se può infliggere delle pene temporali, come farle applicare' può applicarle da se stessa, nel qual caso avrebbe bisogno di una forza armata? o deve affidarsi allo Stato, il cosiddetto “braccio secolare”' Notiamo che qui non si tratta tanto di sapere se la Chiesa di fatto eserciti o abbia esercitato tale diritto, e nemmeno se l'uso di tale diritto sia conveniente o se sia meglio astenersene per qualche motivo. Si tratta di sapere se tale diritto esista. Entriamo qui in una questione discussa, ma vedremo che ci sono dei limiti netti alla discussione e dei fondati argomenti magisteriali in un senso preciso. Anzitutto dobbiamo affermare come certo il diritto della Chiesa ad avere una forza armata pubblica almeno in modo mediato, nel senso che può chiederne l'ausilio con autorità alla società temporale. Diciamo con autorità, altrimenti non si tratterebbe più di un diritto: infatti la Chiesa è una società perfetta, e deve possedere tutti i mezzi necessari al suo fine, senza cercarli altrove.Se deve chiedere allo Stato, non può essere perché manca di qualcosa: è perché ha il diritto di usare le forze dello Stato per se stessa, come se le appartenessero. Questa dottrina è chiaramente espressa da Bonifacio VIII nell'infallibile Bolla Unam Sanctam, che dice: «L'una e l'altra spada sono in potestà della Chiesa, cioè la spada spirituale e quella materiale. Ma questa deve essere usata in favore della Chiesa, questa dalla Chiesa. Quella è nella mano del Sacerdote, questa dei Re e dei soldati, ma secondo il cenno e il volere del Sacerdote. Occorre infatti che un gladio sia sottomesso all'altro, e che l'autorità temporale sia sottomessa a quella spirituale»(10). Commenteremo più oltre ampiamente questa Bolla: ci basti per ora a dimostrazione almeno del diritto della Chiesa di esigere l'esercizio del gladio dallo Stato (cfr. anche il can. 2198). Se la Chiesa ha questo diritto e di fatto lo ha nei secoli esercitato, questo non esclude che essa possa avere una sua propria forza armata e gestirla direttamente. Se nei secoli si è a volte preferito non esercitare tale potere direttamente, il non uso non dimostra l'assenza di diritto. Alcuni teologi negano alla Chiesa tale diritto, dicendo che infatti il caso non è mai esistito. Se il Papa aveva (ed ha) una forza armata l'avrebbe in quanto è anche sovrano temporale, non in quanto Capo della Chiesa. In realtà, siamo in grado di citare almeno un caso storico famosissimo e non isolato,in cui vediamo un Vescovo disporre di una sua polizia, e difendere questo diritto come suo proprio di fronte alle autorità secolari che vogliono toglierglielo. Notiamo subito che questo Vescovo, a differenza di molti altri a quei tempi, non aveva una qualche giurisdizione civile (c'erano Vescovi ed Abati Conti, o Principi che riunivano nella loro persona i due poteri), ed è evidente che rivendicava l'uso della forza armata per far applicare dei provvedimenti che scaturivano dalla giurisdizione spirituale. Questo Vescovo è lo stesso san Carlo Borromeo. A Milano il tribunale vescovile interveniva su numerosi delitti (bestemmia, infrazioni del digiuno e del riposo festivo, usura, immoralità etc.), e il Borromeo aveva ristabilito il tradizionale drappello di birri armati per far rispettare le sentenze. Il senato di Milano protestò, dicendo che l'Arcivescovo non poteva adoperare i suoi armati contro dei laici.Una lunga e dura controversia tra Milano, Roma e Madrid si concluse nel dicembre 1569, con la vittoria dell'Arcivescovo, sostenuto da san Pio V, che si vide confermato nel suo diritto: il Senato pubblicamente si sottomise e chiese perdono per le censure incorse. Ugualmente, ci sembra difficile distinguere tra il Papa come sovrano temporale e il Papa Capo della Chiesa quando sappiamo che il suo esercito era detto l'esercito “della Chiesa”, che combatteva sotto il rosso vessillo della Chiesa Romana che era solennemente consegnato dal Papa al Capitano generale “di Santa Romana Chiesa” con una speciale benedizione perché fosse «inimicis populi christiani terribile»(11). Per gli stessi motivi, sembra impossibile negare alla Chiesa il cosiddetto ius gladii, il diritto di spada, cioè di infliggere delle pene corporali fino alla pena di morte, sia in modo mediato (tramite cioè l'ausilio del braccio secolare) sia in modo immediato. Infatti tale pena è necessaria ad ogni società per il bene comune davanti a uomini incorreggibili o alla necessità di dare il terrore dei delitti più gravi. Possiamo dire che la pena di morte è lecita e necessaria per la Chiesa allo stesso titolo che per lo Stato. Impossibile affermare che la Chiesa non abbia de facto pronunciate delle sentenze capitali di propria autorità (e non solo per una giurisdizione civile concessa dai Principi laici). Citiamo qui tre testimonianze: Lucio III ordina che gli eretici condannati siano lasciati all'arbitrio delle autorità laiche, il che equivale a consegnarli alla morte(12); Innocenzo III ordina ai Principi secolari «che per la difesa della fede prestino un pubblico giuramento, che cercheranno di sterminare dalle terre di loro giurisdizione, con buona volontà e nella misura delle loro forze, tutti gli eretici segnalati dalla Chiesa»(13); infine la proposizione di Lutero condannata da Leone X dice testualmente: «Bruciare gli eretici è contro la volontà dello Spirito»(14). Gli argomenti sulla necessaria mansuetudine della Chiesa apportati dagli avversari di questa tesi si riferiscono piuttosto all'esercizio del diritto di gladio che non alla sua esistenza. Ammessa l'esistenza di tale diritto, diventa difficile negare alla Chiesa il diritto di applicarlo direttamente, senza l'intermediario dello Stato, anche se volentieri ammettiamo che ciò deve essere avvenuto raramente.

    LA CHIESA NEI SUOI RAPPORTI CON LA SOCIETÀ TEMPORALE

    a) Il potere indiretto Riteniamo inutile ricordare qui le innumerevoli condanne dei Pontefici Romani al sistema di separazione della Chiesa dallo Stato, falsissima maximeque perniciosa sententia, come lo definiva san Pio X nell'enciclica Vehementer. Indubbiamente alla Chiesa, come società spirituale, non spetta di per sé alcun potere immediato sulle cose del governo temporale, che esulano dal suo fine. Regnum meum non est de hoc mundo:il fine di quel Regno di Dio che è la Chiesa non è assolutamente terreno, ma soprannaturale e celeste. Tuttavia, per la superiorità dello spiritosullamateria,delfinesoprannaturale che ingloba il fine temporale, si deve ammettere una netta subordinazione dello Stato alla Chiesa, almeno in via indiretta. Non si tratta di un mero potere direttivo, come volevano il Bossuet ed i gallicani, ovvero di un semplice potere di consigliare ed esortare o di insegnare la giusta strada ai sovrani (come dicevano i Quattro Articoli della Dichiarazione del Clero gallicano del 1682, condannati dal breve del beato Innocenzo XI dell'11 aprile 1682 e dalla Costituzione Inter multiplices di Alessandro VIII del 4 agosto 1690, DzS. 2281-2285; condanna ripresa da Pio VI in Auctorem fidei, DzS. 2699): è invece una vera giurisdizione comprendente il diritto di ordinare, giudicare, costringere. Lo abbiamo visto in qualche misura per il potere di usare del cosiddetto braccio secolare, ed abbiamo già citato la necessaria sottomissione di un gladio all'altro voluta da Bonifacio VIII. Questa sottomissione indiretta, la cui esistenza è innegabile, deriva dall'autorità che la Chiesa ha su tutti i battezzati, Principi compresi, e dal suo dovere di provvedere al bene dei medesimi. Così, in tutto ciò che tocca la fede o la morale, la Chiesa ha diritto di intervenire, ratione peccati, secondo l'espressione usata da Innocenzo III(15) e Bonifacio VIII. Oltre a san Roberto Bellarmino, che largamente spiegò l'esistenza e la natura di tale potere, citiamo qui le parole di san Tommaso: «La potestà secolare è sottomessa alla spirituale, come il corpo all'anima, e perciò non si usurpa il potere se il Prelato spirituale si intromette nel temporale quanto alle cose nelle quali gli è sottomessa la potestà secolare»(16). L'estensionediuntalepotereindiretto, che è vera giurisdizione, è massima. San Gregorio VII, nel Dictatus Papae, ci dice del Romano Pontefice che gli è lecito deporre gli Imperatori e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà fatto ai malvagi(17). Potere spesso esercitato dai Papi per i Principi malvagi: l'ultimo caso è quello di Elisabetta d'Inghilterra, che san Pio V nel 1570 privò del Regno per causa d'eresia con la Bolla Regnans in excelsis. L'introduzione di questa Bolla ci presenta il Papa che agisce in virtù del suo potere di capo della Chiesa. Citiamo qui anche la fin troppo famosa Bolla Cum ex apostolatus (così spesso citata a sproposito) di PaoloIV, che priva del potere anche tutti i dignitari laici (dall'Imperatore in giù) che fossero giudicati colpevoli d'eresia. A fortiori il Papapuòdichiararenulledelleleggiinique, cosa che fece san Pio X a riguardo delle leggi di separazione in Francia (enciclica Vehementer, 11 febbraio 1906). Tale dottrina del potere indiretto fu sostenuta ugualmente da Pio XI nell'Enciclica Ubi arcano del 23 dicembre 1922. b) La questione del potere diretto Senza nulla togliere a quanto detto finora, e senza in nessun modo negare la distinzione dei due ordini e delle due società, resta da esaminare se il Cristo che senza dubbio non è solo Re della società spirituale, ma anche Re di tutto l'ordine temporale(18), non abbia delegato anche questo suo potere al SuoVicario, così come gli ha delegato il supremo potere spirituale (con tutto ciò che esso comporta in materia temporale). In questo caso il Papa, come Vicario di Cristo, potrebbe intervenire in materia temporale sia indirettamente in virtù del potere spirituale, come abbiamo visto, sia direttamente in virtù della pienezza del potere temporale, e quindi non solo ratione peccati, ma in qualsiasi caso e anche sui sovrani non battezzati. Notiamo subito che si tratta di un diritto, quantunque possa non essere abitualmente esercitato. Non vi è nessuna confusione dei due ordini, ma solamente la stessa persona si trova a detenere l'apice di entrambi: il che è certamente vero per Nostro Signore in quanto Uomo. Resta da vedere se vi è stata delegazione di entrambi i poteri, il che dipendeva unicamente dalla libera volontà del Cristo, la quale ci è nota tramite la Rivelazione, dunque tramite il Magistero. Non osiamo dire che esistano argomenti apodittici in favore di questa tesi, che fu negata dal Bellarmino; esistono però numerosissimi indizi nel Magistero e nella prassi dei Papi, oltre che l'aperto sostegno di un gran numero di teologi e canonisti. San Tommaso d'Aquino espone tale tesi in modo semplice e chiarissimo: «…nelle cose che riguardano il bene civile, si deve obbedire piuttosto alla potestà secolare che alla spirituale, secondo il detto di Mt 22 “Date a Cesare ciò che è di Cesare”, etc. A meno del caso in cui alla potestà spirituale sia unita anche la potestà spirituale: come nel Papa, che tiene l'apice di entrambi i poteri, per disposizione di colui che è Sacerdote e Re in eterno, secondo l'ordine di Melchisedech, Re dei re e Signore dei signori, il cui potere non sarà tolto, e il cui regno non sarà consumato per tutti i secoli dei secoli. Amen»(19). In termini del tutto simili si era espresso Innocenzo III nella lettera di risposta al Re d'Inghilterra Giovanni SenzaTerra, che gli offriva in feudo il regno: «Il Re dei re e Signore dei signori Gesù Cristo, Sacerdote ineternosecondol'ordinediMelchisedech, stabilì il regno e il sacerdozio nella Chiesa di modo che sacerdotale sia il regno e regale il sacerdozio, come attestano Pietro nell'Epistola e Mosè nella Legge, mettendo a capo di tutti colui che ha ordinato come suo Vicario in terra…»(20). Tale dottrina era solitamente spiegata dai canonisti con la metafora del sole e della luna.La lasciamo spiegare a Bonifacio VIII, nel discorso da lui tenuto per confermare l'elezionedelRedeRomaniAlberto,futuro Imperatore,il30aprile1303: «Dio fece due grandi luminari, il luminare maggiore per governare il giorno, e il luminare minore per governare la notte. Questi due luminari fece Dio in senso letterale, come si legge nella Genesi (I,16).E tuttavia al senso spirituale fece i detti luminari, cioè il sole, che è il potere ecclesiastico, e la luna, cioè il potere temporale e imperiale, per reggere l'universo. E come la luna non ha nessuna luce, se non la riceve dal sole, così nessuna terrena potestà ha qualcosa, se non ciò che riceve dal potere ecclesiastico. […] Come infatti il Padre ha dato al Figlio il potere non nel tempo, ma nell'eternità, così il Cristo all'uomo e Vicario di Cristo diede il potere nel tempo, perché abbia il diritto di costituire l'Imperatore e di trasferire l'Impero»(21).E d'altronde lo stesso Alberto rispondeva al Papa riconoscendo che i Re e gli Imperatori ricevono il potere del gladio temporale dalla Santa Sede (22). Innocenzo IV, che almeno come dottore privato ampiamente sostenne tale tesi, in una lettera di risposta a Federico II che protestava per la sua deposizione, spiegava la cosiddetta donazione di Costantino (che comprendeva il potere su tutto l'Occidente lasciato al Papa dall'Imperatore) come l'abbandono di una tirannide illegittima e disordinata per riceveredalVicariodiCristolaconcessione di una legittima autorità, ed interpretando le due chiavi lasciate da Cristo a san Pietro come il simbolo dei due poteri(23). Resta espressione di tale dottrina anche la Bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, che abbiamo già citato per dimostrare genericamente la subordinazione dei due gladi. Molto si è discusso sulla sua interpretazione. Senza entrare nel merito, leggiamone con semplicità il passaggio immediatamente precedente a quello già citato, che riprende quasi letteralmente san Bernardo: «Siamo istruiti dalle parole del Vangelo che in questo suo potere (scil. di Pietro) sono i due gladi, cioè quello spirituale e quello materiale. Infatti quando gli Apostoli dicono: “Ecco due gladi qui”, cioè nella Chiesa, il Signore non risponde che sono troppi, ma che bastano. Certamentechinegacheilgladiotemporale sia nella potestà di Pietro, capisce male la parola del Signore che dice: “Metti la tua spada nel fodero”»(24). L'atto più eclatante di esercizio di questo potere ci sembra essere la famosissima Bolla Inter cetera di Alessandro VI, del 4 maggio 1493. Come tutti sanno, il Papa concede con questa bolla a Ferdinando di Castiglia e Isabella d'Aragona (e ai loro successori) la sovranità su tutte le terre del nuovo mondo che scopriranno al di là di una linea immaginaria cento leghe ad occidentedelleAzzorre.Malgradol'attosia compiuto per facilitare l'evangelizzazione, sarebbe veramente una forzatura voler attribuire a tutti i costi questo atto al potere indiretto, visto che il Papa vi dispone dei beni e dei regni di Principi pagani, non battezzati, e ne trasferisce senz'altro il dominio ai Re Cattolici. D'altronde si parla nella Bolla di una vera «donazione, concessione, assegnazione», fatta dal Papa «auctoritate omnipotentis Dei, nobis in beato Petro concessa, ac Vicariatus Ihesu Christi, qua fungimur in terris»(25). Quella stessa autorità di cui parla il Cardinale Protodiacono quando incorona il Papa: «Accipe thiaram tribus coronis ornatam, et scias te esse patrem principum et regum, rectorem orbis et in terra Vicarium Salvatoris nostri»(26). Nella notte di Natale, quando il Papa benediceva il cosiddetto stocco, uno spadone che con un berrettone veniva inviato ai Principi cristiani meritevoli, teneva un discorso preliminare composto da Sisto IV che diceva: «Questa spada pontificale figura il supremo potere temporale affidato dal Cristo al Pontefice suo Vicario in terra, secondo il detto “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”, e altrove “Dominerà da mare a mare, e dal fiume fino ai confini del mondo”, come indica anche la cappa di seta che i Pontefici sogliono portare nella notte del Natale del Signore»(27). Innumerevoli sarebbero le testimonianze del cerimoniale papale di ogni epoca, che meriterebbero una trattazione a parte. Se tale tesi è oggi oscurata e addirittura negata da alcuni grandissimi teologi e canonisti, dal Bellarmino in poi, non possiamo passar sopra a tali testimonianze. Non dimentichiamo che grandi santi, come sanTommaso, san Bernardo, san Giovanni da Capestrano e molti altri la sostennero; oltre ad innumerevoli Papi, canonisti e teologi. Solo la malvagità dei tempi e le pretese dei Principi hanno potuto far accantonare questa dottrina in questi ultimi secoli; noi però non possiamo trascurare il peso dei documenti citati.

    CONCLUSIONI

    Impossibile conciliare in un modo qualsiasi l'ecclesiologia che risulta dal principio della libertà religiosa con quanto abbiamo visto finora. Il Concilio ci presenta una Chiesa che non ha diritti davanti alla società civile, se non quelli concessi a qualsiasi altra organizzazione. Il Magistero ci mostra invece la società civile che presenta i suoi doveri al Cristo Re, concretamente rappresentato dalla Chiesa e dal Papa; da questa fonte vengono i diritti degli Stati e dei Regni. Da una Chiesa che, nella logica dell'Incarnazione, era dotatada Dio di tutti gli strumenti umani necessari alla sua perfezione e al raggiungimento del suo fine, ci troviamo di fronte ad una chiesa conciliare che riduce se stessa al rango di qualsiasi altra società puramente umana, per non dire diabolica, come è il caso delle false religioni. Non pensiamo che per ottenere il nostro fine bastino sempre e solo i mezzi puramente soprannaturali: se Nostro Signore si è fatto uomo, è perché abbiamo bisogno di tutte le cose umane, società per conoscere la verità o perseverare nel bene. Oggi che tutta la pressione sociale e tutta l'organizzazione mondiale cooperano contro il regno del Cristo e spingono con forza le anime al maleedall'errore, dovremmo comprendere a contrario quanto è necessario essere supportati da delle istituzioni realmente cristiane, e quanto è necessario che la Chiesa abbia i mezzi reali di far rispettare le leggi divine ai governanti e ai sudditi. Non si tratta, è ovvio, di costringere ad abbracciare la fede: nessun atto interno può essere fatto a comando. Si tratta invece di invertire la pressione sociale. Oggi i governanti e la società spingono con forza al male, creano delle situazioni in cui diventa un'impresa titanica obbedire alle leggi divine. Nella società cristiana, i presupposti sono tali che diventa quasi impossibile trasgredirle.

    Note

    (1) «Haec Vaticana Synodus declarat personam
    humanam ius habere ad libertatem religiosam.
    Huiusmodi libertas in eo consistit, quod omnes
    hominesdebentimmunesesseacoercitionesive
    singulorum sive coetuum socialium et cuiusvis
    potestatis humanae, et ita quidem ut in re reli-
    giosanequealiquiscogaturadagendumcontra
    suamconscientiamagatprivatimetpublice,vel
    solusvelaliisconsociatus,intradebitoslimites.
    Insuper declarat ius ad libertatem religiosam
    essereverafundatuminipsadignitatepersonae
    humanae, quails et verbo Dei revelato et ipsa
    rationecognoscitur.Hociuspersonaehumanae
    ad libertatem religiosam in iuridica societatis
    ordinatione ita est agnoscendum, ut ius civile
    evadat».

    (2) «…ex qua omnino falsa …idea haud timent
    erroneam illam fovere opinionem Catholicae
    Ecclesiae animarumque saluti maxime exitia-
    lem a rec. mem. Gregorio XVI… deliramentum
    appellatam, nimirum “libertatem conscientiae,
    et cultuum esse proprium cuiuscumque hominis
    ius, quod lege proclamari et asseri debet in
    omni recte costituta societate, et ius civibus
    inesse ad omnimodam libertatem nulla vel
    ecclesiasticavelciviliauctoritatecoarctandam,
    quos suos conceptus quoscumque sive voce,
    sive typis, sive alia ratione palam publiceque
    manifestare, ac declarare valeant”».
    (3) 1 Cor 4, 18, 21; 5, 3ss.; 1 Tim 5, 19.

    (4) Sess. VII, can. 8: Si quis dixerit baptizatos
    liberos esse ab omnibus Sanctae Ecclesiae
    praeceptis quae vel scripta vel tradita sunt, ita
    uteaobservarenonteneantur,nisisesuasponte
    illissubmitterevoluerint,anathemasit (Sequal-
    cuno dirà che i battezzati sono liberi da tutti i
    precetti scritti o tramandati della Santa Chiesa,
    al punto da non essere tenuti ad osservarli a
    meno che non vogliano sottomettervisi di loro
    spontanea volontà, che sia anatema).

    (5) 1 Cor 6, 1ss.

    (6) Liber Primus, Tit. XXVII, De Episcopali
    definitione.

    (7) «Ecclesiae et personarum ecclesiasticarum
    immunitas a iure civili ortum habuit» (n. 30);
    «Ecclesiasticum forum pro temporalibus cle-
    ricorum causis sive civilibus sive criminalibus
    omnino de medio tollendum est, etiam incon-
    sulta et reclamante Apostolica Sede» (n. 31).

    (8) «Tota Ecclesia simul iuncta, nullum homi-
    nem punire potest punitione coactiva, nisi
    concedat hoc Imperator» cf. DzS. 945

    (9) «Ecclesiae ius non competere violatores
    legum suarum poenis temporalibus coere-
    cendi».

    (10) «Uterque gladius est in potestate Ecclesiae,
    spiritualis scilicet gladius et materialis. Sed
    is quidem pro Ecclesia, ille vero ab Ecclesia
    exercendus. Ille Sacerdotis, is manu regum
    et militum, sed ad nutum et patientiam Sacer-
    dotis. Oportet autem gladium esse sub gladio
    et temporalem auctoritatem spirituali subiici
    potestati».

    (11) Andrieu M., Le Pontifical de Guillaume
    Durand, t. 3 p.550.

    (12) Lib. V Decretalium, tit. 7, cap. 9.

    (13) «…ut pro defensione fidei praestent publice
    iuramentum, quod de terris suae iurisdictionis
    subiectis universos haereticos ab Ecclesia
    denotatos, bona fide pro viribus exterminare
    studebunt» Lib. V Decretalium, tit. 7 cap.13.

    (14) «Haereticos comburi est contra voluntatem
    Spiritus», Bolla Exsurge Domine n. 33, 15
    giugno 1520, DzS. 1483.

    (15) Cfr. in particolare la lettera ai Vescovi di
    Francia Novit ille del 1204, in Corpus iuris
    canonici, Decretales Gregorii IX, lib. II, tit. I,
    cap. 13; e la lettera all?Imperatore Alessio di
    Costantinopoli, ibidem lib. I, tit. 33, cap VI.

    (16)«Potestas secularis subditur spirituali sicut
    corpus animae, et ideo non est usurpatum iudi-
    cium, si spiritualis Praelatus se intromittat de
    temporalibus quantum ad ea in quibus subditur
    ei secularis potestas» Summa Theologiae II II,
    q. 60, art. 6, ad 3um.

    (17) «Quod illi liceat Imperatores deponere»,
    n. XII; «Quod a fidelitate iniquorum subiectos
    potest absolvere», n. XXVII.

    (18) Cfr. Enciclica Quas primas, DzS. 3679

    (19) «In his quae ad bonum civile pertinent, est
    magis obediendum potestati saeculari quam
    spirituali, secundum illud Mth. XXII, 21: Red-
    diteergoquaesuntCaesarisCaesari.Nisiforte
    potestati spirituali etiam saecularis coniun-
    gatur, sicut in Papa, qui utriusque potestatis
    apicem tenet, scilicet spiritualis et temporalis,
    hoc illo disponenente qui est Sacerdos et Rex
    in aeternum, secundum ordinem Melchisedech,
    Rex regum et Dominus dominantium, cuius
    potestas non auferetur et regnum non corrum-
    petur in saecula saeculorum. Amen.» 2Sent.,
    dist. 44, q. 2, a. 3 ad 4um.

    (20)«RexregumetDominusdominantium,Jesus
    Christus, Sacerdos et in aeternum secundum
    ordinem Melchisedech, ita regnum et sacer-
    dotium in Ecclesia stabilivit, ut sacerdotale sit
    regnum, et sacerdotium sit regale, sicut in Epi-
    stola Petrus et Moyses in lege testantur, unum
    praeficiens universis, quem suum in terris
    Vicariusordinavit…»Migne,PatrologiaLatina
    216, 923-924.

    (21) «Fecit Deus duo luminaria magna, lumi-
    nare maius, ut preesset diei, luminare minus
    ut preesset nocti. Hec duo luminaria fecit Deus
    ad litteram, sicut dicitur in Genesi. Et nichilo-
    minus spiritualiter intellecta fecit luminaria
    predicta, scilicet solem, id est ecclesiasticam
    potestatem, et lunam, hoc est temporalem et
    imperialem, ut regeret universum. Et sicut luna
    nullum lumen habet, nisi quod recipit a sole, sic
    nec aliqua terrena potestas aliquid habet, nisi
    quod recipit ab ecclesiastica potestate. […]
    Sicut enim Pater dedit Filio potestatem non in
    tempore, sed in eternitate, sic Christus homini
    et Christi Vicario dedit potestatem in tempore,
    ut ipse habeat ius constituendi imperatorem et
    imperium transferendi» Cfr. Monumenta Ger-
    maniae historica, Leges, Sectio IV, Const., IV,
    pars I, Hannover-Berlin 1826.

    (22) «…a qua [apostolica sede] reges et
    imperatores, qui fuerunt et erunt pro tempore,
    recipiunt temporalis gladii potestatem…»
    ibidem, Const. T. IV, Pars I.

    (23) Vedi in Lo Grasso S.I., Ecclesia et Status
    - Fontes selecti, Roma 1939, nn. 400-409.

    (24) «In hac eiusque potestate duos esse gladios,
    spiritualem scilicet et temporalem, evangelicis
    dictis instruimur. Nam dicentibus Apostolis
    Ecce gladii duo hic, in ecclesia scilicet, quum
    Apostoli loquerentur, non respondit Dominus
    nimisesse,sedsatis.CertequiinpotestatePetri
    temporalem gladium esse negat, male verbum
    attendit Domini proferentis: Converte gladium
    tuum in vaginam».

    (25) Cfr. il testo della Bolla in Lo Grasso S.I.,
    op. cit., nn.459-468.

    (26) «Ricevi la tiara ornata di tre corone, e sappi
    che sei il Padre dei Re e dei Principi, il Rettore
    del mondo, il Vicario in terra del nostro Sal-
    vatore Gesù Cristo». Cfr. l?edizione critica del
    Cerimoniale papale a cura di Marc Dykmans
    S.I., L?œuvre de Patrizi Piccolomini ou le
    Cérémonial papal de la première Renaissance,
    ed. della Biblioteca Apostolica Vaticana, Coll.
    Studi e testi 293 e 294, Città delVaticano 1980,
    in particolare Liber primus, titulus secundus,
    XIV.

    (27) «Figurat denique pontificalis hic gladius
    potestatem summam temporalem a Christo
    pontifici eius in terris Vicario collatam, iuxta
    illud: Data est mihi omnis potestas in coelo et
    in terra. Et alibi: Dominabitur a mari usque
    ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis
    terrarum, quam et declarat cappa illa sericea,
    quam pontifices solent gestare in nocte natalis
    Domini.», ibidem, tit. septimus, VI

  2. #2
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    Interessante saggio. Ti ringrazio Eugenius


  3. #3
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    Prego Augustinus

    Te che ne pensi sull'articolo in questione?
    Secondo la Dottrina cattolica la Chiesa ha il potere di punire determinati delitti come apostasia, eresia, scisma, sacrilegi, infliggendo pene temporali che possono arrivare in casi particolari anche alla pena di morte?
    Sulla ovvia non possibilità di costrizione di qualcuno alla Fede cito Papa Pio XII ha affermato nella sua Enciclica "Mystici Corporis":

    Senza mai interrompere di pregare lo Spirito dell’amore e della verità, Noi li aspettiamo con le braccia aperte, non come estranei, ma quali figli che entrino nella loro stessa casa paterna. Però, mentre desideriamo che una tale preghiera salga ininterrotta a Dio da parte di tutto il Corpo mistico affinché tutti gli sviati entrino al più presto nell’unico ovile di Gesù Cristo, dichiariamo che è assolutamente necessario che ciò sia fatto di libera e spontanea volontà, non potendo credere se non chi lo vuole (cfr. August., In Joann. Ev. tract., XXVI, 2: Migne, P. L., XXX, 1607). Se alcuni, non credenti, vengono di fatto spinti ad entrare nell’edificio della Chiesa, ad appressarsi all’altare, a ricevere i Sacramenti, costoro, senza alcun dubbio, non diventano veri cristiani, (cfr. August., ibidem), poiché la Fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio (Hebr. XI, 6), deve esser libero "ossequio dell’intelletto e della volontà" (Conc. Vat., De Fide cath., cap. 3). Se dunque dovesse talvolta accadere che, in contrasto con la costante dottrina di questa Sede Apostolica (cfr. Leo XIII: "Immortale Dei"), taluno venga spinto suo malgrado ad abbracciare la Fede cattolica, Noi non possiamo esimerCi, per coscienza del Nostro dovere, dall’esprimere la Nostra riprovazione.
    CIAO

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da Eugenius Visualizza Messaggio
    Sulla ovvia non possibilità di costrizione di qualcuno alla Fede cito Papa Pio XII ha affermato nella sua Enciclica "Mystici Corporis"
    Sono molto daccordo con Papa Pio XII su questa materia; non può esistere fede cattolica aldifuori dell'arbitrio umano; la fede, tanto meno la carità, per loro stessa natura, non possono esse imposte per legge. Ve li immaginate i cittadini di uno stato, multati prechè non vanno a messa?

  5. #5
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    Qualcuno, non io, potrebbe obiettare che quella cattolica è vera religione, mentre le altre non lo sono; ciò, pur essendo vero, non conduce alla illiberalità religiosa, nei limiti del civilmente lecito.

  6. #6
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    Tra la verità e l'errore non c'è nessuna via di mezzo, tra questi due poli opposti non c'è che un immenso vuoto. Colui che si pone in questo vuoto è altrettanto lontano dalla verità di colui che è nell'errore (J. Donoso Cortes)
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    Avevoi lettto l'articolo quando uscì, l'anno scorso, su LTC: secondo me però don Mauro sbaglia quando prende come paradigma l'episodio di san Carlo e dei suoi birri, arguendone che quindi la CHiesa poteva de iure fare una cosa simile.

    In realtà, si tratta di unf attod eterminato da contingenze storiche, e che non può essere protato a sostegno della teoria della potestà della Chiesa di punrie da sè con la morte o con altri metodi.

    Ricordiamo che nel medioevo, all'epoca della nascita dell'Inquisizione, questi tribunali benemeriti una volta condannato l'eretico non eseguivano mai la sentenza da sè, ma lo consegnavano al braccio politico (secolare) perchè se ne occupasse, in omaggio al principio "Ecclesia abhorret a sanguine".

  7. #7
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    SOCIETÀ e AUTORITÀ

    di don Curzio Nitoglia

    La natura dell’autorità


    La società è un’unione morale di più uomini, per agire in vista del bene comune.

    La causa finale della società è il benessere comune temporale;

    la causa materiale sono le persone;

    quella efficiente è Dio che ha creato l’uomo socievole per sua natura;

    mentre la causa formale è l’unione morale tra i soggetti, ossia i diritti-doveri, mediante i quali gli individui sono uniti ad agire assieme, in vista del bene comune.

    L’autorità, deriva dalla società costituita, non è una delle quattro cause essenziali della società, ma una proprietà (o accidente proprio-necessario, che deriva direttamente e necessariamente dalla natura dell’autorità, e non ne è l’essenza).

    Alcuni filosofi (per esempio il cardinal Tommaso Zigliara O. P.), ritengono che l’autorità sia l’essenza della società (1); altri (ad esempio Joseph Gredt O. S. B. e Josephus Goenaga S. J.), sostengono che essa è un accidente proprio della società e non la sua essenza (2), anche padre Felice Maria Cappello S. J., e il cardinale Alfredo Ottaviani seguono tale tesi (3).

    Tuttavia essi non spiegano il perchè di tale tesi e non si dilungano oltre.

    Mi sembra di poter dire che l’autorità, che ha il compito di indirizzare i diversi individui, (che costituiscono la società) al fine comune, proprio in quanto socii o associati in vista del bene comune (causa formale della società) , mediante diritti e doveri, che li uniscono o associano a agire in vista del fine comune, presuppone la causa formale (unione morale dei cittadini) e dunque non può essere l’essenza della società, ma una sua conseguenza o proprietà che deriva dalla natura di associati tramite diritti-doveri, in vista di un fine.

    Ad esempio: l’intelletto e la volontà sono due facoltà dell’anima umana che è co-principio (assieme al corpo) della persona umana; esse per quanto nobili non sono la natura umana ma due facoltà o accidenti necessari tramite i quali l’anima è direttamente operativa, così è per l’autorità. Infatti l’autorità è piuttosto principio prossimo di azione, essa fa leggi, le fa osservare e castiga chi le viola, dirigendo così - praticamente - la società degli uomini al suo fine.

    Perciò l’autorità è una conseguenza della società già costituita nel suo essere; essa ha il diritto (e lo esercita) di obbligare i membri della società, affinchè cooperino coi loro atti al bene comune.

    L’autorità, pur essendo un accidente è necessaria, infatti «in qualunque società, scrive Leone XIII, è necessario che vi siano alcuni che comandino, affinchè la società, non si sfasci, priva del capo da cui è retta» (4).

    Come nel corpo umano (persona fisica) vi è il cervello o la testa che comanda, e le membra che eseguono i suoi ordini; così nella società civile (o persona morale) vi è l’autorità o capo che ordina e le membra o i soggetti che obbediscono (5).

    L’autorità e la persona umana

    S. Tommaso d’Aquino insegna che «il regno non è per il re, ma il re è ordinato al buon governo»(6). Ossia il fine dello Stato e dell’autorità politica è il bene comune dei cittadini, chi comanda - insegna San Paolo - è «ministro di Dio per il bene dei sudditi». Leone XIII spiega che «l’autorità governante deve essere indirizzata all’utilità dei sudditi e sua natura è tutelare il bene della società, l’autorità civile essendo stabilita a vantaggio di tutti» (7).

    Occorre evitare i due estremi dell'individualismo o personalismo e della statolatria:

    a) il personalismo individualista e liberale:

    la libertà e l’indipendenza della persona umana non sono assolute e illimitate, esse dipendono da Dio e sono finalizzate a Lui. L’uomo deve perciò essere sottomesso alla Legge divina, quando l’uomo fa il male e aderisce all’errore, mantiene la dignità radicale della natura umana ma perde la dignità prossima di persona umana, ordinata al vero e al bene, e si abbassa al livello delle bestie.

    Inoltre l’uomo essendo animale sociale è limitato dalla necessità di convivere in pace con gli altri uomini e deve rispettare i diritti altrui. L’indipendenza, assoluta propria del liberalismo, sfocia necessariamente nell’anarchia.

    b) la statolatria o assolutismo totalitarista:

    l’uomo non è un cosa, un semplice strumento dello Stato suo fine ultimo.

    Se lo Stato come persona morale (insieme di più persone fisiche) è giuridicamente più nobile dell’uomo-cittadino (animale sociale) come singola persona fisica; tuttavia l’uomo come persona umana (animale razionale, spirituale e immortale) è ontologicamente superiore allo Stato.

    Quindi la persona umana, immagine di Dio è metafisicamente superiore allo Stato. Leone XIII insegna «homo est republica senior». Lo Stato pertanto «è il perfezionatore dell’individuo e quindi lo Stato è ordinato all’individuo, esso deve aiutare l’uomo e non offenderlo - come insegna Leone XIII nella Rerum Novarum - tutelarlo e non diminuire i propri diritti» (8).

    La persona umana e il suo benessere sono il fine dello Stato, mentre l’organizzazione politica è un mezzo attraverso il quale lo Stato possa cogliere il suo fine (benessere comune dei cittadini). «Senza dubbio l’individuo deve servire la società, deve anche compiere dei sacrifici, ma sempre per suo vantaggio, perchè il sacrificio dell’individuo - in ultima analisi - torna a vantaggio dell’individuo stesso. La società civile ha potere sopra i sudditi, ma solo relativamente al loro fine e al loro bene» (9).

    Tale rapporto tra Stato e individuo fu affrontato da Jacques Maritain, nel 1936, in Umanesimo integrale, che fu criticato da don Julio Mienvielle nel 1945 (Da Lamennais a Maritain) e da padre Reginaldo Garrigou-Lagrange O.P. tra il 1947-48 (Corrispondenza tra padre Garrigou-Lagrange e don Mienvielle). Come si vede padre Andrea Oddone S. J., professore all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e membro del Collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica, è stato il primo - nel 1937 - a confutare la tesi maritainiana, pur senza citarla esplicitamente.

    L’intolleranza cattolica

    Per capire meglio ciò che significhi esattamente il concetto di in-tolleranza, occorre partire dall’idea di tolleranza. Essa si trova accompagnata da qualche male da sopportare o tollerare, (ad esempio, quando si ha il mal di denti di notte, e non è possibile reperire immediatamente un dentista, si è costretti a tollerare, sino a quando apra lo studio dentistico, per poter estirpare il dente soggetto di carie, di dolore e di male). La tolleranza di un male morale, presuppone un vizio (per esempio si tollerano le cosiddette “case di tolleranza”), mentre la tolleranza dottrinale presuppone un male dell’intelletto, ossia l’errore. Quindi «tolleranza significa sopportare con pazienza una cosa cattiva moralmente o erronea dottrinalmente» (10).

    Da un punto di vista teologico la tolleranza dogmatica, «mette sopra un eguale piano giuridico, le varie e contrarie religioni, e concede a tutte piena libertà, perchè suppone che debbano ritenersi tutte, di uguale diritto, davanti a Dio e in ordine alla salvezza, essa non è altro che l’indifferenza, germoglio diretto del liberalismo» (11).

    Padre Andrea Oddone S.J., de La Civiltà Cattolica, afferma che la Chiesa «non può assolutamente ammettere la tolleranza dogmatica o dottrinale. Su questo punto essa sarà sempre intollerante, perchè ha la coscienza di aver ricevuto da Cristo il deposito della verità divina e sa di essere investita di un magistero sovrano e infallibile» (12).

    L’intolleranza dottrinale è una conseguenza diretta della verità che si ha la fortuna di conoscere (per esempio, il maestro di matematica non può tollerare che per uno o anche tutti gli alunni, 2+2=6; no 2+2=4, solo e soltanto 4, nè più nè meno; non quasi 4, o 4 e qualcosa, ma solo e soltanto 4). Essa non può non condannare ogni errore; il cattolicesimo è intollerante allo stesso modo della verità che non ammette l’errore dottrinale. Una scienza che ammettesse nelle sue ricerche gli errori e le verità senza distinzioni, distruggerebbe se stessa (un ingegnere che nel progettare un ponte ammettesse l’errore nei suoi calcoli matematici, distruggerebbe la sua professione e tante vite umane, come conseguenza del crollo del ponte, il quale non può sostenere o tollerare carenze di ferro o di cemento). Così «la Chiesa, se non fosse intollerante nella dottrina distruggerebbe se stessa» (13). Solo la verità e il bene hanno diritto di esistenza, l’errore e il male morale non hanno alcun diritto, possono essere soltanto tollerati, eccezionalmente, solo per evitare un male più grande (ad esempio il dentista che scorgendo un’infezione nel dente cariato, tollera la sua permanenza nella bocca del povero paziente, sino a che l’infezione non sia scomparsa, dopo un’eventuale cura di antibiotici. Non si ammette il mal di denti, non gli si concedono diritti; lo si tollera, per evitare che l’infezione si sparga dal dente a tutto il corpo del paziente).

    «L’intransigenza teoretica della Chiesa, ha saputo tener conto delle situazioni pratiche, perchè altra cosa è l’ideale, altra cosa è la realtà. Idealmente la verità essendo una sola, deve imporsi a tutte le intelligenze, come la legge morale a tutte le coscienze. Ma la pratica dimostra che, sia per la debolezza della ragione, sia per i capricci della volontà, possono prodursi sovente mancanze di cui bisogna tener conto. Perciò la Chiesa permette che gli Stati accordino la tolleranza politica, in una società divisa sotto il punto di vista religioso, ma solamente nella misura necessaria per impedire mali maggiori» (14).

    S. Agostino afferma che «bisogna condannare e confutare le dottrine eretiche e pregare per la conversione degli eretici. Siamo fieri di conoscere ed aderire alla verità, ma senza superbia, combattiamo per la verità ma senza crudeltà» (15).

    Occorre sapere che “le azioni sono dei soggetti”, onde la distinzione netta tra errore ed errante è poco corretta, infatti senza erranti non vi sarebbero errori, (in guerra senza soldati non vi sarebbero frecce e colpi di cannone. Se un generale volesse combattere un esercito nemico, e dirigesse i suoi sforzi solo contro le frecce e non contro gli arcieri, sarebbe un pessimo generale). La sana filosofia insegna che si deve combattere l’errante e il suo errore e la teologia insegna che verso l’errante non va esercitato l’odio di malevolenza (volere il suo male come fine), ma è lecito l’odio di inimicizia che ci porta a volere il suo bene, il suo ravvedimento come uomo, e a combatterlo come nemico della verità e del bene. San Leone Magno diceva che «non possiamo governare i nostri fedeli, se non combattiamo - con zelo divino - coloro che sono malvagi e corruttori» (16).

    «Quando gli erranti tentassero di spargere errori e di nuocere agli altri, l’intolleranza dell’errore dovrà ridondare anche a danno degli erranti. Allora anche gli erranti non possono essere tollerati, ma si debbono rimuovere dalla società o almeno occorre renderli impotenti a recar danno» (17).

    Infatti ogni corpo, fisico come morale, fisiologicamente tende ad espellere i morbi e le infezioni, (chi è raffreddato starnutisce, ossia cerca di espellere il raffreddore, sarebbe folle se gli accordasse il diritto di renderlo ammalato).

    Non bisogna fare come Teofilo di Alessandria, il quale nel combattere l’eresia origeniana, era talmente tollerante con gli eretici da attirarsi la critica di S. Gerolamo che gli scrisse «il tuo contegno dispiace a Dio, infatti mentre con la tua tolleranza miri a correggere alcuni pochi, fomenti l’audacia di molti malvagi e fai in modo che la loro setta si irrobustisca» (18).

    NOTE:

    1) T. M. Zigliara O. P., Summa philosophica, De Propaganda Fide, Roma, 1876, Ethica, vol. III, pag. 184.

    2) J. Gredt O.S.B., Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, Herder, Friburgo, 1921, 3ª ed., n° 847, pag. 346.
    J. Goenaga S.J., Philosophia socialis, Gregoriana, Roma, 1964, pag. 278.

    3) F.M. Cappello S.J., Summa Juris Publici Ecclesiastici, Gregoriana, Roma, 1954, 6ª ed., pag. 26.
    A. Card. Ottaviani, Compendium Juris Publici Ecclesiastici, Typis Polyglottis Vaticanis, Roma, 1944, 4ª ed., pag. 12.

    4) Leone XIII, Diuturnum illud, 29 giugno 1881.

    5) Cfr. L. Taparelli D’Azeglio S.J., Saggio teoretico di Diritto naturale, Civiltà Cattolica, Roma, 1855, I vol.,
    pagg. 267-270.

    6) S. Tommaso d’Aquino, De regimine principum 1, 2.

    7) Leone XIII, Immortale Dei, 1 novembre 1885.

    8) A. Oddone, op. cit., pag. 52.

    9) Id., pag. 53.

    10) A. Oddone S.J., La costituzione sociale della Chiesa e le sue relazioni con lo Stato, Vita e Pensiero, Milano,1937, pag. 129.

    11) Id. , pagg. 129-130.

    12) Id., pag. 130.

    13) Id., pag. 131.

    14) Id., pag. 135.

    15) S. Agostino Aurelio, Sermo 49, 7.

    16) S. Leone Magno, cit. in A. Oddone, op. cit., pag. 137.

    17) A. Oddone, op. cit., pag. 137.

    18) S. Gerolamo, Epist; 63, 3.

    PICCOLA BIBLIOGRAFIA:

    A. Messineo S.J., Il fondamento giuridico dell’autorità, in «C.C.», anno 95, 1944, vol. II, quaderno 2255, 27 maggio 1944, pp. 285-294.

    Id., Le origini trascendenti del potere politico, in «C.C.», 1944, vol. II, quad. 2259, 29 luglio 1944, pagg. 138-147.

    P. Dezza S.J., I neotomisti italiani del XX secolo. Filosofia morale, Bocca, Milano, 1944.

    M Cordovani O.P., Tirannia e Libertà. L’uomo e lo stato, Studium, Roma, s.d.

    FONTE

  8. #8
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    10 riflessioni sulla laicità

    Dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân


    VERONA, giovedì, 19 luglio 2007 (ZENIT.org).- L’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina Sociale della Chiesa sta promuovendo una riflessione organica sulla laicità, che “è oggi il crocevia di moltissime problematiche etiche, sociali e politiche”, avverte.

    Nella sua pagina web www.vanthuanobservatory.org offre varie riflessioni prodotte su questo tema di grande attualità.

    Un primo frutto è lo studio di monsignor Giampaolo Crepaldi – segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – apparso sul “Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa” 1 (2006) con il titolo “Brevi note sulla laicità in J. Ratzinger – Benedetto XVI”.

    A questo seguiranno altri approfondimenti – annuncia l’Osservatorio nel suo Bollettino di Notizie n. 94 del 16 luglio scorso –. Uno dei prossimi fascicoli del “Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa” verrà dedicato interamente alla questione, con apporti di vari Paesi del mondo in cui la laicità e il laicismo assumono forme diverse.

    Nel frattempo, l’Osservatorio ha voluto sintetizzare in dieci punti le sue riflessioni sulla laicità, che riportiamo di seguito.

    * * *
    10 PUNTI SULLA LAICITA’

    1. La laicità è oggi intesa come ambito pubblico della ragione neutra da assoluti


    Oggi si tende a concepire la laicità come l'ambito della sola ragione ossia della ragione che considera la fede religiosa come irrazionale e quindi non degna di entrare nel dibattito pubblico. La conseguenza è la riduzione della religione a sétta e una tolleranza che equipara tra loro tutti gli déi. La laicità come neutralità dagli assoluti accetta la religione solo secondo tre modalità: come fatto privato, come setta nel mercato dei sentimenti religiosi, come vaga e generica mistica. Tutte e tre le modalità negano alla religione una dimensione pubblica.

    2. Questa laicità neutra dagli assoluti è a sua volta un assoluto

    Questa concezione della realtà rigorosamente razionale ha una sua propria assolutezza, l'assolutezza della conoscenza razionale, la tesi dell'esclusiva validità del conoscere scientifico e, di conseguenza, diventa contestazione dell'assolutezza religiosa. La laicità che pretende di essere neutra dagli assoluti è a sua volta una scelta assoluta, un dogma.

    3. Ma una ragione assoluta è impossibile

    La ragione che voglia rimanere fedele a se stessa, ossia autentica ragione, non può rinunciare al proprio rapporto con la fede. Se la ragione non si apre alla fede, assolutizzando così se stessa, non è per motivi razionali, ma o per una forma di fideismo della ragione o per una forma di razionalismo della fede, ossia su una ragione che diventa religione laica e su una religione che diventa unicamente grigia etica sociale.

    4. Il rifiuto politico del cristianesimo è anche rifiuto della ragione

    Rifiutando il cristianesimo, lo Stato occidentale rifiuta anche la ragione che il cristianesimo portava con sé e si consegna così agli déi.

    Il cristianesimo non si rifà alle divinità del mito ma al Dio come unico essere e verità del Logos greco. Il Dio cristiano non è però solo verità, è anche amore. Ma il fatto che sia amore non cancella il suo essere verità. "Sussiste una primordiale identità tra verità e amore". In questo modo il cristianesimo unifica la verità e la vita. Non può fare a meno della verità, e in questo assume le esigenze razionali, ma non accetta la separazione tra verità e vita che la ragione, da sola, vorrebbe proporre.

    5. L'"autolimitazione" della ragione assoluta

    La laicità come ragione pubblica che vuole eliminare il proprio rapporto con la fede soggiace ad un inevitabile processo. Essa tende ad essere assoluta, ma per essere assoluta deve limitare il senso e l'ambito della propria verità. Se essa si mantenesse aperta al trascendente, non potrebbe dirsi assoluta. Per farlo deve ridurre la propria pretesa di verità, per poter vantare dentro di essa un sapere assoluto. La conclusione è la riduzione della verità ai minimi termini di quanto si può provare con degli esperimenti.

    6. Dalla ragione assoluta alla "dittatura del relativismo"

    Ecco la transizione da una ragione assoluta, così intesa, alla "dittatura del relativismo". Di qualsiasi verità che non sia frutto di calcolo o esperimento, la laicità positivistica assume un atteggiamento di dubbio dogmatico. L'unica sua certezza è il dubbio; essa dubita di tutto tranne che del proprio dubitare. In questo modo essa proclama il relativismo, ma lo proclama dogmaticamente, come l'ultimo dogma rimasto dopo la decostruzione della verità, quindi come ultima e definitiva verità.

    L'uomo non ammette più alcuna istanza morale al di fuori dei suoi calcoli" e così i desideri si trasformano in diritti.

    7. La "auto-autorizzazione" dell'agire umano, ossia il nichilismo della tecnica

    Se la misura dell'uomo è la sua capacità siamo al nichilismo della tecnica e l'uomo può "auto-autorizzarzi" a fare tutto ciò che è in grado di fare. La constatazione che la dittatura del relativismo porta al nichilismo della tecnica decreta l'insostenibilità di una laicità staccata dalla trascendenza. Ci dice che la laicità vera è quella che non solo ammette o tollera la trascendenza, ma anche che ne sente il bisogno e che la promuove. Sul piano della concreta prassi politica, la laicità vera assume due atteggiamenti fondamentali: a) non chiede ai credenti di spogliarsi della loro fede quando partecipano al dibattito pubblico per assumere le sole vesti della ragione; b) non concede libertà di parola solo ai singoli credenti, ma anche alle comunità religiose come tali. Questo, dal punto di vista della politica, significa riconoscere alla comunità religiosa il diritto di essere soggetto di cultura sociale e politica.

    8. La laicità ha bisogno di trascendenza

    Se solo una laicità che non escluda la trascendenza può essere veramente laica, allora, quantomeno, la laicità deve ragionare "come se Dio fosse".

    9. Non tutte le religioni garantiscono egualmente l'apertura alla trascendenza

    Non tutte le religioni sono ugualmente adatte a garantire alla politica la necessaria trascendenza. Una religione come il Buddismo, per esempio, che propone la dissoluzione della persona nell'uno-tutto è meno in grado di garantire in senso trascendente i diritti della persona che non una religiona come quella cristiana per la quale l'incontro con Dio sarà un incontro personale. E' interesse della laicità non scadere nel qualunquismo religioso.

    10. La laicità, il cristianesimo e l'Occidente

    Il concetto di laicità esiste solo in Occidente. Ma proprio qui in occidente la laicità ha assunto i caratteri della dittatura del relativismo. Solo qui in Occidente, quindi, può accadere che la laicità superi i caratteri della dittatura del relativismo e si riapra alla trascendenza. Dato che, però, non tutte le religioni sono in grado di permettere all'Occidente di fare questo in armonia con le sue migliori conquiste, ma solo il cristianesimo, è evidente che l'Occidente non può permettersi di tagliare i ponti con il cristianesimo. La laicità non è possibile senza il cristianesimo. Certamente il cristianesimo non coincide con l'Occidente, ma se l'Occidente recide i propri legami col cristianesimo, esso perde di vista anche se stesso. Aprendosi indiscriminatamente a tutto quanto è esterno, senza più fiducia in se stesso e senza contare sul legame col cristianesimo, l'occidente non riesce ad integrare più nulla, nemmeno se stesso.

    Fonte: Zenit, 19.7.2007

  9. #9
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    Predefinito La rinuncia al mandato di Cristo, ovvero, così come intesa oggi ...

    La religione nella sfera pubblica

    Il ruolo essenziale dei valori spirituali


    ROMA, domenica, 26 agosto 2007 (ZENIT.org).- Il rapporto tra religione e politica continua ad essere motivo di acceso dibattito, con risvolti anche su questioni di bioetica, di politiche per la famiglia e di giustizia sociale. Mentre si continua a insistere a non voler concedere alcuno spazio alla religione nella politica, un libro pubblicato lo scorso anno sostiene invece che una società democratica pluralista ha bisogno della presenza della fede e di argomentazioni religiose nella vita pubblica.

    Brendan Sweetman spiega questa sua posizione nel libro “Why Politics Needs Religion: The Place of Religious Arguments in the Public Square” (InterVarsity Press). Sweetman, professore di filosofia presso la Rockhurst University di Kansas City, nel Missouri, è convinto che il tentativo volto ad estromettere la religione dalla politica si basi su un malinteso senso del pluralismo moderno.

    Sweetman esordisce illustrando il concetto di “visione del mondo” (“worldvision”) come quell’impostazione di fondo che sottende la nostra concezione della realtà, della natura della persona umana e dei valori morali e politici. Esiste una grande varietà di queste visioni del mondo:
    alcune puramente laiche, altre fondate su basi religiose.

    I fautori del secolarismo, spiega il libro, tendono a voler escludere quelle visioni del mondo fondate sulla religione, perché sostengono che si basino su fonti inattendibili o irrazionali. Sempre secondo i laicisti, in una società pluralistica non è possibile introdurre argomenti religiosi perché ciò significherebbe imporre elementi di una religione sugli altri che non condividono tali credenze.

    La razionalità

    Sweetman mette tuttavia subito in evidenza che una tale argomentazione ignora che l’elemento razionale svolge un ruolo sostanziale nella religione. Sweetman, che all’inizio del libro dichiara la sua fede cattolica, cita come esempio l’enciclica “Evangelium Vitae” di Giovanni Paolo II che contiene un’estesa spiegazione, su basi razionali, della contrarietà all’aborto.

    “Il laicista, opportunamente, ignora la questione della razionalità della fede religiosa, o nega superficialmente che la fede religiosa possa essere razionale, o, ancora, evita di fare il raffronto fra la razionalità delle convinzioni religiose e la razionalità delle convinzioni laicistiche”, sostiene Sweetman.

    È ora che venga sfatato il mito di una concezione della religione come una sorta di sinonimo di irrazionalità. L’impostazione religiosa del mondo, sostiene Sweetman, non ha nulla da temere da un’analisi razionale.

    Il libro sostiene inoltre che la religione non è da considerarsi come una forma di minaccia alla democrazia. Al contrario, essa può rappresentare un valido contributo al dibattito pubblico. Una società, per dirsi veramente democratica, dovrebbe tener conto della “visione del mondo” di tutti i suoi membri e consentire loro di partecipare alla dialettica pubblica, afferma.

    La religione può anche rappresentare un valido contributo alle discussioni sui diritti umani, sui valori politici e sul concetto di persona umana, aggiunge Sweetman.

    Egli ammette che le religioni non sempre si dimostrano all’altezza dei principi che proclamano e che spesso vi è disaccordo tra le religioni su questioni morali, sociali e politiche. Non tutti gli elementi religiosi, inoltre, sono adatti ad orientare le politiche pubbliche – spiega Sweetman – e non tutte le convinzioni religiose seguono una logica razionale.

    Ciò nonostante, la visione religiosa del mondo costituisce un contributo valido e merita di poter essere ascoltata. Infatti, estromettere una visione religiosa del mondo senza dare ad essa la possibilità di essere discussa pubblicamente nel merito delle argomentazioni che essa propone si configura come una violazione dei principi democratici.

    Una delle obiezioni dei laicisti, osserva Sweetman, è che la religione introdurrebbe divisioni e dogmatismi, e persino violenze, nella sfera pubblica. È vero che la religione può essere motivo di divisione, ammette l’autore, ma questo è egualmente valido per impostazioni di natura puramente laica. Il XX secolo abbonda di esempi di abusi commessi in nome di ideologie del tutto laiche.

    Cattolici in azione

    Il Vescovo Thomas Olmsted, di Phoenix, in Arizona, ha scritto un libretto, in forma di domande e risposte, contenente una serie di raccomandazioni sul ruolo della religione nella politica. In questo suo pamphlet, dal titolo “Catholics in the Public Square”, pubblicato da Basilica Press, egli raccomanda ai fedeli di essere rispettosi delle convinzioni degli altri, o di coloro che non hanno alcuna fede.

    Allo stesso tempo, tuttavia, “i cattolici non devono avere timore di abbracciare la loro identità o di mettere in pratica la loro fede nella vita pubblica”.

    La Chiesa, prosegue il Vescovo Olmsted, non cerca di imporre la sua dottrina sugli altri. Essa è, nondimeno, legittimamente impegnata per il bene comune, per la promozione della giustizia e del benessere della società.

    Purtroppo esiste una forma di discriminazione contro i credenti e soprattutto contro i cattolici che esprimono le loro idee pubblicamente. Non solo vi è una interpretazione errata delle idee cattoliche, ma esiste una vera e propria ostilità nei confronti delle persone che manifestano le proprie convinzioni religiose.

    “Ciò nonostante, è nostro dovere impegnarci nella cultura e non fuggire da essa”, osserva il Vescovo Olmsted. Il credente, come ogni persona, ha tutto il diritto di proporre le proprie idee nella sfera pubblica.

    Valori fondamentali

    Un altro contributo recente al tema del ruolo della religione nella politica è stato espresso dall’Arcivescovo di Washington, Donald Wuerl, che il 13 aprile ha parlato in occasione del National Catholic Prayer Breakfast.

    Negli ultimi anni si è indebolito, nell’opinione pubblica, il senso del ruolo che i valori religiosi possono svolgere come elemento di sostegno del diritto e della politica, ha osservato l’Arcivescovo. Anziché fare leva sui valori che sono comuni alle principali religioni, vi è un crescente ricorso ad argomentazioni puramente laiche per giustificare l’azione politica.

    L’Arcivescovo Wuerl ha sostenuto che questa tendenza è contraria alla prevalente visione dei padri fondatori dell’America. Esiste un principio comune nell’esperienza politica americana, ha sostenuto: “La convinzione della natura cogente della legge morale è fondamentale per comprendere ogni filone di pensiero americano”.

    Il pensiero cattolico è su questa linea, ha proseguito l’Arcivescovo, ricordando che il Catechismo della Chiesa cattolica parla dell’importanza della legge morale e di come i comandamenti sono espressione diretta della legge naturale.

    “La fede religiosa ha svolto e continua a svolgere un ruolo significativo nella promozione della giustizia sociale e nella difesa di ogni vita umana innocente”, ha spiegato il presule. La fede, ha aggiunto, ci aiuta a valutare la nostra vita e a giudicare il bene e il male in linea con la sapienza divina.

    Approccio schizofrenico

    L’Arcivescovo ha quindi sottolineato che il tentativo di separare la sfera morale da quella politica, o i valori spirituali da quelli umani, è un “approccio schizofrenico alla vita”, che porta solo “devastazione alla persona e alla società”.

    “Il modello laicista non è sufficiente a consentire un’adeguata analisi dell’agire umano, in grado di dare un orientamento che sia in linea con un’impostazione altruistica della vita umana”, ha concluso.

    Questo ragionamento si trova spesso anche nel pensiero di Benedetto XVI. Tra i suoi più recenti richiami alla necessità della presenza della fede e dei valori morali nella politica e nella società, vi è quello contenuto nel suo discorso del 5 luglio, rivolto ad un gruppo di Vescovi della Repubblica dominicana, a Roma per la loro visita quinquennale ad limina apostolorum.

    È compito dei laici lavorare e agire direttamente nella costruzione dell’ordine temporale, ha ricordato il Papa. E in questo compito essi hanno bisogno di essere guidati dalla luce del Vangelo e dell’amore cristiano.

    I cristiani impegnati nella vita pubblica dovrebbero – ha raccomandato il Pontefice – dare testimonianza pubblica della propria fede ed evitare di vivere due vite parallele: una spirituale e l’altra secolare, dedicata alla partecipazione ad attività sociali, politiche e culturali.

    Il Papa ha esortato i cristiani a perseguire, invece, una piena coerenza tra la loro vita e la loro fede, fornendo così un’eloquente testimonianza della verità del messaggio cristiano. Una coerenza che troppo spesso manca nella vita pubblica.

    di padre John Flynn, L.C.

    Fonte: Zenit, 26.8.2007

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    Predefinito Articolo comunque da prendere cum grano salis ...

    La risposta della fede cristiana al relativismo occidentale

    MADRID, sabato, 15 settembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato a Madrid, il 13 settembre, in occasione del XVI Corso di Dottrina Sociale della Chiesa, da Stefano Fontana, Consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e Direttore dell’Osservatorio internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla Dottrina sociale della Chiesa.

    Il titolo dell'intervento era: “Il relativismo occidentale come questione etica e politica. Risposta della fede cristiana”.

    * * *
    La laicità come problema teologico

    Può sembrare che quello della laicità sia solo un problema politico. Così in realtà non é. Non riusciremo a percepire la profondità della posta in gioco e nemmeno ad approntare delle valide misure di azione e reazione alle attuali tendenze negative senza collocare il tema al suo livello più radicale: teologico e metafisico.

    Giovanni Paolo II, in occasione della celebrazione del 1200mo centenario dell’incoronazione di Carlo Magno, aveva detto che la Costituzione europea sarebbe stata incompleta senza un chiaro e testuale riferimento a Dio [1]. Con questa richiesta egli altro non faceva che collocare il tema della laicità sul piano propriamente teologico e metafisico, al di fuori del quale non è né affrontabile né tanto meno risolvibile. Pochi lo hanno compreso, pochi lo hanno seguito, non perché non si trattasse del livello appropriato in cui collocare il tema, ma proprio per quello.

    Il problema metafisico della laicità nasce da questa domanda: la natura è autosufficiente? Il problema teologico, nel quale il precedente livello confluisce necessariamente, nasce da quest’altra domanda: la natura umana è corrotta o incorrotta?

    Alla prima domanda la laicità della modernità risponde che la natura umana è autosufficiente per la propria salvezza. L’uomo riesce ad essere pienamente uomo anche senza il cristianesimo. La ragione è pienamente ragione anche senza la fede. L’Europa pensa di poter essere se stessa senza il Dio cristiano. A dire il vero, in alcune sue versioni non accidentali, la modernità ha anche affermato che l’uomo per essere pienamente uomo deve rifiutare Dio. Quando non giunga a tanto, la laicità della modernità coincide con l’autosufficienza della natura. Il razionalismo moderno comporta l’autosufficienza della ragione. Per questo motivo la sopranatura e la fede sono considerate superflue, solo un’aggiunta ad un quadro già completo in sé, un “di più” non necessario, possono avere forse qualche utilità ma non sono essenziali.

    La pretesa cristiana, tuttavia, permane in tutta la sua diversità. Benedetto XVI a Regensburg ha detto che senza Dio i conti sull’uomo e sull’intero universo non tornano [2]. Ad Aparecida egli ha affermato che la stessa conoscenza della realtà è incompleta senza il riferimento a Dio [3]. Nel suo libro Gesù di Nazaret [4] egli sostiene che il Cristo della fede è indispensabile anche per conoscere il Cristo della storia. La pretesa cristiana è di essere indispensabile, perché, come affermava De Lubac, l’uomo riesce benissimo a costruire il suo mondo senza Dio, ma in questo caso non può che costruirlo contro l’uomo [5].

    Se il problema fondamentale è se il Cristianesimo sia solo utile o anche indispensabile, bisogna riconoscere che la laicità della modernità al massimo lo considera utile anche se, non ritenendolo indispensabile, alla fine finisce per non ritenerlo più nemmeno utile. Esso ritiene di essere invece indispensabile. In termini metafisici questo comporta che la natura non sia in grado di essere se stessa senza la sovranatura e che la ragione non sia in grado di essere pienamente ragione senza la fede.

    Laicità e dottrina del peccato originale

    Il passaggio dal piano metafisico a quello più radicalmente teologico è inevitabile in quanto la laicità della modernità nasce dalla eliminazione o dimenticanza del peccato originale [6]. La natura e la ragione sono considerate autosufficienti in quanto non corrotte. Ambedue pensano di essere capaci di salvarsi, ovviamente al loro proprio livello. La storia non ha bisogno del trascendente per organizzare se stessa in modalità pienamente umane. La posizione della laicità della modernità è pelagiana, mentre il cristianesimo ritiene che senza l’aiuto della vita divina la natura umana, che ha subito un vulnus tale da esserne indebolita anche se non annichilita, non riesce nemmeno ad essere natura umana. Cristo non è semplicemente utile, è indispensabile [7]. E’ necessario poi che il pelagianesimo confluisca nello gnosticismo in quanto alla dimensione della ragione umana si attribuisce un potere autosalvifico. La laicità della modernità, che nasce dalla negazione pelagiana dello status naturae lapsae dell’uomo, ha espresso ed esprime svariate forme di gnosticismo. Non può non farlo. Come ha scritto Joseph Ratzinger, senza il riferimento a Dio l’uomo cade vittima degli déi. E’ altrettanto necessario che lo gnosticismo confluisca nel nichilismo, perché se gli déi sono infiniti non c’è più nessun Dio. In questo senso la laicità della modernità alimenta forme varie di neopaganesimo, ossia di chiusura acritica dentro schemi mitici [8] .

    Una forma di pelagianesimo, anche se attenuata, è anche la posizione di chi ritiene che il rapporto tra natura e sovranatura sia a scalini. Quando cessa la natura lì comincerebbe la sovranatura. Sarebbe come nelle corse a staffetta: quando la ragione ha finito la sua corsa passa il testimone alla fede. E’ una forma di pelagianesimo perché il primo scalino non ha bisogno strutturalmente del secondo: chi è sul primo scalino lo è pienamente, poi se vorrà proseguire, salirà sul secondo, altrimenti no. Ogni scalino è una realtà matura al proprio livello, si procede per aggiunta. Ma il filosofo italiano Augusto Del Noce ci ricorda che il Dio cristiano non è il Dio dei filosofi più qualcosa [9]. Giustino diceva che nella filosofia dei greci c’erano già i semi del Verbo. Clemente di Alessandria affermava che la filosofia greca è un sorta di rivelazione, parallela a quella del vecchio testamento. La creazione è già nella luce della redenzione e nella natura della creatura c’è già l’amore del Creatore. Gli schemi dello scalino o della staffetta non reggono perché la sovranatura è operante già fin dall’inizio, la fede già da sempre anima la ragione e il cristianesimo pretende che né la natura né la ragione possano essere se stesse da sole.

    Benedetto XVI adopera l’espressione “purificazione”: la fede purifica la ragione, come la carità purifica la giustizia [10]. Credo che il termine vada inteso non nel senso graco di katharsis – il che implica soprattutto un gettar fuor, un liberarsi di - ma come “inveramento”, ciò che rende vera la ragione è la sua apertura ad essere animata dalla fede; ciò che rende vera la giustizia è la sua disponibilità a farsi animare dalla carità. La pretesa del cristianesimo di essere la vera religione comporta natura anche la sua vocazione a purificare, costringendo a fare i conti con la propria verità. Ne consegue che e ragione hanno bisogno della sovranatura e della fede, ossia che queste sono per loro non solo utili ma anche indispensabili. Certamente anche la ragione può correggere le patologie della fede, ma non la può purificare perché l’unico modo per la ragione di essere veramente se stessa è di pensarsi nella fede (la ragione pienamente tale coincide con il filosofare nella fede) mentre la fede non può pensarsi nella ragione. Capita così che la ragione possa correggere talune patologie della religione [11] come il contrario, ma non può capitare che la ragione purifichi la fede [12]. Benedetto XVI dice che bisogna “allargare la ragione” [13], ma potrà essa allargarsi da sola, senza l’aiuto della fede? Anche la ragione è indebolita dal peccato originale, che la spinge a chiudersi per assolutizzarsi, a restringere il proprio campo per poter presumere di conoscere tutto al suo interno. Questa tentazione della ragione è sempre incombente e nel mentre la spinge al razionalismo (assolutizzazione di sé) la condanna al nichilismo (riduzione progressiva del proprio campo fino ad un nulla). La realtà è che si comincia dalla fede. Questo è quanto la laicità della modernità non accetta, mentre proprio in questo consiste la vera laicità: non solo accettare la fede come utile o come qualcosa che “male non fa”, ma riconoscerla come indispensabile.

    Il fatto che si cominci dalla fede è talmente evidente da valere sia per il credente sia per il non credente [14]. Si comincia sempre dalla fede per il semplice fatto che non può essere la ragione a sapere e decidere se essa sia corrotta o incorrotta, ma solo la fede. Il razionalismo è una fede, perché crede che la ragione non sia corrotta. La laicità della modernità è una fede perché crede fermamente di poter fare da sé, senza la fede. Lo gnosticismo è una fede, perché crede indubitabilmente che la conoscenza possa salvarsi e salvare da sola. Quante negazioni della fede avvengono per fede? Sempre si comincia dalla fede.

    La laicità come neutralità e lo “schema degli scalini”

    Molti cristiani condividono lo schema degli scalini circa il rapporto tra ragione e fede e, così facendo, accreditano già la versione propria della laicità della modernità, dimenticando la dottrina del peccato originale. Lo schema, come si ricorderà, richiede che non ci sia bisogno della fede per poter partecipare al dialogo razionale, che questo sia originariamente incorrotto senza prevedere scalini superiori. Secondo questo schema, infatti, la fede si aggiunge alla ragione ex post, rivelandosi con ciò magari utile ma non indispensabile. Essa quindi non entra costitutivamente nel dialogo razionale. Lo schema comporta che il credente che voglia partecipare al dialogo razionale scenda di uno scalino, ossia tralasci le argomentazioni di fede e adoperi solo quelle di ragione. Gli argomenti di fede “possono” essere adoperati, quelli di ragione “devono” esserlo.

    Tutto ciò che è autenticamente umano è anche cristiano, si dice. Per parlare con gli uomini “da uomo”, quindi, il cristiano dovrebbe lasciare da parte la fede. Ma il problema vero sta nell’avverbio “autenticamente”. Per il cristiano solo Cristo rivela all’uomo chi egli sia autenticamente. Viceversa il vero volto dell’uomo viene irrimediabilmente deturpato. Quell’avverbio fa la differenza [15]. La natura e la ragione da sole non sono in grado di riempirlo completamente di contenuto, mentre la laicità della modernità pensa di sì. Ecco perché i cristiani che decidono di scendere lo scalino già si sono arresi alla laicità della modernità, dichiarando che il cristianesimo per loro può essere utile ma non è indispensabile. Lo schema degli scalini mette in crisi profonda il ruolo storico e pubblico del cristianesimo, in quanto accetta la tesi secondo cui il dibattito pubblico razionale non ne ha strutturalmente bisogno. I primi a dubitare che il cristianesimo abbia questo ruolo storico e, quindi, i primi a ridurlo a fatto privato, sono i cristiani che accettano la laicità della ragione come scalino autosufficiente dalla fede. La privatizzazione della fede è il frutto di una logica: se il mondo sta in piedi da solo e se la costruzione sociale ha bisogno solo di argomenti di ragione il cristianesimo non ha alcuna utilità pubblica. Come si vede una volta negata la sua indispensabilità diventa difficile anche mantenere la sua utilità.

    Quando la Chiesa si pronuncia su questioni di etica pubblica lo fa anche alla luce della ragione, ricordando che la fede porta anche con sé il valore della legge morale naturale e, quindi, i suoi insegnamenti possono essere condivisi anche da chi non è cristiano. In questo caso, però, non si tratta di scendere di uno scalino. Affermare il valore della legge naturale non significa riconoscere una presunta capacità della natura umana di salvarsi da sé. La Chiesa, infatti, non presenta mai se stessa solo come un’agenzia etica e, anche quando dà indicazioni che comprendono aspetti di legge naturale non li presenta mai solo come tali. Essa esprime l’annuncio cristiano, che dentro di sé conferma anche la legge naturale, ma non si riduce ad essa. Essa presenta le verità di fede che contengono anche quelle di ragione. La Chiesa non può accettare che il criterio di ammissibilità pubblica dei suoi insegnamenti sia che essa parli in nome della sola legge naturale perché una sola legge naturale, separata dal divino, è la legge naturale della modernità, ma non del cristianesimo [16]. La Chiesa non accetta di scendere di uno scalino per poter essere riconosciuta nel suo statuto pubblico. E non sarebbe vera laicità quella che chiedesse questo.

    Eppure molti cristiani hanno pensato e pensano così. Credo che questo modo di pensare sia stato influenzato da un lato da una certa fase del pensiero di J. Maritain e dall’altra da una certa interpretazione del Concilio Vaticano II, ambedue oggi certamente superate. Qualche piccolo cenno basterà.

    Maritain ha dedicato molte energie a delineare l’idea di una “nuova cristianità” fondata sulla “distinzione dei piani”. Egli riteneva possibile una “fede pratica” in alcuni valori, una convergenza pratica su “alcune appercezioni semplici e naturali” che la coscienza morale della società ha prodotto grazie al cristianesimo inteso come lievito di civiltà, ma che possono essere condivise anche da chi cristiano non è, proprio per il loro valore razionale pratico. Tale “carta morale” o “carta democratica” può essere condivisa da tutti ed è quindi laica [17]. Secondo lui diventa così possibile distinguere un “agire in quanto cristiani” da parte dei fedeli come appartenenti alla comunità ecclesiale e “agire da cristiani” da parte dei fedeli in quanto laici aderenti alla suddetta “carta morale” democratica. Il primo tipo di azione deve essere solo spirituale, di animazione morale e pastorale, senza pretendere più di esercitare pressioni sul potere civile; il secondo tipo di azione deve essere politico, ma laicamente e, quindi, indipendentemente da appartenenze ecclesiali.

    Come si vede, Maritain ha fornito nient’altro che una nuova visione dello schema degli scalini. In essa c’era già una accettazione della laicità della modernità che Maritain aveva sostanzialmente accolto, con una certa ingenuità comprensibile a quei tempi. La storia successiva avrebbe dimostrato che la laicità della modernità non solo avrebbe estromesso il cristianesimo dalla sfera pubblica, ma avrebbe anche eliminato la possibilità di qualsiasi “carta morale” laica, e qualsiasi “fede secolare laica”, decostruendo ogni evidenza etica e disperando nella capacità conoscitiva della ragione umana. Maritain stesso ha riletto con tono pessimista tutta questa problematica nella sua opera “Il contadino della Garonna”.

    Il successivo sviluppo degli epigoni di Maritain, che hanno voluto andare oltre Maritain, avrebbe ulteriormente esasperato la “distinzione dei piani” fino ad annullare il ruolo pubblico del cristianesimo ed accettare la laicità neutra della modernità, postulando una Chiesa “minima” completamente spirituale, solo carità e niente verità, solo “accompagnatrice” del mondo, non più normativa né desiderosa, nemmeno tramite l’operato dei fedeli laici, di incidere sulle strutture civili.

    Credo che la posizione di Maritain e i successivi sviluppi di tipo progressista, possano essere riconducibili al progetto di “distinguere per unire”. Tra fede e ragione occorre distinguere per poi unire. Il fatto è che se l’unità non è data fin dall’inizio non la si potrà ottenere partendo dalla distinzione. La distinzione dei piani del conoscere deve avvenire già dentro un’unità del sapere [18]. Il percorso andrebbe quindi rovesciato: unire per distinguere. L’unità originaria, per altro, non può essere di fede e di ragione – il che riproporrebbe lo schema degli scalini, ovvero dell’accostamento per aggiunta – ma della ragione nella fede. Su questo punto bisogna riconoscere che Etienne Gilson aveva più ragioni di Jacques Maritain.

    Non c’è dubbio, a mio avviso, che lo schema degli scalini sia frutto anche di un certo neotomismo che, contrariamente a San Tommaso, ha inteso il rapporto tra natura e sovranatura, ragione e fede come un rapporto tra piani diversi e successivi [19]. Per questo motivo mi sembra interessante l’attuale nuova attenzione ai Padri, incentivata anche dall’insegnamento di Benedetto XVI, che può contribuire a riconquistare culturalmente il primato della fede. Siccome la fede cristiana presuppone una metafisica, essa anima e orienta un filosofare nella fede e, dopo Leone XIII, anche una costruzione sociale nella fede. La Dottrina sociale della Chiesa è addirittura impossibile senza questo primato della fede, perché senza di esso il Cristianesimo perde la sua dimensione pubblica e storica.

    Anche un’errata interpretazione del Concilio Vaticano II andava nella stessa direzione. Intendendo l’evento conciliare come “rottura” nei confronti della storia precedente della Chiesa, questa interpretazione rompeva con l’intransigenza della Mirari vos o della Quanta cura e, così facendo, impediva di avvertire gli aspetti nichilistici della modernità, il mondo perdeva ogni bisogno di salvezza e il cristianesimo avrebbe dovuto vivere la carità senza verità.

    Nel Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 [20], Benedetto XVI ha precisato la corretta ermeneutica con cui leggere il Concilio Vaticano II. Essa non è l’ermeneutica dello stacco e della separazione, ma della continuità e dell’approfondimento. Si è trattato di una precisazione di grande importanza in quanto ha tolto spazio alle interpretazioni che intendevano il Concilio come apertura acritica al mondo e rinuncia alla verità cristiana. Dall’ermeneutica della continuità deriva, tra l’altro, l’impossibilità della damnatio memoriae applicata al magistero pontificio ottocentesco e al suo negativo giudizio su alcuni aspetti della modernità [21].

    Dallo schema degli scalini alla dittatura del relativismo

    Lo schema della “divisione dei piani” o “degli scalini” non è in grado di fronteggiare gli aspetti nichilistici della modernità. Il motivo è ovvio: quello schema crede che il gradino della ragione sia autosufficiente e capace di salvarsi da solo e che lo scalino della fede sia solo utile e non indispensabile. Ne ha quindi una visione ingenuamente positiva. In questo modo non riesce a vedere un altro aspetto, complementare, del problema. Se la ragione è autosufficiente, la fede diventa superflua. E’ quindi inevitabile che lo schema degli scalini dia luogo ad una assolutizzazione della ragione, che basta a se stessa. Per questo motivo lo schema degli scalini ha subito ormai uno scacco storico. Esso non può rimanere fedele a se stesso ma non può far altro che alimentare l’assolutizzazione della ragione e il suo fare a meno della fede, che viene posta sempre più ai margini. Nato per fronteggiare la secolarizzazione, lo schema degli scalini l’ha invece favorita ponendo al suo servizio anche le energie di tanti cristiani. Laddove poi lo schema degli scalini è stato messo in discussione, data la modalità con cui ciò è avvenuto, la spinta alla secolarizzazione è stata anche maggiore. E’ il caso, per esempio, delle “teologie del genitivo” e della teologia della liberazione in particolare le quali, in alcune loro componenti, hanno talmente accolto la positività del mondo, della storia e della prassi da farne il luogo teologico primario, finendo per assorbirvi la fede e la stessa vita ecclesiale. Hanno sì superato la “distinzione dei piani” [22], ma con l’ortoprassi hanno depotenziato la verità del cristianesimo e, di fatto, hanno contribuito al relativismo religioso [23].

    L’assolutizzazione della ragione e del piano puramente naturale può anche diventare, nell’evolversi delle filosofie, assolutizzazione della storia, della situazione o della prassi. Così, infatti, è stato. Come nel razionalismo teologico la ragione diventa “luogo teologico” dal quale pensare la fede, così nella teologia della liberazione questo luogo teologico diventa la situazione di sfruttamento vissuta dai poveri intesi prima di tutto in senso sociologico. Ritengo molto importante che Benedetto XVI abbia chiarito senza ombra di dubbio che la povertà in senso sociologico non ha alcun valore salvifico e che abbia confermato l’unico luogo teologico valido per la Chiesa ossia la fede della tradizione apostolica [24].

    Ma c’è di più. L’assolutizzazione della ragione, privata della purificazione della fede, si converte inevitabilmente in nichilismo e in cultura della morte. Come ha ben spiegato Joseph Raztinger, la ragione non può assolutizzarsi pienamente se non riducendo in modo sempre più radicale il proprio campo d’azione [25]. Processo di assolutizzazione e processo di immanentizzazione sono inversamente proporzionali: tutta la storia della filosofia moderna ce lo insegna. Al suo livello minimo, tale campo d’azione è ridotto al misurabile. In questo modo tutto il resto è consegnato all’irrazionalità e, quindi, all’arbitrio. Accade così che l’unica verità del moderno razionalismo sia che non esiste nessuna verità. E siccome tale affermazione non viene fatta in nome della ragione che limita il proprio sapere al misurabile, perché trattasi di una affermazione che va oltre l’empiricità, essa non può trattarsi che di un dogma assunto acriticamente. Il che ripropone la tesi già espressa in precedenza che all’origine c’è comunque la fede o meglio, in questo caso, il fideismo. Vediamo quindi come dallo schema degli scalini si passi naturalmente all’assolutizzazione della ragione e, quindi, alla dittatura del relativismo.

    L’ingenuo irenismo presente nello schema degli scalini, che si estendeva al rapporto tra Chiesa e modernità, è oggi superato prima di tutto dall’evidenza storica. Si pensi, per esempio, all’emergere dalla “nuova questione antropologica”. Il nichilismo della tecnica ha comportato l’emergenza drammatica delle grandi questioni etiche - aborto, eutanasia, eugenetica, clonazione – e l’assoluta incapacità di affrontarle da parte della ragione relativistica della modernità. Il giudizio sulla modernità ricomincia a farsi critico e si comprende sempre di più che simili esiti non sono contingenti, ma sostanziali. L’irenismo progressista e la fiducia in una composizione di rapporti tra cristianesimo e modernità mostra i propri affanni. Mai l’uomo è stato minacciato come ora e la riduzione della sua ragione al calcolo e all’esperimento fa la pari con l’interpretazione di se stesso come semplice fatto legato al caso o alla necessità. L’idea che i valori umani possano sussistere senza il cristianesimo lascia intravedere tutta la sua ingenuità. Ritorna quindi prepotentemente l’idea che spetti proprio al cristianesimo salvare l’umanità dell’uomo, alla fede salvare la ragione e alla carità salvare la giustizia. Ecco perché si pone il problema di un nuovo patto tra cattolicesimo e pensiero laico che dia vita ad una vera e propria alleanza per l’uomo. Il mondo ha al proprio interno anche delle dinamiche perverse ed autodistruttive che stanno raggiungendo livelli inauditi di “cultura della morte”. Esso ha bisogno di salvezza e non va semplicemente accompagnato ma aiutato a vedere la verità e il bene. Davanti alla tragicità della situazione, la Chiesa non può tacere, non dare orientamenti vincolanti, chiudersi nello spirituale. Non può essere Chiesa “minima”.

    Circa questo “nuovo patto” tra cristiani e laici occorre fare una precisazione preliminare. Occorre tenere presente il passaggio dal giacobinismo politico al giacobinismo culturale. Il primo esprimeva in pieno l’assolutismo della ragione e dava luogo a sistemi ideologici e politici totalitari. Il secondo mantiene lo stato di diritto e la democrazia, ma nutrendosi del relativismo non è meno dittatoriale dell’altro sul piano culturale. Normalmente il pensiero cattolico depreca il giacobinismo politico alla Rousseau o alla Roberpierre, ritenendo invece un interlocutore plausibile l’illuminismo moderato e disincantato di Hume o di Montesquieu senza avere però l’accortezza di notare che questo secondo illuminismo esprime forme opprimenti di giacobinismo culturale [26].

    Vediamo ora alcuni elementi che dovrebbero caratterizzare questo “nuovo patto” tra cristiani e laici.

    Dialogo, compromesso, tolleranza

    Se lo schema degli scalini potesse rimanere tale, senza scivolare necessariamente nel relativismo, sarebbe ancora possibile un dialogo razionale pubblico. Ma se, come abbiamo sostenuto, questo non è possibile, ma accade forzatamente che la ragione, separata dalla fede, subisca una involuzione nichilistica, allora il dialogo diventa difficile o impossibile poiché il relativismo assume caratteri dittatoriali e nei confronti di assunzioni fideistiche non è possibile instaurare un vero dialogo. Com’è che, invece, l’attuale cultura democratica ritiene che perché ci sia dialogo occorre porsi in ricerca della verità e, per farlo, bisogna ritenere di non possederne alcuna? Questo è l’equivoco fondamentale circa il dialogo oggi. La laicità della modernità pensa che il dialogo sia un camminare insieme e, nel confrontarsi, far poi emergere una qualche verità. Se così fosse, il cristiano dovrebbe dimenticare che Cristo è la Verità, scendere non solo uno scalino ma tutti gli scalini e partire da zero come tutti gli altri. In realtà, invece, il dialogo richiede che si parta da una verità accolta, da una parola che ci precede e che chiede di essere accettata. Solo così è possibile dialogare, condividendo un codice comune, altrimenti si dà solo un vaniloquio, un chiacchierare ma non un vero dialogare.

    Nel dialogo non si parte mai da zero, ma sempre da qualcosa che ci è data. Un esempio chiarificatore può essere il dialogo che facciamo con noi stessi. Noi non dialoghiamo solo con gli altri, ma anche con noi stessi. Orbene, questo dialogo presuppone che noi non siamo solo un “io” plasmato da noi stessi a nostro piacimento, ma che siamo anche un “sé” che abbiamo accolto come qualcosa di dato. Ognuno di noi è un “io” sullo sfondo di un sé e la sua vita di coscienza consiste in questo dialogo. La verità del “sé” ci precede, è il lato oggettivo della nostra soggettività. Anche nel caso del dialogo tra diversi soggetti, non si tratta di autocoscienze – come sosteneva Hegel – autoreferenziali e pure, ma di soggetti che si muovono su uno sfondo di oggettività che non hanno essi stessi prodotto [27].

    Il fattore discriminante le due visioni del dialogo è la concezione della coscienza. Se questa viene intesa come “pura”, secondo la linea della modernità allora il dialogo partirà da zero, ma sarà anche difficile o impossibile costruire un orizzonte comune data la incommensurabilità delle coscienze tra loro in mancanza di una misura data. Se invece la coscienza viene intesa come originariamente sostanziata di oggettività, allora essa si muove, anche per il dialogo, dentro un orizzonte ricevuto ed accolto come verità e come compito. Per dialogare la coscienza ha bisogno di uscire da sé. Solo se l’uscita da sé è costitutiva e originaria il dialogo è possibile. E l’uscita da sé è originariamente possibile solo se essa viene intesa non solo come “io” ma come un io in rapporto ad un sé. Solo allora il dialogo è veramente liberante, se invece esso è un talk show tra coscienze autoreferenziali ed assolutamente libere da ogni verità, finisce per essere fine a se stesso e quindi una schiavitù.

    La democrazia si fonda sul dialogo, però non si riduce a dialogo. Questa sarebbe già una forte concessione ad una visione procedurale della democrazia, dalla quale la Dottrina sociale della Chiesa si è sempre dissociata. Intendere la democrazia solo come dialogo porta ad accettare il compromesso al ribasso come naturale. Il compromesso può valere quando si tratta di bilanciare interessi particolari, ma il bene comune non è sinonimo di compromesso. Quando sono in gioco valori decisivi per la natura dell’uomo il compromesso è, in verità, un male comune [28]. La democrazia non può essere il regime governato dal principio del minor male comune. Viene così meno il principio secondo cui nella laicità democratica solo la coscienza individuale del laico sarebbe arbitra delle decisioni, mentre sarebbe un residuo integralistico proporre alla democrazia valori assoluti. Molti cattolici che condividono lo schema degli scalini la pensano così: poiché il piano della ragione pubblica è autosufficiente esso fa strutturalmente a meno di valori assoluti, che vengono lasciati alla fede e quindi alla coscienza individuale e privata. La ragione senza la fede diventa assoluta e, in quanto assoluta, non tollera altri assoluti. Razionalismo e nichilismo si accompagnano sempre. Fornendo alla democrazia valori assoluti e non accettando il compromesso sul male minore, la fede cristiana libera la democrazia dalla schiavitù verso se stessa.

    Quanto abbiamo detto sul dialogo vale anche per la tolleranza, uno tra i concetti più ambigui al giorno d’oggi [29]. Le persone non si debbono tollerare, ma rispettare. Le idee non si devono tollerare, ma verificare se sono vere o false. I comportamenti non si devono tollerare, ma valutare se sono buoni o cattivi.

    Il tollerabile si staglia sullo sfondo dell’intollerabile, che lo precede e lo fonda [30]. Senza definire cosa non possiamo tollerare, è possibile solo una tolleranza indifferente, la quale tollera tutto tranne l’affermazione di chi ritenga esserci qualcosa di intollerabile [31]. Il vero intollerante è chi ritiene che tutto sia tollerabile e accusa di intolleranza chi invece sostiene esserci l’intollerabile.

    Credo che un nuovo patto tra cristiani e laici non possa prescindere dal fare chiarezza su questi tre temi centrali: la coscienza, il dialogo, la tolleranza. La fede chiede ai cristiani di non scendere lo scalino e di non intendere la coscienza, il dialogo e la tolleranza come indipendenti dalla verità di Cristo, che illumina anche la verità dell’uomo. La stessa fede chiede ai laici di recuperare l’indisponibile come ragione prima della libertà di coscienza, del dialogo e della tolleranza.

    Il problema politico dell’incondizionato

    Siamo così arrivati al punto veramente decisivo del nostro percorso. La laicità della modernità ha al proprio interno una tendenza distruttiva che nasce dall’idea che la libertà individuale e sociale richiedano l’eliminazione dell’indisponibile e dell’incondizionato. Come abbiamo visto all’inizio, invece, proprio questa è la pretesa cristiana. Proprio questo era il motivo della richiesta di Giovanni Paolo II di ridare a Dio un posto pubblico nell’Europa di domani. Senza l’indisponibile la coscienza individuale produce arbitrio e non libertà, il dialogo diventa fine e non strumento, il principio di tolleranza diventa intollerante perché se tutto deve essere a disposizione anche l’indisponibilità dello stesso principio di tolleranza viene meno. Questa è l’esplosiva contraddizione di fondo della laicità relativista della modernità: essa non è in grado di fondare l’assolutezza dei propri principi perché così facendo li negherebbe. Capita in questo modo che la libertà individuale, i diritti soggettivi, la tolleranza e il pluralismo siano deboli proprio per la loro assolutezza. Nella loro pretesa di non avere fondamento altro da sé, si condannano a poter essere negati in virtù dello stesso principio che li ha posti. Se la libertà è assoluta, vale anche la libertà di negare la libertà; se i diritti soggettivi sono assoluti vale anche il diritto di toglierli, se tutto è tollerabile bisognerà tollerare anche l’intolleranza; se il pluralismo è indifferente perdono di valore anche le diversità e tutto diventa uguale. E così via.

    Non bisogna distogliere lo sguardo dall’aspetto tragicamente violento di questa situazione [32]. L’uomo è natura ed anche cultura, ma quando la cultura sostituisce la natura, emancipandosene in modo completo, si apre la strada alla violenza arbitraria e a forme di dittatura finora impensabili. Il relativismo della laicità moderna è come «una nuova religione – direbbe Dostoevskij – che prende il posto dell’antica» [33] e consiste nell’estendere la disponibilità fino al «diritto al disonore» [34] o all’immoralità come diritto, con le forme di violenza sistematica e perfino legalizzata che questo comporta.

    Può la laicità rifiutare questa propria deriva relativistica e nichilistica? Il cristiano sa che non le sarà possibile senza l’aiuto della fede cristiana. Ma come dovrebbe pensarla il laico e non credente per poter fare con il cristiano “un nuovo patto” sulla laicità di cui c’è drammatico bisogno? Si comprende qui l’enorme importanza di una famosa indicazione di Benedetto XVI. La laicità vera ritiene che la natura e la ragione non siano sufficienti [35]. Devono intendersi come bisognose dell’incondizionato e lasciare ad esso le porte aperte. La vera laicità lascia aperto – non come tolleranza ma come necessità consapevole – lo spazio pubblico all’incondizionato. Il laico – come del resto il cristiano – non accetta lo schema degli scalini e comprende che il primo scalino, quello della ragione umana, ha bisogno del secondo scalino se vuole respirare adeguatamente e non perdersi nelle proprie contraddizioni. La ragione pubblica non solo “permette” ma “richiede” che la religione intervenga nel dibattito pubblico.

    Ci sono tre versioni di laicità: quella contraria alla religione, quella indifferente alla religione e quella aperta alla religione. Solo quest’ultima è quella vera.

    Qui però si apre un ulteriore problema: tutte le religioni allo stesso modo? [36] La “pretesa” cristiana riguarda anche questo punto: «Non c’è vera soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo» [37]. Se tutte le religioni svolgono questa funzione allo stesso modo, allora si rimane dentro il relativismo. In questo caso si tratta di relativismo religioso, il quale però alimenta e a sua volta si fa alimentare dal relativismo filosofico. Accade così che se la laicità si apre alle religioni, ma a tutte indistintamente, tale apertura non è in grado di superare il relativismo occidentale. Bisogna che la verità, nel mentre richiede alla società una apertura all’incondizionato, guidi anche ad un discernimento razionale circa la diversità delle religioni, evitando di considerarle tutte uguali, ossia tutte una generica espressione di vago misticismo. Per liberarsi dal relativismo, la laicità deve ammettere la necessità della religione per la vita pubblica e, insieme, la necessità del cristianesimo. Anche questo rientra nella pretesa cristiana. La fede cristiana accetta di essere valutata nella sua capacità umanizzante e, su questa base, chiede di essere confrontata con le altre religioni. Poiché essa ritiene di credere nel “Dio dal volto umano”, sostiene che l’uomo ha bisogno di Dio per conoscere il proprio volto e nello stesso tempo ha bisogno del proprio volto per discernere tra Dio e gli déi. Vorrei ricordare che il decreto conciliare Dignitatis humanae afferma che la dottrina della libertà religiosa «lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale degli uomini e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» [38]. Possiamo dire che questo dovere morale non sia confessionale, ma laico in quanto fondato sulla ragione. Gli uomini e le società hanno dei doveri verso la vera religione proprio in quanto essa è vera, ossia supera l’esame della ragione nella misura in cui pone alla ragione il problema della sua stessa verità. La ragione, infatti, non è in grado di valutare la verità delle religioni, se non ha fatto chiarezza circa la propria verità. Il cristianesimo fa questo, pone alla ragione il problema della sua verità, la aiuta a chiarirsene l’idea e la rende quindi capace di capire la verità stessa del cristianesimo, non più per motivi confessionali ma laici.

    Cenni conclusivi

    Che fare? Ci si può chiedere, a questo punto, se ci sia qualche percorso da intraprendere in via prioritaria, per costruire le dinamiche che abbiamo visto finora. A me sembra che una strada di grande interesse possa essere quella di una battaglia per una cultura dei doveri. Ne ho trattato in un mio recente libro, già ricordato in precedenza [39], permettetemi qui di fare solo un rapido accenno.

    La differenza fondamentale tra diritti e doveri è che i primi non richiedono l’indisponibile, i doveri invece lo postulano. Per questo una politica dei diritti chiude al trascendente, una cultura dei doveri apre al trascendente.

    Perché i diritti non richiedono l’indisponibile? Perché essi, nella loro intima natura, sono sempre un “avere a disposizione”, un poter avere o un poter fare. I diritti hanno a che fare con il potere, essi comportano una sottomissione del mondo al soggetto sicché, nella loro forma estrema, se cioè si potesse avere solo diritti, il soggetto potrebbe plasmare se stesso e il mondo a suo completa discrezione. I diritti nella loro forma estrema sono quindi arbitrio del potere. Il diritto non esprimerà mai la rinuncia ad avere o a fare qualcosa, perché negherebbe se stesso. Il dovere mette un diritto contro l’altro e stabilisce la incompatibilità tra i diritti, ma il diritto preso da solo chiede solo di essere soddisfatto. Ecco, i diritti sono un pretendere soddisfazione. L’uomo non è mai sazio di diritti, perché le cose da avere o da fare sono infinite e quindi infiniti sono anche i diritti che si possono vantare. Non saranno mai i diritti a porsi dei limiti. I limiti possono venire solo dai doveri. Questo non lo faccio, perché ho il dovere di fare altro; ho il diritto a non farlo – è l’obiezione di coscienza – perché c’è un dovere superiore che me lo vieta. I diritti non sanno limitare se stessi né possono farlo. Ed infatti ne nascono sempre di nuovi, sempre più eccentrici e sempre più artificiali. I diritti sono soggetti ad una deriva sempre più preoccupante.

    I doveri, invece, richiedono l’indisponibile in quanto sono un “essere a disposizione”. I doveri, infatti si “assumono” in quanto ci precedono e noi li riconosciamo non come prodotti da noi ma come qualcosa che viene da altro. Il diritto lo gestisco io liberamente, il dovere lo prendo sulle spalle come qualcosa che mi è consegnato. L’assunzione del dovere significa apertura ad un discorso su di me che mi interpella. Significa la percezione che non tutto comincia da me, che io non sono all’origine, ma che esiste su di me un progetto, che mi è assegnato un ordine delle cose e un ordine di me stesso. Il dovere è una vocazione, è come se una Parola mi avesse parlato e parlandomi mi avesse costituito. Se i diritti mostrano solo il disponibile, quanto sta davanti a noi e noi possiamo avere o possiamo fare, il dovere invece mostra l’indisponibile, quanto dobbiamo accogliere e promuovere perché vi abbiamo aderito. I doveri provocano quindi l’identità, perché l’identità – dei singoli e delle comunità – consiste in un aderire, i diritti, invece, frammentano l’identità personale e sociale. Di soli diritti una comunità può anche morire.

    Oggi la cultura dei diritti è arrivata al capolinea, per intima contraddizione. Il motivo è principalmente il seguente: il diritto è un avere a disposizione, ma se tutto è a disposizione allora anche i diritti lo sono e, quindi, possono essere cambiati o annullati. La democrazia relativista dei diritti – quella che ammette tutti i diritti per indifferenza – non ha argomenti forti per salvare i diritti da chi li negasse, è strutturalmente debole nei confronti del totalitarismo, al punto da accogliere elementi totalitari anche dentro se stessa. I diritti, da soli, non riescono a fondarsi, perché non riescono a contrastare il diritto di non rispettare i diritti. Se c’è indifferentemente il diritto a tutti i diritti, perché mai non dovrebbe esistere il diritto di negare i diritti?

    Possiamo dire che la dinamica dei diritti abbia compiuto completamente la sua parabola? Sembrerebbe proprio di sì se osserviamo la nuova generazione di diritti: diritto a cambiare la propria natura, a negare la natura, diritto a selezionare chi deve nascere e chi no, diritto a costruire in laboratorio le caratteristiche di chi decidiamo di chiamare alla vita. Qui l’accogliere e l’aderire, che sono le caratteristiche del dovere lasciano completamente il campo alla logica dell’avere o del fare, che sono le caratteristiche dei diritti. Non sappiamo più accogliere, né leggere nella nostra storia personale una chiamata una vocazione, né nelle nostre relazioni umane, familiari, comunitarie, dei doveri. Ecco perché la stagione di diritti è finita e serve una nuova cultura e politica dei doveri, che riapra spazio all’indispensabilità, non solo all’utilità, dell’incondizionato.

    ********************
    [1] «Al riguardo non posso nascondere la mia delusione per il fatto che non sia stato inserito nel testo della Carta neppure un riferimento a Dio, nel quale per altro sta la fonte suprema della dignità della persona umana e dei suoi diritti fondamentali. Non si può dimenticare che fu la negazione di Dio e dei suoi comandamenti a creare, nel secolo passato, la tirannide degli idoli, espressa nella glorificazione di una razza, di una classe, dello stato, della nazione, del partito in luogo del Dio vivo vero. E’ proprio alla luce delle sventure riversatesi sul ventesimo secolo che si comprende come i diritti di Dio e dell’uomo si affermino o cadano insieme» (Giovanni Paolo II, Messaggio per il 1200mo anniversario dell’incoronazione imperiale di Carlo Magno, in “L’Osservatore Romano” 17 dicembre 2000, p. 6).

    [2] «I conti sull’uomo senza Dio non tornano, i conti sul mondo, su tutto l’universo, senza di Lui non tornano»: Benedetto XVI, Omelia all’Islinger Feld, Regensburg 12 settembre 2006 in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera - Tutte le parole del Papa, Cantagalli, Siena 2006, p. 46. Nel famoso discorso di Subiaco, poco prima di varcare la soglia del pontificato, Joseph Ratzinger aveva detto: «Il tentativo di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, p. 36).

    [3] «Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica il concetto di “realtà” e, in conseguenza,, può finire solo in strade sbagliate e con ricette distruttive. La prima affermazione fondamentale è, dunque, la seguente: Solo chi riconosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi», Benedetto XVI, Discorso all’inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida 13 maggio 2007, in Supplemento a “L’Osservatore Romano” del 2 giugno 2007, p. 9.

    [4] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007.

    [5] «Non è poi vero, come pare si voglia dire qualche volta, che l’uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti, che organizzarla contro l’uomo». H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo (Prima edizione Paris 1945), Morcelliana, Brescia 1988, p. 9.

    [6] Secondo il filosofo italiano Augusto Del Noce il razionalismo moderno nasce da un’opzione che nega il peccato originale in quanto ritiene che il male possa essere da noi eliminato: «Il disordine può veramente venire eliminato dal mondo e ciò non per l’azione di una razionalità trascendente o immanente (della provvidenza in qualsiasi modo venga intesa) ma per un’azione che è nostra azione» (A. Del Noce, Il problema dell’ateismo (prima edizione Bologna 1964), Il Mulino, Bologna 19904, p. 304. Affinché non venga sottovalutata questa tematica del peccato originale ricordo che l’enciclica Centesimus annus dice che non è solo “parte integrante della rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana» (Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus n. 25).

    [7] «La questione di fondo è se la realtà in generale, e la realtà umana in particolare, possano reggersi da sé, siano autosufficienti. La giustizia riesce ad essere tale senza la carità? La ragione riesce ad essere pienamente ragione senza la fede? La realtà materiale riesce a comprendersi veramente senza la trascendenza? Attenzione: dalla risposta a queste domande dipende la storicità del cristianesimo e la sua umanità. Dipende se il Dio cristiano sia il “Dio dal volto umano”#, il Dio che in Cristo rivela l’uomo a se stesso, il Dio-con-noi che ci accompagna sulle strade della storia, oppure se sia uno dei tanti déi del mito. Dipende anche il senso e lo spazio dei cristiani nella costruzione di un mondo a misura di uomo. Se essi siano indispensabili o superflui. Dipende anche il fondamento della “identità” cristiana nell’agire nel mondo. Si incentra qui anche la notevole riflessione di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI sulla laicità e sulla “dittatura del relativismo”. Se, infatti, la giustizia, la ragione, la dimensione materiale sono autosufficienti e sono in grado di funzionare benissimo da sole, il cristianesimo diventa superfluo per la vita pubblica e avrebbe ragione la laicità del relativismo a relegarlo nella sfera delle scelte private, a tollerarlo, tuttalpiù, ponendolo nel grande pantheon del supermercato degli déi. Ma come il Dio cristiano non fu accolto nel grande pantheon dei romani, non può stare nemmeno in questo nuovo pantheon postmoderno» (Card. Renato Raffaele Martino, Testimoni di carità, costruttori di pace, Conferenza alla Assemblea Plenaria della Caritas Internationalis, Città del Vaticano, 4 giugno 2007, in “L’Osservatore Romano”, 15 giugno 2007, p. 8.

    [8] Joseph Ratzinger ha condotto importantissime riflessioni sul rapporto tra mito e religione cristiana, rivendicando a quest’ultima di aver definitivamente sconfitto il mito, ponendosi come inveramento da un lato della filosofia greca e dall’altro della tensione di Israele al Dio unico. Rovesciando questo percorso, è possibile mostrare come il nichilismo anticristiano della modernità abbia riaperto la possibilità del mito e di nuove forme di schiavitù dell’uomo verso l’arcano o le forze materiali. Sul piano dell’antropologia culturale, questa impostazione viene confermata dagli studi di René Girard, soprattutto in R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001, specialmente il capitolo XIV).

    [9] «Il processo deve andare dalla fede alla ragione, perché il Dio della fede non è il Dio della ragione più qualcosa» (A. Del Noce, Gilson e Chestov, in A. Del Noce, Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, a cura di Alberto Mina, Rizzoli, Milano 2007, p. 331.

    [10] Di “purificazione” parla, come noto, Benedetto XVI nell’ Enc. Deus caritas est (Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est in Insegnamenti di Benedetto XVI 1/2005, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, pp. 1050-1125). Cf su questo aspetto G. Crepaldi, La carità sociale della Chiesa nella Deus caritas est di Benedetto XVI, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” 2 (2006) 5, pp. 3-14. E’ curioso che anche Augusto Del Noce, filosofo cui spesso facciamo riferimento, adoperi la stessa parola “purificazione”: A. Del Noce, Gilson e Chestov cit., p. 345.

    [11] Cf J. Ratzinger, Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica comune in J. Habermas – J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Padova 2005, pp. 70-71.

    [12] Questa era invece la pretesa del razionalismo illuminista come inequivocabilmente afferma Kant nell’operetta giustamente considerata come la Bibbia dell’Illuminismo: I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? in Scritti politici di filosofia della storia e del diritto di Immanuel Kant, Utet, Torino 19953. La ragione, secondo lui, non solo deve esaminare la religione, ma anche «fare le sue proposte di riforma della religione e della Chiesa» (p. 144). Quando oggi la ragione democratica critica la Chiesa perché non concede il sacerdozio alle donne, oppure perché non giustifica l’omosessualità altro non fa che applicare l’ispirazione kantiana.

    [13] «Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione: si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa» (J. Ratzinger, Fede ragione e università. Ricordi e riflessioni, Lectio magistralis all’Università di Regensburg, 12 settembre 2006, in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo cit., p. 28).

    [14] «In una parola: non si sfugge al dilemma di essere uomini. Chi pretende si sfuggire l’incertezza della fede, dovrà fare i conti con l’incertezza dell’incredulità […] tanto il credente quanto l’incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede sempre beninteso che non cerchino di sfuggire a loro stessi» (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, dodicesima edizione con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 2003, pp. 17-18).

    [15] La stessa osservazione si potrebbe fare per il celebre passo della Gaudium et spes circa la “legittima autonomia delle realtà terrene” (n. 36). Ciò che fa qui la differenza è l’aggettivo “legittima”, di difficile determinazione senza l’aiuto della fede. Se un ordine si legittima da sé allora tale legittimazione coincide con l’arbitrio, ma se non si legittima da sé e viene legittimato si apre la necessità della trascendenza. Ora, anche la ragione può aprirsi alla trascendenza, ma non può rimanervi fedele senza la fede.

    [16] E’ la legge naturale di Ugo Grozio, di Hobbes, di Locke e degli Illuministi. E’ una legge naturale “solo” naturale, solo razionale.

    [17] J. Maritain, L’uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milano 1982 (Prima edizione Chicago 1951), spec. il capitolo V dal titolo “La carta democratica”, pp. 126-133.

    [18] Cf G. Crepaldi e S. Fontana, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena 2006, cap. I (Ediz. in lingua spagnola: La dimensión interdisciplinar de la doctrina social de la Iglesia, Instituto Mexicano de Doctrina Social Cristiana, Mexico DF 2006).

    [19] Mi sia permesso solo uno spunto su una questione della massima importanza ma che esula dalle possibilità di questo contributo. Robert Spaemann fa notare che la neoscolastica ha avuto la tendenza ad applicare quanto io chiamo lo schema degli scalini anche all’unicità e alla trinità di Dio. L’unicità sarebbe dimostrabile dalla ragione e la trinità, invece, sarebbe conosciuta per rivelazione (R. Spaemann, Benedetto XVI e la luce della ragione, in AA.VV., Dio salvi la ragione, Cantagalli, Siena 2007, pp. 156-157). Egli fa però notare che il dogma trinitario aiuta a comprendere l’unicità di Dio, anziché il contrario e senza di esso la stessa unicità scivola verso l’irrazionalità. Joseph Ratzinger aveva a suo tempo chiarito in modo magistrale che il Dio-in-tre-persone è, proprio per questo, maggiormente ed eminentemente “uno”: «Pertanto il riconoscimento dell’unità e unicità di Dio vige nel cristianesimo non meno radicalmente che in qualsiasi altra religione monoteistica, anzi, solo qui viene messo in risalto in tutta la sua eccelsa grandiosità» (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo cit., p. 144). Come si vede lo schema degli scalini è debole e la fede nel Dio trinitario non solo ha una grande plausibilità razionale ma aiuta anche a considerare il tema – solo razionale secondo lo schema degli scalini – dell’unità e unicità di Dio.

    [20] Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, in Insegnamenti di Benedetto XVI, I/2005 cit., pp. 1018-1032.

    [21] Cf S. Fontana, Tre insegnamenti di Benedetto XVI. Punti chiave per l’azione sociale, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” III (2007) 3-4, pp. 26-32.

    [22] Si veda, a titolo di esempio, la critica allo schema della divisione dei piani in G. Gutierrez, Teologia della Liberazione. Prospettive, Queriniana, Brescia 19722, pp. 67-82.

    [23] Si dà una certa connessione tra forme radicali di teologia della liberazione e esplosione delle sétte religiose in America Latina, in quanto la teologia della liberazione ha prodotto il relativismo in teologia. Dopo il crollo del comunismo e il fallimento del marxismo, cui la teologia della liberazione guardava come strumento scientifico di analisi e modificazione della realtà storica, non può rimanere che il nichilismo e il relativismo, data appunto la decostruzione della verità prodotta dal criterio dell’ortoprassi. Credo si possa evincere questa considerazione da J. Ratzinger, La fede e la teologia ai nostri giorni, Conferenza tenuta a Guadalajara nel maggio 1996, in “L’Osservatore Romano”, 27 ottobre 1996, p. 7.

    [24] A mio parere è questo il senso principale del Discorso di Benedetto XVI ad Aparecida. Nel libro Gesù di Nazaret si dice che «La povertà puramente materiale non salva, anche se di certo gli svantaggiati di questo mondo possono contare in modo particolare sulla bontà divina. Ma il suore delle persone che non posseggono niente può essere indurito, avvelenato e malvagio – colmo all’interno di avidità di possesso, dimentico di Dio e bramoso solo di beni materiali»; per questo «Il Discorso della montagna non è un programma sociale […] ma solo laddove il grande orientamento che ci dà resta vivo nei sentimenti e nell’agire, solo laddove dalla fede deriva la forza della rinuncia e della responsabilità verso il prossimo come verso l’intera società, può crescere anche la giustizia sociale (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret cit., p. 101).

    [25] «Razionale è soltanto ciò che si può provare con degli esperimenti» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture cit., p. 36; trattasi del famoso Discorso di Subiaco del 2 aprile 2005). Cf su questo punto G. Crepaldi, Brevi note sulla laicità secondo Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa”, II (2006) 1, pp. 3-16.

    [26] Quale esempio di considerazione ingenua dell’Illuminismo, visto come moderazione e buon senso, citerei il recente libro di L. Todorov, Lo spirito dell’Illuminismo, Rizzoli, Milano 2007 (prima edizione Paris 2006).. Il potere politico deve essere indifferente al vero. In questo modo lo si abbandona alla sola volontà irrazionale e come potrebbe un cittadino appellarsi alla verità contro il potere se il potere è indifferente alla verità? Questa indifferenza del potere alla verità permette di evitare – dice Todorov – il giacobinismo politico, ma non permette di evitare, diciamo noi, la dittatura del relativismo. In realtà gli aspetti apparentemente moderati dell’Illuminismo hanno rinunciato sì alla dimensione politica del giacobinismo ma non a quella culturale. C’è un pensiero radicale trasversale a molte correnti ideologiche e politiche di oggi che è liberale, liberista e libertario, quindi particolarmente conforme allo Stato di diritto e alla democrazia, ma che non rinuncia ad esercitare una forte dittatura culturale sugli spiriti. Si tratta del “dispotismo morbido” di cui parlava Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 13.

    [27] Mi sono soffermato su queste considerazioni in: S. Fontana, Per una politica dei doveri dopo il fallimento della stagione dei diritti, Cantagalli, Siena 2006, pp. 52-56. Alcuni temi di questo libro erano stati anticipati in S. Fontana, Una cultura y una politica de los “deberes” humanos. Algunos puntos de vista del magisterio social de Juan Pablo II, In “Sociedad y Utopía – Revista de Ciencias Sociales, n. 17, Mayo de 2006, pp. 315-325. Vedi anche S. Fontana, The Asymmetrical Dynamic of Duties and Rights, in “Life and Culture”, vol. 1, spring 2007, pp. 13-15.

    [28] Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti ad un convegno della Comece in occasione dei 50 anni della firma dei Trattati di Roma, 24 marzo 2007, in “L’Osservatore Romano”, 25 marzo 2007, p. 5: «Si finisce in questo modo per diffondere la convinzione che la “ponderazione dei beni” sia l’unica via per il discernimento morale e che il bene comune sia sinonimo di compromesso. In realtà, se il compromesso può costituire un legittimo bilanciamento di interessi particolari diversi, si trasforma in male comune ogniqualvolta comporti accordi lesivi della natura dell’uomo».

    [29] T. D. Wiliams L.C., What Dignitatis Humanae Didn’t Say, in “Alpha Omega” IX (2006) 3, pp. 437-446.

    [30] «La verità inevitabilmente è intollerante. Tolleranza c’è non verso l’errore ma verso l’errante» (R. Spaemann, Benedetto XVI e la luce della ragione cit. pp. 149-150).

    [31] «Essere tolleranti con ogni forma di pensiero meno che con una, quella che si presenta come asserzione di una verità assoluta e definitiva» (A. Del Noce, Il problema dell’ateismo cit., p. 12).

    [32] «Una volta che la società non ha più una struttura sacra, una volta che gli assetti sociali e i modi d’azione non sono più fondati sull’ordine delle cose o sulla volontà di Dio, essi sono, in un certo senso, del primo che allunga la mano per impossessarsene» (Ch. Taylor, Il disagio della modernità cit., p. 7).

    [33] F. Dostoevskij, I demonî, Einaudi, Torino 1993, p. 379.

    [34] Ho approfondito il pensiero di F. Dostoevskij su questi temi in: S. Fontana, Per una politica dei doveri cit., pp. 18-23 (“La profezia politica di Dostoevskij e il diritto al disonore”).

    [35] Traduco in questo modo la celebre affermazione di Joseph Ratzinger secondo cui il pensiero laico dovrebbe vivere come se Dio esistesse (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture cit., p. 63).

    [36] Cf su questo punto del rapporto della ragione pubblica con le religioni e il cristianesimo G. Crepaldi, Ragione pubblica e verità del Cristianesimo, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” III (2007) 2, pp. 4-13.

    [37] Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus n. 5, che riprende quanto già affermato dalla Rerum novarum.

    [38] Concilio ecumenico vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, n. 1 in Concilio vaticano II, Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni, testo ufficiale e traduzione italiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 626-627.

    [39] S. Fontana, Per una politica dei doveri cit.

    Fonte: Zenit, 15.9.2007

 

 
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