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Discussione: Questioni su Gesù

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    Che dicono i vangeli su Gesù?

    ROMA, sabato, 28 aprile 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo una riflessione di padre Bernardo Estrada, Ordinario di Nuovo Testamento nella Facoltà di Teologia dell’Università della Santa Croce (Roma).

    * * *

    Negli ultimi due anni sono apparse diverse affermazioni relative alla figura di Gesù e alla sua missione. Esse contrastano nettamente con ciò che viene presentato nei vangeli e soprattutto con ciò che è accaduto nei primi secoli dell'era cristiana.

    1. Gesù si è sposato?

    Forse la tesi più clamorosa del romanzo è l’affermazione che Gesù fosse sposato con Maria Maddalena. Frutto del loro amore sarebbe stata una figlia fuggita con lei in Francia, dove avrebbe dato origine alla stirpe dei Merovingi. Che Gesù non si è sposato, si evince – e senza forzatura alcuna – non solo dai testi biblici, ma anche dalla testimonianza della primitiva comunità cristiana [1].

    Nel vangelo secondo Matteo si racconta che, un po’ sorpresi davanti alle esigenze di Gesù riguardo al matrimonio, i discepoli gli dissero: «Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi», Egli rispose loro: «Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso». La risposta del Signore fa vedere che al dono di Dio l’uomo può corrispondere o meno, e che il celibato è una libera scelta: «Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» [2]. Gesù stesso ha aderito a quella scelta, e lo ha manifestato con la propria vita.

    Per avallare la sua tesi, Dan Brown osserva che nella tradizione d’Israele il celibato era inconcepibile. Ma anche questo è falso. Infatti, pur essendo vero che nel giudaismo il celibato non fosse uno stato di vita frequente, vi erano tuttavia alcune situazioni particolari, al riguardo, che venivano viste e accettate pacificamente da parte degli ebrei.

    Nel periodo precedente l’esilio in Babilonia e durante la cattività si staglia la figura di Geremia, quale profeta che ha un messaggio particolare da comunicare al popolo, non soltanto mediante gli oracoli che trasmette da parte di Dio ma anche attraverso la sua stessa vicenda esistenziale: «Mi fu rivolta la parola del Signore: non prendere moglie, non aver figli né figlie in questo luogo» (Ger 16,1). Il comandamento di Dio viene accettato e voluto dal profeta. Difatti, nel testo appaiono anche i sentimenti di Geremia a questo proposito: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7). Dio gli ha ordinato di comportarsi in un modo che andava controcorrente rispetto alle consuetudini sociali di Israele e, nel contempo, ha riempito il cuore del profeta del suo stesso amore, in modo tale che egli non avesse bisogno di nessun amore umano per realizzarsi – anche sul piano psichico – nello svolgimento della sua missione.

    Alla stregua di Geremia appare la figura di Giovanni Battista, la cui missione comporta anche una vita vissuta nel celibato, in unione con Dio nella solitudine del deserto (cf. Lc 1,80). Alcuni pensano che Giovanni appartenesse al gruppo degli Esseni, una setta giudaica che si era isolata dal resto del popolo. Per reazione alla famiglia degli Asmonei, che si erano impadroniti del sacerdozio di Israele senza appartenere alla famiglia sacerdotale, gli Esseni erano andati ad abitare nel deserto conducendo una vita comunitaria, che comprendeva un sistema proprio di purità rituale, di iniziazione e di comportamento etico. Alcuni di loro praticavano il celibato. L’informazione che abbiamo su di loro proviene da Filone di Alessandria [3], Flavio Giuseppe, Plinio il Giovane e, logicamente, dai documenti della comunità di Qumrân, di solito chiamati documenti del Mar Morto. Flavio Giuseppe, in particolare, ne fa una lunga descrizione nella quale manifesta la sua ammirazione per la loro pietà e per la loro forma di vita, che assomigliava piuttosto a quella di un gruppo monastico [4]. Con il loro stretto compimento della legge si consideravano la comunità della nuova alleanza e aspettavano l’era messianica nella quale Dio avrebbe distrutto le forze dell’iniquità. Il fatto che non tutti fossero celibi si deduce dalle scoperte archeologiche: accanto al villaggio si è trovato più di un cimitero, e in uno di essi erano seppelliti anche donne e bambini [5].

    Fra le tesi peregrine avanzate da Brown si trova quella di assegnare alla religione di Israele una divinità femminile. È vero che i popoli dell’antico Oriente provavano una grande ammirazione – che non è tramontata nei nostri giorni, anzi, suscita sempre più interesse – di fronte alla vita e ai suoi misteri. Ciò comportava una loro speciale venerazione, in mezzo ad un nutrito panteon, per la dea «madre», che nei popoli della pianura di Aram era chiamata Astarté o Ishtar, accanto al suo compagno, il dio Baal. Nel loro culto si sviluppavano dei riti orgiastici di fertilità attorno ai piaceri del consumo di cibi e bevande, nonché a quelli legati alla sessualità. Non di rado vi si facevano anche dei sacrifici umani.

    Israele, non essendo migliore degli altri popoli circostanti [6], si sentiva fortemente e costantemente attratto da quei riti. C'è voluta la voce di Dio attraverso i suoi profeti per allontanarlo più di una volta da quelle orge idolatriche. Esse vengono chiamate nella Bibbia, e a ragione, fornicazione e adulterio. Osea ed Ezechiele, in particolare, ma non solo loro, hanno descritto la passione di Dio per il suo popolo come un rapporto di fidanzamento e di amore matrimoniale, che viene tradito attraverso l’idolatria. Il culto all’unico e vero Dio è stato frutto di uno sforzo continuo e graduale – se così si può dire – da parte di Dio stesso per mantenere fedele il suo popolo. Se è vero che nei primissimi tempi del suo arrivo nella terra di Canaan si trovano in Israele degli indizi di culto a queste doppie divinità, è pur vero che questi culti a poco a poco sono però spariti nella religione del popolo eletto.

    Il rapporto fra le divinità maschili e femminili è preso in considerazione nel contributo di Hauke; vorrei qui solo far notare la «felice» trovata di Dan Brown riguardo al nome Jehovah. Secondo lui, esso sarebbe il risultato della fusione del nome del Dio maschio Jahveh e della dea femmina Havah. Se l’autore conoscesse almeno i rudimenti della lingua ebraica, si sarebbe reso conto che il nome Havah proviene dalla radice hayah con la consonante aspirata forte heth, che si riferisce alla vita, mentre il nome Jahveh proviene dalla radice hayah con l’aspirata debole he, che si riferisce all’essere. La crasi delle due parole non potrebbe mai dare luogo a Jehovah, che è soltanto il nome di Jahveh con una vocalizzazione tardiva. Ancor più ridicolo è sostenere che nel Sancta sanctorum del Tempio di Gerusalemme si trovasse Jahveh con la sua moglie shekinah, parola ebraica che significa soltanto ‘presenza’.

    Il celibato di Gesù non è dunque qualcosa di strano nella tradizione di Israele. Se Dio si manifesta con dei segni forti in determinati momenti della storia del suo popolo, a maggior ragione lo fa quando invia il suo Figlio. I vangeli inoltre descrivono con naturalezza il comportamento di Gesù al riguardo, specialmente nel rapporto con le donne. Basterebbe accennare al dialogo con la Samaritana [7].

    2. Vangeli apocrifi e vangeli gnostici

    Da dove sorgono i vangeli apocrifi? Secondo Dan Brown, agli inizi del IV secolo ci sarebbero stati più di ottanta vangeli che vennero presi in considerazione da Costantino, il quale li ridusse a quattro, mettendo al bando i restanti, preoccupato di affermare la fede nella divinità di Gesù Cristo [8].

    Per quanto riguarda il sorgere e il diffondersi dei vangeli apocrifi, va ricordato che dopo la pasqua gli apostoli iniziano ad annunciare la morte e risurrezione di Cristo. Il discorso di Pietro la mattina di Pentecoste è una buona sintesi di ciò che la Chiesa proclamava nel suo messaggio evangelico: «Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete –, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» [9]. Il messaggio sulla passione, morte e risurrezione diventa così il nucleo della predicazione apostolica, il kerygma o l'annuncio cristiano per eccellenza, in cui fra l’altro si mette in luce la divinità di Gesù Cristo, risorto dai morti. È anche logico e ragionevole che gli apostoli cercassero di penetrare attraverso le loro reminiscenze nella vita di Gesù e nelle sue parole, ricordate però ora in una nuova prospettiva, quella del mistero pasquale, alla luce del quale tutti gli avvenimenti della sua esistenza terrena possono essere compresi. Oltre a questo evento decisivo nella storia della salvezza, gli apostoli dunque annunziavano l’insegnamento di Gesù e i suoi miracoli, controversie, viaggi: in definitiva, come si afferma all’inizio degli Atti degli Apostoli, «tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio» (At 1,1).

    È dunque comprensibile che la comunità cristiana primitiva manifestasse gradualmente un crescente interesse per conoscere più cose, più aspetti della vita del Figlio di Dio, e si cercassero dei particolari sulla sua nascita e sui suoi primi anni di vita. I racconti dell’infanzia, quindi, completeranno la narrazione su Gesù nei vangeli di Matteo e di Luca, mentre Marco e Giovanni si concentreranno sulla vita pubblica e sulla pasqua, che costituiscono comunque la sezione più estesa e consistente di tutti e quattro i vangeli.

    Di fronte alla sobrietà e alla schiettezza dei vangeli – basterebbe paragonare uno qualsiasi dei miracoli di Gesù con i racconti sulle guarigioni avvenute nel tempio di Asclepio, a Epidauro [10] – non meraviglia che ne sia emerso il desiderio di sapere di più su Gesù e sulla sua vita.

    Non può quindi stupire che taluni, non accontentandosi della tradizione apostolica che diede origine ai vangeli canonici [11], siano andati alla ricerca di altre tradizioni. È essenzialmente questa la genesi dei vangeli apocrifi che sono stati scritti, nella maggior parte, uno o due secoli dopo la redazione dei quattro vangeli. Alcuni di essi servono per conoscere la tradizione extracanonica, cioè i dati riguardanti la Chiesa primitiva, la vita e l’insegnamento di Gesù non contenuti nei libri del Nuovo Testamento. Va osservato però che la letteratura cristiana primitiva è spesso più ricca di dati su Gesù e sulla sua missione che i vangeli apocrifi.

    Dal punto di vista storico i vangeli apocrifi non sono del tutto affidabili, in quanto lasciano spesso trapelare delle correnti dottrinali divergenti dalla fede cristiana. I vangeli di Tommaso, di Filippo, della Verità e degli Egiziani, ad esempio, provengono dagli gnostici; il vangelo segreto di Marco, legato probabilmente alla Lettera a Teodoro di Clemente Alessandrino, è uno scritto contro la setta gnostica dei Carpocraziani, che proclamava il libertinaggio e la promiscuità. Il vangelo di Pietro prende le mosse dal processo di Gesù e vuole far ricadere tutta la responsabilità della morte del Messia sugli ebrei. Qualcosa di simile accade col vangelo di Nicodemo, un racconto sul giudizio e la morte di Gesù seguiti da un’inchiesta del Sinedrio, che alla fine accetta le prove sulla risurrezione. In questo scritto si fa menzione appunto del fatto che Nicodemo avrebbe raccolto il sangue del Signore morente sulla Croce. Un altro gruppo è rappresentato dai vangeli giudeo-cristiani, che spesso sono in contrasto con la fede della comunità primitiva: i più noti sono i vangeli degli Ebrei, dei Nazareni e degli Ebioniti. I frammenti che si conservano di tutti questi vangeli sono di solito riportati e completati con gli scritti dei Padri della Chiesa.

    Un filone diverso è rappresentato dai vangeli apocrifi dell’infanzia di Gesù, scritti a partire dal II secolo. Essi sono in genere più positivi degli altri testi e hanno un marcato interesse apologetico. Il Protovangelo di Giacomo vuole esaltare Maria come sempre vergine, mentre nel vangelo dell’infanzia di Tommaso appare la figura di Gesù come quella di un essere sovra-umano, che faceva dei miracoli fin da quando era bambino.

    Come mai, accanto ai vangeli ufficiali sono apparsi quelli apocrifi? La storia del canone, ossia la lista autorevolmente riconosciuta dei libri sacri, è allo stesso tempo la storia del loro impiego da parte della Chiesa. Un tale processo non si è sviluppato secondo uno schema predeterminato o una linea d’azione meramente «gerarchica». L’uso dei libri nella liturgia e nella catechesi dei primi scrittori cristiani e dei Padri della Chiesa ha implicato un processo di decantazione, nel quale è stata determinante la fede del popolo di Dio. Si potrebbe dire che lo Spirito Santo ha avviato un fenomeno di ricezione graduale, alla fine della quale si è giunti all'elaborazione dell' l’elenco dei libri considerati come ispirati, e quindi, canonici. Nel corso di questo processo, alcune testimonianze mettono a fuoco i vangeli. Così, nel Canone di Muratori, che la maggior parte degli studiosi ritiene scritto verso la fine del II secolo, si fa un accenno ai "quattro vangeli" [12].

    Quanti sono i vangeli apocrifi? Koester, nella sua Introduzione al NT enumera in tutto una sessantina di scritti apocrifi, la maggior parte dei quali non sono vangeli [13]. Erbetta, invece, menziona una quarantina di vangeli, di cui 12 appartenenti ai racconti dell’infanzia. Vi si includono come vangeli alcuni testi che da altri studiosi non sono considerati affatto come tali; l’Apocryphon Johannis, Pistis Sophia, Sophia Jesu Christi, e altri [14]. Secondo la maggior parte degli studiosi, gli scritti apocrifi che potrebbero essere chiamati vangeli, sono poco più di una trentina.

    Una testimonianza significativa è quella di Ireneo, che – attorno al 180 d.C. – si riferisce all'annuncio della Chiesa che emerge nei quattro vangeli canonici. A questo scopo egli impiega l’espressione «vangelo quadriforme». Nella sua opera egli fa una delle descrizioni più particolareggiate dello gnosticismo, della sua struttura e dei suoi principi dottrinali, facendo leva sulla figura di Valentino, uno degli gnostici più influenti del II secolo. Una delle conclusioni che si ricavano da Ireneo, dove per la prima volta appare il termine «gnostico», è che esistono tanti tipi di gnosticismo quante le persone che lo proclamano con una certa autorità. Le teorie di Basilide e di Eraclione, per esempio, sono diverse fra di loro e anche da quella del loro contemporaneo, Valentino.

    Quest’eresia, tanto forte ed insidiosa da minacciare la stessa sussistenza della fede cristiana nella seconda metà del II secolo, si caratterizza anzitutto per un dualismo teologico, che concepisce due divinità opposte – una del bene e un’altra del male –, già menzionate fin dai tempi di Zoroastro e proclamate anche da Marcione qualche decade prima. Altro elemento caratteristico è la credenza in un panteon composto di divinità inferiori che, secondo alcune teorie gnostiche, provengono dallo spezzarsi del «pleroma», una parola che indica l’insieme di tutti gli dei. A questo dualismo inseparabilmente legato ne spicca un altro «anticosmico», che in realtà non è che una conseguenza del precedente, dove tutto ciò che è materia è visto come male, in quanto creazione del dio inferiore. L’essere umano scopre la sua esistenza intrappolata nella realtà materiale del corpo, e per liberarsene ha bisogno della gnosi, della conoscenza che lo renda pneumatico e capace di comprendere se stesso come parte del pleroma. Il ricorso ai culti misterici delle religioni ellenistiche [15] è un’altra caratteristica di queste eresie. I misteri vengono rivelati soltanto agli iniziati, agli pneumatici. Infine, si potrebbe dire che lo gnosticismo rappresenta un tentativo di sintesi, non proprio compatta ed armonica, fra ebraismo, filosofia platonica e mitologia greca [16].

    Nella Biblioteca di Nag Hammadi, scoperta nel 1945 in quella località d' Egitto, sono stati rinvenuti dei manoscritti, in 13 codici, contenenti 52 testi tra i quali quarantacinque titoli diversi. I contenuti sono tra i più svariati, dalla Repubblica di Platone fino a venticinque apocalissi, passando per sei lettere e arrivando ai vangeli di Tommaso, di Filippo, della Verità (due copie) e degli Egiziani (due copie).

    Gli scritti di Nag Hammadi sono strettamente collegati allo gnosticismo. Essi sono diventati una chiave di lettura, anche se parziale, per capire quella complessa realtà filosofico-religiosa. Sono nel contempo una fonte di prima mano, e ciò ha un indubbio valore se si tiene presente che, fino alla scoperta dei manoscritti, ciò che si sapeva sugli gnostici e sulla loro dottrina proveniva dagli scrittori del II e III secolo che li confutavano, fornendone una conoscenza indiretta, o meglio, «speculare». I testi di Nag Hammadi sono scritti in copto (saidico e licopolitano) e datano dal IV secolo. Tutti sono traduzioni di originali greci del II-III secolo dell’era cristiana [17]. Gli studiosi coincidono invece nell’affermare che non esistono dei testi gnostici del I-II secolo allorché, al massimo, si poteva parlare di pre-gnosticismo.

    Praticamente nessuno dei vangeli trovati a Nag Hammadi assomiglia nella struttura ai vangeli canonici. In questi ultimi la narrazione è protesa verso il mistero pasquale, e così tutto è visto alla luce di quell’evento fondamentale che è la donazione che Gesù fa della sua vita per la salvezza del mondo [18]. Ma nel pensiero gnostico si trova un altro tipo di «redenzione», motivo per cui la passione va semplicemente ignorata e persino negata [19]. Questi vangeli mirano di più a riportare le sentenze e i consigli di Gesù, secondo la propria interpretazione. Il vangelo di Tommaso, che è senz’altro il più importante della biblioteca, presenta una serie di centoquattordici parabole e detti, alcuni dei quali sono simili alle sentenze di Gesù riportate nei sinottici. A differenza delle parabole dei tre vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca), quei testi non ne contengono però le spiegazioni. Questa caratteristica, inizialmente ritenuta da Jeremias come un segno di antichità e di semplicità [20], si è scoperta in seguito come componente intrinseca della «sapienza segreta» che, secondo gli gnostici, sarebbe stata rivelata da Gesù Cristo. Per mezzo di essa gli eletti avrebbero potuto riconoscere la loro vera identità spirituale e raggiungere la loro origine divina. Le spiegazioni, infatti, sono riservate soltanto agli iniziati [21] e non vanno manifestate agli altri.

    Negli ultimi anni si sono moltiplicati i commenti e gli studi sul vangelo di Tommaso, i quali ne hanno sottolineato i parallelismi con i vangeli sinottici. Alcuni negano il suo carattere gnostico e lo collegano alla tradizione della sapienza giudaica o a quella encratita, tipica del cristianesimo siriano orientale [22]. Costoro vorrebbero presentarlo come un testo precedente e persino più autorevole di quello dei sinottici, il che offrirebbe un’immagine di Gesù meno impegnativa, una specie di Confucio mediorientale o di filosofo cinico che non avrebbe mai detto niente che potesse costargli la vita. Emblematico è il caso di Crossan [23], che vorrebbe fondare la sua ricerca su fonti «antiche» come appunto il vangelo di Tommaso, di Pietro, il vangelo segreto di Marco e una ipotetica fonte comune ai vangeli sinottici (la cosiddetta fonte Q), in modo da far emergere la figura di Gesù attraverso una simbiosi fra un predicatore cinico itinerante e un contadino ignorante della Galilea. Della stessa stregua appaiono altri membri del noto gruppo di esegeti di uguale impostazione, i componenti del Jesus Seminar. Costoro cercano di svalutare i quattro vangeli a vantaggio di quelli apocrifi. Il desiderio di sopravvalutare il vangelo di Tommaso a scapito dei quattro vangeli canonici mira a presentare una figura «neutra» di Gesù. Ma con un atteggiamento del genere, il Signore non sarebbe mai morto sulla croce, né ci avrebbe salvato.

    In definitiva, la Chiesa non ha accettato quei libri che volevano dire «di più» su Gesù, specie per la loro tendenziosità, per il desiderio di raccontare cose mirabolanti o sbalorditive, e perché a volte scritti al fine di giustificare correnti dottrinali non ortodosse.

    3. Maria di Magdala nei Vangeli

    Nel Codice da Vinci le affermazioni su Gesù e Maria Maddalena poggerebbero sul chiamato Vangelo di Filippo, nel quale trapelerebbe una vicinanza e un affetto particolare fra Gesù e Maria di Magdala: «Tre donne camminano sempre con il Signore: Maria, sua Madre, la sorella di lei e la Maddalena, la quale è detta sua compagna (koinonos). Maria, in realtà, è sorella, madre e compagna di Lui» [24]. Secondo un altro testo, che presenta delle lacune, «la compagna (koinonos) di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore l’amava più di tutti i discepoli e più volte la baciava (sulla bocca)» [25]. La parola greca koinonos non implica necessariamente unione matrimoniale o intimità fisica. Non c’è nessun altro testo nella letteratura apocrifa dove si dica una cosa simile, e peraltro nel testo di Filippo, incompleto e sbiadito, le parole «sulla bocca» sono incerte. Ad ogni modo, si tratta di un’espressione comune fra gli gnostici per riferirsi ad una speciale sintonia fra due o più persone: il bacio è anche il modo di comunicarsi i segreti e di arricchire spiritualmente l’altra/-o.

    Nei vangeli canonici, invece, non si trova nemmeno un cenno ad una tale eventualità. La figura di Maria di Magdala compare per la prima volta, in base all’ordine canonico dei vangeli, all’inizio del cap. 8 del vangelo secondo Luca [26]. Assieme ad altre donne, accompagna Gesù e gli apostoli, nella loro predicazione per i villaggi della Palestina. Il vangelo dice che esse li assistevano con i loro beni, ma si potrebbe dedurre dal testo che collaboravano anche con Gesù nell’annuncio della buona novella del regno [27].

    Ma i passi più importanti dei vangeli canonici che riguardano Maria di Magdala sono quelli che si riferiscono alla morte e alla risurrezione di Gesù. Delle 12 volte in cui appare il nome della Maddalena nei vangeli, tutte, ad eccezione del testo lucano menzionato sopra, sono inquadrate nella prospettiva del mistero pasquale. Maria Maddalena appare insieme con la Madre di Gesù e altre donne accanto alla croce, essa va ad osservare dove il Signore viene seppellito e, il giorno dopo il sabato, molto presto, va ad imbalsamarlo, volendo completare ciò che non si era riusciti a fare la sera del Venerdì Santo. Il ruolo della Maddalena spicca in modo particolare attorno all’evento della risurrezione di Gesù Cristo. Lei, infatti, è stata il primo testimone dell’evento straordinario di quella domenica, lei ha ricevuto dal Risorto l’incarico di andare ad annunciarlo agli apostoli. Perciò non è infrequente trovare negli scritti patristici e medievali il titolo di apostola apostolorum [28] applicato a Maria di Magdala, e a ragione: è lei a diventare latrice del messaggio più importante del cristianesimo, vale a dire, la proclamazione di Gesù come il Figlio di Dio che ha vinto la morte e ci ha riscattati dal potere del peccato e del demonio.

    Non a caso Maria Maddalena è l’unica, fra le donne che appaiono negli scritti neotestamentari, ad essere chiamata col proprio nome in tutti e quattro i vangeli canonici. Per fare un paragone, la Madre di Gesù non sempre viene chiamata col nome proprio. Questo, certamente, non vuole sminuire l’importanza di Maria, che come Madre del Redentore ha un ruolo primario ed unico nella storia salvifica, tale da farci affermare che al di sopra di Lei c'è soltanto Dio. Accanto alla sua persona, però, spicca quella di Maria di Magdala, come portatrice del kerygma della risurrezione di Cristo.

    Si spiega allora perché nella tradizione della Chiesa primitiva e nella letteratura cristiana antica la figura della Maddalena venga privilegiata. Prendendo spunto dalla sua missione annunciatrice, le si sono attribuiti ulteriormente nuovi compiti e privilegi. Nella letteratura gnostica, dove la conoscenza del mistero pasquale occupa un posto di rilievo, la sua figura diventa quella della confidente di Gesù, colei alla quale il Maestro ha rivelato l’evento che costituisce l’asse portante della fede cristiana. Nel vangelo gnostico di Maria si racconta come ella incoraggi gli apostoli a mettere in pratica le parole del Salvatore, ricordando loro di rimanere nella sua grazia [29]. Più avanti, nello stesso vangelo, Levi richiama il comportamento di Andrea e di Pietro, che si erano mostrati un po’ scettici e forse gelosi riguardo alla missione di Maria di Magdala: «Se il Salvatore l’ha resa degna, chi siamo noi per rifiutarla?» [30].

    Questa partecipazione specialissima al mistero di Cristo è vista dagli gnostici come intimità spirituale, partecipazione alla missione annunciatrice di Cristo stesso, ma mai come relazione di altro tipo. E questo certamente non sembra averlo affatto capito Dan Brown. D’altra parte la Chiesa, nella sua storia bimillenaria, non soltanto ha considerato la figura della Maddalena come emblematica, ma ha confermato che anche le donne hanno il diritto di proclamare ciò che Dio ha realizzato attraverso Gesù [31].

    Il fatto che Maria di Magdala non abbia ricevuto il sacerdozio – che in Israele era riservato agli uomini, e questa è stata anche indubbiamente la scelta di Gesù –, non significa che la Chiesa l’abbia messa da parte o non l’abbia tenuta in grande considerazione, come le riflessioni fatte sopra hanno evidenziato.

    In conclusione, la Chiesa ha sempre venerato i vangeli come i libri che proclamano ciò che Gesù ha detto e fatto. La loro sobrietà ha sempre sorpreso chi si accosta al testo alla ricerca di qualcosa di straordinario. Certamente la vita cristiana presenta delle realtà soprannaturali, ma esse vengono raccontate, paradossalmente, in maniera «naturale» e sobria, senza aggiungere circostanze inutili. Ciò mette in risalto la figura del Figlio di Dio che si è incarnato per la salvezza del mondo. I vangeli apocrifi non si sono accontentati di questa tradizione e hanno voluto aggiungere dei particolari per evidenziare aspetti che, secondo i loro autori, si addicevano a Gesù. Ma di fatto in tal modo essi offrono un’immagine di Gesù non conforme alla realtà.

    ******************
    1) Cf. D.A. Bock, Il Codice da Vinci. Verità e Menzogne, Milano 2005, 41-43; 50-54.

    2) Mt 19,11s.

    3) Cf. Filone, Hypothetica, 11,14-17.

    4) Cf. Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica 2.8.2,119-122. Cf. Antichità giudaiche, 18,18-22.

    5) Cf. J.A. Fitzmyer, Qumran: le domande e le risposte essenziali sui manoscritti del Mar Morto, Brescia 1994, 105-107.

    6) «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7s).

    7) Cf. Gv 4,1-30(27-30).

    8) Cf. D. Brown, Il Codice da Vinci, 272.

    9) At 2,22-24.

    10) Cf. H. Koester, Einführung in das Neue Testament, Berlin-New York 1980, 180s.

    11) Sono chiamati «canonici» i vangeli (o racconti di annuncio) accettati dalla Chiesa come libri che contenevano i detti di Gesù e i fatti della sua vita. Essi facevano parte dell’elenco ufficiale dei libri ispirati da Dio, impiegati fra l’altro nel culto liturgico e nell’istruzione dei fedeli.

    12) Una parte degli studiosi pensa che il frammento muratoriano risalga invece al IV secolo d.C. La prima riga del testo che si può leggere dice: «il terzo vangelo è quello di Luca (...), e il quarto, quello di Giovanni». Si scorge subito un’allusione agli altri due vangeli, di Matteo e di Marco, che venivano menzionati prima. Non si nomina invece nessun altro scritto con il nome di «vangelo».

    13) Cf. H. Koester, Einführung in das Neue Testament, 500-503.

    14) Cf. M. Erbetta, Gli apocrifi del Nuovo Testamento, 3 voll., Torino 1975, I,651; II, 660 s.

    15) Uno dei culti religiosi più antichi ed influenti è quello dei misteri eleusini dedicati a Demeter. I nuovi membri dovevano recarsi ad Eleusi, presso Atene, per ricevere l’iniziazione. Un altro luogo collegato a questi culti sembra essere stata Samotracia (cf. At 16,11). Riguardo ai culti individuali, spiccavano quelli a Dioniso e ai Cabiri, confusi più tardi a Roma con i Dioscuri.

    16) Cf. D.M. Scholer, Gnosis, Gnosticism, in R.P. Martin, P.H. Davids, Dictionary of Later New Testament and Its Developments, Downers Grove-Leicester 1997, 401-403.

    17) Ibid., 407.

    18) Conosciuta è l’affermazione di M. Kähler nel suo libro Der sogenannte historische Jesus und der geschichtliche, biblische Christus, München 1961 (ristampa), secondo la quale il vangelo di Marco sarebbe «un racconto della passione con una lunga introduzione».

    19) Come si è visto prima, la loro «redenzione» sarebbe la liberazione dal corpo materiale per poter inserirsi nel «pleroma». Di conseguenza la morte di Cristo sulla croce sarebbe soltanto apparente: Cf. Apocalisse gnostica di Pietro, p. 81, dove si riporta un dialogo dell’apostolo con Gesù: «Che cosa vedo Signore? Sei tu veramente quello che prendono? (…) Chi è quello sulla croce che è sereno e ride?» Gesù risponde: «Quello che hai visto sorridente sulla croce è Gesù il vivente. Ma quello nelle cui mani e piedi conficcano i chiodi è la sua parte corporea, il sostituto»: W. Schneemelcher, Neutestamentliche Apokryphen II, Tübingen 61997, 642.

    20) Cf. J. Jeremias, Le parabole di Gesù, Brescia 1967, 92s.

    21) Cf. ad esempio, Apocalisse gnostica di Pietro, pp. 70-71, in W. Schneemelcher, Neutestamentliche Apokryphen II, 637s.

    22) Cf. R.J. Bauckham, Gospels (Apocryphal), in J.B. Green, S. McKnight, I.H. Marshal, Dictionary of Jesus and the Gospels, Downers Grove-Leicester 1992, 287.

    23) Cf. J.D. Crossan, The Historical Jesus. The Life of a Mediterranean Jewish Peasant, San Francisco 1991.

    24) Vangelo di Filippo, Logion 32 in M. Erbetta, Apocrifi del Nuovo Testamento I/1, 225. Con questo logion l’autore vuol mettere in luce tre aspetti o manifestazioni della Maddalena.

    25) Vangelo di Filippo, Logion 55b in M. Erbetta, Apocrifi del Nuovo Testamento I/1, 229.

    26) Cf. Lc 8,1-3.

    27) Cf. C. Ricci, Maria di Magdala e le molte altre, Napoli 1991, 57-118.

    28) In realtà il primo ad usare questo titolo è Ippolito (secolo III), che poi si riafferma nella Chiesa a partire dal secolo X. Cf. B. Luter, K. McReynolds, Women as Christ’s Disciples, Grand Rapids/Mich. 1997, 74; D. Bock, Il Codice da Vinci, 143s.

    29) Davanti allo scoraggiamento dei discepoli per la partenza di Gesù, Maria li esorta dicendo: «Non piangete e non vi addolorate e neppure siate indecisi. La sua grazia sarà con voi tutti e vi proteggerà. Benediciamo piuttosto la sua grandezza, ché egli ci ha preparati e resi uomini»: Vangelo di Maria, Logion 6 in M. Erbetta, Apocrifi del Nuovo Testamento I/1, 294.

    30) Ibid., Logion 15-18 in M. Erbetta, Apocrifi del Nuovo Testamento I/1, 296.

    31) Cf. P.M. Guillaume, Marie Madeleine (Sainte), in A. Derville, P. Lamarche, A. Solignac, Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique. Doctrine et histoire X, Paris 1980, 559-575.

    Fonte: Zenit, 28.4.2007

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    La questione giovannea

    ROMA, martedì, 17 aprile 2007 (ZENIT.org).-Pubblichiamo di seguito un estratto del libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: "Gesù di Nazaret", distribuito dalla Casa editrice "Rizzoli".

    * * *

    [...] Così siamo ora giunti a due quesiti decisivi che, in fin dei conti, costituiscono il centro della questione «giovannea». Chi è l'autore di questo Vangelo? Qual è la sua attendibilità storica? Cerchiamo di avvicinarci alla prima domanda. È il Vangelo stesso a fare, al riguardo, una chiara affermazione nel racconto della passione. Si riferisce che uno dei soldati colpì il costato di Gesù con una lancia e «subito ne uscì sangue e acqua». Seguono le importanti parole: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv 19,35). TI Vangelo afferma di risalire a un testimone oculare, e questi è evidentemente colui di cui prima è stato detto che stava presso la croce ed era il discepolo che Gesù amava (cfr. 19,26). Poi ancora una volta, in Gv 21,24, questo discepolo viene menzionato come l'autore del Vangelo. [...]

    Ma chi, allora, è questo discepolo? II Vangelo non lo identifica mai direttamente col nome. In connessione con Pietro e con altre vocazioni di discepoli, il testo ci guida verso la figura di Giovanni di Zebedeo, ma non procede esplicitamente a questa identificazione. È ovvio che mantiene volutamente un segreto. L'Apocalisse, è vero, nomina espressamente Giovanni come suo autore (cfr. 1,1.4), ma nonostante lo stretto legame dell'Apocalisse con il Vangelo come anche con le Lettere rimane aperta la domanda se l'autore sia il medesimo.

    [...] Se il discepolo prediletto assume nel Vangelo espressamente la funzione di testimone della verità dell'accaduto, si presenta come persona viva: come testimone vuole farsi garante di fatti storici, rivendicando così egli stesso il rango di figura storica; altrimenti queste frasi, che deter*minano lo scopo e la qualità dell'intero Vangelo, si svuotano di significato.

    Dai tempi di Ireneo di Lione (+ 202 circa), la tradizione della Chiesa riconosce all'unanimità Giovanni di Zebedeo come il discepolo prediletto e l'autore del Vangelo. Questa tesi si accorda con gli accenni identificativi del Vangelo, che, in ogni caso, ci rimandano a un apostolo e a un compagno di viaggio di Gesù dal battesimo nel Giordano fino all'Ultima Cena, alla croce e alla risurrezione.

    In epoca moderna, però, sono sorti dubbi sempre più forti riguardo a questa identificazione. È possibile che il pescatore del lago di Genèsaret abbia scritto questo sublime Vangelo delle visioni che penetrano nel più profondo del mistero di Dio? È possibile che quest'uomo, galileo e pescatore, fosse così legato all'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, al suo linguaggio e alla sua mentalità quanto lo è, in effetti, l'evangelista? È possibile che fosse imparentato con la famiglia del sommo sacerdote, come sembra suggerire il testo (cfr. Gv 18,15)?

    Ebbene, in seguito agli studi di Jean Colson, Jacques Winandy e Marie*Emile Boismard, l'esegeta francese Henri Cazelles ha dimostrato, con una ricerca sociologica sul sacerdozio del tempio prima della distruzione di quest'ultimo, che una simile identificazione è senz'altro plausibile. Le classi sacerdotali prestavano il loro servizio a turno per una settimana due volte l'anno. Al termine del servizio, il sacerdote tornava nella sua terra; non era affatto insolito che esercitasse anche una professione per guadagnarsi la vita. Emerge, del resto, dal Vangelo che Zebedeo non era un semplice pescatore, bensì dava lavoro a diversi giornalieri, per cui era anche possibile ai suoi figli lasciarlo. «Zebedeo, dunque, può senz'altro essere un sacerdote e avere tuttavia al contempo una proprietà in Galilea, mentre la pesca sul lago lo aiuta a guadagnarsi da vivere. Forse aveva solo un alberghetto di passaggio in o nelle vicinanze di quel quartiere di Gerusalemme che era abitato dagli esseni» («Communio» 2002, p. 481). «Proprio quella cena durante la quale questo discepolo poggiò la testa sul petto di Gesù si svolse in un luogo che, con tutta probabilità, si trovava nella parte della città abitata dagli esseni» - nell'«alberghetto» del sacerdote Zebedeo, che «cedette la stanza superiore a Gesù e ai Dodici» (pp. 480s). È interessante, in questo contesto, ancora un'altra indicazione nel contributo di Cazelles: secondo l'usanza giudaica, il padrone di casa o, in sua assenza come qui, «il suo primogenito sedeva alla destra dell'ospite, il capo reclinato sul suo petto» (p. 480).

    Se dunque anche - e proprio - allo stato attuale della ricerca è senz'altro possibile scorgere in Giovanni di Zebedeo quel testimone che difende solennemente la sua testimonianza oculare (cfr. 19,35), identificandosi così come il vero autore del Vangelo, la complessità nella redazione del testo solleva tuttavia ulteriori domande. A questo riguardo è importante una notizia dello storico della Chiesa Eusebio di Cesarea (t 338 circa). Eusebio ci riferisce di un'opera in cinque volumi del Vescovo Papia di Gerapoli, morto nel 220 circa, che vi avrebbe menzionato di non aver più conosciuto né visto di persona i santi apostoli, ma di aver ricevuto la dottrina della fede da persone vicine agli apostoli. Parla di altri che sarebbero stati a loro volta discepoli del Signore e cita per nome Aristione e un «presbitero Giovanni». Ciò che qui importa è che egli distingue tra l'apostolo ed evangelista Giovanni da una parte e il «presbitero Giovanni» dall'altra. Mentre non avrebbe più conosciuto personalmente il primo, avrebbe incontrato il secondo di persona (Eusebio, Storia della Chiesa, III, 39).

    Si tratta di una notizia veramente degna di attenzione; insieme con alcuni indizi affini rivela infatti che a Efeso esisteva una sorta di scuola giovannea che faceva risalire le sue origini al discepolo prediletto di Gesù, nella quale, tuttavia, un certo «presbitero Giovanni» era poi l'autorità decisiva. Questo «presbitero» Giovanni compare nella Seconda e nella Terza Lettera di Giovanni (1,1 in entrambi i casi) come mittente e autore del testo semplicemente con il titolo «il presbitero» (senza l'indicazione del nome Giovanni). Evidentemente non coincide con l'apostolo, cosicché, in questo passo del testo canonico, incontriamo espressamente la misteriosa figura del presbitero. Doveva essere strettamente legato all'apostolo e magari aveva ancora conosciuto persino Gesù. Dopo la morte dell'apostolo venne considerato il pieno detentore della sua eredità; nel ricordo, le due figure si sono infine sovrapposte sempre di più. A ogni modo possiamo attribuire al «presbitero Giovanni» una funzione essenziale nella stesura definitiva del testo evangelico, durante la quale egli, senz'altro, si considerò sempre come l'amministratore dell'eredità ricevuta dal figlio di Zebedeo.

    Le grandi immagini giovannee, capitolo 8 di GESÙ DI NAZARET, di Joseph Ratzinger *Benedetto XVI, Rizzoli (Pagg. 261-266)

    Fonte: Zenit, 17.4.2007

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    La veridicità della figura di Gesù Cristo

    Conferenza alla “Regina Apostolorum” sul volume di Joseph Ratzinger


    ROMA, martedì, 8 maggio 2007 (ZENIT.org).- Lunedì sera, presso l’Università Pontificia “Regina Apostolorum”, è stata organizzata una dissertazione sul libro di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI dal titolo Gesù di Nazaret, che ha di recente surclassato il settimo volume della saga di Harry Potter, mentre in Germania ha battuto un mostro sacro della letteratura mitteleuropea come il Premio Nobel Günter Grass.

    Ad analizzare i contenuti e la struttura del libro sono stati tre docenti dello stesso Ateneo: padre Antonio Izquierdo, LC, professore di Vangeli Sinottici, don Nunzio Capizzi, professore di Teologia fondamentale, e padre Paolo Scarafoni, LC, professore di Teologia trinitaria.

    “Nello sviluppare la sua opera – ha esordito padre Izquierdo – il Santo Padre ha seguito quattro criteri: in primo luogo un criterio di carattere personale, nella misura in cui egli ha concepito il libro molti anni addietro, ripercorrendo un lungo cammino intellettuale e di fede che intende superare i forti contrasti dottrinali, culminati negli anni ’70, che hanno portato, attraverso differenti esegesi storico-critiche, a un interpretazione del Gesù storico molto lontana dalla realtà”.

    “In secondo luogo Papa Ratzinger ha seguito un criterio scientifico, per l’esattezza storico-critico – ha proseguito il biblista –. Un metodo molto efficace, ad avviso del Papa, ma con alcuni limiti: non permette collegamenti logici con il presente, non va oltre la parola umana e difficilmente riesce a ricomporre i singoli frammenti storici in un unico mosaico”.

    “C’è poi il criterio dell’esegesi canonica – ha detto ancora padre Izquierdo – che sviluppa in modo organico il metodo storico-critico e ne fa una vera teologia. Le Sacre Scritture, in questo senso, sono guidate dalla forza dello Spirito e vanno interpretate nell’ottica di questa unità”.

    “L’ultimo criterio è riferito alla fiducia nella veridicità dei quattro vangeli: si dà per acquisito che Gesù Cristo è una figura sensata e convincente”, ha continuato.

    Sul tema dell’attualità degli interrogativi che circondano la figura del Nazareno è intervenuto don Nunzio Capizzi, sottolineando in primo luogo che “attraverso l’Incarnazione la Divinità entra nella storia reale, quindi le Sacre Scritture devono necessariamente richiamarsi al dato storico e non semplicemente ad un nucleo di simbologie”.

    “Sia i credenti che i non credenti – ha proseguito Capizzi – si domandano sovente in che modo le parole di Gesù possono ‘dire qualcosa’ a noi contemporanei. Qui è l’approccio canonico che interviene: è il popolo di Dio di allora che parla e comunica al popolo di Dio attuale”.

    “In altre parole – ha spiegato – siamo, noi fedeli del nostro tempo, a far vivere ancora quelle stesse parole di duemila anni fa, anche con codici e linguaggi diversi. In un certo senso il quinto vangelo è quello di chiunque racconta e trasmette la parola di Gesù”.

    “Un altro interrogativo ricorrente – ha aggiunto il teologo – è come si possa convincere a credere chi non ha fede. La premessa è che la figura di Gesù e il suo modo di vivere affascinano anche i non credenti e che l’accentuazione dell’umanità di Gesù va incontro all’uomo moderno”.

    “Quindi l’annuncio del Regno non è solo un’affermazione ma un avvenimento, così come Gesù è un avvenimento – ha chiarito –. Possiamo rimanere vicini a Lui, anche nella lontananza se meditiamo e riflettiamo sulla realtà della Sua tentazione, il cui racconto è in stretto rapporto con il battesimo di Nostro Signore”.

    Le riflessioni di padre Paolo Scarafoni sono andate, invece, nello specifico dei capitoli IX (confessione di Pietro e Trasfigurazione) e X di Gesù di Nazaret (le tre definizioni che Gesù dà di se stesso: Figlio dell’Uomo, Figlio e ‘Io Sono’) .

    Quelle descritte nel capitolo IX, ha spiegato padre Scarafoni, sono “due vicende che svelano la natura di Gesù Cristo, come messia, salvatore e Figlio di Dio. Epiteti, questi ultimi, che sono pressoché impossibili da ricostruire a posteriori ed è inverosimile che gli apostoli, in tempi successivi alla Sua morte, possano essersi messi d’accordo nell’attribuire a Gesù una natura anche divina, come vorrebbe una certa letteratura ‘alternativa’”.

    “Figlio dell’Uomo, Figlio e ‘Io Sono'” – ha poi affermato padre Scarafoni – sono, invece, definizioni che solo ed esclusivamente Gesù si attribuisce e che non appaiono in bocca a nessun altro personaggio del Nuovo Testamento.

    “L’espressione ‘Figlio dell’Uomo’ – ha proseguito – è già presente nell’Antico Testamento nei libri dei profeti Daniele e Isaia. Se in Daniele l’avvento del Figlio dell’Uomo ha carattere collettivo, con Gesù si personalizza”.

    “Le espressioni ‘Figlio’ e ‘Figlio di Dio – ha detto ancora padre Scarafoni – nell’antichità erano riferite ai figli di re e imperatori. Con Gesù la parola ‘Figlio’ si distacca dal potere temporale e politico e si associa alla dialettica Padre-Figlio e alla loro conoscenza reciproca (“Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio”, Mt 11,25)”.

    “Questa conoscenza non viene donata ai sapienti ma ai semplici, di qui l’umiltà, la figliolanza e la purezza di cuore che si manifesta nell’espressione Abbà”, ha proseguito.

    “L’affermazione ‘Io sono’ – ha concluso padre Scarafoni – fa riferimento alla coscienza della propria natura da parte di Gesù e si manifesta sia in forma ‘semplice’ che nelle varie forme ‘composte’ ‘Io sono la luce del mondo’, ‘Io sono il buon pastore’ , eccetera. Da un lato, dunque, i discepoli lo riconoscono come il Figlio del Dio vivente, dall’altro è Gesù stesso a presentarsi come tale”.

    Fonte: Zenit, 8.5.2007

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    Il Figlio di Dio è il Gesù storico

    ROMA, domenica, 15 aprile 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un estratto del libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: "Gesù di Nazaret", che sarà in vendita nelle librerie da lunedì 16 aprile – giorno dell'80° genetliaco del Papa –, distribuito dalla Casa editrice "Rizzoli".

    * * *

    [ ... ] ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il «Gesù storico» in senso vero e proprio. lo sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. lo ritengo che proprio questo Gesù - quello dei Vangeli - sia una figura storicamente sensata e convincente. Solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell'epoca, si spiega la sua crocifissione e si spiega la sua efficacia.

    Già circa vent' anni dopo la morte di Gesù troviamo pienamente dispiegata nel grande inno a Cristo della Lettera ai Filippesi (cfr. 2,6-11) una cristologia, in cui si dice che Gesù era uguale a Dio ma spogliò se stesso, si fece uomo, si umiliò fino alla morte sulla croce e che a Lui spetta l'omaggio del creato, l'adorazione che nel profeta Isaia (cfr. 45,23) Dio aveva proclamata come dovuta a Lui solo. La ricerca critica si pone a buon diritto la domanda: che cosa è successo in questi vent'anni dalla crocifissione di Gesù? Come si è giunti a questa cristologia? L'azione di formazioni comunitarie anonime, di cui si cerca di trovare gli esponenti, in realtà non spiega nulla. Come mai dei raggruppamenti sconosciuti poterono essere così creativi, convincere e in tal modo imporsi?

    Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all'inizio e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio? Naturalmente, credere che proprio come uomo egli era Dio e che abbia fatto conoscere questo velatamente nelle parabole e tuttavia in un modo sempre più chiaro, va al di là delle possibilità del metodo storico. Al contrario, se alla luce di questa convinzione di fede si leggono i testi con il metodo storico e con la sua apertura a ciò che è più grande, essi si schiudono, per mostrare una via e una figura che sono degne di fede. Diventano allora chiari anche la ricerca complessa presente negli scritti del Nuovo Testamento intorno alla figura di Gesù e, nonostante tutte le diversità, il profondo accordo di questi scritti.

    Premessa di GESÙ DI NAZARET, di Joseph Ratzinger- Benedetto XVI, Rizzoli Pagg. 18-19

    Fonte: Zenit, 15.4.2007

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    Il cammino del Papa verso Gesù

    Una meditazione personale e non un documento del Magistero


    ROMA, domenica, 15 aprile 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Sinossi del libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: "Gesù di Nazaret", in vendita nelle librerie italiane a partire da lunedì 16 aprile, offerta dalla Casa editrice "Rizzoli".

    * * *
    Questo libro è la prima parte di un' opera la cui stesura, secondo l'affermazione dello stesso Autore, è stata preceduta da un «lungo cammino interiore» (p. 7). Esso rispecchia la ricerca personale del «volto del Signore» da parte di Joseph Ratzinger e non vuol essere un documento del Magistero («Perciò ognuno è libero di contraddirmi» sottolinea il Pontefice nella Premessa, a p. 20). Lo scopo principale dell'opera, nella cui seconda parte il Papa spera di «poter ancora offrire anche il capitolo sui racconti dell’infanzia» di Gesù e trattare il mistero della sua passione, morte e risurrezione, è «di favorire nel lettore la crescita di un vivo rapporto» con Gesù Cristo (cfr. p. 20).

    Si tratta dunque in primo luogo di un libro pastorale. Ma è anche l'opera di un teologo rigoroso, che giustifica ogni sua affermazione sulla base di una sterminata conoscenza dei testi sacri e della letteratura critica. Egli sottolinea l'indispensabilità del metodo storico-critico per un'esegesi seria, evidenzia però anche i limiti di esso: «Credere che proprio come uomo egli [Gesù] era Dio [...] va al di là delle possibilità del metodo storico» (p. 19). Eppure «senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole} irreale e inspiegabile». Confermando questa conclusione di un grande rappresentante cattolico dell'esegesi storico-critica, il Papa dichiara che il suo libro «considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre» (p. 10). Inoltre, in base a una «lettura dei singoli testi della Bibbia nel quadro della sua interezza» - una lettura «che non è in contraddizione con il metodo storico-critico, ma lo sviluppa in maniera organica e lo fa divenire vera e propria teologia» (p. 15) - l'Autore presenta «il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico”», sottolineando «che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni» (p. 18).

    Per Benedetto XVI, nel testo biblico si trovano tutti gli elementi per affermare che il personaggio storico Gesù Cristo è anche effettivamente il Figlio di Dio venuto sulla terra per salvare l'umanità e, pagina dopo pagina, li esamina uno per uno, guidando il lettore - credente ma anche non credente - in un' avvincente avventura intellettuale. Basandosi sul fatto dell'intima unità tra l'Antico e il Nuovo Testamento e avvalendosi dell'ermeneutica cristologica che vede in Gesù Cristo la chiave dell'intera Bibbia, Joseph Ratzinger presenta il Gesù dei Vangeli come il «nuovo Mosè» che adempie le antiche attese di Israele. Questo nuovo e vero Mosè deve condurre il popolo di Dio alla libertà vera e definitiva. Lo fa con passi successivi che, tuttavia, lasciano sempre intravedere il piano di Dio nella sua interezza. Il battesimo di Gesù nel Giordano «è l'accettazione della morte per i peccati dell'umanità, e la voce dal cielo“Questi è il Figlio mio prediletto” è il rimando anticipato alla risurrezione» (cap. 1). L'immersione di Gesù nelle acque del Giordano è simbolo della sua morte e della sua discesa «agli inferi» - una realtà presente, però, in tutta la sua vita. Per salvare l'umanità, «Egli deve riprendere tutta la storia a partire dai suoi inizi» (p. 48), deve vincere le tentazioni principali che minacciano, in forme diverse, gli uomini di tutti i tempi e, trasformandole in obbedienza, riaprire la strada verso Dio (cap. 2), verso la vera Terra promessa che è il «regno di Dio». Questo termine, che può essere interpretato nella sua dimensione cristologica, mistica o anche ecclesiastica, significa in definitiva «la signoria di Dio, la sua sovranità sul mondo e sulla storia [che] va oltre la storia nella sua interezza e la trascende [...]. Tuttavia, nello stesso tempo è qualcosa di assolutamente presente» (pag. 81). Anzi, attraverso la presenza e l'attività di Gesù «Dio è entrato nella storia in modo completamente nuovo, qui e ora, come Colui che opera». In Gesù «Dio viene incontro a noi [...] regna in modo divino, cioè senza potere mondano, regna con t amore che va “sino alla fine”» (p. 84). Il tema del «regno di Dio» (cap. 3) che attraversa tutto l'annuncio di Gesù viene ulteriormente approfondito nella riflessione sul «Discorso della montagna» (cap. 4). In esso Gesù appare chiaramente come il «nuovo Mosè» che porta la nuova Torah o, meglio, che riprende la Torah di Mosè e, attivando la dinamica intrinseca della sua struttura, la porta a compimento. Il Discorso della montagna, in cui le Beatitudini costituiscono i punti cardine della nuova Legge e, al contempo, sono un autoritratto di Gesù, dimostra che questa Legge non è soltanto - come nel caso di Mosè * il risultato di un colloquio «faccia a faccia» con Dio, ma reca in sé la pienezza che proviene dall'intima unione di Gesù con il Padre: Gesù è il Figlio di Dio, la Parola di Dio in persona; «Gesù intende se stesso come la Torah» (p. 137). «È questo il punto che esige una decisione e perciò è il punto che conduce alla croce e alla risurrezione» (cfr. p. 86).

    L'esodo verso la vera «Terra promessa», verso la vera libertà, richiede la sequela di Cristo. Il credente deve inserirsi nella stessa comunione del Figlio col Padre. Solo così l'uomo può «realizzarsi» pienamente, perché la sua natura più profonda è orientata verso la relazione con Dio. Ciò significa che un elemento fondamentale della sua vita è il parlare con Dio e 1'ascoltare Dio. Per questo Benedetto XVI dedica un capitolo intero alla preghiera, spiegando il Padre nostro, che Gesù stesso ci ha insegnato (cap. 5). Il contatto profondo degli uomini con Dio Padre mediante Gesù nello Spirito Santo li raccoglie nel «noi» di una nuova famiglia che, mediante la scelta dei Dodici, rimanda alle origini di Israele (i dodici Patriarchi) e, insieme, apre la visione verso la nuova Gerusalemme (cfr. Ap 21,9-14), la meta definitiva dell'intera storia - del nuovo esodo sotto la guida del «nuovo Mosè». Stando con Gesù, i Dodici devono «dalla comunanza esteriore [...] arrivare alla comunione interiore con Lui», per essere poi in grado di testimoniare il suo essere uno col Padre e «diventare inviati * “apostoli” appunto - di Gesù che portano il suo messaggio nel mondo» (p. 207). Pur nella sua composizione quanto mai eterogenea, la nuova famiglia di Gesù, la Chiesa di tutti i tempi, trova in Lui il suo centro unificante e l'orientamento per vivere il carattere universale del suo Vangelo (cap. 6). Per rendere più accessibile il contenuto del suo messaggio e farlo diventare, appunto, orientamento pratico, Gesù si serve della forma della parabola. Egli avvicina le realtà che intende comunicare - in definitiva si tratta sempre del suo stesso mistero - alla comprensione dell'ascoltatore attraverso il ponte della similitudine con le realtà a lui ben conosciute.

    Accanto a questo aspetto umano c'è però anche una spiegazione puramente teologica del senso delle parabole, che Joseph Ratzinger evidenzia con un' analisi di rara profondità. Egli si inoltra poi nel commento più specifico di tre parabole, mediante le quali illustra la ricchezza inesauribile del messaggio di Gesù e la sua perenne attualità (cap. 7). Anche il capitolo seguente tratta di similitudini usate da Gesù per spiegare il suo mistero: sono le grandi immagini giovannee. Prima di analizzarle, il Papa espone un riassunto molto interessante dei vari risultati della ricerca scientifica su chi era l'evangelista Giovanni. Con ciò, come poi nella spiegazione delle immagini stesse, egli apre al lettore nuovi orizzonti che rivelano Gesù in modo sempre più chiaro come il «Verbo di Dio» fattosi uomo per la nostra salvezza, come il «Figlio di Dio», venuto per ricondurre l'umanità verso l'unità col Padre - la realtà di cui Mosè era la figura (cap. 8).

    Questa visione viene ulteriormente ampliata negli ultimi due capitoli. «Il racconto della trasfigurazione di Gesù [...] spiega e approfondisce la confessione di Pietro e, al tempo stesso, la collega al mistero della morte e della risurrezione» (pp. 333s). Ambedue gli eventi sono momenti decisivi per il Gesù terreno come anche per i suoi discepoli. Ora viene stabilito definitivamente qual è la vera missione del Messia di Dio e qual è il destino di chi vuole seguirlo. Ambedue gli eventi diventano comprensibili in tutta la loro portata solo in base a una visione d'insieme dell'Antico e del Nuovo Testamento. Gesù, il Figlio del Dio vivente, è il Messia atteso da Israele che, attraverso lo scandalo della Croce, conduce l'umanità nel «regno di Dio», alla libertà definitiva (cap. 9). Una profonda analisi dei titoli che, secondo i Vangeli, Gesù ha utilizzato per sé conclude il libro del Pontefice (cap. l0). Ancora una volta si palesa che solo una lettura delle Scritture come un tutt'uno può rivelare il significato dei tre termini «Figlio dell'uomo», «Figlio» e «lo Sono». Quest'ultimo è il nome misterioso con cui Dio si rivelò a Mosè nel roveto ardente. Ora questo nome lascia intravedere che Gesù è quello stesso Dio. In tutti e tre i titoli «Gesù insieme vela e svela il mistero di sé. [...] Tutte e tre le espressioni dimostrano il suo profondo radicamento nella parola di Dio, la Bibbia di Israele, l'Antico Testamento [...], ricevono tuttavia il loro significato pieno solo in Lui; hanno, per cosi dire, atteso Lui» (p. 404).

    Accanto all'uomo di fede, che cerca di spiegare il mistero divino soprattutto a se stesso, accanto al coltissimo teologo, che spazia sui risultati delle analisi dottrinali antiche e recenti, emerge nel libro anche il pastore che riesce davvero a «favorire nel lettore la crescita di un vivo rapporto» con Gesù Cristo (cfr. p. 20) quasi coinvolgendolo pian piano nella sua amicizia personale col Signore. In questa prospettiva il Pontefice non teme di denunciare un mondo che, escludendo Dio e aggrappandosi solo alle realtà visibili e materiali, rischia di autodistruggersi nella ricerca egoistica di un benessere solo materiale diventando sordo per la vera chiamata dell' essere umano a divenire, nel Figlio, figlio di Dio e a raggiungere così la vera libertà nella «Terra promessa» del «Regno di Dio».

    Fonte: Zenit, 15.4.2007

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    La tentazione del pane

    ROMA, lunedì, 16 aprile 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un estratto del libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: "Gesù di Nazaret", in vendita nelle librerie italiane da questo lunedì – giorno dell'80° genetliaco del Papa – e distribuito dalla Casa editrice "Rizzoli".

    * * *
    [...] La prova dell'esistenza di Dio che il tentatore propone nella prima tentazione consiste nel trasformare in pane le pietre del deserto. All'inizio si tratta della fame di Gesù stesso - così l'ha vista Luca: «Di' a questa pietra che diventi pane» (Lc 4,3). Ma Matteo interpreta la tentazione in modo più ampio, così come già durante la vita terrena di Gesù e in seguito lungo tutta la storia gli veniva e gli viene proposta sempre di nuovo.

    Che cosa vi è di più tragico, che cosa contraddice maggiormente la fede in un Dio buono e la fede in un redentore degli uomini che la fame dell'umanità? Il primo criterio di identificazione del redento re davanti al mondo e per il mondo non dovrebbe essere quello di dare il pane e mettere fine alla fame di ogni uomo? Quando il popolo d'Israele vagava nel deserto Dio l'aveva nutrito mandando il pane dal cielo, la manna. Si credeva di poter riconoscere in questo un'immagine del tempo messianico: non doveva e non deve il salvatore del mondo dimostrare la propria identità dando da mangiare a tutti? Il problema dell'alimentazione del mondo – e, più in generale: i problemi sociali - non sono forse il primo e autentico criterio al quale deve essere commisurata la redenzione? Può qualcuno che non soddisfa questo criterio chiamarsi a buon diritto redentore? Il marxismo ha fatto proprio di questo ideale - in modo comprensibilissimo - il cuore della sua promessa di salvezza: avrebbe fatto sì che ogni fame fosse placata e che «il deserto diventasse pane»...

    «Se tu sei Figlio di Dio...» - quale sfida! E non si dovrà dire la stessa cosa alla Chiesa? Se vuoi essere la Chiesa di Dio, allora preoccupati anzitutto del pane per il mondo - il resto viene dopo. È difficile rispondere a questa sfida, proprio perché il grido degli affamati ci penetra e deve penetrarci tanto profondamente nelle orecchie e nell'anima. La risposta di Gesù non si può capire solo alla luce del racconto delle tentazioni. Il tema del pane permea tutto il Vangelo e deve essere visto in tutta la sua estensione. Ci sono altri due grandi racconti sul pane nella vita di Gesù. Uno è la moltiplicazione dei pani per le migliaia di persone che avevano seguito il Signore nel deserto. Perché ora viene fatto quello che prima era stato respinto come tentazione? La gente era venuta per ascoltare la parola di Dio e per farlo aveva lasciato perdere tutto il resto. E così, come persone che hanno aperto il proprio cuore a Dio e agli altri in reciprocità, possono ricevere il pane nel modo giusto. Questo miracolo suppone tre elementi: in precedenza vi è stata la ricerca di Dio, della sua parola, del giusto orientamento di tutta la vita. Il pane viene inoltre implorato da Dio. E infine un elemento fondamentale del miracolo è la disponibilità reciproca a condividere. Ascoltare Dio diventa vivere con Dio, e conduce dalla fede all'amore, alla scoperta dell'altro. Gesù non è indifferente di fronte alla fame degli uomini, ai loro bisogni materiali, ma li colloca nel giusto contesto e dà loro il giusto ordine.

    Questo secondo racconto sul pane rimanda in anticipo al terzo e ne costituisce la preparazione: l'Ultima Cena, che diventa l'Eucaristia della Chiesa e il miracolo permanente di Gesù sul pane. Gesù stesso è diventato il chicco di grano che morendo produce molto frutto (cfr. Gv 12,24). Egli stesso è diventato pane per noi, e questa moltiplicazione dei pani durerà in modo inesauribile fino alla fine dei tempi. Così ora comprendiamo la parola di Gesù, che Egli prende dall'Antico Testamento (cfr. Dt 8,3), per respingere il tentatore: «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). A questo proposito c'è una frase del gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai nazisti: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l'adorazione mai tradita».

    Laddove questo ordine dei beni non viene rispettato, ma rovesciato, non ne consegue più la giustizia, non si bada più all'uomo che soffre, ma si creano dissesto e distruzione anche nell'ambito dei beni materiali. Laddove Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte in nome di cose più importanti, allora falliscono proprio queste presunte cose più importanti. Non lo dimostra soltanto l'esito negativo dell'esperienza marxista.

    Gli aiuti dell'Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su princìpi puramente tecnico-materiali, che non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l'orgoglio della loro saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel vuoto. Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane. È in gioco il primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient'altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell'uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene.

    Le tentazioni di Gesù, capitolo 2 di GESÙ DI NAZARET, di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, Rizzoli (Pagg.53-56)

    Fonte: Zenit, 16.4.2007

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    Gesú di Nazareth tra storia e teologia

    ROMA, sabato, 19 maggio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'intervento di Padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, in occasione di una tavola rotonda tenutasi presso l'Auditorium Parco della Musica di Roma, il 12 maggio scorso, nel contesto del Festival della Filosofia.

    * * *

    1. Gesú tra storia e storia

    Io credo che prima dell’alternativa espressa nel titolo di questa tavola rotonda “Gesú tra storia e teologia”, ce ne sia un’altra di cui è necessario tener conto, e cioè “Gesú tra storia e storia”. L’idea di una ricerca storica su Gesú unitaria, rettilinea che procede inarrestabile verso una piena luce su di lui è un puro mito che oggi nessuno storico serio tenta più di avallare.

    Lasciando da parte le variazioni diacroniche, cioè le ricostruzioni storiche della vicenda di Gesú succedutesi l’una all’altra negli ultimi due secoli, mi soffermo un istante sulle variazioni sincroniche, cioè esistenti su di lui in una stessa epoca, la nostra.

    Cito una fonte insospettabile, la Professoressa Paula Fredriksen che abbiamo l’onore di avere tra noi in questa tavola rotonda. Nella nuova introduzione scritta per il suo libro: Da Gesú al Cristo. Le origini delle immagini di Gesú del Nuovo Testamento[1] ella scrive: “I libri si moltiplicano a misura che lo spettro dei ritratti di Gesù si dilata. Nella ricerca scientifica recente Gesú è stato presentato come una figura di sciamano del primo secolo, come un itinerante filosofo cinico, come un visionario radicale e un riformatore sociale che predica una etica egualitaria a favore degli ultimi, come un regionalista galileo che lotta contro le convenzioni religiose dell’elite della Giudea (il tempio e la Torah), come un campione della liberazione nazionale, o, al contrario, come suo oppositore e critico, e via di questo passo. Tutte queste figure sono state presentate con vigorosi argomenti e metodi accademici, tutte sono difese appellandosi a dati antichi. I dibattiti continuano briglia sciolta e il consenso –anche su punti essenziali quali i criteri in base ai quali procedere – appare una remota speranza”.

    Spesso si fa appello ai nuovi dati e alle scoperte recenti che avrebbero finalmente messo la ricerca storica in una posizione di vantaggio rispetto al passato e cioè: la scoperta dei rotori di Qumran, della biblioteca di Nag Hammadi, gli scavi archeologici, le ricerche sociologiche. Ma quanto aperte siano le conseguenze da tirare da queste nuove fonti storiche, appare dal fatto che esse hanno dato luogo a due immagini di Cristo opposte e inconciliabili tra loro, tuttora presenti sul campo. Da una parte un Gesú “in tutto e per tutto ebreo”; dall’altra un Gesú figlio della Galilea ellenizzata del suo tempo, imbevuto di filosofia cinica.

    Anche le ricerche sociologiche sono approdate a risultati diametralmente opposti, come fa notare il grande specialista su Gesú e il giudaismo E.P. Sanders: “Per alcuni, il mondo in cui visse Gesú viveva una profonda crisi sociale ed economica. La Palestina era sull’orlo del crollo, sotto il peso di una doppia tassazione, locale e romana, crescente indebitamento dei contadini, sfruttamento delle classi benestanti…Per altri, al contrario, la Galilea del tempo di Gesú era urbanizzata, cosmopolita e prospera, un concentrato di cultura ellenistica, in cui tutti, Gesú compreso, parlavano greco” [2].

    Non stupisce perciò che nel campo del post-moderno si sia sviluppata una radicale sfiducia. Qui l’alternativa non è più né tra storia e teologia, né tra storia e storia, ma tra storia e interpretazione, o criticismo letterario. Non c’è nessun dato oggettivo previo alla lettura; tutto si gioca nel confronto diretto tra il lettore e il testo, con esisti radicalmente soggettivi e relativi.

    L’ultima monumentale (e a mio parere veramente innovativa) monografia sul Gesú storico scritta dall’inglese James Dunn, dell’Università di Durham, conclude la rassegna delle opinioni con questo giudizio: “La perdita di fiducia nel metodo storico in ambienti postmoderni è completa. E per quel che riguarda la ricerca sul Gesú storico, i risultati di questa, in particolare se vi si annoverano i vari Gesú della ricerca neoliberale, semplicemente confermano il fallimento della metodologia storica tradizionale. Il fatto semplice e piuttosto sconvolgente è stato che gli studiosi dei vangeli e del Gesú storico non sono riusciti a produrre risultati sui quali vi sia accordo”[3].

    Cosa concludere da tutto ciò? Che la ricerca storica su Gesú sia da abbandonare? No di certo. Lo stesso studioso appena citato ne da l’esempio, dedicando ad essa la sua monumentale fatica. Credo che si possa applicare alla ricerca storica quello che un proverbio dice di Dio e cioè che “scrive diritto su righe storte”. Nonostante il suo andamento da tela di Penelope, c’è in essa una conoscenza storica che avanza, nuovi orizzonti che vengono aperti, nuove ipotesi formulate, alcune delle quali si rivelano illuminanti e produttive.

    Quello semmai che si impone alla ricerca storica su Gesú è una maggiore umiltà e consapevolezza dei propri limiti intrinseci. La critica storica ha reso più umile e problematica l’ortodossia teologica, ma forse deve anch’essa accettare i propri limiti, dovuti sia alla situazione delle fonti, sia all’oggetto della ricerca che - almeno come ipotesi - travalica i limiti della storia. La problematicità, il pro e il contro e il senso del limite, è ciò che distingue di fatto le grandi monografie scientifiche sul Gesú storico dagli autori in cerca di sensazionalismo, i cui libri sono una lunga marcia trionfale verso conclusioni già tutte chiare in partenza. Tra le monografie serie, la più recente e accreditata è quella di Gerd Theissen e Annette Merz, Il Gesú storico. Un manuale[4].

    Un errore metodologico dal quale gli storici seri mettono in guardia è quello di ritenere come “storicamente non accaduto” quello che è semplicemente “storicamente non dimostrabile”. Su molti dati dei vangeli la storia arriva alla conclusione che non si possono sostenere in base ad argomenti storici, ma questo non giustifica la conclusione che dunque sono falsi.

    In particolare è da abbandonare l’illusione che, nello scrivere su Gesú, i credenti abbiano una precomprensione e i non credenti invece siano esenti da ogni pregiudizio. Scrive giustamente John Meier, autore di un’altra monumentale monografia sul Gesú storico: “Lo si chiami pregiudizio, tendenza, visione del mondo o posizione di fede, chiunque scrive sul Gesú storico scrive da qualche punto di vista ideologico; nessun critico ne è esente. La soluzione a questo dilemma non è pretendere un’assoluta oggettività che non può avere, né vagare in un totale relativismo. La soluzione è ammettere onestamente il proprio punto di vista, tentare di escluderne l’influenza nell’esporre giudizi scientifici aderendo a criteri certi, comunemente sostenuti, e sollecitare la correzione di altri studiosi, se la proprio vigilanza inevitabilmente commette errori”[5].

    2. Gesú, credente ebreo o filosofo cinico?

    Parlando dei limiti della ricerca storica, vorrei metterne in luce uno che mi sembra decisivo. Riguarda la possibilità di una ricerca storica su Gesú che non solo prescinda, ma escluda in partenza, esplicitamente o tacitamente, la fede; in altre parole, la plausibilità storica di quello che è stato definito a volte “il Gesú degli atei”. Non parlo in questo momento della fede in Cristo, nella sua divinità, ma di fede in Dio, di fede nell’accezione più comune del termine.

    Lungi da me l’idea che i non credenti non abbiano diritto di occuparsi di Gesú. Sono convinto, come scrivevo in un articolo del 26 Gennaio scorso su “Avvenire”, che Gesú è “patrimonio dell’umanità” e che nessuno, neppure la Chiesa naturalmente, ha il monopolio su di lui. Quello che voglio mettere in luce sono le conseguenze che derivano da un tale punto di partenza e come la “precomprensione” di chi non crede incida sulla ricerca non meno che quella del credente.

    La mia convinzione è che, se si nega o si prescinde dalla fede in Dio non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesú storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesú. Nessuno può contestare storicamente che il Gesú dei vangeli vive e opera in continuo in riferimento al Padre celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede in Dio. Se si elimina questa dimensione dal Gesú dei vangeli non resta di lui assolutamente niente.

    Ma se Dio non esiste, Gesú non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria ombra o la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. E come si spiega allora che la vita di quest’uomo “ha cambiato il mondo”? Sarebbe come dire che non la verità e la ragione hanno cambiato il mondo, ma l’illusione e l’irrazionalità. Come si spiega che quest’uomo continua, a distanza di duemila anni, a interpellare gli spiriti come nessun altro?

    Non c’è che una via d’uscita a questo dilemma e bisogna riconoscere la coerenza di coloro che negli ultimi anni l’hanno imboccata. La via d’uscita è quella che si è fatta strada nell’ambito del “Jesus Seminar” di Berkeley negli Stati Uniti. Gesú non era un credente ebreo; era nel fondo un filosofo nello stile dei cinici[6]; non ha predicato un regno di Dio, né una prossima fine del mondo; ha solo pronunciato massime sapienziali nello stile di un maestro Zen. Il suo scopo era di ridestare negli uomini la coscienza di sé, convincerli che non avevano bisogno né di lui né di altro dio, perché loro stessi portavano in sé una scintilla divina[7]. Sono –guarda caso- le cose che va predicando da decenni New Age!

    Come viene giustificata storicamente questa nuova immagine di Gesú? Semplice: si assolutizza la fonte “Q” (la raccolta di detti di Gesú ricostruita dall’uso che ne fanno Marco e Matteo) come l’unico documento attendibile sul Gesú realmente esistito. Ma questo non basta perché tra i detti di Gesú presenti in tale raccolta ce ne sono diversi incompatibili con tale immagine. Allora si distingue in tale fonte (essa stessa ipotetica!) tre strati successivi, di cui il più antico, detto “Q3”, l’unico autentico, consisterebbe in un nucleo di detti esoterici, vicino a quello che troviamo nel Vangelo copto di Tommaso. Io ho studiato un po’ di filologia classica e di critica testuale nei miei anni di università e ho imparato che le possibilità di cogliere nel segno con tali procedenti sono praticamente nulle. I fatti sono aperti, in tal modo, a ogni manipolazione.

    Prima di costoro Nietzsche aveva chiaramente visto il dilemma e lo aveva risolto in maniera molto più coerente di oggi: facendo di Gesú non un filosofo rappresentante della razionalità greca, ma il suo irriducibile contrario.

    3. Continuità o rottura? Il “Gesú di Nazareth" di Benedetto XVI

    Ora vorrei passare alla pars construens del mio intervento che corrisponde al secondo termine del titolo di questa tavola rotonda: Gesú di Nazareth tra storia e teologia. Dopo tutto l’immenso impegno profuso da Reimarus ad oggi per liberare il Gesú della storia dal Cristo del dogma ecclesiastico, forse è utile a tutti riprendere in considerazione il punto di vista della tradizione e della dommatica ecclesiastica, fattasi più umile e più cosciente dei propri limiti, grazie proprio alla critica storica.

    È quello che, credo, ha inteso fare il papa Benedetto XVI con il suo libro “Gesú di Nazaret”. Qualcuno gli ha mosso il rimprovero di baipassare, in tal modo, tutti i problemi e i dubbi sollevati dalla moderna critica storica. Ma io mi domando: cosa avrebbe dovuto fare il papa: scrivere un’ennesima ricostruzione storica in cui discutere e controbattere tutte le obiezioni? Abbiamo sentito sopra quanto è lunga la lista di coloro che l’hanno fatto, da credenti o da non credenti, e non credo proprio che una ricostruzione in più, anche se scritta da un papa, avrebbe fatto una grande differenza.

    Quello che il papa ha scelto di fare è stato di presentare in positivo la figura e l’insegnamento di Gesú come inteso dalla Chiesa, partendo dalla convinzione che il Cristo della fede è anche rigorosamente il Gesú della storia. Poiché il papa ha lasciato a tutti, in questo caso, la libertà di criticarlo, mi permetto anch’io una piccola riserva. Penso che la continuità tra il Gesú della storia e il Cristo del kerygma, come pure quella tra il Cristo del kerygma e il Cristo del dogma, per quanto reale, sia meno rettilinea e scontata di quanto appaia dalla sua, necessariamente sommaria, introduzione iniziale.

    Su questo punto penso si possa condividere l’opinione di Theissen e Merz: “I cristiani dopo la Pasqua hanno formulato su Gesú più affermazioni (vale a dire , hanno detto cose più grandi e più importanti) di quanto abbia detto di sé lo stesso Gesú storico. Questo ‘plusvalore’ della cristologia post-pasquale rispetto all’autocoscienza di Gesú prima di Pasqua è basato, sia sul piano storico che su quello oggettivo, sull’evento della pasqua”[8].

    Il contrasto tra le conclusioni degli esegeti e degli storici (anche cattolici) e quelle del papa si relativizzano, tuttavia, se si tien conto che il papa, da teologo, non si pone tanto sul piano soggettivo della coscienza che Gesú aveva di sé o gli altri avevano di lui, quanto sul piano oggettivo e ontologico. Da questo punto di vista egli ha perfettamente ragione di affermare l’identità del Gesú storico (il Crocifisso) con il Cristo risorto. È la certezza che sta alla base di tutto il kerygma apostolico.

    Theissen e Merz vedono tra le due fasi un rapporto come tra cristologia implicita e cristologia esplicita. Tra gli elementi di cristologia implicita che essi riscontrano nei vangeli non pochi corrispondono a quelli sui quali fa leva anche Benedetto XVI nel suo libro: la formula ‘Amen’, nel particolare uso che ne fa Gesú, la consapevolezza con la quale Gesú contrappone alla Torah e all’autorità di Mosè il suo “Ma io vi dico…”, il particolare modo di rapportarsi al Padre, soprattutto la distinzione tra “Padre mio” e “Padre vostro”, il perdono dei peccati, la superiorità rivendicata con forza da Gesú sul Battista che pure viene definito “il più grande dei profeti” [9]

    Sarebbe ingeneroso misconoscere la ricchezza teologica e spirituale del libro di Benedetto XVI su Gesú, misurandolo unicamente con il metro del Gesú storico. Certo, è un libro scritto da credente per credenti e per persone interessate a conoscere il Cristo della tradizione e della Chiesa. Egli stesso dichiara di non volere entrare nella disputa che è propria della ricerca storico-critica, ma di presuppurla e di andare oltre “mirando a una interpretazione propriamente teologica”[10]. Io vedo il suo libro più sulla linea di Il Signore. Riflessioni sulla persona e la vita di Gesù Cristo di Romano Guardini e prevedo per esso una tenuta molto più duratura nel tempo di quanto avrebbe potuto avere un’ennesima discussione, di carattere necessariamente apologetico, sul Gesú storico.

    Il papa si richiama esplicitamente all’esegesi canonica, cioè a quel tipo di esegesi credente che parte dalla convinzione di fede che Dio non ha un solo modo di rivelarsi al mondo, quello della storia; ne ha molti altri, tra cui il più importante è l’ispirazione biblica. Su questa convinzione che permette di leggere non solo “il frammento nel tutto” (cioè un testo nel contesto), come fanno i moderni, ma anche “il tutto nel frammento”, come facevano i Padri (cioè l’intera Bibbia riflessa in ogni sua parte) si basa la lettura spirituale della Scrittura fatta dalla Chiesa lungo i secoli e di cui H. de Lubac, in una magistrale opera, ha messo in luce la coerenza e la fecondità[11].

    È molto significativo che la scelta del papa di attenersi al Gesú dei vangeli trovi, per certi versi, una conferma autorevolissima nella recente monumentale monografia di James Dunn ricordata sopra. In essa, dopo una serrata analisi dei risultati degli ultimi tre secoli di ricerche, lo studioso giunge alla conclusione che non c’è stata nessuna cesura tra il Gesú predicante e il Gesú predicato e quindi tra il Gesú della storia e quello della fede. Questa non è nata dopo la Pasqua, ma con i primi incontri dei discepoli, i quali sono divenuti discepoli proprio perché hanno creduto nel Rabbi di Nazareth.

    La difficoltà di risalire dai vangeli sinottici al Gesú reale è nata in buona parte dal fatto che non si è tenuto conto delle leggi che regolano la trasmissione delle tradizioni fondatrici di una comunità presso gruppi umani dalla cultura non scritta, come erano quelli tra cui si formarono e circolarono i racconti su Gesù. Lo studio di tali leggi (tuttora verificabili presso gruppi umani di cultura pre-letteraria) mostra che un fatto o un discorso ritenuto importante per la storia e la vita della comunità può trasmettersi con singolare accuratezza nei suoi elementi centrali, pur variando nei particolari a ogni ri-narrazione, per rispondere alle esigenze del momento.

    La critica storica (compresa la Formgeschichte, o storia delle forme) ha tacitamente proiettato all’epoca del Nuovo Testamento le leggi che portano oggi all’edizione definitiva di un libro: riedizioni successive, ognuna basata sulla precedente, che modifica, aggiungendo o togliendo qualcosa. Questo ha creato l’illusione di poter risalire da uno strato al precedente, fino a isolare un ipotetico nucleo originario, che finisce quasi sempre per riflettere da vicino l’opzione di partenza dello studioso di turno.

    Cosa giungiamo a conoscere per questa via? Non - almeno direttamente - l’”interiorità segreta” di Cristo, cosa egli pensava di se stesso, ma il “Gesú come era ricordato”; “ricordato” però – e qui sta la differenza - non a distanza di tempo, dopo la Pasqua, da discepoli e comunità che reinterpretavano i fatti e gli insegnamenti mossi da interessi estranei, ma da coloro che per primi avevano visto e udito e avevano cominciato da subito a dare forma ai racconti.

    Letti in questo modo, afferma lo studioso, “i vangeli sinottici attestano un modello e una tecnica di trasmissione orale che hanno garantito una stabilità e una continuità nella tradizione di Gesú maggiori di quelle che si sono sin qui generalmente immaginate”.

    4. Lo spartiacque della Pasqua

    Per molti storici la Pasqua non rappresenta un salto di qualità nella cristologia, ma un inizio assoluto. Ma più la ricerca storica accentua questo fossato più aumenta le proprie difficoltà. Abbandonata da tutti la tesi di Reimarus della truffa cosciente dei discepoli, come si spiega un tale inizio? Tutto il futuro sviluppo della fede in Cristo riposerebbe sulla risurrezione, ma poi quando si va a guardare si vede che riposa sul nulla perché la risurrezione stessa è spiegata con la fede, come fatto soggettivo e non reale. Il cristianesimo appare una immensa piramide rovesciata il cui vertice poggia nel vuoto.

    Non è qui il luogo di intavolare un ennesimo dibattito sulla risurrezione. Mi limito solo a citare un’affermazione dello studioso inglese H. Dodd che condivido in pieno: “L’idea che l’imponente edificio della storia del cristianesimo sia come un’enorme piramide posta in bilico su un fatto insignificante è certamente meno credibile dell’affermazione che l’intero evento – e cioè il dato di fatto più il significato a esso inerente – abbia realmente occupato un posto nella storia paragonabile a quello che gli attribuisce il Nuovo Testamento”[12].

    La risurrezione, si dice, è una metafora; è vero, ma il senso della metafora, come ha messo in luce P. Ricoeur, non è di dire una cosa diversa dalla realtà, ma di dire, della realtà, quello che non si può dire in modo diverso. La risurrezione in se stessa si colloca al limitare o addirittura fuori del tempo e dello spazio e quindi della storia, ma c’è qualcosa che avviene nel tempo e nello spazio e che lo storico è tenuto a spiegare.

    Quello che si offre alla considerazione dello storico e gli permette di parlare della risurrezione, sono due fatti: primo, l’improvvisa e inspiegabile fede dei discepoli, una fede così tenace da resistere perfino alla prova del martirio; secondo, la spiegazione che di tale fede gli interessati, cioè i discepoli, ci hanno lasciato. Resta sempre pertinente l’osservazione di Martin Dibelius: “Nel momento decisivo, quando Gesù fu catturato e giustiziato, i discepoli non nutrivano alcuna attesa di una risurrezione. Essi fuggirono e dettero per finito il caso di Gesù. Dovette quindi intervenire qualcosa che in poco tempo non solo provocò il cambiamento radicale del loro stato d’animo, ma li portò anche a un’attività del tutto nuova e alla fondazione della Chiesa. Questo “qualcosa” è il nucleo storico della fede di Pasqua”[13]. Di questo “qualcosa” si sono tentate infinite spiegazioni alternative, ma finora nessuna ha resistito più a lungo del proprio autore.

    5. La venerazione di Gesù Cristo

    Dove e quando inizia dunque quello che chiamiamo ‘cristianesimo’? Se per cristianesimo si intende correttamente la venerazione di Gesú di Nazareth come Signore e essere divino, esso inizia con la Pasqua e la Pentecoste. Larry W. Hurtado, professore di lingua, letteratura e teologia del Nuovo Testamento all’università di Edimburgo, ha ripreso recentemente su basi nuove, alla luce cioè della riconosciuta matrice giudaica e non ellenistica del cristianesimo primitivo, lo studio sull’origine del culto di Gesú condotto da W. Bousset all’inizio del secolo scorso. Ed ecco la conclusione a cui giunge dopo una ricerca che si estende per 750 pagine:

    “La venerazione di Gesú come figura divina, esplose all’improvviso e presto, non poco alla volta e tardi, tra cerchie di seguaci del I secolo. Più in particolare, le origini stanno nelle cerchie cristiane giudaiche dei primissimi anni. Solo un modo di pensare idealistico continua ad attribuire la venerazione per Gesú come figura divina all’influenza decisiva della religione pagana e all’influsso dei convertiti gentili, presentandola come recente e graduale. La venerazione di Gesú come ‘signore’, che trovava espressione adeguata nella venerazione cultuale e nell’obbedienza totale, era inoltre generale, non era confinata e attribuibile a cerchie particolari, ad esempio gli ‘ellenisti’ o i cristiani gentili di un ipotetico ‘culto di Cristo siriaco’. Con tutta la diversità del primo cristianesimo, la fede nella condizione divina di Gesú era incredibilmente comune. Le ‘eresie’ del primo cristianesimo postulavano largamente l’idea della divinità di Gesú. Non è questo in discussione. Il punto problematico, piuttosto, era se vi fosse spazio per un Gesú autenticamente umano”[14].

    Certo, se uno mette a confronto il Gesú dei vangeli con il Cristo di Nicea e di Calcedonia, a prima vista sembra esserci un abisso di mezzo. Anche se uno mette a confronto un embrione fotografato nel grembo materno con l’uomo adulto che ne è nato sembra esserci un abisso di mezzo, eppure tutto quello che l’uomo è diventato era in germe nell’embrione. Gesú aveva paragonato il regno da lui predicato al più piccolo dei semi, destinato a crescere e diventare albero grande (Mt 13,32).

    Secondo la fede della Chiesa, questo sviluppo, a parte tutti gli innegabili fattori storici, ha avuto un motore segreto: lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è il grande assente dalla ricerca storica su Gesú. A sentire pronunciare questo nome lo storico farà un soprassalto, gridando che si passa ad altro genere, che si fa teologia. Ma può la ricerca storica su Gesú ignorare quello a cui Gesú stesso, in testi di innegabile autenticità, attribuisce il suo potere di scacciare i demoni e di operare miracoli? Oggi è di moda parlare di Gesú e dei primi discepoli come di “carismatici itineranti”, ma cosa rimane ai carismatici, se si prescinde dall’esperienza dello Spirito Santo?

    Paolo e gli Atti degli apostoli attestano che dopo la Pasqua la comunità fa ad ogni passo l’esperienza di essere guidata dallo Spirito di Cristo. Giovanni esplicita questa coscienza facendola risalire a una promessa formale di Gesú: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16, 12-13). Una profezia post eventum? Sia pure, ma resta comunque da spiegare l’evento!

    Lo Spirito Santo esula dal campo della storia, ma i suoi effetti sono nella storia e meritano pure di essere presi in considerazione. Questo sarebbe uno dei campi dove storia e teologia, anziché contrapporsi, dovrebbero lavorare insieme. È quello che James Dunn, l’autore di Christianity in the Making, ha fatto egregiamente nell’altra sua opera Gesú e lo Spirito. Uno studio dell’esperienza religiosa e carismatica di Gesú e dei primi cristiani[15].

    6. Uno o tanti cristianesimi?

    Mi resta da dire qualcosa a proposito della tesi secondo cui all’origine non ci sarebbe un cristianesimo, ma molti cristianesimi, cioè interpretazioni diverse del messaggio di Cristo, eliminate via via dalla crescente pressione dell’ortodossia sotto la regia della chiesa di Roma. È possibile, perché no?, parlare di diversi cristianesimi, anziché di tendenze diverse all’interno di una stessa realtà in formazione, ma allora bisogna dire la stessa cosa di quasi tutte le istituzioni e le grandi novità della storia: non parlare di una religione ebraica ma di più religioni ebraiche, non di un rinascimento ma di più rinascimenti, di più rivoluzioni francesi e così via, perché tutte queste realtà sono il risultato di processi di scontro e di decantazione di tendenze e fattori diversi. I sociologi ci insegnano che è ciò che avviene di solito nel passaggio da un movimento “statu nascenti” all’istituzione cui esso da luogo.

    L’idea avanzata da qualche parte di ripartire da capo, rimettendo tutte le tessere nel sacco, cioè tutti i cristianesimi sepolti di nuovo in lizza, per dar vita a una forma nuova e inedita di esso, mi fa pensare al progetto di un nuovo Esperanto e al suo esito.

    Bisogna semmai riconoscere all’ortodossia delle origini il merito di aver condotto questa battaglia con i libri e i decreti, senza mandare al rogo nessuno, né Marcione, né Valentino, né Montano. Si dirà, non avrebbe potuto farlo; verissimo, ma sta di fatto che non l’ha fatto e almeno nei primi secoli della sua storia l’ortodossia non si è imposta con la forza e la conquista ma con gli argomenti e la vita. Le origini sono pure e ad esse possiamo guardare e ispirarci.

    La tesi di una ortodossia che trionfa eliminando le concorrenze sotto la guida potente di Roma è una leggenda storiografica. L’ortodossia non si afferma all’origine con un movimento che va dal centro verso la periferia, ma al contrario con un movimento che va dalla periferia verso il centro. Le lotte contro l’ebionismo, il docetismo, l’encratismo non partirono da Roma, ma giunsero a Roma, da Antiochia di Siria, Asia Minore, Alessandria d’Egitto, Cartagine, Lione in Francia. Roma nei primi due secoli e mezzo di storia cristiana è più arbitro tra le parti che parte attiva nella lotta contro le eresie. A Nicea stessa l’influenza di Roma e dell’occidente in genere fu minima. Il giudizio sul ruolo di Roma nel trionfo dell’ortodossia è in buona parte frutto di una proiezione all’indietro di situazioni posteriori (se non addirittura contemporanee!).

    Sarebbe interessante, se lo spazio lo permettesse, passare in rassegna le diverse forme, cosiddette di cristianesimo alternativo, per vedere quale di esse, se esistesse ancora, sarebbe accettata o accettabile da quegli stessi che ne lamentano la scomparsa. Non certo l’encratismo con il rifiuto di matrimonio e di possesso di beni; di sicuro non il marcionismo con il suo radicale antigiudaismo; neppure credo le varie forme di gnosticismo e di docetismo con il loro rifiuto del mondo materiale e la loro negazione dell’umanità reale di Gesù. Quanto ai famosi profeti e carismatici itineranti, tanto cari alla moderna ricerca sul Gesú storico, è curioso notare una cosa: oggi tale movimento è riapparso, per molti aspetti e in maniera spettacolare nelle chiese cristiane, ma alcuni studiosi del Gesú storico, lo guardano con ironia come frutto in blocco di fondamentalismo, irrazionalismo ed entusiasmo religioso. (Ne so qualcosa perché ne faccio, a volte, le spese anch’io!).

    C’è, è vero, una corrente che oggi incontrerebbe il favore di molti studiosi, l’ebionismo, cioè quella forma di cristianesimo che resta praticamente nella matrice ebraica, ritenendo Gesú un uomo e mantenendo l’osservanza della Torah. Si trattò, pare di comunità isolate vissute ad est del Giordano, di cui sappiamo pochissimo. Esse si esaurirono da sole di fronte all’imporsi del cristianesimo di marca giudeo-ellenistico ed ellenistico. Non ci fu nessuna guerra contro di loro, nessun rogo di libri. Paradossalmente la loro memoria non è stata cancellata dall’ortodossia, come si afferma, ma conservata da essa. Se non fosse per la citazione di qualche loro scritto e idea da parte degli autori ortodossi, non sapremmo assolutamente nulla su di essi. Impegnati a combattere la corrente molto più agguerrita dello gnosticismo che, all’opposto degli ebioniti, faceva di Gesú solo un Dio e non un uomo, gli autori ortodossi dedicarono ad essi scarsa attenzione.

    L’ortodossia del resto non ha annientato molte di queste forme alternative di cristianesimo, ma le ha fatte proprie liberandole dall’elemento “settario” e unilaterale che le rendeva ‘eretiche’. L’istanza dell’encratismo sopravvive nella Chiesa nello stato di verginità e nel monachesimo; l’istanza della gnosi è assunta, nel suo elemento valido, dagli alessandrini Clemente e Origene. Il profetismo itinerante, dopo la crisi iniziale dovuta agli eccessi montanisti, rispunterà nella Chiesa con i movimenti mendicanti del Medio evo.

    7. Conclusione

    Non posso terminare questa mia analisi senza far notare una contraddizione. Tutta la spasmodica ricerca del Gesú della storia, quando è condotta per distanziarlo dal Cristo della Chiesa, si risolve in definitiva in un radicale rifiuto della storia. La storia a cui Gesú ha dato luogo, che ha creato con la sua vita, non solo non è presa in considerazione, ma ogni forzo è fatto da alcuni per annullarla, alla ricerca di un punto di partenza staccato da essa, in antitesi con essa.

    Non si applica in questo caso il principio ermeneutico della Wirkungsgeschichte, della storia degli effetti, che tiene conto non solo degli influssi subiti, ma anche degli effetti prodotti e degli influssi esercitati. L’interprete, afferma H.- G. Gadamer, non può porsi al di sopra della tradizione che lo lega al passato che sta studiando, ma può cominciare a capire adeguatamente soltanto in quanto parte di questa tradizione e grazie ad essa[16]. Non credo che ciò debba intendersi nel senso che solo chi aderisce interiormente al cristianesimo può capire qualcosa di esso, ma certo dovrebbe mettere in guardia dal credere che solo ponendosi al di fuori di esso si possa dire qualcosa di oggettivo su di esso.

    È attraverso la Chiesa e per la Chiesa che Gesú ha cambiato il mondo. Senza “quello sbaglio chiamato cristianesimo”, come lo definisce qualcuno[17], non saremmo qui a parlare di lui. Gesú sarebbe oggi un oscuro rabbi della Galilea, il cui nome a malapena si leggerebbe in una nota a Tacito o a Giuseppe Flavio. Non ci sarebbero stati un Agostino, un Francesco d’Assisi, un Tommaso d’Aquino, Lutero, Pascal; non ci sarebbero state le cattedrali gotiche e le chiese romaniche, Dante, la pittura rinascimentale, Michelangelo e la Cappella Sistina, Bach e le sue Passioni, Mozart e le sue Messe. Non ci sarebbero stati, soprattutto, le innumerevoli schiere di uomini e donne che, in nome del Cristo conosciuto nella Chiesa, si sono chinati su tutte le sofferenze e le solitudini umane.

    Siamo sicuri che il nostro mondo sarebbe migliore senza tutto questo? Il cristianesimo storico non è stato solo crociate, inquisizione o guerre di religione, anche se, ahimè, è stato anche questo.

    **************
    NOTE

    [1] P. Fredriksen , From Jesus to Christ. The Origins of the New Testament Images of Jesus, 2nd edition,Yale University Press, 2000.

    [2] Cf. E. P. Sanders, Jesus in Historical Context [http://theologytoday.ptsem.edu/oct19...-article8.htm].

    [3] J. Dunn, Christianity in the Making, I, Grand Rapids, Mich. 2003, cit. dall’edizione italiana: Gli albori del cristianesimo, I, 1, Paideia, Brescia 2006, p. 113.

    [4] G. Theissen e Annette Merz, Der historische Jesus: ein Lehrbuch, Vandenhoeck & Ruprecht, G`ttingen 19992.Trad. ital. Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 20032.

    [5] J. Meier, A Marginal Jew. Rethinking the Historical Jesus, Doubleday, New York 1991, cit. nell’edizione italiana Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Quesriniana, Brescia 20022.

    [6] Sulla teoria di Gesú cinico cf. B. Griffin, Was Jesus a Philosophical Cynic? [http://www-oxford.op.org/allen/html/acts.htm].

    [7] Cf. il saggio di Harold Bloom, “Whoever discovers the interpretation of these sayings…”, pubblicato in appendice all’edizione del Vangelo copto di Tommaso curata da Marvin Meyer: The Gospel of Thomas. The Hidden Sayings of Jesus, Harper Collins Publishers, San Francisco 1992.

    [8] Op. cit. p. 624.

    [9] Ib. pp. 636-646.

    [10] Joseph Ratzinger –Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, p. 409.

    [11] Cf. H. de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Ecriture, 4 voll., Aubier, Paris 1959-1964.

    [12] C.H. Dodd, Storia ed Evangelo, Brescia 1976, p. 87.

    [13] M. Dibelius, Iesus, Berlino 1966, p. 117.

    [14] L. Hurtado, Lord Jesus Christ. Devotion to Jesus in Earliest Christianity, Grand Rapids, Mich. 2003, cit. nell’ediz. italiana Signore Gesù Cristo, 2 voll. Paideia, Brescia 2007, p. 643.

    [15] J. Dunn, Jesus and the Spirit. A Study of the religious and Charismatic Experience of Jesus and the First Christians as Reflected in the New Testament, SCM Press, London 1975.

    [16] Cit. da Dunn, op, cit., I, p. 112.

    [17] P. Hollenbach, The Historical Jesus Question, in BTB 19 (1989), p. 20.

    P. Raniero Cantalamessa

    Fonte: Zenit, 19.5.2007

  9. #9
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    Talking Così parlò Zarathustra ...

    Ieri, a Parigi, l’arcivescovo emerito di Milano ha offerto una sua analisi del libro del Papa

    «Ammiro il Gesù di Ratzinger, ma non è l’unico»

    Martini: «Una lettura alla luce di Fede e Ragione, che si oppone al metodo storico-critico»


    Cercherò di rispondere a cinque domande: 1. Chi è l’autore di questo libro? 2. Qual è l’argomento di cui parla? 3. Quali sono le sue fonti? 4. Qual è il suo metodo? 5. Che giudizio dare sul libro nel suo insieme?

    1. L’autore di questo libro è Joseph Ratzinger, che è stato professore di teologia cattolica in varie Università tedesche a partire dagli anni Cinquanta e, in questa veste, ha seguito l’evolversi e le diverse vicissitudini della ricerca storica su Gesù; ricerca che si è sviluppata anche presso i cattolici nella seconda metà del secolo scorso. L’autore ora è Vescovo di Roma e Papa con il nome di Benedetto XVI. Qui si pone già una possibile questione: è il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero? In verità, per quanto riguarda l’essenziale della domanda, è l’autore stesso nella prefazione a rispondere con franchezza: «Non ho bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del "volto del Signore". Perciò, ciascuno è libero di contraddirmi. Chiedo soltanto alle lettrici e ai lettori di farmi credito della benevolenza senza la quale non c’è comprensione possibile» (p.19). Siamo pronti a fare questo credito di benevolenza, ma pensiamo che non sarà facile per un cattolico contraddire ciò che è scritto in questo libro. Comunque, tenterò di considerarlo con uno spirito di libertà. Tanto più che l’autore non è esegeta, ma teologo, e sebbene si muova agilmente nella letteratura esegetica del suo tempo, non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento. Infatti, non cita quasi mai le possibili varianti dei testi, né entra nel dibattito circa il valore dei manoscritti, accettando su questo punto le conclusioni che la maggior parte degli esegeti ritengono valide.

    2. Di cosa parla? Il libro ha come titolo Gesù di Nazaret. Penso che il vero titolo dovrebbe essere Gesù di Nazaret ieri e oggi. E questo perché l’autore passa con facilità dalla considerazione dei fatti che riguardano Gesù all’importanza di quest’ultimo per i secoli seguenti e per la nostra Chiesa. Il libro è pieno di allusioni a problematiche contemporanee. Per esempio, parlando della tentazione nella quale dal demonio viene offerto a Gesù il dominio del mondo, egli afferma che il «suo vero contenuto diventa visibile quando constatiamo che, nella storia, essa prende continuamente una forma nuova. L’Impero cristiano ha cercato molto presto di trasformare la fede in un fattore politico per l’unità dell’Impero… La debolezza della fede, la debolezza terrena di Gesù Cristo doveva essere sostenuta dal potere politico e militare. Nel corso dei secoli questa tentazione—assicurare la fede mediante il potere—si è ripresentata continuamente» (p. 59). Questo genere di considerazioni sulla storia successiva a Gesù e sull’attualità, conferiscono al libro un’ampiezza e un sapore che altri libri su Gesù, in genere più preoccupati dalla discussione meticolosa dei soli eventi della sua vita, non hanno. L’autore dà anche volentieri parola ai Padri della Chiesa e ai teologi antichi. Per esempio, per quanto concerne la parola greca epiousios, egli cita Origene, il quale dice che, nella lingua greca, «questo termine non esiste in altri testi e che è stato creato dagli Evangelisti» (p. 177). Circa l’interpretazione della domanda del Padre Nostro «E non indurci in tentazione», egli richiama l’interpretazione di San Cipriano e precisa: «Così dobbiamo riporre nelle mani di Dio i nostri timori, le nostre speranze, le nostre risoluzioni, poiché il demonio non può tentarci se Dio non gliene dà il potere» (p. 187). Quanto alla storia di Gesù, il libro è incompleto, perché considera solo gli eventi che vanno dal Battesimo alla Trasfigurazione. Il resto sarà materia di un secondo volume. In questo primo volume sono trattati il Battesimo, le tentazioni, i discorsi, i discepoli, le grandi immagini di San Giovanni, la professione di fede di Pietro e la Trasfigurazione, con una conclusione sulle affermazioni di Gesù su se stesso. L’autore parte spesso da un testo o da un evento della vita di Gesù per interrogarsi sul suo significato per le generazioni future e per la nostra generazione. In questo modo il libro diventa una meditazione sulla figura storica di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente. Egli mostra che, senza la realtà di Gesù, fatta di carne e di sangue, «il cristianesimo diviene una semplice dottrina, un semplice moralismo e una questione dell’intelletto, ma gli mancano la carne e il sangue» (p. 270). L’autore si preoccupa molto di ancorare la fede cristiana alle sue radici ebraiche. Gesù, ci dice Mosè, «è il profeta pari a me che Dio susciterà… a lui darete ascolto» (Deuteronomio, 18,15) (p. 22). Ora, Mosé aveva incontrato il Signore.EIsraele può sperare in un nuovo Mosè, che incontrerà Dio come un amico incontra il proprio amico,ma al quale non sarà detto, come a Mosè, «Tu non potrai vedere il mio volto» (Esodo, 33,20). Gli sarà dato di «vedere realmente e direttamente il volto di Dio e di potere così parlare a partire da questa visione» (p. 25). E’ quel che dice il prologo del Vangelo di Giovanni: «Dio, nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). «E’ qui il punto a partire dal quale è possibile comprendere la figura di Gesù» (p. 26). E’ in questo reciproco intrecciarsi di conoscenze storiche e di conoscenze di fede, dove ognuno di questi approcci mantiene la propria dignità e la propria libertà, senza mescolanza e senza confusione, che si riconosce il metodo proprio dell’autore, di cui parleremo più avanti.

    3. Quali sono le sue fonti? L’autore non ne tratta direttamente, come spesso avviene in diverse opere dello stesso genere. Forse ne parlerà all’inizio del secondo volume, prima di affrontare i Vangeli dell’infanzia di Gesù. Ma si vede con chiarezza che egli segue da vicino il testo dei quattro Vangeli e gli scritti canonici del Nuovo Testamento. Egli propone anche una lunga discussione sul valore storico del Vangelo di Giovanni, respingendo l’interpretazione di Rudolf Bultmann, accettando in parte quella di Martin Hengel e criticando anche quella di alcuni autori cattolici, per poi esporre una propria sintesi, vicina alla tesi di Hengel, sebbene con un equilibrio e un ordine diversi. La conclusione è che il quarto Vangelo «non fornisce semplicemente una sorta di trascrizione stenografica delle parole e delle attività di Gesù, ma, in virtù della comprensione nata dal ricordo, ci accompagna, al di là dell’aspetto esteriore, fin nella profondità delle parole e degli eventi; in quella profondità che viene da Dio e che conduce verso Dio» (p. 261). Penso che non tutti si riconosceranno nella sua descrizione dell’autore del quarto Vangelo quando egli dice: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p.252).

    4. Tutto questo rivela con chiarezza il metodo dell’opera. Si oppone fermamente a quello che recentemente è stato chiamato, in particolare nelle opere del mondoanglosassone americano, «l’imperialismo del metodo storico-critico». Egli riconosce che tale metodo è importante, tuttavia corre il rischio di frantumare il testo come sezionandolo, rendendo così incomprensibili i fatti ai quali il testo si riferisce. Egli piuttosto si propone di leggere i vari testi rapportandoli all’insieme della Scrittura. In questo modo, si scopre «che esiste una direzione in tale insieme, che il Vecchio e ilNuovo Testamento non possono essere dissociati. Certo, l’ermeneutica cristologica, che vede in Gesù Cristo la chiave dell’insieme e, partendo da lui, comprende la Bibbia come un’unità, presuppone un atto di fede, e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questo atto di fede è intrinsecamente portatore di ragione, di una ragione storica: permette di vedere l’unità interna della Scrittura e, attraverso questa, di acquisire una comprensione nuova delle diverse fasi del suo percorso, senza togliere ad esse la loro originalità storica» (p. 14). Ho fatto questa lunga citazione per mostrare come, nel pensiero dell’autore, ragione e fede siano implicate e «reciprocamente intrecciate», ciascuna con i suoi diritti e il proprio statuto, senza confusione né cattiva intenzione dell’una verso l’altra. Egli rifiuta la contrapposizione tra fede e storia, convinto che il Gesù dei Vangeli sia una figura storica e che la fede della Chiesa non possa fare a meno di una certa base storica. Ciò significa, in pratica, che l’autore, come dice egli stesso a pagina 17, «ha fiducia nei Vangeli», pur integrando quanto l’esegesi moderna ci dice. E da tutto questo scaturisce un Gesù reale, un «Gesù storico» nel senso proprio del termine. La sua figura «è molto più logica e storicamente comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni» (p. 17). L’autore è convinto che «è soltanto se qualcosa di straordinario si è verificato, se la figura e le parole di Gesù hanno superato radicalmente tutte le speranze e tutte le attese dell’epoca che si spiega la sua crocifissione e la sua efficacia», e questo alla fine porta i suoi discepoli a riconoscergli il nome che il profeta Isaia e tutta la tradizione biblica avevano riservato solo a Dio (cf. pp.17-18). Applicando questo metodo alla lettura delle parole e dei discorsi di Gesù, che comprende parecchi capitoli del libro, l’autore rivela di essere persuaso «che il tema più profondo della predicazione di Gesù era il suo proprio mistero, il mistero del Figlio, nel quale Dio è presente e nel quale egli adempie la sua parola» (p. 212). Questo è vero per il Sermone della montagna in particolare, a cui sono dedicati due capitoli, per il messaggio delle parabole e per le altre grandi parole di Gesù. Come dice l’autore affrontando la questione giovannea, cioè il valore storico del Vangelo di Giovanni e soprattutto delle parole che egli fa dire a Gesù, così diverse dai Vangeli sinottici, il mistero dell’unione di Gesù con il Padre è sempre presente e determina l’insieme, pur restando nascosto sotto la sua umanità (cf. p. 245). In conclusione, bisogna «che noi leggiamo la Bibbia, e in particolare i Vangeli come unità e totalità —come richiesto dalla natura stessa della parola scritta di Dio — che, in tutti i suoi strati storici, è l’espressione di un messaggio intrinsecamente coerente» (p. 215).

    5. Se tale è il metodo di lettura dell’autore, cosa dobbiamo pensare della riuscita globale dell’opera, al di là del numero di copie vendute nel mondo intero, che tutto sommato non è un indice particolarmente significativo del valore del libro? L’autore confessa che questo libro «è il risultato di un lungo cammino interiore» (p. 19). Se pure ha cominciato a lavorarvi durante l’estate 2003, il libro è tuttavia il frutto maturo di una meditazione e di uno studio che hanno occupato un’intera vita. Ne ha tratto la conseguenza che «Gesù non è un mito, che è un uomo di carne e di sangue, una presenza tutta reale nella storia. Noi possiamo seguire le strade che ha preso. Possiamo udire le sue parole grazie ai testimoni. E’ morto ed è risuscitato ». Questa opera è quindi una grande e ardente testimonianza su Gesù di Nazareth e sul suo significato per la storia dell’umanità e per la percezione della vera figura di Dio. E’ sempre confortante leggere testimonianze come questa. A mio avviso, il libro è bellissimo, si legge con una certa facilità e ci fa capire meglio Gesù Figlio di Dio e al tempo stesso la grande fede dell’autore. Ma esso non si limita al solo dato intellettuale. Ci indica la via dell’amore di Dio e del prossimo, come quando spiega la parabola del buon Samaritano: «Ci accorgiamo che tutti noi abbiamo bisogno dell’amore salvifico che Dio ci dona, al fine di essere anche noi capaci di amare, e che abbiamo bisogno di Dio, che si fa nostro prossimo, per riuscire ad essere il prossimo di tutti gli altri» (p. 226). Pensavo anch’io, verso la fine della mia vita, di scrivere un libro su Gesù come conclusione dei lavori che ho svolto sui testi del Nuovo Testamento. Ora, mi sembra che questa opera di Joseph Ratzinger corrisponda ai miei desideri e alle mie attese, e sono molto contento che lo abbia scritto. Auguro a molti la gioia che ho provato io nel leggerlo.
    (traduzione dal francese di Daniela Maggioni)

    Carlo Maria Martini

    Fonte: Corriere della sera, 24.5.2007

  10. #10
    Ut unum sint!
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    Caro Augustinus, potrei chidere il tuo personale parere su questa lezione del Card. Martini? Almeno su quanto si evince dall'articolo.
    UT UNUM SINT!

 

 
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