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    Christianity Under Fire
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    Predefinito L'MD CODE - Monito ai Governi Occidentali

    L’MD CODE - IL LIBRO DI DANIELE E LA TRADIZIONE APOCALITTICA - ESTRATTI

    A Lina, Sandro e Beatrice.

    L’interesse immediato all’Apocalittica è naturale che sia pratico: in sostanza si vuole sapere cosa ci aspetta. In realtà “quel che si aspetta” è nella dinamica della realtà e delle vicende storiche, specialmente politiche ed economiche. Così come il comportamento del pianeta e la violenza del più recente terrorismo, anche il prossimo futuro è già scritto nelle pagine che l’Umanità stà scrivendo oggi: ogni scelta politica o comportamento sociale ed individuale contribuisce alla preparazione dell’ultimo capitolo della Storia Umana prima di una tremenda distruzione seguita da un’apoteosi della natura umana all’origine di una “Post-Storia”.
    Il contemporaneo elogio della pazzia in economia e politica è il riflesso di una follia su vasta scala: l’idiozia che non esiste più un ordine etico ed intelleggibile che non sia quello del potere economico e finanziario ispirato da un darwinismo sociale che ritrova l’ordine e la spiegazione delle cose e dello scibile nella presunta scienza della selezione naturale delle teorie evoluzionistiche promosse inidiscriminatamente a scienza.
    Benché un evoluzionismo teistico non sia da escludere a priori, il fenomeno più popolare del recente darwinismo sociale è quello della trasformazione dell’Uomo in scimmia economica, con la conseguenza che tutti i tradizionali valori ereditati dalla civiltà occidentale in millenni di storia vengono con un colpo di spugna spazzati via dalla psiche e dalla psicologia dell’uomo contemporaneo.
    Allora diventa tutto possibile: “Nuova Legge Economica” in conflitto con la Costituzione ed il Diritto Naturale, governi economici in conflitto d’interesse e contro la Magistratura, la Democrazia quale libertà affaristica in contrasto con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e l'essenza della sua stessa democrazia. La libertà viene così connotata “economicamente” quale anarchia di sfruttamento senza l’ingerenza di leggi veramente etiche, mentre il progetto affaristico di un governo economico globale e corporativistico diventa etica indipendente dalle “ingerenze accademiche e religiose”. L'eliminazione dei diritti dei lavoratori e le assunzioni "deregulated", la creazione di un network di professionisti contro cittadini e lavoratori e la complicazione dei casi legali tra lavoratori ed aziende, sono soltanto la superficie del programma dei governi in conflitto d'interesse economico.
    Trasformare e manipolare le costituzioni nazionali, così come il diritto internazionale, diventa parola d'ordine del nuovo ordine mondiale.
    Le avvisaglie nell'accusa di "sovietismo" - a causa della "destinazione sociale dell'economia" - alla Costituzione Italiana fanno da preambolo al tipo di modifiche che si vogliono apportare agli articoli 55-138: i sintomi delle emendazioni economico-finanziarie per il raggiungimento di una Global Corporate Governance capace di riformare il Diritto diventano così palesi ed inconfutabili come anche il progetto di pilotare la Costituzione Europea.
    La conseguenza di tale progetto consiste nella virtuale invalidità di tutte le future manovre in tema di Diritto e Legislazione, fino a legittimare la consegna della cittadinanza degli individui alla Nazioni Unite al fine della sua tutela legale.
    L’etica sociale cattolica con le sue encicliche ed i suoi stessi fondamenti monoteistici diventano “nuovo comunismo” da prevenire ed assediare silenziosamente con strategie di potere intercontinentali e con attacchi locali ai suoi derivati sociali e culturali: ecco dunque il mare dove pescare i nuovi intellettuali “catto-comunisti” che di comunista hanno ben poco credendo infatti nella legittimità di una democrazia liberale moderata e socialmente responsabile.
    Ecco dunque il timore di quelle multinazionali che non si accontentano del controllo privato al 49% dell’economia, lasciando allo Stato il governo, le leggi e le costituzioni: per esse il rifiuto della loro ingerenza politica e dominio totale è un affronto “comunista”.
    In realtà la nuova lotta non è contro i comunisti, bensì contro la Civiltà Occidentale intrisa di Monoteismo in tutti i suoi aspetti politici e culturali. La lotta è culturale e spirituale ed il dominio dei mass media ne diventano strumento cruciale, trattandosi di inzuppare i cervelli con cultura che entrambe le parti considerano reciprocamente “spazzatura”.
    Ecco dunque il contesto “civile” dell’Apocalittica: uno stato di guerra strisciante e spirituale, il cui apparente carattere incruento non significa assenza di guerra, ma solo che la guerra fisica si esprime laddove le valvole di sfogo sono aperte per la distanza storica dai metodi della civiltà spirituale.
    L’ MD CODE propugna ed in coraggia il rifiuto della “guerra fisica” essendo la vera guerra “contro i principati e le potestà dell’aria...”

    L’MD Code è anche un messaggio a quella forza progettuale che aspira ad un governo economico mondiale gestito dalle multinazionali allo scopo d’informarla dei mali e delle conseguenze che determinerà nel rendere operativo il suo disegno: distruzioni, guerre, calamità e carestie d’inedità gravità, quale anticipo del giudizio finale di Dio contro coloro che distruggono l’uomo ed il pianeta. Il centro del messaggio apocalittico è che il vero padrone dell’Universo è Dio e chiunque intende ribaltare tale ordine diventa fuorilegge e responsabile delle distruzioni che il giudizio di Dio determina.
    Il compito di dimostrare che un governo mondiale economico costruito contro la Legge di Dio e la Sua Sovranità è in realta “Crimine contro Dio e l’Umanità”, non è semplicemente prassi accademica dell’MD Code, bensì responsabilità dell’Apocalittica stessa, attraverso non soltanto parole, bensì soprattutto fatti ed eventi: l’invito è di prendere alla lettera la letteratura apocalittica e specialmente l’Apocalisse di Giovanni e seguire da tale prospettiva le vicende dell’estremo prossimo futuro.
    Il mito che il Fondamentalismo Biblico ed Evangelico debba essere schierato all’estrema destra è confutato proprio dal “fondamentalismo” dell’MD Code, il quale esprime nelle sue pagine il suo consenso ad un liberismo economico moderato e sociale, ma che non tollera l’abuso di potere economico tradotto in governi in conflitto d’interesse ed il disegno di un dominio globale “illegale” e criminale dal punto di vista della Legge di Dio, prima ancora che di quella degli uomini prima della sua iniqua riscruttura. Anche quando l’ONU, le Costituzioni, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la Magistratura e tutte le leggi, venissero riscritte e riformate dall’Uomo senza Legge, la Legge di Dio conserverà intetto il suo diritto a definire la Legge e ad imporla col Suo Giudizio: questa è la sostanza dellàApocalittica e di quello che avverrà!
    I seguenti estratti non sono accompagnati da note e referenze per ragioni di semplicità di lettura e perché in fondo ciò non è necessario per farsi un’idea dell’argomento. Si deciderà per gradi quali estratti inserire. Delle circa 40 tavole solo qualcuna ed in particolare una “escatologica” metterei in allegato se le possibilità grafiche lo permettessero – ossia la mappa essenziale di quel che ci si aspetta negli ultimi sette anni prima del ritorno di Cristo. Alcune citazioni - quì tralasciate - dell’MD Code vengono riportati nell’allegato circa la Global Governance (David777 in POL). Non si potrà coprire tutto ma l’essenziale è quì..
    Per quanto facile possa essere la presente sintesi, è pur sempre difficile familiarizzarsi col linguaggio ed i codici apocalittici: ciò è normale e solo l’interesse al tema degli ultimi tempi può rendere la fatica accessibile – altrimenti tutto apparirà mitologia indistinta e priva di rilevanza politica.
    L’Escatologia Giudeocristiana è per etimologia “la dottrina delle ultime cose/vicende” e tali ultimi sette anni rappresentano la conclusione degli ultimi 490 anni prima dell’avvento del Regno di Dio, così come sono stati rivelati al profeta Daniele (capitolo 9) al tempo del re Dario. Ogni frazione di sette anni è detta “settimana” (di anni), per cui 490:7=70 settimane. Gli ultimi sette anni sono perciò detti “l’ultima settimana si Daniele”.
    Secondo Daniele 9:25, alla fine della LXIX settimana (che coincide con la Crocifissione) il ciclo delle 70 settimane si è momentaneamente sospeso, per riprendersi solo in prossimità della fine dei tempi. Il periodo di sospensione è considerato un periodo di grazia che ha lo scopo di innestare i “Gentili” (non Ebrei) nel Patto di Salvezza, ad opera di Cristo.
    L’interpretazione più letterale ed a mio vedere attendibile è che gli ultimi sette anni (detti anche “Tribolazione”) iniziano con un trattato di pace internazionale tra ebrei e palestinesi. Più che internazionale tale accordo verrebbe promosso e garantito in particolare da almeno una superpotenza ed il suo leader di turno.
    Tale potenza è chiamata anche “IV Bestia” per il fatto che tra le quattro potenze rivelate a Daniele essa è l’ultima. In linea con Daniele 7 la prima potenza è Babilonia, la seconda è l’Impero Medo-Persiano, la terza l’Impero Greco-Macedone, la quarta l’Impero Romano. Dal punto di vista biblico l’Impero Romano non è mai morto ma ha soltanto subito una grave ferita causandone la crisi e la sua disgregazione in 10 “frammenti”.
    Infatti la IV Bestia viene descritta con dieci “corna” (simboli di regni/potenze/popoli) ed infatti alla presunta caduta dell’Impero assistiamo ad uno spostamento del centro di potere in Oriente ed alla supremazia dell’elemento germanico in Europa fino ad un crescendo di tentativi cattolici di ricostruzione imperiale in contesa o coesistenza tra Papato ed Imperatori.
    La tendenza degli evangelici americani è sempre stata di scaricare sugli europei tutte le descrizioni della IV bestia, tirandosi essi stessi da parte. Decenni di propaganda politico-religiosa hanno osteggiato e screditato tra i protestanti del mondo intero il procedimento di unificazione dell’Europa nell’assunto che tale unione avrebbe fatto rinascere la IV bestia con le sue 10 corna.
    La mia proposta (argomentata per l’appunto nel libro di cui ti spedisco un nutrito estratto e che per semplicità citeremo come “MD Code”) è che le dieci corna non sono 10 nazioni in senso moderno con confini recenti e delineati, bensì gli stessi 10 ceppi etnici/popoli che alla caduta/ferita di Roma si sono distaccati ed assunto autonomia e storia propria fino ad estendersi politicamente e geograficamente.
    In questo modo tutta l’America (Latina e non) viene a classificarsi entro uno o più corna e gli USA stessi verrebbero tramite l’eredità britannica ad essere parte di quelle profezie che essi vorrebbero addebitare solo alla “Vecchia Europa”. Anzi gli USA e gli anglosassoni nel loro complesso verrebbero così a ritrovarsi pienamente protagonisti dell’ultima settimana di Daniele.
    E’ a questo punto che l’espansione storica dell’influenza statunitense rischia di avere una spiegazione apocalittica. Tra le 10 corna spunta verso la fine dei tempi un “piccolo corno” che riesce a dominarne tre, riducendo così il numero ad un totale di otto. Finora sono gli USA e GB che hanno dato luogo ad evidenze tali da suggerire che l’indipendenza di tre o più potenze “ex-romane” sono a rischio di estinzione od assorbimento. Il Piccolo Corno si presenta come “l’ultima novità” che emerge tra le dieci corna ma se ne distingue, e mescola con tre di esso assoggettandoli, cosa che ricorda il livello di mescolamento di razze mai prima attestato di Daniele 2:43. Quindi non soltanto Piccolo Corno multiculturale, bensì anche multirazziale come mai s’era visto prima, cosa che in sè non è cattiva ma che semplicemente fornisce ulteriori indizi di identificazione. L’aspetto negative di tali “connubi umani” consiste piuttosto in una confusione sincretistica senza ordine e sicurezza di ideologie e religioni ridotte scaltramente ad un commune denominatore: la sottomissione religiosa ad un’autorità centrale: quella del Piccolo Corno per l’appunto che da tale dosordine ricava l’alibi della propria supremazia gestito con abile propaganda. L’entità religiosa ed ideologica sincretistica ma assoggettata al Culto del Piccolo Corno viene detta “la Grande Meretrice” che è anche una gran città che governa sui re della terra. Secondo la descrizione di Apocalisse 17 la IV bestia si stancherà di reggere il peso della °Donna° (la meretrice) e promuoverà una congiura per liquidarla e garantirsi la dipendenza dei re che prima la servivano. Con questa operazione il sincretismo di Babilonia confluisce in un solo effetivo culto: quello del Piccolo Corno con l’aiuto di un “Falso Profeta” che si ritiene sia un nuovo falso messia dei Giudei.
    In MD Code ho suggerito varie soluzioni alla caduta ed alla fusione di tre corna con il Piccolo Corno, ma l’ipotesi che le tre potenze che cadono si trovino in MO e Nord Africa è tuttaltro da escludere. Il criterio per identificare le 10 corna/potenze romane è spiegato in varie zone e non soltanto in questo estratto. Conosciamo i precedenti non consolidati di colonialismo europeo in Africa e MO non soltanto anglosassoni, ma è soltanto negli ultimi giorni che gli USA e GB si riaffacciano con forza in Mesopotamia. Per il momento dunque sappiamo che il Piccolo Corno deve essere:
    1. Una cosa nuova
    2. Multirazziale e multiculturale come mai prima
    3. Capace di assoggettare i re della terra
    4. Propensa a liquidare le potenze della religione
    5. Capace di dominare 3 di 10 corna divenendo l’ottavo re a capo degli altri.

    Naturalmente altri dati si aggiungono quando si va specialmente ad esaminare il comportamento economico e politico del Piccolo Corno, ma per il momento questo ci basta per introdurre i personaggi centrali della scena apocalittica.
    L’Europa ed il mondo intero sono sdegnati ed avviliti per la guerra in atto contro l’Irak, eppure le stesse dinamiche e premesse di conflitto sono presenti anche in Europa, anche se le loro estreme conseguenze si limitano specialmente alla conflittualità economico-finanziaria, le cui conseguenze sociali sono comunque da bollettino di guerra.
    La definizione di criteri convenzionali ONU per decidere se una guerra sia veramente di “liberazione” non può che essere teoricamente in fase di messa a punto, ma una cosa è nel frattempo certa: gli USA hanno già eluso (giusto o sbagliato) l’ONU e varie fonti e documenti indicano che come per la World Bank essi non hanno nessuna intenzione di riconoscere un’etica ed una legge internazionale e globale.
    Le ragioni di tale discrepanza è a mio avviso da ricercarsi nella centralità del libero mercato nella definizione americana ed occidentale in genere di democrazia e libertà, la quale chiaramente non coincide con la più ampia visione etico-sociale dei documenti internazionali, dell’ONU e del Vaticano compresi. In sostanza una guerra di “liberazione” quando i metodi, le finalità ed i moventi riflettono una democrazia ed una libertà motivata e giustificata dall’Etica.
    Chiunque “libera” rifiutando di sottoporsi ad una definizione dell’Etica raggiunta previo procedimenti e percorsi legittimi, in considerazione dell’apporto del mondo accademico e della tradizione spirituale, è chiaramente un usurpatore. Quando si considerano i veri obiettivi del libero mercato e la litigiosità tra i membri della mini coalizione in Irak per aggiudicarsi la “Ricostruzione”, diventa palese la pretestuosità dei moventi iniziali. Certo liberarsi delle “armi di distruzione di massa” sarebbe un motivo per una disciplina nei confronti non soltanto nei confronti dell’Irak, ma il problema è che l’ONU non ha potuto ultimare i procedimenti di verifica prima di dichiarare una guerra. Mr John Howard è stato dell’opinione che l’attesa delle prove avrebbe prodotto il rischio di una nuova Pearl Arbour. L’11 Settembre è il vero motivo oppure parte di una guerra che era già in atto? In realtà tutti i motivi dichiarati sono periferici, essendo la vera ragione attinente all’avanzata “darwiniana” del libero mercato in competizione con Europa e Cina. Come si dimostrerà nella “Valutazione di Democrazia e Libertà” in appendice, la dottrina del Naturalismo e dell’Evoluzionismo è collegata alla manovra del Libero Mercato di giustificare un’etica di competizione e “liberazione” secondo i principi della selezione naturale della specie. La Sinistra dovrebbe strategicamente rivedere il primato assoluto riconosciuto al Darwinismo ed al Positivismo per non rischiare di venirne travolta e rendersi conto che la nuova etica del Capitalismo Iperliberale si costruisce su una ipotesi scientifica mai dimostrata e che sottovalutando i modelli biblici si ostacola l’unica autorità che sembra in grado di vincere e resistere durante i tempi di disfatta che stanno per piombare sul mondo.
    La seguente domanda è soltanto una delle semplici conseguenze di un panorama ideologico avvelenato: quale democrazia per l’Irak, quella dell’ONU e delle Costituzioni Civili, oppure quella del Libero Mercato? Sissignori le due non sono la stessa cosa e tra le loro pieghe la lente dell’apocalittica è capace di individuare e definire ciò che è etico da ciò che non lo è. L’indipendenza dall’Etica è il nuovo indizio e vecchio criterio giuridico per definire ed individuare la criminalità e l’ingiustizia. La nuova plutocrazia naturalmente renderà sempre più confusa e relativa l’autonomia della Magistratura e di un tribunale Internazionale quale pezzo della strategia di “intorbidimento delle acque”, ma quando filosofia e scienza saranno di regime, la resistenza spirituale totalmente disarmata e non violenta sarà l’espressione visibile della giustizia del Regno di Dio.
    La Plutocrazia potrà regnare solo per sette anni, durante i quali essa deve essere privata di qualunque alibi: il disarmo totale e la non violenza saranno condizione essenziale per il conflitto spirituale, in quant il ricorso alla repressione, alla persecuzione ed alla violenza da parte del potere del “Piccolo Corno” deve apparire in tutta la sua fulgida vigliaccheria ed ipocrisia, senza lasciare ombra di dubbio circa la veridicità e la coerenza delle previsioni bibliche.
    Quando le nazioni saranno infiacchite e la cultura rassegnata, l’apocalittica sarà l’unica vera bussola per orientarsi nella nuova giungla planetaria del darwinismo sociale e quelle ideologie “sociali” che vorranno arroccarsi alla tradizione resteranno infatti vulnerabili e senza bussola. Se si dimostrerà che esiste una cospirazione delle potenze economiche e del libero mercato al fine di usurpare l’Etica per sostituirsi ad essa, si dimostrerà che l’Occidente e non soltanto gli USA sono in una pericolosa fase di revisionismo costituzionale, che rischia di consegnare la coscienza e le libertà civili nelle mani di una dittatura economica e guerrafondaia, a caccia di motivi di conquista militare da usare come propaganda. Il “Libero Mercato” sembra approfittare del fatto che l’Etica Cristiana e Cattolica non è l’unica possibile, cercando allo stesso tempo di adescare una parte della cristianità (non solo evangelica) con promesse di ricchezze e prosperità. La divisione e l’estrema esemplificazione subita da una parte della cristianità ha portato ad un impoverimento del carattere etico e profetico della Chiesa, favorendo la creazione di nuovi nemici e terrorismo e spostando il confronto disarmato tra religioni monoteistiche sul piano improprio della violenza fondamentalista.
    Il fondamentalismo evangelico che doveva restare conservatore solo in teologia e genuinamente democratico si è gradualmente ed in larga maggioranza spostato prima in economia e poi in politica ed azione geopolitica, quale strumento letale di una forza economico-finaziaria che gli era originariamente estranea. Si assiste così alla contraddizione dell’alleanza tra “creazionisti domenicali” e darwinismo economico, riducendo tutte le prediche evangelistiche ad un ammasso di parole prive di senso profetico ed etico-messianico. Si pone così il problema per una parte non compromessa e veramente democratica di tale fondamentalismo di distinguersi e prendere le distanze dalla nuova plutocrazia, cambiando forse nome e descrizione o rifiutando qualunque definizione che non sia la Scrittura stessa.
    Non si tratta di una condanna assoluta del “Liberismo Economico” bensì di una necessaria opera di chiarezza nel dichiarare la non legittimità etica di un potere economico-finanziario che si pone in autonomia nei confronti della Legge per essere legge a se stesso in una versione radicale ed estrema della “deregulation”. La previsione del 1985 secondo cui la degenerazione del Naturalismo e suoi derivati erano alla base dell’avvento della “Plutocrazia Economica” è stata pienamente confermata, unitamente a tutti i suoi effetti meccanici di tipo economico-politico (e recentemente l’Italia di “liberatori” ne sà qualcosa più degli altri).
    La tradizione apocalittica verrebbe così a trovarsi in posizione di impatto frontale con una plutocrazia di cui ne aveva previsto l’ascesa e la fine. I metodi ed i procedimenti per superare tale impatto con meno danni e traumi possibile è una funzione dell’apocalittica durante gli imminenti tempi di crisi e terrore, offrendo assistenza e speranza ad un’umanità che è alla vigilia della più cruciale fase della sua storia. Le Sacre Scritture hanno previsto da secoli l’avvento di tale fase storica e dunque i rimedi e le soluzioni sono efficacemente disponibili per sapiente provvidenza divina, ma non senza dolori e danni per il pianeta e l’umanità: 7 sigilli, 7 trombe e 7 coppe sono i tre cicli apocalittici di dolori durante l’ultima settimana di Daniele ed il regno del Piccolo Corno per la transizione al Regno di Dio, ma l’ultima tromba ha in serbo una sorpresa per coloro che hanno messo in pratica i suggerimenti divini e rifiutato il “marchio” della Bestia.
    In sostanza: Dio ha deciso di lasciare ad una plutocrazia planetaria uno spazio di sette anni, dopodicché “senza intervento di mano d’uomo” il Regno di Dio salirà al potere con la sua capitale mondiale a Gerusalemme. Tale decisione è anche per dimostrare quale sia il risultato del peccato insito nella natura umana nelle sue conseguenze politiche globali. Il punto focale della resistenza durante i sette anni è spirituale perché le nazioni che proveranno a resistere con la guerra durante questo periodo saranno spazzate via. I dettagli di tale resistenza spirituale non possono naturalmente del tutto essere posti per iscritto, lasciando infatti un capitolo del libro che si occupa di tale questione fuori persino della versione finale, essendo esso per natura di carattere esoterico. Quì ci sarebbe molto da dire in relazione al seguente estratto, ma almeno una questione non potrà essere completamente evitata in aggiunta: la valutazione di Libertà e Democrazia quale alibi coloniale nel contesto globale dell’Etica e della Sicurezza, per la Giustizia e la Pace.
    Prima di procedere alla trattazione di questo importante aspetto che ha lo scopo di evidenziare e rendere più comprensibile l’attualità dell’estratto, voglio ricordare che i simboli e le informazioni apocalittiche (evidenziate graficamente nella Tavola allegata) potranno essere meglio compresi se muniti di un testo delle Sacre Scritture e di un Commentario Biblico (anche Internet sarebbe perfetto allo scopo). Tutta questa introduzione è completamente nuova e la stò scrivendo con un word processor senza dizionario italiano, per cui non ho la possibilità di una correzione automatica.
    Proverò ad evidenziare in giallo alcuni dei riferimenti al Presidente Silvio Berlusconi ed alle vicende italiane così come le prevedevo all’epoca (1985-91) ed in rosso invece le previsioni di terrorimo islamico, conflitti bellici, ideologici e sociali. Spero che la dimensione dei caratteri di stampa non sia troppo ridotta – comunque allego un CD in formato Winword 2000 per eventuali ristampe ed archivio – sicché in “search & modifica” è tutto più facile.
    Per semplicità scriverò in appendice la sezione relativa alla “Valutazione di Libertà e Democrazia quale ragione/alibi coloniale nel contesto globale dell’Etica e della Sicurezza per la Giustizia e la Pace.” In questo modo spero di non appesantire e ritardare la lettura dell’estratto già in partenza, il cui approfondimento potrebbe invece essere fatto a più tappe, benché almeno la consapevolezza della sua interferenza col tema centrale sia necessaria.
    In seconda appendice inserirò una breve selezione di e-mail o messaggi in risposta a forum internet che sono spesso di qualche interesse specialmente quando precedono gli eventi – in particolare quelli della Guerra in Irak. Il testo in uso e della versione 1992, ma si tratta della stessa versione di 5/6 anni prima semplicemente in seconda fase di correzione.
    Rendere pubblico un nutrito estratto di un libro, rinunciando a compensi ed in cambio rischiando danni e ritrosioni può sembrare folle e forse lo è, ma è l’ora per il seme di morire senza aspettarsi nulla in cambio.
    Ripongo in Dio la mia speranza che questo estratto riduca l’ormai inevitabile numero di vittime e distruzioni e che produca nelle autorità “vecchie e nuove” moderazione e saggezza, sapendo che l’attentato alla vita umana ed al Governo di Dio ritroverà presto il suo definitivo giudizio.



    PRESENTAZIONE – Versione 1992

    Prologo, prefazione ed originaria presentazione sono stati posti, quale appendice, alla fine del libro, tanto più che il relativo carteggio è andato nutrendosi fino a caricarsi di quella relazione etico-esistenziale della ricerca già formulata metodologicamente nelle precedenti versioni, al punto tale da consigliarlo quale successivo livello di comprensione. L’appendice in questione rende più espliciti i moventi, le circostanze, le riflessioni fondamentali e le contraddizioni, e dunque (in qualche misura) la struttura psicologica e spirituale di base, che hanno interagito con la visione antropologica ed etico-messianica e l’interpretazione dei testi del libro di Daniele e della tradizione apocalittica presi in considerazione. Per i motivi spiegati nella stessa appendice, coloro che hanno in qualche misura contribuito, con articoli o suggerimenti alla realizzazione del presente volume, non verranno per il momento menzionati, fatta eccezione per Mosè D’Anzi della chiesa dei Fratelli di Empoli, il quale, per una sua precisa scelta ed a motivo della profonda amicizia, oltre ad avermi fatto visita ed a curarsi di me, specialmente nelle difficili circostanze degli ultimi tempi, mi ha consigliato nella riflessione e nel riesame d’importanti aspetti del lavoro svolto, i cui coinvolgimenti, comunque vadano le cose, egli non disdegna. Mosè conosce i nomi di coloro che hanno ricevuto le precedenti versioni del libro, dal 1988 fino a quest’ultima, la quale viene fatta recapitare alla vigilia delle elezioni politiche a Stefano Woods, della chiesa dei Fratelli di Firenze. Anche questa volta il capitolo dedicato alle fonti messianiche collaterali non viene incluso: lo sarà forse in occasione della versione finale.




    Castelfranco Veneto, 2 Aprile, 1992.


    BREVE ESTRATTO DALL’INTRODUZIONE

    1. L’OPERA DI CALVINO SUL LIBRO DI DANIELE
    Nel sedicesimo secolo, i due maggiori riformatori, Martin Lutero e Giovanni Calvino, scrissero un commentario sul libro di Daniele. I due lavori di Lutero furono pubblicati nel 1524 e 1544 rispettivamente, col titolo di “Der Garuss. Vondem Endchrist-aus dem Propheten Daniel”, “Kurtze erclerung ober den Propheten Danielem”.
    Il primo lavoro di Calvino apparve nel 1561 col titolo di “Praelectiones in Librum Danielis”. Un’altra edizione del 1571 aveva per titolo “Ioannis Calvini Praelectiones in librum prophetiarum Danielis”. La cosa sorprendente è che mentre i commentari di Lutero non sono mai stati tradotti in inglese, quello di Calvino lo fu entro dieci anni dalla versione latina ed ancora nel 1852-3. Con l’edizione di Myers si ripropone nuovamente in inglese il commentario di Calvino su Daniele nel XX secolo, circa 400 anni dopo la prima edizione.1
    Per quale ragione le ricche pagine di Lutero non sono mai state tradotte in Inglese, mentre quelle di Calvino lo furono quasi immediatamente? Calvino viene da molti considerato come lo studioso biblico più eminente della Riforma, probabilmente il più grande dal tempo di Origene, almeno fino agli inizi del XIX secolo. Il Prof. Andrew Martin Fairbairn nel suo capitolo “Calvin and the Reformed Church” nella “Cambridge Modern History” gli dedica alcune righe: “Modern oratory may be said to begin with him, and indeed to be his creation. He helped to make the vernacular tongues of Western Europe literary. He accustomed the people to hear the gravest and most sacred themes discussed in the language which they knew; and the themes annobled the language, the language was never allowed to degrade the themes... He is the sanest of commentators, the most skilled of exegetes, the most reasonable of critics. He knows how to use an age to interpret a man, a man to interpret an age. His exegesis is never forced or fantastic; he is less rash and subjective in his judgments than Luther; more reverent to Scripture, more faithful to history, more modern in spirit... His work is inspired by a noble belief; he thought that the one way to realise Christianity was by knowing the mind of Christ; that this mind was expressed in the Scriptures; and that to make them living and credible was to make indefinitely more possible its incorporation in the thougts and institutions of man.”
    L’esegesi di Calvino risulta finalizzata alla riforma del pensiero e delle istituzioni, affinché lo Stato e la cultura esprimano i principi e la vita del Regno di Dio, il quale rappresenta il sostrato e la dinamica del pensiero contenuto nel libro di Daniele. Si comprende perciò l’immediato destinatario del commentario sul libro di Daniele nella prima edizione di Calvino in inglese: “Commentaries of that diuine Iohn Caluine, vpon the Phrophet Daniell, translated into Englishe, especially for the use of the family of the right honorable Earle of Huntingdon, to set forth as in glasse , how one may profitably read the Scriptures, by considering the text, meditatyng the sense therof, and by prayer. Daniell 2. The stone cut foorth of the mountaine without handes, shall breake in peeces the brasse, &c. At london. Imprinted by Iohn Daye. 1570. 4to.”. Ciò equivale a rivolgere ai governanti ed ai loro congiunti, il cui destino è legato alla condotta dei primi, il senso del rapporto che intercorre tra Daniele ed i sovrani coi quali è venuto in contatto, ricordando che il Regno di Dio (la pietra che si stacca dal monte) ridurrà in frantumi le potenze, nella misura in cui esse sono incompatibili con i disegni e gli ordinamenti politici che soggiacciono alla normativa, ai principi, ed alle leggi contenute nella Torah e nei libri profetici. Suona come una ammonizione (quasi una minaccia) in un tempo in cui “many of the rulers of Europe at the time of the Reformation persecuted those who made the word of God pre-eminent, and preached a gospel of free grace”.2
    Nel maggio 1546, Carlo V, col potente supporto di Papa Paolo III, iniziò con rigorosa ed indomita determinazione l’opera di estinzione del Luteranesimo in Germania. La fine di quella guerra, afferma Mr. A.F. Pollard, “had exhausted all classes in the nation, and an era of universal lassitude followed. Germany was a desert, and it was called a religious Peace.” Francesco I tentò lo stesso programma di persecuzione in Francia (1540-44) “during which time occured the shameful massacre of the Waldensias.” Nel 1545 soltanto, 22 villaggi furono bruciati e più di 3000 uomini e donne uccisi “while the flower of the men were sent to the galleys.” L’anno successivo alla pubblicazione del primo lavoro di Calvino su Daniele, iniziarono le terribili e devastanti guerre di religione, dalle quali l’Europa non si sarebbe risollevata per ben due secoli. Calvino stesso dovette andare in esilio.
    L’esperienza di Daniele e del popolo ebraico durante la cattività babilonese dà a Calvino l’opportunità di esprimere molti sentimenti che gli erano in cuore. Egli stesso afferma nella sua Dedicatory Epistle: “I have the very best occasion of shewing you, beloved brethren, in this mirror, how God proves the faith of his people in these days by various trials; and how with wonderful wisdom he has taken care to strengthen their minds by ancient examples, that they should never be weakened by the concussion of the severest storm and tempest; or at the least, if they should totter at all, that they should never finally fall away. For although the servents of God are required to run in a course impeded by many obstacles, yet whoever diligently reads this Book will find in it whatever is needed by a voluntary and active runner to guide him from the starting-post to the goal; while good and strenuosus wrestlers will experimentally acknowledge that they have been sufficientelly prepared for the contest...Here, then, we observe, as in a living picture, that when God spares and even indulges the wicked for a time, he proves his servants like gold and silver; so that we ought not to consider it a grievance to be thrown into the furnace of trial, while profane men enjoy the calmness of repose.”
    L’apparente dominio di sistemi e governanti iniqui, corrisponde ad un tempo di attesa del regno escatologico e di forrmazione dei nuovi sudditi. I tentativi teocratici durante il periodo dei giudici e dei re d’Israele, fallirono in sostanza a motivo della precarietà spirituale dei sudditi e degli stessi conduttori del popolo. Il messianismo che emerge nel libro di Daniele, secondo Calvino contempla un messia e dei sudditi ideali, forgiati durante il corso reale della storia, precedente all’avvento del regno escatologico. L’esperienza storica avrebbe lo scopo di promuovere una spiritualità ed una coscienza civica, collaudate e forgiate sulla base degli insegnamenti procurati dalle disfunzioni e malformazioni delle istituzioni e delle esperienze politiche precedenti all’avvento dell’era messianica. L’uso che Calvino fa di Daniele è duplice: da una parte ammonisce i governanti e la cultura, affinché si adeguino per quel che è possibile alla legge della Torah, dall’altra conforta, consolida gli uomini e le risorse per opporre ogni resistenza possibile agli abusi del potere secolare e forgiare coloro che costituiranno il regno messianico.
    Calvino sembra promuovere la sua tesi sull’assoluta sovranità di Dio, a causa responsabile della capacità di tenuta durante le vicende storiche, i cui abusi, i travagli, i protagonisti, piccoli e grandi, appaiono ineluttabili e previsti, come in un dramma preordinato. E tale concezione ipertrofica della sovranità diviene carattere costitutivo di una esoterica, intima, privilegiata, titanica conoscenza di Dio. Il meglio del commentario di Calvino, si è ritenuto, è la parte in cui il riformatore “sets forth in moving language the absolute sovereignty of God, and in which he draws great ethical and spiritual lessons from the experiences of Daniel and his collegues.” Commentando Daniele 11: 31 e 32, Calvino scrive: “It is worthy of careful observation, that the angel assigns their knowledge of God as the cause and foundation of their constancy. How then, we may ask, does it come to pass, that some few are left, when the apostates thus prostitute themselves? Because their knowledge of God shall pravail, and enable them to overcome these attacks, and bravely to repel them, and to become superior to any temptations. We see, then, the source whence our own fortitude is derived - the knowledge of God. This acknowledgment is no vain and cold imagination, but springs from that faith which spreads its living root in our hearts. Hence it follows, we do not really acknowledge God, unless we boldly contend when we are put to the test, and remain firm and stable, although Satan endeavours, by various machinations, to weaken our faithfulness. And unless we persist in that firmness which is here described, it is quite clear that God has never been truly and really acknowledged by us. The relation too is not without its weight in the phrase the people who shall know their God. Here is a silent reproof, since God revealed himself to the Israelites as far as was sufficient to retain their allegiance. No one, therefore, could offer any excuse without being guilty of impiety, sacrilege, and perfidy, after being so fully instructed by the Law and the prophets.”
    La relazione tra sovranità e conoscenza di Dio è ulteriormente dimostrata dalla continua presenza del pensiero delle “Istituzioni” del riformatore: “God foresees all things, since nothing is hidden from his eyes; and he points future events, and governs the world by His will, allowing nothing to happen by chance or without His direction... God places before our eyes, as in a glass, the proofs of his wisdom and power, when the affairs of the world roll on, and mankind become powerful through wisdom, and some are raised on high, and others fall to the ground.”
    Calvino, dotto nella letteratura classica, greca e romana, mentre rende relativi libri e cartoffie al cospetto della conoscenza di Dio, pur confermandone l’utilità (“ God needs no books; paper and books are but helps to our memory, which would otherwise easily let things slip; but as he never suffers from forgetfulness, hence he needs no books”),3 indica nel libro di Daniele il riferimento per districarsi ed orientarsi nella marea degli avvenimenti temporali, rivelando di questi sia il senso che la destinazione: “For God shews how all earthly power which is not founded on Christ must fall; and he threatens speedy destruction to all Kingdoms which obscure Christ’s glory by extending themselves too much... Lo! storms and tempests now flow from another fountain! Because the Rulers and Governors of the world do not willingly submit to the yoke of Christ, now even the rude multitude reject what is salutary before they even taste it. Some delight themselves in filth, like pigs, and other excited by fury rejoice in slaughter. The devil instigates by especial fury those whom he has enslaved to himself to tumults of all sorts. Hence the clash of trumpets; hence conflicts and battles.”
    Wilbur M. Smith, nella introduzione al commentario rende attuale il punto di vista di Calvino e lo stesso messaggio di Daniele: “ In a day like this, in which we are living, when the governors of the world are breaking up, in a day when a vast part of the earth is controlled by a merciless dictatorship, when multitudes of Christians have already known persecution, and many more will before this age ends, there is hardly any book in the Old Testament quite so profitable as Calvins’s two volumes on Daniel, for as Calvin says in this dedicatory preface.” Un simile atteggiamento rischia però di determinare un fraintendimento: il popolo di Dio è irreprensibile ed oppresso, gli altri sono i malvagi e gli oppressori. Il nostro secolo ha chiarito che spesso le due categorie si confondono, oltre la propaganda confessionale ed ideologica. Calvino dedica sette pagine del commentario “to the solemn matter of the confession of sin”,4 e quando si tratta di onorare l’autorità umana egli non si risparmia. L’attesa del Regno di Dio va dunque vissuta non nella tracotanza di una vittimistica santità, ma nell’umiltà di chi sa di essere parte di una tragica precarietà morale ed istituzionale. I saggi saranno coloro che “avranno aiutato gli altri a essere fedeli”, e l’autentica purificazione sarà realizzata proprio nella prova. Il riferimento per definire l’autenticità della visione storica di Daniele, non può essere l’irreprensibilità del popolo eletto e neppure la presunta ed indistinta malvagità degli altri. L’interazione e spesso l’indistinzione morale degli uomini può condurre ad una solidarietà umana, utile alla ricerca di un’unica soluzione soteriologica. Sul piano metodologico ciò deve condurre al riconoscimento che gli studi su Daniele sono in ogni caso frutto di una particolare concezione filosofica, e per questo soggetta a discussione.
    Gli studiosi che sostengono il carattere sovrannaturale del libro di Daniele, possono aspettarsi di inserirsi nel dibattito accademico soltanto se elaborano la propria ricerca secondo premesse filosofiche e scientifiche. Allo stesso modo gli studiosi che trattano la letteratura biblica come un campo mitologico, devono riconoscere la propria dipendenza filosofica di tipo naturalistico, senza spacciarsi come gli esclusivi ed indiscussi “scienziati sperimentalisti” della letteratura universale. Questi ultimi dovrebbero tener presente che altre scuole di pensiero operano contemporaneamente e sono pronte a fornire argomenti e motivazioni a favore della propria metodologia. Quando si afferma che gli studiosi animati dai principi confessionali non sono capaci e adatti alla ricerca scientifica, si sta contribuendo alla estinzione di un autentico spirito scientifico.


    SECONDO CAPITOLO

    METODOLOGIA DELLA RICERCA




    In un commento di Einstein ad un testo di Born contro Arthur S. Eddington (tacciato di hegelismo) compaiono i maggiori problemi per la messa a punto di un metodo di ricerca che riesca a stabilire un rapporto scientifico tra la realtà fisica e quella che la tradizione filosofica indica come metafisica: “Ho letto con molto interesse la tua conferenza contro gli hegeliani, che per noi fisici teorici assumono un aspetto donchisciottesco (o addirittura la veste di seduttori?). Il fatto è che dove questo male o questo vizio vengono a mancare del tutto, si fa subito avanti l’inguaribile filisteo. Confido perciò che la fisica giudaica non debba scomparire.”1
    Nella risposta Born rimprovera ad Einstein la sottovalutazione della fisica quantistica, la pretesa di attendersi troppo dalla sua speculazione alla giudaica e di cercare una legge che unifichi il mondo fisico e quello spirituale, ossia l’omogeneità spinoziana tra res e ideae.2 Born non sembra però escludere che l’esigenza teorica di un modello scientifico applicabile sia allo studio della realtà fisica che a quella spirituale sia da biasimare o da escludere, nonostante egli la neghi per sé e per gli altri: “Innanzi tutto - scrive ad Einstein - credo che tu sottovaluti le basi empiriche della teoria dei quanti..., in secondo luogo, la tua filosofia concilierebbe in qualche modo l’automatismo delle cose inanimate con l’esistenza della responsabilità e della coscienza, cosa che io non riesco a fare... In ogni caso penso che abbia diritto alla riflessione speculativa uno come te, ma non gli altri, me compreso... Ho sempre avuto molta stima per la tua fisica giudaica e ne ho tratto molte gioie; ma personalmente l’ho praticata una volta sola, con la mia elettrodinamica non lineare, e non è stato certo un gran successo...”3
    Non importa qui decidere se Einstein fosse ateo o credente, o se egli interpretasse Dio come razionalità maimonidea. E’ l’idea di “trovare una legge che unifichi il mondo fisico e quello spirituale” che suscita interesse e si presenta ricca di conseguenze, indicandoci quale sia il campo di ricerca più centrale per l’elaborazione di categorie filosofiche in grado di permettere alla scienza di superare l’aporia metafisica, inglobandone l’oggetto di studio. Ciò dovrebbe significare l’ammissione che le entità dalla metafisica ritenute eteree, immateriali, incorporee, trascendenti ed opposte alla realtà fisica, siano teoricamente sperimentali ed omogenee con le leggi e l’energia a fondamento del mondo materiale. In tal caso l’aporia non riguarderebbe più la sostanza, tradizionalmente oggetto di studio della metafisica, bensì il grado di evoluzione scientifica, e dunque il livello degli strumenti di ricerca per la verifica o la confutazione di ipotetiche sostanze spirituali. Il problema non consiste nelle sostanze spirituali ipoteticamente esistenti, ma nella capacità dell’uomo di accedervi con le sue attuali capacità ed i suoi mezzi.
    Essendo per lo scienziato l’ipotesi più straordinaria e difficile da esaminare, Dio è la grande possibilità e l’oggetto di studio più elevato, il quale dovrebbe piuttosto animare ed ampliare la ricerca, anziché limitarla allo studio delle cose immediatamente sensibili.
    Per questa ragione Dio è in Descartes il garante metafisico della scienza,4 essendo che Egli interviene per “il primo dei suoi attributi, cioè ch’Egli è verissimo ed è la fonte di ogni luce, sì che è impossibile che c’inganni.”5 E’ garante, (secondo quanto scrive il 15 aprile 1630 Descartes a Mersenne) “in quanto è criterio e principio per la conoscenza del mondo: non trascurerò di toccare, nella mia fisica, parecchie questioni metafisiche, ed in particolare questa: che le verità matematiche, che voi chiamate eterne, sono state stabilite da Dio ed interamente ne dipendono, così come tutto il resto delle creature. In effetti è parlare di Dio come un Giove o di un Saturno, e assoggettarlo allo Stige e al fato, il dire che queste verità sono indipendenti da lui. Non temete affatto, ve ne prego, di affermare e di render pubblico ovunque che è Dio che ha stabilito queste leggi nella natura, così come un Re stabilisce delle leggi nel suo Regno... Vi si dirà che se Dio avesse stabilito queste verità, egli potrebbe cambiarle, come un Re fa con le sue leggi; al che bisogna rispondere che, sì, se la sua volontà può cambiare -. Ma io le comprendo come eterne ed immutabili. - Ed io giudico lo stesso di Dio. - Ma la sua volontà è libera. - Sì, ma la sua potenza è incomprensibile; e generalmente noi possiamo ben assicurare che Dio può far tutto ciò che noi possiamo comprendere, ma non che egli non possa fare ciò che noi non possiamo comprendere; poiché sarebbe temerarietà supporre che la nostra immaginazione s’estenda quanto la sua potenza.”6
    Le pagine dedicate da Elena Bein Ricco e Giovanna Pons alle tappe che condussero alla formulazione delle leggi della meccanica, e quindi alla fondazione della fisica moderna, chiariscono brillantemente come gran parte delle discussioni tra i fisici del Sei e del Settecento riguardassero intrinsecamente Dio. La disputa tra Leibniz e Newton sul moto, il tempo e lo spazio assoluti coinvolse anche il teologo Clarke, i cui risultati per la meccanica newtoniana nei Principia procedono di pari passo con affermazioni di carattere teologico: “Come i moti veri siano da dedurre dalle loro cause, dagli effetti e dalle differenze apparenti, e per contro come dai moti sia veri sia apparenti si deducano le loro cause ed affetti, verrà insegnato largamente in seguito. A questo fine è stato infatti composto il seguente trattato... Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come Signore dell’universo... dura sempre ed è presente ovunque, ed esistendo sempre ed ovunque, fonda la durata e lo spazio. Poiché ogni particella dello spazio è sempre, e ogni momento indivisibile della durata è ovunque, certamente l’Artefice e il Signore di tutte le cose sarà sempre ed ovunque”.7
    Le osservazioni con le quali Leibniz contesta la concezione newtoniana del moto assoluto, la quale riconosceva a Dio un costante intervento per la correzione delle resistenze dovute all’attrazione dei corpi celesti, alla rivoluzione intorno al Sole ed alla rotazione della Terra sul suo asse, implica pur sempre un ricorso alla teologia, fondandosi sull’affermazione che nulla può limitare l’onnipotenza di Dio, e che dunque il concetto di moto, spazio e tempo assoluti è blasfemo: “Se lo spazio è una realtà assoluta..., sarà più sussistente delle sostanze: Dio non potrebbe né distruggerlo, né mutarlo per nulla. Esso sarebbe non soltanto immenso nella sua totalità, ma anche immutabile ed eterno in ogni sua parte, e vi sarebbe un’infinità di cose, eterne, fuori di Dio.”8
    A proposito della teoria secondo la quale Dio correggerebbe di tanto in tanto le perturbazioni del creato, Leibniz afferma: “Newton ed i suoi seguaci hanno un’idea molto ridicola dell’opera di Dio. Secondo loro, Dio ha bisogno di caricare di tanto in tanto il suo orologio, che altrimenti cesserebbe di agire. Egli non ha avuto tanto accorgimento da imprimergli un moto perpetuo. Inoltre la macchina di Dio è, secondo loro, così imperfetta, che Dio è costretto, di tempo in tempo, a ripulirla con un lavoro straordinario, ed anche ad aggiustarla, come fa un orologiaio con la sua opera; ma un operaio è un artefice tanto più inesperto quanto più spesso è obbligato a ritoccarla e a correggerla.”9 Per Leibniz l’attività miracolosa di Dio nel mondo “non è per sostenere i bisogni della natura, ma quelli della grazia”, tanto che “giudicare diversamente, sarebbe avere un’idea molto bassa della saggezza e della potenza di Dio.”10
    La disputa tra Leibniz, Newton e Clarke, dimostra che sia l’intuizione di base (l’a priori: Dio reggitore del mondo), che la tesi di Leibniz o l’idea newtoniana del moto assoluto e dell’intervento correttivo di Dio sulle resistenze, rappresentano delle ipotesi, nonostante esse si siano dimostrate generalmente feconde per la scienza. La validità dell’approccio teistico della scienza è ipotetico, allo stesso modo di quello naturalistico. La scienza dovrebbe contemplare ogni ipotesi che regge ai tentativi di confutazione ed aderisce allo spirito della tolleranza e del pluralismo.
    Supporre che il libro di E. B. Ricco e G. Pons rappresenti il tentativo di rendere confessionale la scienza dimostrandone la dipendenza dal teismo dei padri fondatori del XVII e XVIII secolo, sarebbe un errore, perché esso è pervaso dall’attitudine a considerare l’importanza che ogni ipotesi e scuola di pensiero riveste per la ricerca. Enrico Rambaldi a questo riguardo afferma: “Ciò che ritengo è che qualsiasi ricerca che generalizzi, metta in luce connessioni e dunque sensibilizzi alla complessità, all’ineliminabile aporeticità, alle implicazioni filosofiche, politiche, morali ecc., che qualsiasi ricerca di tal fatta sia un contributo ad una concezione intrinsecamente pluralistica, e quindi tollerante, della cultura e del vivere civile.”11 Ciò non toglie che in esso si rifletta il disagio ed il disappunto per l’emarginazione a cui certo naturalismo crede di poter relegare le minoranze teistiche.
    L’introduzione del volume di Ricco e Pons è caratterizzata da tale attitudine pluralistica e tollerante, benché si faccia denuncia dei comportamenti monopolistici (se non del tutto faziosi) di certa ricerca ateistica. Enrico Rambaldi scrive: “Non la confessionalità è scomparsa dai laboratori scientifici, pendendo in tutti il crocefisso ed essendo in stragrande maggioranza i ricercatori scientifici italiani atei - si fa per dire -, ma battezzati, comunicati, cresimati, sposati in chiesa ed usi a far battezzare, comunicare e cresimare i figli, rarissimamente richiedendone anche solo l’esonero dall’insegnamento della religione nelle scuole; esonero che vien richiesto in modo massiccio non da questi sedicenti atei, ma dalle minoranze religiose: ebrei, protestanti, testimoni di Geova, ecc. Ciò che nei laboratori, nei dibattiti e nei libri (anche di divulgazione) manca è la spinta ad interpretazioni filosofiche generali della scienza. Dio è scomparso, e sia, ma trascinando con sé un aspetto irrinunciabile della riflessione scientifica, lasciata impoverita di considerazioni generali: domina, vero, un ateismo tacito, ma connesso ad un ancor più radicale agnosticismo filosofico, sicché gli atei militanti dei nostri giorni, pronti a bollare come oscurantista o fiacco chiunque avverta la profonda eco implicita anche in tematiche di fede, si trovano da un lato ad esultare per l’ateismo dei fisici, e dall’altro a maledirli perché docili strumenti del potere economico e militare. Avessero, questi fisici, problemi etici e filosofici reali, pur da credenti, anziché il protagonismo che, anno dopo anno, esibiscono - per esempio ad Erice -, sarebbe meglio per tutti.”12
    Ciò che si mette in questione è uno dei cardini ideologici della nostra società: “che la scienza in quanto tale sia, come dire, il foro privilegiato ed il monumento inscalfibile di un conformismo ateo, il regno di apodittiche certezze.”13

    A. Inadeguatezza delle tradizionali definizioni metafisiche
    Sarà pure che la scienza contemporanea possa in genere considerarsi autonoma ed indipendente dalle premesse teistiche dei padri fondatori, ma il carattere ipotetico delle tesi metafisiche di quest’ultimi non può essere ignorato.
    A ben guardare il teismo di Newton, si scoprono nuovi atteggiamenti che mostrano il pregio di una maggiore concretezza nel considerare le realtà metafisiche in relazione coerente con il mondo fisico: “Dio avrebbe quindi immesso l’intera massa del mondo in questo spazio assoluto, e le forze centrifughe sarebbero la manifestazione dinamica dell’esistenza di moti assoluti entro questo spazio. Così lo spazio e la durata assoluti diventano per Newton la realtà dell’onnipresenza ed onnipotenza di Dio.”14 L’occasione era propizia per la riformulazione teorica delle sostanze metafisiche quali entità energetiche omogenee con l’energia dei corpi fisici, ma Newton dinanzi al dogma tradizionale dell’immaterialità di Dio (su cui si conviene, pur esigendone una esplicitazione adeguata) forse non ha neppure pensato a procedere ulteriormente nell’idea del coinvolgimento di Dio nella spiegazione del reggimento di tutte le cose, non solo come Signore dell’universo, ma come energia che determina le leggi ed il movimento dei corpi: “C’è un Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente, che nello spazio infinito, come fosse nel proprio sensorio, vede le cose nella loro stessa interiorità e le percepisce e le comprende interamente per la loro immediata presenza in lui... un Agente potente ed eterno che, essendo in ogni luogo, è in grado di muovere con la sua volontà i corpi nel suo infinito e uniforme sensorio.”15 Si è insistito per secoli sull’incorporeità di Dio e dello spirito, senza adoperarsi nel precisare che tale affermazione implica sì una diversità nei confronti della precaria materialità del mondo, ma non la necessità che lo Spirito non disponga di una consistenza, di una energia, nonché di una sostanza, intelligibilmente, coerentemente ed omogeneamente correlate alla fisicità del mondo visibile. L’etericità di Dio non può corrispondere ad una fluidità senza consistenza ed energia e la ragione per la quale le stesse Sacre Scritture impediscono l’attribuzione a Dio della materialità e della corporeità è determinata dall’elevatezza della sua essenza, e dunque dall’inadeguatezza dei termini tradizionali ad esprimerla.
    La necessità di trasferire la discussione delle sostanze metafisiche entro ambiti e categorie che siano nello stesso tempo compatibili con le sostanze fisiche (onde superare l’impossibilità per la scienza di concepire ed ammettere teorie ed ipotesi che non si riferiscano a sostanze consistenti ed a fenomeni almeno teoricamente sperimentali) dovrebbe prevedere termini e concetti adatti a spiegare una trascendenza che può essere proposta come un diverso livello di fisicità, il quale è detto tradizionalmente metafisico. La formulazione di tali termini e concetti rientra tra le prerogative che le Sacre Scritture attribuiscono a se stesse, nonché tra i compiti di competenza della teologia e della filosofia, la cui vocazione consiste anche nel valutare criticamente l’attendibilità e la logica dei propri procedimenti. Senza compiere una tale operazione non si può che rinunciare all’elaborazione scientifica di una ricerca relativa alla letteratura biblica, a meno che questa non venga compiuta secondo le categorie ed i criteri del naturalismo e sacrificando ogni prospettiva sovrannaturale e perciò Dio stesso, lo Spirito, e l’idea di miracolo e rivelazione.
    Nel caso della trattazione dell’argomento del presente volume, sarebbe inevitabile giungere alle medesime conclusioni degli studiosi che affrontano il libro di Daniele come un’opera mitologica e pseudoepigrafica, a dimostrazione del fatto che i risultati della ricerca biblica sono influenzati dai principi del metodo sperimentale inteso nei termini del naturalismo. Non riconoscere la necessità di stabilire una relazione coerente tra il mondo visibile e quello spirituale, tra finito ed infinito, significa dichiararsi alieni alla scienza e rinchiudersi entro gli schemi esclusivamente edificazionali del biblismo pietistico, rinunciando ad ogni credibile progetto etico e teocratico. L’idea di una scienza a misura di una metafisica religiosa che riduce i suoi contenuti ad un’assoluta etericità dello Spirito, e che nello stesso tempo riguardi l’insieme delle discipline umanistiche, non può essere riconosciuta dalla comunità scientifica, per la semplice ragione che ogni ipotesi relativa allo studio dei fenomeni deve riferirsi a sostanze dotate di una concreta energia e consistenza, e dunque reali.
    Se però la metafisica potesse assumere le connotazioni di una disciplina che si occupa di un’ipotetica realtà, la cui dimensione, pur non essendo ancora definita, è pur sempre compatibile con una qualche forma di fisicità, allora potremmo intenderla quale ultrafisica, evitando quella implicita tensione tra fisica e metafisica. Per ultrafisico o metafisico non si dovrebbe far riferimento necessariamente ad una realtà spazialmente lontana, bensì ai livelli subatomici ai quali è collegata la spiegazione ultima della materia e delle sue leggi, nonché al centro motore dell’universo ed alla relativa energia, dovunque essa sia, oltre che alle entità intelligenti eventualmente esistenti in una tale dimensione pur sempre reale, benché a livelli differenti, superiori o più profondi della fisicità ordinariamente sensibile, e perciò ultrafisiche. La distinzione tra realtà fisica ed ultrafisica si pone specialmente a motivo dei limiti strumentali della ricerca e della sensibilità umana, altrimenti non si porrebbe teoricamente necessaria, perché l’intera realtà sarebbe talmente conoscibile che risulterebbe essenzialmente conosciuta.

    B. Limiti della fisica classica
    Per la fisica classica tutto ciò potrebbe suonare come un’assurdità, ma dovremmo ricordare che le relazioni espresse dalle leggi di quest’ultima concernono operazioni tra numeri reali, e che proprio lo studio dei fenomeni atomici agli inizi del secolo è risultato problematico. Interpretando però le leggi della fisica (quantistica) come l’indicazione di operazioni tra enti matematici (matrici) diversi dai numeri reali, la rappresentazione corretta dei processi atomici può essere ottenuta.16
    La fisica classica si è già trovata, dunque, di fronte alla necessità di affrontare i fenomeni atomici adottando modelli ipotetici e probabilistici, giacché “in questo modo la previsione del risultato di un esperimento, a partire dai dati di osservazione (ognuno dei quali è rappresentato da un numero), risulta espressa da un insieme di numeri (reali), ciascuno con una certa probabilità.”17
    La legittimità dell’ipotesi di una dimensione spirituale che interagisca e spieghi la realtà fisica, è suggerita da leggi fisiche codificate al seguito “delle regolarità osservate nel succedersi degli eventi, espresse mediante operazioni su enti o simboli matematici (numeri o scalari, vettori, tensori, matrici...), le quali ci consentono di prevedere il risultato di esperimenti od osservazioni precedenti.”18 Si tratta di entità matematiche che permettono una conoscenza ed una previsione di fenomeni fisici, la cui essenza però pur sempre sfugge. In altre parole le leggi fisiche convenzionali sono il risultato delle osservazioni statistiche di fenomeni che non hanno ancora raggiunto i livelli subatomici più avanzati, ragion per cui l’affermazione popperiana secondo cui non esistono leggi fisiche vere, “se a questo aggettivo si attribuisce un significato assoluto ed universale, quasi si trattasse di norme assegnate all’Universo dal suo Creatore, norme che noi andiamo via via scoprendo,” è fondata.19
    Il metodo sperimentale si adegua e si perfeziona nella misura in cui la scienza impara il linguaggio in cui l’universo è costruito, perciò il limite nella verifica dell’ipotesi di una dimensione ultrafisica o spirituale concerne lo scienziato ed i suoi metodi sperimentali e non necessariamente l’ipotetico oggetto di studio, purché quest’ultimo riguardi sostanze effettivamente reali e dotate di energia. Le leggi fisiche convenzionali non hanno una validità assoluta pur essendo confermate nella realtà ordinaria: “Ne segue che le leggi fisiche hanno una validità limitata ad un certo ambito e ad una certa precisione degli esperimenti che sono chiamate a descrivere. Se per vere si intende la loro validità entro quei limiti e non oltre, esse sono indubbiamente vere, cioè verificate. Esiste però un’utilità delle leggi fisiche che ha un’enorme importanza metodologica per la ricerca scientifica: spesso le leggi fisiche sono impiegate per effettuare previsioni che eccedono l’ambito entro cui sono state verificate. In questo senso esse hanno la funzione di ipotesi di lavoro, perché ci permettono di non procedere alla cieca nell’esplorazione del mondo; ciò significa che dobbiamo essere preparati tanto alla loro verificazione in questo ambito più vasto, quanto alla loro falsificazione.”20
    Il limite delle leggi fisiche risulta più evidente quando se ne considera l’aspetto euristico-predittivo delle teorie cosmologiche. Per quanto concerne la teoria del Big Bang, la teoria generale della relatività (la quale descrive il comportamento dei grandi aggregati di materia costitutivi dell’Universo) e la teoria quantistica dei campi e delle particelle elementari, sulle cui leggi il modello (rivelato dalle osservazioni astronomiche) è stato costruito, risultano essere compatibili solo entro certi limiti. Il cosiddetto limite di Planck concerne densità, temperature del sistema e dunque l’energia massima delle particelle, al di là delle quali le due leggi non sono più applicabili, e quindi non si è più in grado di descrivere il comportamento dell’Universo reale. Il Big Bang è in sostanza un modello cosmologico con un suo centro motore che si presta inevitabilmente a riflessioni metafisiche, giacché ipotizzare la nascita dell’Universo equivale a porsi sulla linea del Creazionismo. La teoria della relatività e quella dei campi non hanno subito una verifica fino al limite di Plank “e pertanto si potrebbe scoprire che l’una o l’altra (o tutte e due) cessano di essere valide ancora prima di raggiungerlo.”21 Vi sono tutti gli ingredienti di un modello metafisico, perché nonostante lo sperimentalismo, lo studio di ciò che vien detto finito si dissolve inevitabilmente nell’infinito, allo stesso modo in cui il fisico si traduce in metafisico, e viceversa. Perché dunque escludere la possibilità che la profondità ed i fondamenti dei fenomeni fisici siano proprio laddove la tradizione metafisica ha creduto d’individuare una realtà spirituale incorporea ed immateriale?
    La scientificità di una teoria non è determinata soltanto dal carattere sperimentale del fenomeno, bensì anche da un elevato contenuto ipotetico capace di spiegare la realtà senza soluzione di continuità tra fisico e metafisico, per cui anche le entità spirituali rientrerebbero ipoteticamente in una relazione coerente, anche se differenziata, col mondo fisico, la sua struttura e le sue leggi. La metafisica non è dunque necessariamente mitologia, tanto più che nell’epistemologia contemporanea prevale “la tesi che la scienza non sia in grado di attingere la vera natura delle cose, e che, di conseguenza, le teorie scientifiche non pretendono più di rispecchiare l’assetto ordinato del mondo, ma al contrario si configurano come costruzioni in parte convenzionali che valgono come strumenti utili a fornire spiegazioni, sempre provvisorie e modificabili, di certi raggruppamenti di fenomeni.”22

    C. L’origine aristotelica dell’aporia metafisica
    La storia della filosofia e delle religioni appare segnata da due opposte concezioni della divinità: l’una estremamente naturalistica (panenteismo e panteismo), l’altra estremamente spiritualistica, al punto che la divinità tende a ridursi ad atto puro e ad intelligenza incorporea, benché, a differenza di Anassagora, Aristotele sembra attribuire una certa consistenza alla sostanza divina, ma sempre non sensibile e senza grandezza, (e pertanto inconcepibile per la scienza sperimentale) giacché egli assume che tale debba risultare necessariamente un’entità eterna ed infinita: “Che dunque ci sia una sostanza eterna, immobile e separata dalle sostanze sensibili è evidente da ciò che abbiamo detto. Si è mostrato anche che questa sostanza non può avere nessuna grandezza, ma è senza parti ed indivisibile. Infatti essa muove per un tempo infinito, ma nulla che sia limitato può avere una potenza infinita. Poiché ogni grandezza o è infinita o è finita, quel principio non può avere, per la ragione che abbiamo detto, una grandezza finita; ma non può neppure avere una grandezza infinita, perché in generale non esiste nessuna grandezza infinita. è abbiamo mostrato anche che è impassibile e immutabile, perché tutti gli altri movimenti sono successivi al movimento locale.”23
    Da una parte l’affermazione secondo cui Dio non può avere una grandezza infinita, perché in generale ciò non può essere, e la necessità d’interpretare la dimensione spirituale facendo riferimento a comuni categorie scientifiche, dall’altra, hanno contribuito all’elaborazione di concezioni teistiche quali quelle di Stuart Mill, Peirce e James. Mill sostiene che un dio finito, ossia limitato nella potenza dalla materia e dalla forma, è tutto ciò che l’esperienza del mondo permette di concludere circa un creatore del mondo.24 Pierce si rifiuta perciò di considerare Dio onnisciente ed onnipotente in senso proprio e dunque James lo riconduce ad un sistema imperfetto e temporale: “Dio non è l’assoluto ma è esso stesso la parte di un sistema, e la sua funzione è non interamente dissimile da quella delle altre parti più piccole e perciò dalla nostra. Avendo un ambiente, esistendo nel tempo e operando nella storia come noi stessi, egli sfugge all’estraneità da tutto ciò che è umano, alla statica intemporalità del perfetto assoluto.”25 James formula in tale maniera un’ipotesi teistica credibile per la scienza, ma smarrisce taluni contenuti proprio di quella fede che intende rendere verosimile. Il metodo scientifico di James è in linea con l’obiettivo di salvaguardare i contenuti della fede finché non se ne dimostri l’inconsistenza o la falsità, però non riesce a conciliare il complesso degli attributi divini della teologia biblica con l’esigenza dell’adozione di categorie comuni sia allo studio delle entità fisiche che a quelle spirituali. Il metodo che egli ha proposto risulta in sintonia con le indicazioni del Popper, giacché “occorre che l’ipotesi prospettata dalla credenza sia di quelle che non è possibile dimostrare né vera né falsa; occorre pure che sia un’ipotesi viva cioè che faccia un reale appello allo spirito di chi se la prospetta; e occorre infine che essa sia importante, cioè decisiva per la vita dell’individuo e non si riferisca a questioni banali.”26
    La tesi fondamentale della volontà di credere di James “è che, dal momento che la funzione del pensiero è quella di servire all’azione, il pensiero non ha il diritto di inibire o bloccare credenze utili o necessarie ad un’azione efficace nel mondo. Ciò non implica certo il diritto di credere a tutto ciò che si vuole.”27
    Il rischio di andare incontro all’errore non riguarda soltanto coloro i quali sostengono ipotesi teistiche per la spiegazione della realtà, bensì anche i naturalisti e tutti gli altri, perché trattandosi pur sempre di ipotesi, il rischio teorico di non risultare alla fine veritieri per la scienza riguarda tutti: “James fa appello a questo proposito alla scommessa di Pascal e la interpreta nel senso del rischio inevitabile che la fede, come la non-fede, comporta. Ma mentre la rinuncia alla fede è rinuncia a tutti i vantaggi eventuali che da essa possono derivare, la fede invece ha questo vantaggio: può provocare la sua propria verificazione.”28 Se però un’ipotesi non può essere dimostrata né come vera né come falsa, se è viva ed importante, allora “l’uomo ha il diritto di credere, senza aspettare che essa diventi un’ipotesi dimostrata.”29
    Il criterio del può essere conduce alla necessità del pluralismo sia scientifico che sociale. E’ la libertà di coscienza che rappresenta la condizione essenziale per ogni autentico e complessivo progresso. Un’ideologia, un popolo, una religione che pretendono o si aspettano libertà democratiche e privilegi accademici, ma che non sono disponibili quando si tratta di concedere altrettanto, non costruiscono in favore della verità, ponendosi anzi nella condizione di dover imporre o subire ogni opportuna forma di colonialismo ed oppressione, dovendosi la civiltà cautelare nei loro riguardi per non soccombere, oppure patirne l’imbarbarimento: sia che si tratti di rapporti accademici (tra individui o scuole di pensiero) che di relazioni culturali, sociali, politiche o religiose, sia in ambiti territoriali circoscritti che internazionali, la dinamica e la strategia sono le stesse. La scienza non teme la formulazione delle ipotesi vive, importanti e non confutate, perché la verità è come la luce, giacché come le tenebre fuggono all’apparire della luce, così la falsità e la menzogna fuggono dinanzi al vero, nonostante ogni sorta di pretesto nel nome stesso di ciò che vi è di sacro possa essere tentato e si possa propagandare una parvenza di ortodossia, denunciando i patimenti subiti, ma tacendo il proprio fanatismo e le violenze inflitte non sempre soltanto psicologiche e sociali.
    La visione spiritualistica di James esige un universo pluralistico, “cioè un universo in cui la molteplicità e l’indipendenza relativa degli esseri e delle coscienze renda possibile l’indeterminazione, il caso, la libertà e in cui il progresso sia perciò la risultante della cooperazione degli sforzi.”30 L’errore credo sia però nel voler estendere il pluralismo da un universo in via di formazione ed alla ricerca della propria identità, alla divinità. Pluralismo ed ipoteticità riguardano indubbiamente l’esistenza storica dell’uomo, perlomeno fino a quando i problemi dell’identità umana e della scienza non verranno risolti: “L’universo progressista è concepito secondo un’analogia sociale, come una molteplicità, un pluralismo di forze indipendenti; esso riuscirà esattamente nella misura in cui il più gran numero delle sue stesse forze lavoreranno al suo successo. Se nessuna d’esse vi lavora, esso fallirà; se ciascuna farà del suo meglio, esso riuscirà. Così i suoi destini sono sospesi a un se o piuttosto a una serie di se - ciò che torna a dire, nel linguaggio proprio della logica, che, essendo il mondo fino ad oggi incompiuto, il suo carattere totale non può che essere espresso che per ipotesi e non certo con proposizioni categoriche.”31
    Non condivido l’idea di coinvolgere Dio come parte di un sistema perfettibile, motivati (come credo sia James) dalla necessità teoretica di assimilare la dimensione spirituale alle categorie della fisica classica, credendo con ciò di superare la negazione (in generale) aristotelica di una qualche fisicità divina che rientri nell’idea di grandezza. Il risultato consiste in una riduzione, giacché in un universo di questo genere, Dio stesso non può essere concepito né come onnisciente né come onnipotente: esso è un Dio finito: “Nel sistema pluralistico, Dio, non essendo più l’assoluto, ha funzioni che possono essere considerate non del tutto dissimili da quelle delle altre parti minori, e perciò simili alle nostre stesse funzioni. Avendo un ambiente a lui esterno, esistendo nel tempo e creando la sua storia proprio come noi stessi, egli sfugge a quella estraneità rispetto a tutto ciò che è umano, la quale è propria dello statico, intemporale e perfetto Assoluto.”32
    Il superamento dell’aporia metafisica (ereditata dai presocratici e resa sistematica da Aristotele) non implica necessariamente la riduzione degli attributi divini, perché potremmo ipotizzare categorie di grandezza adatte alla divinità se riuscissimo a sfuggire alla generalità del loro uso ordinario. Quando generalmente pensiamo alle grandezze dei corpi celesti e della materia dovunque essa sia, pensiamo immediatamente allo spazio, alla massa, al tempo, oltre che all’energia, tradendo la dipendenza del pensiero dalle comuni esperienze dei fenomeni sensibili. La teoria della relatività e la teoria quantistica dei campi indicano la possibilità di un incremento dell’energia e dunque della densità delle particelle che costituiscono i grandi aggregati di materia fino al limite di Plank, dopodiché esse non sono più tra loro compatibili. Se tale limite non potesse essere superato e se la teoria del Big Bang fosse fondata, l’esplosione che ha determinato l’origine dell’Universo risulterebbe la conseguenza di una massa aventi un’energia ed una densità limitate, per cui sarebbe arduo ipotizzare l’esistenza di entità le cui grandezze sono infinite. L’ipotesi è che non soltanto possa essere superato il limite di Plank, ma che l’incremento di densità ed energia delle particelle possa essere tale da determinare la dissoluzione o la transizione della materia in una dimensione fisica che non può essere descritta neppure dalle recenti teorie, le quali si presenterebbero in tal caso superate alla pari della fisica quantistica.
    I tentativi di spiegare l’origine dell’Universo entro i limiti di Plank si ritrovano nella situazione di dover individuare la causa di una presunta causa prima (a meno che non si faccia ricorso all’eternità della materia dell’Universo), perciò l’esigenza di una teoria superunificata che possa spiegare sia il campo gravitazionale che gli altri campi fondamentali non può facilmente agevolarsi di una teoria che non riconduca tempo, spazio e materia ad un punto radicalmente iniziale, che non sia il ritorno ciclico alla compressione del Big Bang. E’ chiaro che una visione panteistica dell’Universo non può essere del tutto filosoficamente esclusa, ma il tentativo di superunificare le leggi fisiche in relazione a tale teoria non si presenta attualmente più probabile di quanto non sia in relazione a premesse metafisiche creazioniste. E’ prevedibile che possa esservi una notevole simpatia da parte degli scienziati naturalisti per il Panteismo, ma è altrettanto prevedibile che una tale simbiosi non possa prospettare una soluzione positiva all’esigenza di conoscenza assoluta ed al desiderio di eternità dell’umanità, che non sia la dissoluzione dell’identità spirituale nel brodo universale: approdo finale di turbolente reincarnazioni. E’ anche una questione di gusti ed aspirazioni, ma dubito che una visione panteistica sia in grado di confutare il principio di causa prima, eterna ed assoluta che caratterizza le scuole di pensiero di tipo creazionista.
    All’ipotesi naturalistico-panteista (apparentemente abile nel conciliare fede e scienza), si vuol rispondere delineando in alternativa un’ipotesi naturalistica che sconfini in una concezione metafisica riformata: un naturalistismo monoteistico-giudeocristiano, che tenga in dovuto conto il pensiero biblico e la sua prospettiva sovrannaturale, epurata dell’aporia metafisica che l’aristotelismo ed il neoplatonismo hanno trasmesso al Cristianesimo in occasione delle operazioni di traduzione culturale che la Patristica e la Scolastica hanno compiuto (nel bene e nel male) nei confronti delle Sacre Scritture, allo stesso modo di quanto è accaduto in seno all’Islam ed all’Ebraismo, attraverso i filosofi medioevali arabi ed ebrei.
    Il suggerimento è che un centro motore dell’Universo corrisponda anche al suo ombelico, oltre il quale è la causa e la spiegazione definitiva della realtà. Tale ipotesi rende possibile l’esistenza di un’entità infinita e concreta, ma nondimeno non materiale e corporea nei termini a cui in generale facciamo ricorso, e perciò la definizione di Dio quale Spirito non risulterebbe per la scienza così folle, inconcepibile ed impossibile come si vuol far credere, perché materialità e spiritualità potrebbero risultare ultrafisicamente in armonia.
    L’ipotesi dunque di una realtà spirituale e di una divinità i cui attributi siano quelli biblici è scientifica, nel senso che è viva, importante e non confutata, benché non ne sia dimostrata la fondatezza. L’ipotesi scientifica di una tale divinità è necessaria onde poter avvicinare la letteratura apocalittica ed il libro di Daniele, senza negarne il principale riferimento: un Dio Sovrano ed Onnipotente, Signore dei tempi e degli eventi, che depone i re o li innalza, il cui dominio non ha fine, il cui regno dura per sempre, e che ha il potere di umiliare i superbi.33
    La divinità che però è scontata per il ricercatore teista o monoteista deve però rappresentare un’ipotesi nel momento scientifico della sua applicazione: penso che i credenti e gli scettici che si oppongono a tale affermazione, per il fatto che i primi non ammettono che Colui che è venga esposto ipoteticamente, e gli altri non tollerano, né tanto meno concepiscono quel che essi hanno deciso che non debba essere, ostacolano sia la religione che la scienza. Nel nostro caso è sufficiente l’ammissione di un come se, in quanto ipotesi sufficiente ed indispensabile per la trattazione del nostro soggetto.

    D. La filosofia della storiografia
    E’ un luogo comune che le filosofie della storia non dovrebbero influenzare l’indagine storiografica, a partire dall’affermazione che esse non determinano ed anzi ostacolano l’oggettività della ricerca scientifica. Hegel e Marx hanno trattato la filosofia della storia quale teorizzazione arbitraria e non garantita, mentre il filosofo C. D. Broad l’ha definita come filosofia speculativa della storia.34 A quest’ultima (considerata alla stregua di anacronistico retaggio della superstizione metafisica) si è creduto bene di sostituire la filosofia critica della storia, ovvero la filosofia della storiografia, il cui criticismo nell’analisi del processo di composizione della storia non è necessariamente esclusivo dominio dei naturalisti: “Writers in this field usually appear to be making dispassionate analyses, uninfluenced by other theorists. Yet their statements are largerly formed by two contrasting ways of looking at the subject - two ways which themselves have a history. Their ideas can be recognized as growing to a surprising extent out of the two traditions... The two schools of thought about historiography are rooted in the alternative worldviews which emerged in the eighteenth and early nineteenth centuries, one being associated with the Enlightenment and the other being thrown up in the romantic era. Contemporary philosophy of historiography shows traces either of the positivism that was so clearly related to the idea of progress or of the idealism in whose atmosphere historicism was born and sustained.”35
    Se consideriamo che l’idealismo è fortemente caratterizzato dal pensiero metafisico si potrà avere un’idea di quanto la filosofia critica della storia non sia esclusivo patrimonio dei positivisti sperimentalisti, la cui pretesa di non essere influenzati da alcuna filosofia che non sia l’oggettiva scienza sperimentale risulta infondata: “... when they philosophize about historical method without an appreciation of the background of their views, it does not mean that they are relatively free from influences deeply embedded in the past... Whether they realize it or not, contemporary philosophers of historiography display traits inherited from earlier schools of thought.”36
    In altre parole la filosofia speculativa di natura metafisica non è facilmente escludibile dall’orizzonte critico della filosofia storiografica, e dunque per studioso storico-critico non si dovrebbe intendere esclusivamente il naturalista che si occupa di discipline storiche: “It follows that C. D. Broad’s division of the philosophy of history into speculative on the one hand and critical on the other is not as sharp as it may at first sight appear. The critical is an offshoot of the speculative.”37 Inevitabilmente la filosofia storiografica si ricolloca nella prospettiva metafisica che gli è propria, allo stesso modo di quanto avviene per le scienze esatte, per la semplice e tradizionale ragione che lo studio di qualsivoglia sostanza esige la formulazione di teorie che trascendono l’osservazione fenomenologica e le categorie della fisica quantistica. Trattando delle vicende umane e del destino dell’uomo, l’indagine storiografica presenta con maggiore problematicità l’esigenza di una tale collocazione.


    a. Interferenze antropologiche nelle divergenze storiografiche
    David Bebbington ha sostenuto che “the starting-point of any analysis of historiography is its estimate of human beings, the subject-matter of history.”38 La formazione ed i riferimenti antropologici dello storico caratterizzano pesantemente i risultati dell’indagine storiografica, a seconda dell’incidenza e della portata della precomprensione filosofica dei reperti e delle fonti.
    Quel che avviene per lo studio del libro di Daniele è esattamente la stessa cosa, perché se l’uomo è inteso naturalisticamente, la sua prospettiva apocalittica ed il suo carattere sovrannaturale rappresentano un mito necessario al programma patriottico dei Maccabei. Viceversa, lo stesso libro dischiuderebbe l’ipotesi di una spiegazione spirituale e metafisica della storia e dell’uomo.
    Il positivismo tratta l’uomo come esclusiva componente della natura, riducendolo ad oggetto, mentre l’idealismo lo considera come separato da essa, elevandolo ad uno status unico.
    Il vero scontro non è tanto tra fisici e metafisici, quanto piuttosto tra positivisti ed idealisti, e ciò che è in discussione non è il metodo sperimentale quanto piuttosto l’estensione delle realtà a cui la ricerca dovrebbe far riferimento, nonché l’origine e la natura dell’uomo: “It is upon the incompatibility of these estimates that the stark contrast between the two schools rests.”39 Alla medesima conclusione giunge Raymond Aron, il quale si propone di confrontare comprensione e cause.40 In primo questi esplora il metodo di comprensione, con speciale riferimento a Dilthey, ed esamina la metodologia delle scienze sociali basata sul concetto di causa. Dopodiché, dopo aver tentato la sintesi dei diversi punti di vista, ne trova ardua la combinazione, a tal punto da concludere che la complessità del mondo della storia corrisponde ad una antropologia pluralista.41
    La divergenza tra i due punti di vista storiografici è la conseguenza di un disaccordo sulla natura dell’uomo, perciò “Aron pursues the quest no further”.42 A questo punto David Bebbington suggerisce che l’essenza naturalistica dell’approccio antropologico del positivismo possa conciliarsi con quello dell’idealismo sulla base di un’antropologia d’ispirazione cristiana che a sentir lui supplirebbe ad una lacuna: “a way of integrating the alternative anthropologies...”43 Vediamone le sue ragioni: “Human beings, on the Christian view, are strangely ambivalent. On the one hand man is an insignificant part of the created world: When I look at thy heavens, the work of thy fingers, the moon and the stars which thou hast established; what is man that thou art mindful of him, and the son of man that thou dost care for him? 44 On the other hand, as the psalmist hastens to say in the next verses, man is singled out for greatness: Yet thou hast made him little less than God, and dost crown him with glory and honour. Thou has given him dominion over the works of thy hands; thou hast put all things under his feet.45 Human beings are both made of dust and created in the image of God.46 There is continuity with nature and yet discontinuity as well. The fissure within man is even sharper because, despite his similarity to a holy God, he is inextricably bound up in sin. He is part and parcel of a world gone wrong as well as enjoying an affinity with a God who embodies the right.”47
    La sintesi che ne deriva rappresenta una base di confronto, forse accettabile per l’idealismo ma poco probabilmente per il positivismo, il cui obiettivo è quello di fondare l’illuministico-baconiano regnum hominis, ad opera della scienza e della tecnica, e presso il quale, non essendovi posto per una divinità trascendente della fase teologica o metafisica, è il culto dell’umanità a rappresentare la religione positiva. Il nuovo culto non ammettendo la divinità trascendente, neppure ne può concepire l’origine o la componente spirituale dell’uomo.
    Anche qualora si riuscisse nel tentativo di riformulazione dei termini metafisici, onde ricondurre spirito e materia a comuni categorie per lo studio della realtà, ed interpretando la trascendenza come entità attualmente fuori della portata dell’uomo (benché teoricamente scientifiche), permane l’idolatrica attitudine all’antropocentrismo che rende incompatibile il positivismo con l’antropologia cristiana. Nella misura in cui il positivismo in senso largo tende a coincidere con il naturalismo è però possibile il dialogo, perché la prospettiva ultrafisica della metafisica, propone quest’ultima come naturalismo spiritualistico, nonostante l’apparente eterogeneità di tale combinazione. Talune tendenze positivistiche verso il materialismo metafisico si sono verificate con J. Moleschott, L. Büchner, K. Vogt, E. Haeckel.
    La mia opinione è che le sintesi e le conciliazioni dell’antropologia cristiana vanno sì realizzate nei confronti delle entità naturalistiche disponibili, ma la reazione antipositivistica della filosofia europea tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, andrebbe aggiornata e ricostituita, rileggendo con maggiore cura ed attenzione i contributi dell’idealismo e del neoidealismo italiano, il quale essendosi imposto forse come la maggiore reazione al positivismo, permetterebbe a pieno titolo la riaffermazione della filosofia metafisica per un proficuo ed accademico confronto col naturalismo (anche positivistico), a meno che non sia l’affronto più che il confronto a farsi strada.
    Spiacevoli ed eventuali contrapposizioni nei confronti del positivismo non indicherebbero necessariamente avversione per i laburisti od in genere per la Sinistra, perché la medesima filosofia può rappresentare il fondamento più congeniale di ogni tipo di autarchia, spesso introdotto da credenziali idealistiche, ma celando le più perniciose finalità innescate (anche se involontariamente) dal positivismo: il regnum hominis può anche essere (come sempre finisce per essere) la dittatura di un sol uomo, a destra, al centro od a sinistra.
    Tutte le illusioni della Città dell’Uomo conducono all’autarchia!

    b. Reversibilità della crisi dell’idealismo
    Croce esalta in Hegel “l’odio contro l’astratto ed immobile, contro il dover essere che non è, contro l’ideale che non è reale”. Egli sostiene che “con Hegel Dio era disceso definitivamente dal cielo in terra e non era più da cercare fuori del mondo, dove non si sarebbe trovato di esso che una povera astrazione, foggiata dallo stesso spirito dell’uomo in certi momenti e per certi suoi intenti. Con Hegel si era acquistata la coscienza che l’uomo è la sua storia, la storia unica realtà, la storia che si fa come libertà e si pensa come necessità, e non è più la sequela capricciosa degli eventi contro la coerenza della ragione, ma è l’attuazione della ragione, la quale è da dire irragionevole sol quando dispregia e disconosce nella storia se stessa.”48
    L’dentificazione della storia con la filosofia nella Logica del 1908, rappresenta il tema fondamentale della filosofia crociana. In tale identificazione esistono dei rischi, in quanto non si può dimostrare che la filosofia non si ritrovi ad occuparsi di realtà apparenti, perciò emenderei l’affermazione nel senso che divenire storico e pensiero interagiscono, ma è solo la realtà a cui si riferisce l’autentica filosofia a determinare il senso e la destinazione della storia. Molti fatti concernono il divenire storico, ma non rappresentano sostanze reali della filosofia, perché non tutti i fatti e non tutti i pensieri sopravvivono alla storia ed alla verifica della scienza. Quel dover essere che il divenire storico spesso non contempla e non rispecchia, è la misura delle reali sostanze e dello spirito che plasmano la storia per condurla laddove è inevitabile che giunga.
    Se discutibile è l’identificazione di storia e filosofia, è razionale la dinamica del divenire storico e dunque la relazione tra i fatti ed i pensieri dell’umanità, perciò il contrasto a cui Croce mette capo negli ultimi suoi scritti non è disperatamente privo di soluzione, benchè gli eventi storici non siano regolarmente la produzione dell’autentico pensiero filosofico. Penso che da un punto di vista biblico, la concezione della storia come visione divina del mondo non escluda il divenire storico incompatibile con la giustizia e la verità divina, perché le responsabilità, le scelte, le convinzioni ed il pensiero degli uomini dovranno alla fine dei tempi uniformarsi alla volontà di Dio.
    Anche in questo caso l’antropologia interferisce con la filosofia della storia: infatti credere che la storia sia una dinamica spirituale che proceda da un’umanità in grado di realizzare un assetto del mondo secondo giustizia e verità, equivale al riconoscimento del libero arbitrio ed alla compromissione del principio teologico della grazia assoluta, oltre che delle profezie escatologiche concernenti la rivelazione del Regno di Dio in seguito ad un impatto apocalittico con la Città dell’Uomo.
    Ritengo che filosofia quale logica della verità e storia quale essenza dinamica della giustizia finale degli eventi e dell’assetto del mondo possono essere relativamente coincidenti in quanto correlate al medesimo spirito, il quale è allo stesso tempo spirito di logica, di verità e di giustizia, per cui il mondo non potrà che divenire ciò che lo spirito della storia vuole. Spirito della storia e spirito dell’uomo non sono essenzialmente la stessa cosa, perciò la diversità tra storia in divenire e storia ontologica non può risolversi nell’alterno operare del pensiero e dell’azione, della teoria e della prassi, di due categorie dello spirito e della realtà, che sono l’una per l’altra, e nel loro distinguersi o porsi si risolvono in quella sola unità concepibile che è l’eterno unificarsi,49 bensì in un definitivo atto puro ed attivo dello spirito della storia che è fondamentalmente altro ed oltre gli eventi ordinari, nonostante questi siano del continuo supervisionati ed influenzati dallo Spirito che anima la storia ed illumina (nonostante le sempre più pervicaci resistenze di una pretesa autonomia e lucidità intellettuale) le menti degli uomini: in ciò consiste essenzialmente la mia interpretazione metafisica della storia da una prospettiva biblica.
    L’idealismo che si presentava in Hegel e Gentile come identità tra finito ed infinito, entra in una fase di crisi perché, anziché estendere coerentemente il primo nel secondo, si è voluto ridurre quest’ultimo ad un’idea semplicemente fenomenica del precedente. La ricostituzione critica del principio di unità dell’infinito col finito, quale tematica fondamentale dell’hegelismo, nel senso che il primo è affermativo e solo il secondo è superato, è necessaria al superamento della crisi in cui versa l’idealismo.
    Troppo spesso l’affermazione di Hegel secondo cui “ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”, viene deformata per sostenere l’esclusiva identità tra fenomenologia sperimentale e razionalità convenzionale, trascurando o ignorando il fatto che Hegel intendeva piuttosto affermare l’infinitudine strutturale del finito e la sua intrinseca ed oggettiva razionalità.
    Lo schema dualistico di finito ed infinito, fisico e metafisico, tradisce il limite della ragione umana ed il suo tentativo di delimitare la realtà alla misura della sua fenomenologia, e perciò andrebbe superato in seno a categorie che interpretino la realtà come un complesso fisico (ma non per questo meno ultrafisico), le cui leggi sono da unificare. La formulazione e la verifica delle ipotesi e delle teorie scientifiche dovrebbero ispirarsi ad un atteggiamento di cooperazione e ricomposizione critica dei sistemi filosofici.
    La formula hegeliana “non esprime infatti la possibilità che la realtà sia penetrata o intesa dalla ragione, ma la necessaria, totale e sostanziale identità della realtà e della ragione”, essendo quest’ultima “principio infinito autocosciente”, ed esprimendo “l’identità assoluta della realtà con la ragione... la risoluzione assoluta del finito nell’infinito.”50
    Hegel si è opposto al tentativo di Kant di costruire una filosofia del finito.

    c. Criticismo e ricerca interdisciplinare
    La critica dovrebbe riferirsi, secondo Kant, non a quella “dei libri e dei sistemi filosofici”, bensì alla “facoltà della ragione in generale riguardo a tutte le conoscenze alle quali essa può aspirare indipendentemente dall’esperienza”.51 La formazione wolffiana deve aver indotto Kant a riflettere sugli assunti sovrannaturali del pietismo, il quale tradizionalmente non tollera né promuove alcuna riflessione critico-filosofica circa le proprie affermazioni. La ricerca kantiana inizierebbe, dunque, pensando alla legittimità degli a priori metafisici, proponendo la critica quale “decisione della possibilità o impossibilità di una metafisica in generale e la determinazione così delle fonti come dell’ambito e dei limiti di essa.”52 La critica così intesa appariva come uno dei compiti dell’età moderna, onde consentire alla ragione l’uso legittimo dei suoi diritti. Seguì l’impostazione critica del problema e la condanna della metafisica come sfera di problemi oltre le possibilità della ragione umana, nonché una conseguente caratterizzazione epistemologica della riflessione scientifica. Tale decisione dovette comportare il sacrificio di una descrizione completa ed oggettiva dei fenomeni in favore del carattere convenzionale, economico ed operativo dei concetti e dei procedimenti scientifici. La tesi di Kant secondo la quale le idee della ragione spingono la ricerca scientifica all’infinito, si realizzava appieno proprio a partire dalla decisione di escludere la metafisica dall’orizzonte filosofico. L’epistemologia nell’accezione italiana, piuttosto che in quella anglosassone di teoria generale della conoscenza, fa riferimento specialmente alla matematica ed alla fisica. Ed è proprio nell’ambito di quest’ultime discipline che si sta dimostrando fondata la previsione dell’incapacità di giungere alla formulazione di leggi fondamentali ed unificate che spieghino la realtà. Tutto ciò avviene perché liberandosi di una prospettiva metafisica, il fondamento dell’oggettività del sapere scientifico non può che individuarsi nel soggetto della ricerca e non nell’identità hegeliana di realtà e razionalità. Lo scienziato è senza dubbio un soggetto della ricerca, ma escludere che l’oggettività razionale possa essere prerogativa di un soggetto creante oltre che pensante, è il frutto di quel decisionismo tecnocratico a cui siamo sempre più passivamente abituati e che non ha nulla da spartire con la vera scienza, al punto che ogni complesso d’inferiorità nei confronti delle elaborate ed istituzionalizzate entità positivistiche, è in odore di codardia piuttosto che di effettiva debolezza.
    L’operazione kantiana, all’origine di comportamenti scientifici ed accademici diffusi, sembra rendere attuale l’ammonizione di Platone: “Io penso che se lo studio di tutte queste scienze che abbiamo passato in rassegna è fatto in modo da condurci a intendere la loro comunanza e parentela reciproca e si colgono le ragioni per le quali sono intimamente connesse, la loro trattazione ci porterà alla meta cui ci indirizziamo e la nostra fatica non sarà vana; in caso contrario sarà proprio vana.”53 Nella metafisica Platone riconosceva la dialettica, il cui compito fondamentale è quello di sottoporre a critica le ipotesi che le particolari scienze assumono a proprio fondamento ma che “non osano toccare perché non sono in grado di darne ragione”.54 Lo smembramento contemporaneo delle discipline scientifiche e gli squilibri che ne derivano, si presentano come la conseguenza del ripudio di una scienza prima che stabilisca relazioni e collegamenti. La teorizzazione di una scienza che si occupi delle cause prime, delle sostanze non sensibili, corrisponde al progetto di una filosofia prima di una “scienza di cui andiamo in cerca” che stabilisca le relazioni tra le varie discipline e gli oggetti di ricerca.55
    La scelta di un modello metafisico è una necessità per il progresso stesso delle discipline scientifiche ed il raggiungimento di quella meta che corrisponde alla conoscenza assoluta delle sostanze di cui si occupano. Kant ne riconosce l’importanza ma la riduce ad “una scienza di concetti puri”, relativa a conoscenze che possono essere ottenute indipendentemente dall’esperienza e sulla base delle sole strutture razionali della mente umana. Il noumeno kantiano si riferisce ad un discorso relativo alla realtà in sé, quale può essere conosciuta mediante un’intuizione intellettuale. Si tratterebbe non di una conoscenza effettiva ma di un pensiero di qualcosa in genere, nel quale si fa astrazione da ogni forma di intuizione sensibile.
    Il complesso delle idee metafisiche viene trattato nella Dialettica Trascendentale quale espressione di un assoluto che è inadatto a costituirsi quale oggetto scientifico, facendo riferimento, nella Critica della Ragion Pratica, all’ordine della vita morale.
    Il pietismo riemerge nell’esigenza di ricollocare filosoficamente l’esistenza di Dio, ed in una nuova metafisica che si forma durante l’indagine critica kantiana, ma che, proprio quando potrebbe ricostituire un rapporto coerente tra sostanze spirituali e materiali, ripiega sul sentimentalismo eticizzante della Critica del Giudizio, all’origine di una contrapposizione tra cuore e ragione, fede e scienza, riscontrabile presso le istituzioni moderne, sia civico-religiose, sia accademico-scientifiche, e che risulta aver determinato l’adeguamento sistematico delle prime ai modelli etico-sociali del liberismo economico consolidatosi a partire dallo sviluppo imposto dalle seconde, sicché ci si ritrova oggi a dover far riferimento all’etica del capitale e delle leggi di mercato.
    La mancanza di categorie filosofiche unificanti avrebbe prodotto da una parte lo smembramento delle discipline scientifiche, e dall’altra la mistificazione dei valori metafisici in un sentimentalismo religioso, schizofrenico ed individualistico. La schizofrenia consiste nel patto alienante di non interferenza tra eticismo metafisico-religioso e pensiero logico-scientifico, che si vorrebbe risolvere sentimentalmente: “Da un certo punto di vista il mondo dei fenomeni e quello costituito dalle coscienze morali autonome sembrano privi di ogni comunicazione e destinati a non interferire mai l’uno con l’altro. Tuttavia nella vita etica è implicita l’esigenza che si realizzi in qualche modo un ordine morale nel mondo: l’idea di una totale indifferenza dell’universo fisico alla tensione dell’azione morale, che pure in esso finisce sempre per scaricarsi, è per lo meno disperante. Non è verosimile invece che il mondo dei fenomeni sia in qualche modo già predisposto per accogliere la volontà morale? E in ogni caso possiede l’uomo un organo capace di percepire questa riposta dimensione dell’universo fisico? Secondo Kant un tale organo esiste ed è il sentimento, come principio dei giudizi riflettenti.”56
    L’ontologia fenomenologica di Husserl risulta in linea con la metafisica kantiana, per il fatto che “l’ontologia generale o formale non è che la logica pura che è la scienza eidetica dell’oggetto in generale”57 ma questa volta l’interesse converge specialmente sui principi che costituiscono il fondamento di determinati campi del sapere, detti anche materiali, anziché sui principi generali: “Ogni oggetto empirico concreto si inserisce con la sua essenza materiale in una specie materiale superiore, in una regione di oggetti empirici. All’essenza regionale corrisponde poi una scienza eidetica regionale o, come possiamo anche dire, una ontologia regionale.”58
    L’interpretazione della metafisica quale problematica relativa ai significati di esistenza nel linguaggio delle diverse scienze, alle relazioni fra le diverse scienze ed alle indagini su oggetti che cadono nei punti d’intersezioni o di incontro fra di esse,59 così come la riduzione della sostanza o della causa prima, ad idea pura, non è sufficiente ai fini dell’ipotesi di procedimenti scientifici che permettano il riconoscimento dell’attendibilità e dell’autorevolezza delle categorie bibliche, alla base della tradizione apocalittica e del libro di Daniele. E’ inevitabile la formulazione di una teoria scientifica che supponga una relazione coerente tra l’ordine fisico o fenomenologico e quello metafisico od ultrafisico.
    La riduzione dell’ordine spirituale a vaga e generica idea pura, priva di conseguenze filosofiche sistematiche, comprometterebbe la possibilità di un sistema filosofico globale ed unitario, ed inevitabilmente implicherebbe l’interpretazione dell’apocalittica in chiave mitologica e fantastica.


    E. Enunciazione del metodo scientifico in uso
    Che il mondo non sia quale lo vediamo è stato suggerito fin dai tempi dell’iperuranio di Platone, e che “il semplice fatto di vedere è in realtà un’impresa carica di teoria” è formalmente noto alla scienza fin dal sopraggiungere della crisi in cui versa tuttora la fisica classica dagli inizi del Novecento.60
    L’affermazione di Hanson secondo cui l’osservazione di x è condizionata dall’anteriore conoscenza di x, starebbe ad “indicare che non esistono fatti che si impongono come tali a tutti gli osservatori, perché l’osservazione di un oggetto è condizionata dallo stato di tutte le nostre conoscenze anteriori e dunque varia secondo la prospettiva teorica in cui si pone.”61 L’osservazione pura e neutra può riferirsi al fenomeno, ma nel momento in cui essa risale alla realtà dalla quale quest’ultimo è determinato, la neutralità deve per forza di cose lasciare lo spazio alla precomprensione ipotetica, la quale talvolta viene spacciata quale prolungamento dell’obiettiva e sperimentale osservazione. Il fatto però che le ipotesi prevedano una certa lettura dei fenomeni, non significa che questi ultimi non influiscano a loro volta nella formulazione delle teorie, perciò la ricerca dovrebbe conservare un carattere sia induttivo che deduttivo, benché non si possa con ciò affermare che l’osservazione dei fenomeni induca necessariamente alla formulazione della teoria più attendibile. E’ soltanto nel momento in cui l’ipotesi viene applicata al fenomeno che si può parlare di deduzione, per poi regolarmente autoverificarsi induttivamente al seguito della riflessione sui risultati ottenuti.
    Il momento deduttivo della ricerca non dovrebbe giustificare un radicale antiinduttivismo e l’assoluta indipendenza dell’osservazione empirica dalle ipotesi scientifiche. I modelli teorici sono indispensabili all’orientamento della ricerca, alla raccolta ed all’organizzazione dei dati, giacché l’esperienza immediata e diretta del fenomeno non è traducibile in un linguaggio neutrale dei fatti.62 Karl Popper è stato uno dei primi ad avanzare la tesi del ruolo centrale e prioritario svolto dalla teoria nella ricerca scientifica, esercitando una grande influenza nell’elaborazione di una nuova filosofia della scienza.63
    Che l’ipotesi scientifica sia comunque almeno formalmente induttiva, (giacché ogni visione della realtà, per quanto innata o predeterminata dal patrimonio genetico individuale, è sempre la conseguenza dell’esserci dell’uomo nel mondo) è confermato dalla convinzione del Popper, secondo la quale alla teoria si giunge raccogliendo dati ed osservazioni da rielaborare in leggi che ne diano la spiegazione, in sintonia con la posizione del Circolo di Vienna, con il quale, tuttavia, Popper stabilì relazioni polemiche.
    Risulta che Popper abbia polemizzato contro il progetto di far dipendere la conoscenza dai dati di esperienza. E’ certamente l’idea di una dipendenza dai soli dati dell’esperienza che egli contesta, perché il linguaggio scientifico plasma il fatto a secondo della prospettiva di una particolare teoria preconcetta.64 La mente umana non è un secchio vuoto ed una tabula rasa come l’empirismo vorrebbe, ma è, secondo una metafora del Popper, un faro che illumina e conferisce senso ai fatti.
    I riferimenti ideologici e filosofici del ricercatore sono un indizio di precomprensione dei fenomeni, ma interagendo il contesto esistenziale del ricercatore con l’elaborazione e la verifica delle sue teorie, è prevedibile che l’esperienza determini modificazioni e cambiamenti, sia dei modelli teorici che degli stessi riferimenti di pensiero: infatti è sì vero che “ogni osservazione è preceduta da un problema, un’ipotesi (o comunque vogliamo chiamarla); ad ogni buon conto da qualcosa che ci interessa, da qualcosa di teorico o speculativo”,65 ma è altrettanto vero che, volenti o nolenti, le teorie sono costantemente soggette alla portata teorica di altri modelli ed alla verifica sperimentale, nella misura in cui quest’ultima è possibile, fino a determinarne la validità, o la confutazione. La dinamica di un modello o di un’ipotesi scientifica è caratterizzata, sia alternativamente che contemporaneamente, dal momento sia deduttivo che induttivo, però è quest’ultimo che precede formalmente e cronologicamente i disegni cosmologici e cosmogonici, e le fondamentali proposizioni teoriche per la comprensione della realtà. Popper sostiene che “non ci sono cose come percezioni o dati di senso che non siano costruiti su delle teorie”,66 ma questo avviene nella misura in cui la teoria è consolidata e definitiva, oltre che nel momento applicativo piuttosto che in quello di verifica e di autocritica. Popper propende per una ricerca che procede per via deduttiva, ma ciò che è fondamentale nel riconnettersi al pensiero di Popper è l’affermazione del carattere teorico ed ipotetico dei modelli scientifici.
    Gli esempi di ricerca che il Popper menziona per contestare il carattere induttivo delle teorie scientifiche sono soggetti a lettura alternativa. Popper riconosce che “le osservazioni non furono all’origine” dell’idea di Copernico e che quest’ultima “venne prima, e fu indispensabile per l’interpretazione delle osservazioni”,67 ma egli non prende adeguatamente atto delle innumerevoli esperienze di Copernico, in quel gran laboratorio che può essere lo scenario del mondo, nell’assistere allo spuntar ed al calar del sole, e delle riflessioni cosmologiche che un tale regolare spettacolo possa aver determinato. Newton non avrebbe ricavato, a detta di Popper, la legge della gravitazione universale per via induttiva.68 A prescindere dalla loro origine le teorie sarebbero dei veri e propri “tentativi di indovinare” e delle “congetture liberamente inventate, perciò tali teorie per essere autorevoli dovrebbero risultare vive, importanti e collocabili tra le ipotesi non ancora confutate o definitivamente confermate, perché in tal caso s’imporrebbero come leggi scientifiche e definitive. Esse possono sì intendersi quali “libere creazioni della nostra mente, risultato di una intuizione quasi poetica”,69 ma è necessario ch’esse siano non vaghe ma precisate, ragionevoli e non fantasiose, compatibili con le categorie filosofiche e scientifiche anziché oscure elucubrazioni e licenze poetiche, anche se il materiale poetico potrebbe in alcuni casi dar luogo alla formulazione di nuove ipotesi, così come si potrebbe suggerire per l’infinito di Leopardi. Nel caso della letteratura apocalittica si tratterebbe di verificare se i contenuti ed i relativi simbolismi, poeticamente, esprimano la potenzialità e la coerenza interna necessaria alla traduzione in categorie ipotetico-scientifiche del suo messaggio.
    Il metodo della ricerca è ipotetico, ma è tanto deduttivo che induttivo, perciò potremmo definirlo soltanto ipotetico, perché l’ulteriore precisazione farebbe riferimento ad uno dei momenti dinamici di una particolare teoria. Il metodo può anche essere definito ipotetico-deduttivo, perché tutto sommato è deduttiva la fase di applicazione dell’ipotesi allo studio del fenomeno.
    Chiarito il limite e l’uso della definizione in questione, facciamo pure riferimento al metodo ipotetico-deduttivo del Popper, nella consapevolezza che l’ipotesi scientifica è scienza soltanto in quanto aspetto e momento della ricerca scientifica, e non quale dato sperimentale.

    a. Doxa ed episteme
    La vocazione della scienza è sempre stata l’identificazione con la conoscenza vera dell’essere. Nella Repubblica Platone non riconosce alla doxa (opinione) uno status scientifico, trattandosi di una condizione in divenire tra essere e non essere, tra conoscenza ed ignoranza. La doxa avrebbe come suo dominio la conoscenza sensibile, mentre la scienza la conoscenza razionale, ed entrambi, dividendosi in due parti, darebbero luogo ai seguenti gradi del conoscere:
    i. La supposizione o congettura (eikasìa) che ha per oggetto ombre e immagini.

    ii. L’opinione creduta, ma non verificata (pistis), che ha per oggetto le cose naturali, gli esseri viventi, gli oggetti dell’arte, ecc.

    iii. La ragione scientifica (diànoia), che procede per via d’ipotesi partendo dal mondo sensibile. Essa avrebbe per oggetto gli enti matematici.

    iv. L’intelligenza filosofica (nòesis), che procede secondo dialettica ed ha per oggetto il mondo dell’essere.70

    Il terzo grado informa che la ragione scientifica implica l’ipotesi, ma nello stesso tempo quest’ultima è anche assimilabile all’opinione, la quale si riferisce a sua volta al dominio della conoscenza sensibile e non a quella razionale. Il terzo grado però è anche in relazione col quarto perché l’intelligenza filosofica è quella che fornisce alla scienza le ipotesi più autenticamente plausibili, perché teoriche ed importanti.
    Gli strumentalisti della scienza, da Berkeley a Mach, a Duhem e Poincaré, asseriscono unanimemente “che la spiegazione non è lo scopo della scienza fisica, dal momento che la scienza fisica non può scoprire le essenze occulte delle cose.”71 La conseguenza di tale affermazione consiste in una inevitabile prospettiva filosofica e metafisica della ricerca scientifica, oppure nella riduzione della fisicità a fenomeno, quale esclusiva realtà conoscibile. Mach e Berkeley, escludono “che esista qualcosa come l’essenza di alcunché di fisico: Mach, perché non crede affatto alle essenze; Berkeley, perché crede solo alle essenze spirituali e crede che la sola spiegazione essenziale del mondo è Dio.”72 Duhem sembra propendere per una spiegazione kantiana, la quale ammetterebbe sì le essenze, ma esse non sarebbero accessibili alla ricerca scientifica, anche se questa può protendervi.73 Entrambi, Duhem e Berkeley sostengono che le essenze possano essere rivelate dalla religione, ma “tutti questi filosofi sono d’accordo nel ritenere che la spiegazione scientifica (ultima) è impossibile, e dal fatto che non c’è un’essenza occulta, che le teorie scientifiche possano descrivere, concludono che queste teorie (che chiaramente non descrivono il mondo ordinario della nostra esperienza comune) non descrivono nulla affatto. Dunque, sono puri e semplici strumenti, e ciò che può sembrare accrescimento della conoscenza, non è altro che il miglioramento di certi strumenti.”74 La scienza si ridurrebbe così ad un insieme di ipotesi verosimili, capaci di spiegare in una certa misura i fenomeni, riuscendo anche a servirsene a fini sociali e tecnologici, benché la ragione ultima del perché un prodotto della tecnica funzioni sia un mistero.
    Non è da escludere che la scienza contemporanea possa ritrovarsi nella stessa condizione in cui la filosofia greca è venuta a trovarsi al termine di quel processo che, attraverso il periodo antropologico, caratterizzato da Socrate e dai sofisti, aveva condotto il pensiero classico dalle scuole cosmologiche (dominato dalla problematica relativa all’ordine del mondo ed alla possibilità della conoscenza umana), al periodo ontologico di Platone ed Aristotele, caratterizzato, oltre che dalle precedenti tematiche, dalla ricerca della relazione tra l’uomo e l’essere, quale condizione e possibilità del valore dell’uomo e dell’essere in quanto tali.75 Il periodo etico, relativo allo stoicismo, all’epicureismo, allo scetticismo, all’eclettismo, che seguì quello ontologico, era infatti dominato dal problema della condotta umana e caratterizzato dalla diminuita consapevolezza del valore teoretico della ricerca.76 La crisi del metodo teoretico per la realizzazione di quella conoscenza, a cui i periodi precedenti avevano aspirato, determinò l’interesse per la religione e la rivelazione cristiana, quale via di ricongiungimento dell’uomo a Dio e dunque a quella conoscenza che il pensiero speculativo non era riuscito a realizzare, pur avendo permesso l’acquisizione delle categorie e del linguaggio filosofico, che fin d’allora sono in vigore a vantaggio anche del monoteismo, il quale seppe cogliere l’opportunità per strutturarsi dottrinalmente, a partire dai criteri sistematici della metafisica aristotelica, ma conservando contenuti ed originalità propria.
    La ricerca scientifica contemporanea ed il pensiero filosofico sembrano essere giunti ad una similare fase cruciale: similare ma complessa a motivo delle numerose scuole di pensiero, tra le quali si distingue, per dominio e monopolio, quella che direi risultato della mistura di tutto ciò che nella tradizione scientifica e filosofica è in sintonia con scetticismo, sperimentalismo, materialismo, pragmatismo, naturalismo, positivismo, ateismo. Gli scienziati ed i filosofi delle scuole predominanti, pur ponendosi concreti problemi teorici (anche di carattere etico), finiscono in realtà per fare da supporto a programmi di altra natura, i quali procedono da altrettanto concreti obiettivi economici e politici, e che riguardano nuovi assetti di governo internazionale in odor d’autarchia e violazione della medesima libertà di pensiero e di espressione, di cui a chiacchiere si dipinge paladino, ostentando la fama, l’indubbio talento, il virile impatto e la ferrariana retorica dei propri cervelli. Non si vuol dire che le scuole dominanti non abbiano valore, o che non caratterizzino in qualche misura quelle di minoranza. Ad essere biasimato è il tentativo di trasferire il confronto tra scuole di pensiero da opportune sedi ed appropriati procedimenti e categorie culturali ed accademiche, ad ambiti dove sono i soldi, i trusts ed i mass media di parte a decidere in realtà quale sia la verità antropologica o filosofica o (prima o poi) anche quella religiosa.
    Lo sperimentalismo si è dimostrato efficace nel condurci fin nelle viscere dell’atomo e ben oltre la nostra galassia, ma non per questo si può escludere l’autenticità di altre scuole. Il fatto che la scienza sperimentale non possa spiegare tutto, profondamente e definitivamente, non significa ch’essa non possa spiegare, almeno entro certi limiti, qualcosa. Proprio per tale limite è necessario che la scienza si proponga anche epistemologicamente, sia come riflessione dei procedimenti e delle finalità metodologiche, che quale complesso delle ipotesi e dei modelli teorici.
    Perché un modello metafisico possa proporsi autorevolmente è necessario ch’esso si costruisca, teoricamente, prevedendo applicazioni a sostanze concrete: ossia dotate di energia, e dunque, almeno virtualmente, sperimentalmente conoscibili, nel senso che, pur teoricamente concrete, tali sostanze possono essere conosciute facendo ricorso (quando ciò sarà possibile) ad evoluti ed adeguati strumenti e metodologie di ricerca. E’ come dire: la metafisica è sperimentale, ma sono gli scienziati, oltre che gli strumenti di cui dispongono, impreparati a farne l’esperienza!
    Comprendo che ad uno sperimentalista di tendenze materialistiche, l’affermazione possa risultare risibile. A costui chiederei se i suoi esperimenti abbiano appurato fenomeni o sostanze fisiche. La sua risposta è scontata, perché delle sostanze fisiche la scienza sperimentale può al presente soltanto osservare e codificare fenomeni. Che le sostanze fisiche - ovvero ultrafisiche - non possono che ritenersi reali e concrete, è legittimato dalla ragione più elementare, perché dietro il fenomeno non può esservi il nulla. Si può esser certi che alla base della realtà apparente vi sono sostanze concrete e che la loro essenza costituisce l’oggetto di una disciplina metafisica, specialmente, ma non soltanto filosofica e teologica, bensì interdisciplinare, perché relativa a tutte le sostanze.
    Metafisica: nell’uso del termine dovremmo innanzitutto evitare d’interpretare meta come altro, oppure in contrasto con, o anche tutt’altro che, piuttosto che come ultra, ossia nell’essenza al grado più elevato e per eccellenza. Inoltre, trattando della dimensione metafisica di una determinata disciplina che non sia la fisica, pur usando il termine metafisica, sarà chiaro che non è della fisica che si parla. Per evitare confusioni, forse si dovrebbe utilizzare il termine appropriato alle particolari discipline, (ad esempio metachimica, metasociologia, metastoria, ecc.), i cui aggettivi vengono talvolta usati (metastorico ad esempio). Non credo sia però logico dire metafilosofico, oppure metateologico, perché nei casi in cui una disciplina già si occupa specificamente di una o più sostanze metafisiche, penso sia inutile ogni ulteriore precisazione.
    La menzione di una particolare disciplina (la chimica, ad esempio), per le ragioni già sopra descritte, sarebbe sufficiente ad indicare la relazione sia ai fenomeni che alla sostanza metafisica di cui la disciplina si occupa. Siccome però la menzione contemporanea delle discipline non evoca più il riferimento alle sostanze interdisciplinari della Metafisica di Aristotele, allora siamo costretti, con termini alternativi, a ricordare che sara molto difficile privare, accademicamente, le discipline della loro natura (l’autentico confronto è sempre benvenuto), a meno che non si uccida la cultura a suon di soldoni e prepotenze.
    Chi però riuscisse in tale ardua impresa, resterebbe stritolato dallo svelamento della verità storica, ricavandone tanta infamia quanto in lui sarà stata la superbia, la presunzione, la menzogna, la falsità e la provocazione di cui neppure il più bastardo tra gli uomini sarebbe capace, se non venisse mutato in una vile bestia indemoniata, destinata, per attitudine e vocazione, a realizzare tutte le imprese apocalittiche attribuite al Piccolo Corno. Che tale bestia s’intenda a suo modo di cultura, oltre che di politica, economia e religione, può essere inteso dalle profezie bibliche: il suo hobby preferito (non a caso) è quello di comprare e vendere gli uomini.
    In conclusione, lo scibile umano è in attesa dello svelamento della sua vocazione, il quale coincide anche con lo svelamento della realtà, della storia, dell’essenza e del destino dell’uomo, oltre che, da una prospettiva biblica, con la sconfitta apocalittica di potentati, sistemi ed entità che sono di ostacolo al Regno di Dio, il quale, per l’appunto (in tale contesto di svelamento), è rivelazione metafisica per eccellenza.

    b. Il complesso delle ipotesi e dei modelli teorici quale
    accrescimento e condizione della ricerca scientifica

    Una conferenza preparata dal Popper per il Congresso internazionale di filosofia della scienza tenutosi a Stanford nell’agosto del 1960, prese, tra l’altro, in considerazione le condizioni per l’accrescimento della conoscenza scientifica.77 Popper non intendeva riferirsi all’accumulazione delle osservazioni, ma alla “ripetuta demolizione delle teorie scientifiche” ed alla “loro sostituzione per mezzo di teorie migliori e più soddisfacenti”.78
    L’accrescimento dei dati e delle osservazioni è una conseguenza dell’applicazione dei principi di verificazione delle ipotesi, perciò “anche coloro per i quali l’aspetto più importante dell’accrescimento della conoscenza scientifica consiste in nuovi esperimenti e in nuove osservazioni, potranno trovare degno di attenzione” il procedimento popperiano.79
    I problemi nuovi che Popper desidera discutere sono connessi per lo più con le nozioni di verità oggettiva, e di avvicinamento alla verità. La prima tesi è che “nel campo della scienza abbiamo un criterio di progresso: anche prima di averla sottoposta a un controllo empirico, siamo in grado di dire, purché passi certi controlli specifici, se una certa teoria costituisca un miglioramento in confronto di altre teorie con le quali siamo già familiarizzati.”80 Popper asserisce che sappiamo intuitivamente quale teoria preferire, perché tendiamo a preferire “la teoria che ci dice di più , ossia la teoria che contiene la maggiore quantità di informazioni empiriche, o che ha il maggior contenuto empirico, che è logicamente più forte, che ha il maggiore potere esplicativo e predittivo, e che perciò può essere sottoposta a controlli più severi, confrontando i fatti previsti con le osservazioni. In breve, preferiamo una teoria interessante, audace e altamente informativa, a una teoria banale.”81 Tutte queste proprietà che si desiderano in una teoria si ridurrebbero all’esigenza del grado più alto di contenuto empirico o di controllabilità.82 Con estrema semplicità si dimostra che la probabilità di una teoria diminuisce al crescere dei suoi contenuti, perché “scrivendo Ct(a) per il contenuto dell’asserzione a, e Ct(ab) per il contenuto della congiunzione di a e di b, abbiamo

    1. Ct(a) <Ct(ab) <Ct(b)

    che contrasta con la legge corrispondente del calcolo delle probabilità:
    2. p(a) > p(ab) < p(b)
    dove i segni di disuguaglianza della 1 sono invertiti.”83 La conclusione è inevitabile: “... se ci proponiamo come scopo il progresso o l’accrescersi della conoscenza, non possiamo proporci ugualmente di ottenere un’alta probabilità (nel senso del calcolo della probabilità): questi due scopi sono incompatibili.84 Teorie che potrebbero dimostrarsi in prospettiva utili e risolutive, vengono scartate, oltre che per ragioni ideologiche e confessionali, anche per il pregiudizio “che un’alta probabilità sia qualcosa di altamente desiderabile.”85 A questo riguardo, l’idea del Popper venne da taluni considerata paradossale, tra i quali è J. C. Harsanyi.86
    Dal momento che il Popper riconosce che la teoria con maggiore contenuto informativo corrisponde ad un maggiore contenuto logico, si potrebbe forse risolvere l’apparente paradosso, distinguendo la probabilità ordinaria o conforme al senso comune, dalla probabilità oggettiva, determinata dall’intrinseca logicità di una particolare teoria e dalla razionalità della sostanza a cui essa si riferisce. La probabilità che emerge dai suggerimenti del Popper è equazionale, ma essa non è effettiva nella misura in cui le singole asserzioni, a o b, sono ipotesi fittizie, inverosimili e non ragionevoli, o comunque non corrispondenti alle entità reali, le quali, per quanto complesse e relative a teorie di notevole contenuto, sono a tal punto probabili che sono esistenti.
    Siccome però si può soltanto approssimativamente decidere quale sia il contenuto razionale di un modello scientifico, ci si ritrova vincolati alle equazioni del Popper, nella misura in cui il modello stesso non supera gli esami e le verifiche previste. E’ soltanto procedendo alla verificazione che gradualmente si può decidere quale sia l’effettiva probabilità del contenuto di una teoria, a prescindere dalla sua complessità.
    Il fatto che una spiegazione naturalistica della realtà sia in genere più probabile di un’altra di tipo metafisico, non significa che quest’ultima non possa usufruire di un grado effettivo di probabilità più elevato. Affermare che la realtà è determinata dall’eterno ricostituirsi della materia può essere verosimile, ma ipotizzare che essa invece è il prodotto di una creazione divina ed intelligente, potrebbe dimostrarsi inconfutabile e razionale, a tal punto che ad ogni tappa di superamento epistemologico, relativo a prove e verifiche teoriche e sperimentali, l’incremento di probabilità potrebbe dimostrarsi costante.
    E’ indispensabile che la cosmogonia e la teologia, bibliche, alla base di una descrizione coerente dei fenomeni apocalittici del libro di Daniele, vengano riproposte in termini ipotetico-scientifici, a meno che non si voglia confermarne la lettura mitologica e fantastica.

    c. Ultrafisicità della materia e conseguente
    ragionevolezza delle sostanze spirituali

    Il concetto di materia è astratto, potendo giungervi soltanto attraverso considerazioni di ordine filosofico, le quali in un secondo momento operano da supporto teorico per la scienza.
    L’idea popolare che l’atomo sia effettivamente solido è un residuo di una mentalità ormai superata dalla scienza fin dal tempo delle ricerche fisiche di Heisenberg e Schrödinger. L’intrusione di quella genericità che ha indotto la generalità degli studiosi a credere nella materialità del mondo è stata attribuita all’inclinazione a valutare i fenomeni facendo ricorso ai sensi. Bertrand Russel ha sostenuto che principalmente a causa delle idee derivate dal senso della vista, i fisici sono stati indotti a pensare l’atomo come un centro dal quale partono radiazioni.87 Allo stesso modo l’idea che in tale centro vi sia una particella solida che chiamiamo elettrone o protone, è un’intrusione illegittima delle nozioni del senso comune derivate dal tatto.88
    Nel tentativo di definire la materia, Russel ha menzionato la tesi di Heisenberg, secondo cui l’atomo è un centro dal quale emanano radiazioni, e quella di De Broglie-Schrödinger, la quale sosteneva invece il carattere ondulatorio della materia. La materia cessa così di essere una cosa per convertirsi in una caratteristica matematica relativa ai rapporti tra strutture logiche complesse e caratterizzate da successi. La materia viene a disfarsi nel mondo e si converte “in una abbreviazione utile ad esprimere certe leggi causali concernenti gli eventi.”89 La materia sembra aver perso la permanenza che sia i fisici che i filosofi solevano attribuirle, oltre che la presunta solidezza e la capacità di riempire lo spazio.90 L’interessante collezione di citazioni riportata da M. Buonfiglio si conclude come segue: “... il materialismo è oggi da considerarsi come una teoria filosofica superata. Già non ha più senso parlare di materia inerte, solida, indistruttibile, eterna. Per continuare a credere nel materialismo, bisogna rifarsi alle nozioni scientifiche di secoli passati e fermarsi ostinatamente ad esse. Gli stessi scienziati affermano che la filosofia meccanicistica è ormai tramontata e una nuova filosofia è apparsa.”91
    Le dichiarazioni di A. C. Crombie e di altri studiosi in occasione di alcune conferenze tenutesi presso l’Università di Oxford, risultano il linea con la tesi che sostiene la necessità di una spiegazione della realtà che è sempre meno materiale, fino a suggerire la possibilità dell’abbattimento delle tradizionali barriere tra fisico e metafisico: “Nei primi anni del secolo diciannovesimo divenne chiaro che vi era un numero di fenomeni che non potevano essere descritti adeguatamente per mezzo dei semplici postulati della teoria meccanicistica: a questo punto cominciò il tramonto della filosofia meccanicistica. Divenne sempre più difficile trovare una descrizione meccanicistica convincente e soddisfacente. Per questa ragione ci rivolgemmo all’interpretazione dei fenomeni per mezzo di campi. Inizialmente la descrizione dei fenomeni attraverso il concetto di campo fu introdotta come un mezzo per comprendere la descrizione meccanicistica della natura. Tuttavia, quando divenne evidente che era una descrizione del campo piuttosto che delle sue sorgenti l’essenziale per una completa comprensione del comportamento delle sorgenti, ci si rese conto che stava sorgendo una nuova concezione per la quale non c’era posto nella vecchia filosofia meccanicistica.”92
    Le nuove esigenze per lo studio dei fenomeni atomici, in bilico tra vecchie categorie fisiche e metafisiche, si riflettono nella titubanza del doversi servire di un linguaggio scientifico che pur non essendo adeguato, sovviene in qualche modo alla necessità di una versatile spiegazione dei fenomeni: “.. Il linguaggio è una invenzione familiare e noi non dobbiamo aspettarci che esso sia applicabile molto oltre i confini dell’esperienza familiare... La nostra esperienza quotidiana non ci ha fornito nessun termine oltre a onda e corpuscolo per descrivere la costituzione della materia, e per detta esperienza quotidiana è sempre evidente se una data entità è onda o è corpuscolo... ma troviamo che abbiamo bisogno non dell’uno o dell’altro di essi, ma piuttosto di ambedue insieme. Non dobbiamo perciò spingere il nostro uso del linguaggio oltre l’analogia. Non ci dovremmo porre la domanda: Ma è un’onda o un corpuscolo? Il nostro linguaggio non può dirci che cos’è, perché la nostra esperienza su cui il linguaggio è basato non può arrivare fin lì... Vi è sì una tendenza a considerare i costituenti della materia come corpuscoli e i costituenti di una radiazione elettro-magnetica come onde, ma la diffrazione dei corpuscoli dimostra il loro aspetto di tipo ondulatorio e gli urti dei fotoni, o particelle di luce, dimostrano il loro aspetto di tipo corpuscolare...”93
    Facente parte di un’ipotesi ultrafisica è l’idea della reversibilità delle particelle corpuscolari in ondulatorie, e la traducibilità della materia in antimateria, e viceversa, anche perché questo potrebbe forse spiegare i fenomeni di sparizione/apparizione, invisibilità, materializzazione di varie entità spirituali in relazione alla letteratura apocalittica.
    E’ stato dimostrato che irradiando materia con fotoni di grande energia (raggi gamma), è possibile osservare che il fotone incidente, nelle immediate vicinanze dell’atomo, scompare e si forma una coppia di elettroni, uno positivo e l’altro negativo, coerentemente con la famosa equivalenza di Einstein: E = mc². In teoria dovrebbe anche essere possibile il fenomeno inverso, ed infatti, nelle vicinanze di un nucleo, è possibile annichilire una coppia elettrone-positrone per la creazione di due o tre quanti gamma. Per poter scomparire, le particelle sub-atomiche (quali il protone, il neutrone, e lo stesso elettrone), devono incontrarsi con particelle che abbiano uguali caratteristiche, ma di segno contrario. I fotoni prodottosi dalla reazione non presentano alcuna carica elettrica. Il protone non può però annichilirsi incontrando un elettrone, perché la trasformazione in energia implicherebbe la perdita della carica barionica senza ragioni matematiche. Per particolari ragioni, per potersi annichilire, un protone dovrebbe incontrare una particella che abbia una carica barionica come quella dell’anti-protone.
    Marie Curie definì gli elettroni ed i positroni che si producono dall’energia fotonica, elettroni di materializzazione ed il fenomeno opposto, dematerializzazione di particelle. Si delinea a questo punto la possibilità di una similare trasformazione della materia in antimateria, e viceversa, perché si è pensato che ogni particella debba avere una sua anti-particella, vale a dire una particella che abbia le stesse caratteristiche, ma di segno contrario: “Oggi si ritiene, dunque, che per ogni particella esista la corrispondente anti-particella se la particella ha carica elettrica o barionica nulla. lo stesso accade per la sua anti-particella; se la particella ha carica elettrica e/o carica barionica non nulla, la corrispondente anti-particella ha carica dello stesso valore, ma di segno opposto. Così il protone ha carica elettrica positiva e carica barionica positiva; l’anti-protone ha carica elettrica dello stesso valore ma negativa e carica barionica negativa. L’elettrone ha carica negativa e carica barionica nulla; il positrone ha carica elettrica positiva e carica barionica nulla. Il neutrone ha carica barionica positiva ma non ha carica elettrica; l’anti-neutrone ha carica barionica negativa e carica nulla. In verità, fino a che non è stata dimostrata sperimentalmente l’esistenza dell’anti-protone, qualcuno pensava che questa nozione di carica barionica, per quanto acuta e suggestiva, fosse in realtà priva di senso fisico. Ma la scoperta sperimentale dell’anti-protone e poi dell’anti-neutrone, ha mostrato quanto le previsioni teoriche fossero fondate, previsioni che sono state ulteriormente confermate dalle scoperte sperimentali di altre anti-particelle.”94
    L’antimateria potrebbe rappresentare proprio la destinazione della dissoluzione o della transizione delle particelle a cui abbiamo fatto precedentemente cenno, ma non si può necessariamente teorizzarla come la dimensione ultrafisica dello spirito. Che la materia non risulti tanto materiale quanto i fisici classici hanno ritenuto, non risolve il problema dell’esistenza spirituale, ma è perlomeno la sua ragionevolezza a presentare quelle credenziali che ne rendono la sua ipotesi, scientifica. La divinità biblica si presenta, in seno a tale ipotesi, compatibile con i concetti di energia che caratterizzano la realtà materiale, non mancando i riferimenti scritturali alla forza, alla luce, alla potenza, alla vita.
    E’ interessante e convincente la traduzione che T.N.M. offre dell’ eb. koah e ‘onim in Is. 40: 26: “Alzate gli occhi in alto e vedete. Chi ha creato queste cose? Colui... che tutte chiama... per nome. A motivo dell’abbondanza di energia dinamica,essendo egli anche vigoroso in potenza, non [ne] manca nessuna.” L’idea di radiazioni che partono da un centro di potenza è tutt’altro che estranea alle Sacre Scritture: “Il suo splendore è pari alla luce; dei raggi - eb. qarnaim - partono dalla sua mano; ivi si nasconde la sua potenza.”95 Yad - mano concerne figurativamente nella lingua ebraica anche la forza, la potenza, e può significare anche luogo, direzione, parte, il che, considerato l’uso antropomorfico del termine, può significare che la potenza sia un aspetto della divinità e non la sua impersonale totalità, quasi che Dio debba consistere in energia, mancante di ogni altro attributo personale.
    Un modello fisico o ultrafisico che interpreti sì teisticamente i fenomeni e le sostanze, ma riconducendole al Panteismo, non è adatto ad uno studio del libro di Daniele e della letteratura apocalittica, affine ai principi ermeneutici che emergono dai medesimi testi biblici. Perciò, è inteso, quale componente essenziale del metodo storiografico in uso, l’insieme degli attributi divini menzionati nelle Sacre Scritture. Che la potenza possa non definire globalmente la divinità, non significa che Dio non sia complessa, eterna e perfetta organizzazione di energia. La relazione che intercorre tra energia e divinità risulterebbe quindi simile a quella esistente tra corpo ed anima, fisicità e personalità dell’uomo. E come l’energia corporea è alla base dell’attività cerebrale dell’uomo durante la sua esistenza terrena, così l’energia ultrafisica è essenziale per la sussistenza delle entità spirituali e di Dio stesso.
    Per illustrare l’unità di anima e corpo, il Talmud menziona la seguente parabola: “Il proprietario di una vigna incaricò uno zoppo ed un cieco affinché gli guardassero la sua vigna, pensando che a motivo dei difetti, ciascuno di essi sarebbe stato incapace di qualsiasi torto. Comunque i due guardiani trovarono il modo, sedendosi lo storpio sulle spalle del cieco, di rubare e mangiare il frutto. Quando vennero accusati, ciascuno di essi protestarono la propria innocenza, l’uno puntualizzando l’incapacità di vedere, l’altro l’impossibilità di camminare. Il proprietario della vigna sistemò lo zoppo sulle spalle del cieco, ed in tal modo li giudicò.”96
    Suggerisco che quando si menziona l’anima come immortale, è allo spirito che si stia facendo riferimento, perché l’anima vera e propria altro non è che il disegno logico, teorico e funzionale, in virtù del quale il corpo esiste e si conserva. Similmente lo spirito dell’uomo, di Dio, o di altre creature, può sussistere soltanto in relazione ad un corpo spirituale che sia adatto alla situazione ultrafisica di una dimensione eterna, la quale esige sì il superamento di una fisicità precaria, ma non di quelle leggi, dei principi e delle categorie che spiegano le energie ultrafisiche eterne e la realtà attuale nel suo complesso.
    Di conseguenza, quando uno spirito si diparte alla morte di un uomo, una sostanza dotata di un’energia concreta ed eterna, pur separandosi da un corpo ordinario, sopravvive in virtù di un suo corpo coessenziale, ultrafisico ed eterno. Per ultrafisico si deve intendere non ciò che è oltre la realtà fisica, bensì quest’ultima nella sua essenza, di cui, la parte fenomenica di essa, la quale generalmente noi assimiliamo a materia fisica e concreta, potrebbe anche venire a cessare di esistere, senza con ciò pregiudicarne l’essenza ultrafisica, la quale invece è eterna.
    In tal senso andrebbe interpretato 1Cor. 15: 35-45. La gloria dei corpi celesti è anche quella di coloro che risplenderanno come le stelle in sempiterno.97

    d. Il carattere filosofico della storiografia
    Non ci si può avvicinare agli studi storici sforniti di un sistema filosofico, in quanto ci si dovrebbe limitare alla collazione dei documenti, alla raccolta di reperti, e tutt’al più, all’esposizione ed alla comparazione dei relativi contenuti. Avvicinarsi allo studio di una qualsivoglia disciplina con un metodo di semplice registrazione e classificazione dei dati, adottando un criterio d’interpretazione che consiste nello stesso metodo di classificazione, è come confondere l’ermeneutica col documento, la docenza con la biblioteconomia, la storia con il suo archivio. La storia è tale in quanto esige una visione di se stessa ed un’interpretazione dei dati, senza i quali essa si riduce ad un vocabolario di fatti che non insegnano nulla.

    - La tradizione ontologista
    Si è ritenuto che l’ontologismo rientra nella sistematica che fa capo ad Agostino, ma che concerne Boezio, Anselmo d’Aosta, la scuola dei Vittorini, e nel XIII secolo Guillaume d’Auvergne, Roger Bacon, Bonaventura, Jean Peckham, Matteo d’Acquasparta e Pierre Olieu.98 L’ontologia sosterrebbe il diritto di una conoscenza in Dio ed “i titoli di una certezza assoluta, la scelta primordiale di un punto di partenza assoluto in filosofia, in grado di dare al pensiero una visione di totalità”,99 contro la filosofia aristotelizzata delle opere di Alberto di Colonia e di Tommaso d’Aquino del XIII secolo. Si comprende come numerosi filosofi moderni si ritrovino ad insegnare secondo la tradizione luterana o riformata, appellandosi al “sistema agostiniano-anselmiano, come ad esempio August Lecerf in Francia nella prima metà del XX secolo, e di Abraham Kuyper in Olanda.
    Il punto di partenza assoluto in filosofia, riflette un ontologismo assoluto e non ipotetico e che sappia proporsi senza imporsi, che sappia coesistere e non solo resistere. Le Sacre Scritture possono ritenere a priori tutto ciò che vogliono, ma rimane il fatto che esse devono essere intese, comprese, distinte da altri testi religiosi, affinché se ne accetti il suo contenuto, a preferenza di altri.
    Conelius Van Til vorrebbe escludere tali prerogative, partendo dalla convinzione che l’uomo non rigenerato sia necessariamente incapace di pensare rettamente, pregiudicando la possibilità stessa della filosofia, ma ponendosi comunque entro il suo ambito: “Van Til sees the history of secular philosophy as a massive commentary on the apostle Paul’s observations to the Corinthian Christians: Where is the wise? where is the scribe? where is the disputer of this world? hath not God made foolish the wisdom of this world? For after that in the wisdom of God the world by wisdom knew not God, it pleased God by the foolishness of preaching to save them that believe.100 In other words, men have been looking for God in the wrong place and in the wrong way.”101 Van Til nega da una parte la consistenza o la possibilità della filosofia secolare, dall’altra riconosce che “The eternal power and Godhead of Paul’s gospel are clearly visible to all men everywhere.102 It is not as though the evidence shows that a god exists or that God probably exists. If such were the case then there would be some excuse for man if he did not bow before his Maker. Paul makes bold to claim that all men know deep down in their hearts that they are creatures of God and have sinned against God their Creator and their Judge.”103
    La filosofia secolare non è un massiccio blocco di pensieri omogenei contro Dio. Proprio il fatto che l’eterna potenza di Dio è dovunque chiaramente visibile, dovrebbe affermare la possibilità della filosofia e non la sua negazione, benché vi sia un punto oltre il quale la ricerca non può procedere senza la fede e la rivelazione. Non si può negare che la filosofia abbia contribuito allo sviluppo del pensiero scientifico, del suo linguaggio e dei suoi procedimenti, se vogliamo discutibili e perfettibili, ma all’origine delle invenzioni e delle scoperte in ogni campo dello scibile umano. Certo non si può dire che ogni Premio Nobel sia stato cristiano o teista quale Newton, Pascal, Leibniz o Galileo.
    Il semplice fatto che i filosofi della Riforma non sembrano digerire (non è chiaro se soltanto per ragioni teologiche, - quali la predestinazione di Calvino - per attitudini psicologiche e caratteriali che si sposano perfettamente ad inclinazioni al comando, antropologicamente attestate presso ogni gruppo etnico, ovvero per ambedue le ragioni) è l’evidenza, sia biblica che storica, dell’azione dello Spirito Santo sugli uomini, prima ancora della conversione cristiana e della rigenerazione spirituale, detta anche nuova nascita. L’uomo naturale è considerato come spiritualmente morto,104 ma Dio non ha tralasciato di occuparsi di lui fin dal primo istante della nuova situazione nel mondo, determinatasi a causa del peccato originale,105 per cui l’antropologia non deve considerare l’uomo come se fosse già all’inferno.
    Una corretta antropologia cristiana deve prendere atto di una forma di spiritualità accessibile all’uomo non rigenerato, le cui conseguenze non sono da trascurare. L’uomo morto nei falli e nei peccati ed ottenebrato nella propria mente a causa del peccato, non è (grazie a Dio) un reperto umano ordinario, ad eccezione dei casi in cui lo Spirito Santo si è già da questi totalmente e definitivamente ritratto. Non ci si deve fare illusioni circa i propri simili, ma l’uomo non rigenerato e nondimeno illuminato dallo Spirito è capace di logica scientifica e filosofica, oltre che di dialogo, coesistenza, pluralismo (spesso più degli stessi cristiani), benché la prudenza sia da consigliare, alla pari della conoscenza dei riferimenti antropologici e della tipologia spirituale dei propri interlocutori, sia rigenerati che illuminati, tra i quali v’è una buona percentuale di falsi ed opportunisti, a cui in realtà interessa la Città dell’Uomo e non la verità filosofica ed il Regno di Dio.
    Il brano citato da Van Til argomenta la prima delle due rivelazioni universali (la coscienza e la natura) e la possibilità di giungere, per suo tramite ed in virtù della fede e dell’azione illuminatrice dello Spirito, a formulazioni filosofiche e scientifiche. A rigore, la possibilità della speculazione filosofica non riguarda l’uomo naturale, ma soltanto questi in relazione alla rivelazione ed all’illuminazione spirituale, anche se in assenza di adeguata consapevolezza. Ciò che però non è possibile, se non attraverso la rivelazione speciale, è una conoscenza più elevata della divinità, per la quale è necessaria la fede e la rivelazione speciale.
    Se leggessimo il primo capitolo dell’epistola ai Romani secondo quest’ottica, ci libereremmo facilmente di quelle generalizzazioni, che, tra l’altro, non sono in grado di spiegare talune affermazioni della stessa epistola, quale, ad esempio, la seguente: “Infatti, quando i Gentili che non hanno legge, adempiono per natura le cose della legge, essi, che non hanno legge, son legge a se stessi; essi mostrano che quel che la legge comanda è scritto nei loro cuori per la testimonianza che rende loro la coscienza, e perché i loro pensieri si accusano od anche si scusano a vicenda.”106
    La posizione di René Pache a questo riguardo dimostra che è possibile un’autorevole consenso evangelico alla tesi secondo la quale Dio assiste l’uomo inconvertito nella conoscenza della verità, però entro i limiti della rivelazione naturale, oltre che la possibilità di un rifiuto dell’azione dello Spirito, la quale si traduce in una irrefrenabile e radicale operatività della naturalità umana: “Abbiamo visto che le rivelazioni della natura e della coscienza sono sufficienti per produrre da una parte l’adorazione ed il pentimento, e dall’altra per rendere i pagani pienamente responsabili. Tuttavia Dio, che è giusto ed onnisciente sa perfettamente se un uomo sincero ma ignorante, messo davanti all’offerta della salvezza, l’accetterà o no... Idealmente, ogni uomo che accetti le due rivelazioni, della natura e della coscienza, dovrebbe essere pronto a ricevere la salvezza: rendendosi conto della sua piccolezza e della grandezza dell’universo, egli adora l’invisibile Creatore... Più o meno direttamente, egli cerca una redenzione. Se è lui stesso che vuole compierla, aderirà ad una delle innumerevoli religioni umane che in fondo propongono la salvezza dell’uomo mediante l’uomo stesso. Se, convinto dallo Spirito di Dio, egli riconosce la sua totale incapacità di cancellare il male commesso e di compiere il bene ordinato, riceverà con sollievo e riconoscenza l’annunzio del Salvatore, di cui è piena tutta la Bibbia, la rivelazione scritta. Abbiamo l’esempio di un tale atteggiamento presso alcuni pagani, quali l’eunuco etiopo (Atti 8: 27-38) ed il centurione Cornelio (Atti 10: 1-48). In tutti i campi di missione si sono riscontrate a volte delle disposizioni simili, in certe persone, quando udivano l’Evangelo per la prima volta. Purtroppo non si tratta che di eccezioni, infatti la stragrande maggioranza degli uomini non presta l’attenzione che dovrebbe alle chiare voci della natura e della coscienza. I pagani cosiddetti primitivi abbandonarono il Creatore per delle false divinità, degli idoli, dei feticci e addirittura degli animali. I pagani moderni e civilizzati, adorano se stessi ed esaltano orgogliosamente l’uomo sotto tutti gli aspetti, in attesa di acclamare il super-uomo, l’anticristo.”107
    E’ interessante e congeniale la convinzione di Pache, secondo cui il rifiuto della rivelazione naturale implichi l’idolatria, ed in particolare (per l’uomo contemporaneo e specialmente occidentale) l’acclamazione del superuomo (in sostanza il Piccolo Corno). Il rifiuto definitivo della rivelazione naturale implicherebbe, dunque, la perdita delle autentiche facoltà razionali e la contemporanea compromissione di una corretta speculazione filosofica, in contrasto con le convinzioni di un gran numenro di noti e riconosciuti intellettuali, del tutto vaccinati nei confronti delle superstizioni del monoteismo, eppure eruditi, complessi e sereni (almeno in apparenza) nel muoversi con padronanza in seno agli ambienti accademici, dove spesso professionalità implica materialismo naturalistico, così come in economia e politica l’assenza di liberismo incondizionato è (sempre più) odiosa manifestazione d’incompetenza, al punto tale che istituzioni ed imprenditori interessati alla valutazione del quoziente d’intelligenza dei propri candidati non hanno che da limitarsi a fare quattro chiacchiere, allo scopo di verificare il consenso circa i validi criteri scientifici ed il fatto che il mercato è regola etica a se stesso: le altre cose sono bazzacole se il candidato è veramente affine, perché nulla potrà fermare un uomo che si è liberato del fagotto della cultura dello spirito e di quella gran quantità di simili in via di radiazione dalla selezione della specie. A chiacchiere, tali candidati (buon sangue non mente) saranno la crema della filantropia, ma i fatti indicheranno che si vorrà rilanciare cultura ed impresa lasciando che cultura, mercato ed autarchia facciano adeguata selezione.
    L’idea di Van Til, secondo cui il punto di contatto tra il messaggio cristiano ed il mondo non cristiano debba essere necessariamente definito quale “head-on collision”, esemplifica eccessivamente le cose e non risponde all’oggettiva ed inevitabile necessità di presentare il teismo biblico in termini ipotetico-scientifici. Lo stile sembra essere quello dei più radicali fondamentalismi, sia religiosi che politici e culturali. Il carattere ontologico e sovrannaturale del libro di Daniele è un fatto per la fede, ma, nel nostro caso, trattandosi di una ricerca che deve motivare i propri procedimenti in un contesto scientifico, esso viene soltanto proposto quale ipotesi.
    Ai credenti, cristiani e non, a cui tale ipotesi dispiace, suggerisco che sia salutare per la stessa fede che non tutte le riflessioni bibliche siano prediche, non di rado tali, soltanto perché sciorinate dal pulpito.
    L’Apologetica del Cristianesimo ragionevole da Tommaso a Locke, da Wolf a Warfield, concepisce la ragione umana come una facoltà capace di sondare le verità bibliche, di provarle e di proporne una dimostrazione almeno probabile.108

    - Attendibilità e precomprensione delle fonti bibliche
    Floyd E. Hamilton non sembra procedere, in apparenza, secondo l’ontologismo della Riforma, quando dichiara che la Bibbia come libro storico “deve essere sottoposto alle stesse prove di altri libri storici.”109 Hamilton afferma che sia “dovere della scienza... osservare, catalogare, e trarre corrette deduzioni dei fatti osservati, ma quando essa si avventura nel campo della causa da cui sono provocati i fatti e comincia a formulare teorie circa quelle deduzioni, non ha alcun diritto di esigere che si accettino le sue teorie alla stregua di fatti provati.”110
    Abbiamo considerato come sia inevitabile formulare teorie ed ipotesi scientifiche, e connaturato negli stessi ricercatori, i quali volenti o nolenti, comunque precomprendono i dati scientifici, ma non senza la possibilità di revisioni e confronti con le diverse teorie attestate dalla scienza.
    Provare la falsità di un insieme di documenti ritenuti veritieri da millenni e sacro patrimonio di tre religioni, è l’onere che incombe specialmente su coloro che contestano la storicità ed il carattere sovrannaturale della Bibbia: “Né il fatto che la Bibbia contenga racconti di miracoli e di profezie che sembrano contraddire all’uniformità della natura è sufficiente a discreditare il documento che contiene tali cose, a meno che non si possa provare l’impossibilità di miracoli e profezie.”111 Eppure, proprio quella scienza che si dichiara critica ed oggettiva, esclusivamente sperimentale e non teorica, non indugia ad affermare l’impossibilità di eventi prodigiosi, ammesso che si possa parlare tomisticamente di miracoli come “sovrannaturali”, dal momento che la Scrittura non parlerebbe “di una trasgressione di questi ordinamenti da parte di avvenimenti straordinari come per esempio i segni ed i prodigi dei profeti e degli apostoli.”112 Tale negazione, la quale è incline a strutturarsi nell’uso strumentale del metodo storico-critico, non sorprende, perché proprio il sedicente ricercatore critico e neutrale, benché ordinariamente egli stesso non lo ammetti, è animato da un religioso atteggiamento naturalistico, il quale attraverso vie praticistico-culturali, familiari ad un pragmatismo che passa dalla filosofia alla generalità dell’esistenza e dei fenomeni e viceversa, con disarmante disinvoltura, viene a coincidere con una presunta oggettività convenzionale di una scuola scientifica dominante.
    La scienza, praticisticamente, viene ad ascriversi entro le categorie filosofiche del naturalismo, ma ciò deve essere taciuto, pur essendo implicito, perché una tale ammissione tradirebbe il carattere teorico ed ipotetico della scuola scientifica dominante, chiamando in causa la responsabilità delle scelte ideologiche praticate nell’elaborazione di un particolare modello scientifico: “Oggi è poco prudente per un uomo di scienza inserire il termine filosofia, sia pur naturale, nel titolo o nel sottotitolo di un’opera: è il modo migliore per farla accogliere con diffidenza dagli scienziati e, per bene che vada, con condiscendenza dai filosofi. Ho un’unica scusante, che però ritengo legittima, ed è il dovere che si impone agli uomini di scienza, oggi più che mai, di pensare la propria disciplina nel quadro generale della cultura moderna per arricchirlo non solo di nozioni importanti dal punto di vista tecnico, ma anche di quelle idee, provenienti dal loro particolare campo di indagine, che essi ritengano significative dal punto di vista umano. Il candore di uno sguardo nuovo (quello della scienza lo è sempre) può talvolta illuminare di luce nuova antichi problemi.”113
    Monod sembra riflettere (non senza titubanze) il pensiero popperiano, essendo consapevole, sia del carattere teorico della ricerca (nonostante si tratti di biologia) che della responsabilità delle proprie scelte teoriche: “Resta da evitare, beninteso, ogni confusione tra le idee suggerite dalla scienza e la scienza stessa: d’altra parte è necessario spingere all’estremo, senza esitare, le conclusioni che essa autorizza al fine di svelarne il pieno significato. Operazione difficile. Io non pretendo di uscirne senza errori. Diciamo pure che la parte strettamente biologica di questo saggio non è affatto originale: ho solo riassunto nozioni ormai affermate in campo scientifico. L’importanza relativa attribuita a diversi sviluppi, come la scelta degli esempi proposti, riflette, in verità, tendenze personali... Naturalmente sono responsabile delle generalizzazioni ideologiche che ho ritenuto di poter dedurre, ma non credo di ingannarmi affermando che tali interpretazioni, finché non escono dall’ambito dell’epistemologia, incontreranno l’approvazione della maggior parte dei biologi contemporanei. Mi assumo anche la piena responsabilità degli sviluppi di ordine etico, se non politico, che non ho voluto evitare, per quanto pericolosi o ingenui o presuntuosi possano sembrare mio malgrado: la modestia si addice allo scienziato, ma non alle idee che sono in lui e che egli ha il dovere di difendere.”114
    Una buona parte degli studiosi storico-critici di letteratura biblica dovrebbero ammettere che le loro opere sono saggi circa la filosofia naturale della storiografia contemporanea, inserendosi nella ricerca al fianco di altre scuole di pensiero, le quali, similmente ed umilmente, dovrebbero ammettere la propria identità filosofica ed il carattere teorico ed ipotetico dei propri modelli. Quando si riconosce la propria precomprensione di natura filosofica, evitando di accusare gli altri studiosi di mancare di quella neutralità, di cui si crede di possederne il monopolio, il confronto viene dislocato entro un’area comune sia all’osservazione sperimentale che alla catalogazione dei dati ed alla riflessione filosofica ed epistemologica.
    Anche se trovassimo nelle cronache dei re assiro-babilonesi, in Erodoto e Senofonte, la menzione di Daniele, quale profeta e saggio alla corte di Nebuchadnetzar, è prevedibile che gli storici della filosofia naturale applicata non potrebbero ammetterne il carattere sovrannaturale del libro, semplicemente perché la loro precomprensione filosofica non lo concede. Si eviti dunque l’ipocrisia su vari fronti di attribuire le proprie conclusioni storiografiche semplicemente alle fonti. Quanto detto spiega la necessità di una lunga introduzione di carattere filosofico e metodologico allo studio della letteratura apocalittica.
    Per le medesime ragioni Hamilton dichiara che è possibile “affermare attualmente senza timore di contraddizione che non v’è nessun fatto scientifico provato che sia in contraddizione reale con la Bibbia su qualsiasi onesta interpretazione del testo biblico.”115 Nel 1956 Nelson Glueck, (difficilmente assimilabile dagli storico-critici a M. G. Kyle in The Deciding Voice of the Monuments e Moses and the monuments, a J. P. Free in Archeology and Bible History, a J. A. Thompson in Archeology, ed a W. Keller in La Bibbia aveva ragione) affermò in un articolo del New York Times del 28 Ottobre: “... non è stata fatta nessuna scoperta archeologica che contraddica e sia in opposizione alle affermazioni storiche contenute nella Scrittura...”
    Citare W. Keller è divenuto, non soltanto in Italia, sinonimo di confessionalismo giudeocristiano, ma è probabile che la sua opera sia da intendersi sì quale tentativo di supporto dell’attendibilità biblica, ma non fino al punto di sconfinare negli a priori filosofici e nei dogmi della teologia, nonostante ciò possa considerarsi legittimo se dichiarato in partenza.
    Altri studiosi, sul versante opposto, si cimentano nel tentativo di dimostrare che la Bibbia non aveva ragione, ma in questo caso si tratterebbe esclusivamente di un’operazione assolutamente neutrale, compiuta per amore della vera scienza. Ragionevole induzione: gli studiosi storico-critici del naturalismo sono neutrali, sperimentalisti, oggettivi, attendibili, storico-critici, scientifici. Tutti gli altri (ed in primo luogo gli ontologisti, i confessionalisti, i fondamentalisti, e non per ultimi i metafisici di ogni ordine e grado) non lo sono affatto, benché a tratti dimostrino qualche segno di lucidità e senso critico. Non c’è dubbio e possiamo star tranquilli: la scienza, la cultura e le accademie sono proprio in buone mani, così come le sue conseguenze antropologiche, sociali, economiche e politiche. Tutto funziona a meraviglia!

    - Epistemologia e storiografia: alcune riflessioni
    Dario Antiseri, il quale si è laureato in filosofia a Perugia nel 1963, per poi proseguire i suoi studi presso le università di Vienna, Münster ed Oxford, ha pubblicato un volume, che tra tutti gli altri, suscita particolare interesse per le considerazioni storiografiche in corso: Epistemologia contemporanea e didattica della storia.116
    Antiseri pone i seguenti interrogativi. I discorsi degli storici sono discorsi scientifici così come lo sono quelli della fisica e della biologia? E se non lo sono, in che cosa, perché e sotto quali aspetti differiscono da questi ultimi? Quale è mai lo statuto delle asserzioni degli storici? Quali sono i limiti della verifica nelle scienze storiche? In base a quali criteri lo storico seleziona le cause di un evento storico? E cos’è, poi, un fatto storico? La storia è una scienza con leggi sue proprie ovvero lo storico è un consumatore piuttosto che un produttore di leggi? E se lo storico è un consumatore di leggi, quali leggi e teorie consuma? E ancora: la storia è oggettiva? In che modo e in quale misura le valutazioni etico-politiche dello storiografo entrano nei suoi scritti? Antiseri risponde a tali interrogativi a partire dalla prospettiva delle teorie di K. R. Popper e dell’odierna epistemologia, trasformando le risposte in regole di controllo del discorso degli storici.
    Menzionando il Popper e la sua teoria dell’ipoteticità dei modelli scientifici, “a dimostrazione del fatto che la scienza avanzi sul sentiero delle congetture e delle smentite” l’Antiseri riporta una delle più belle pagine di storia della scienza e cioè il lavoro di Semmelweis sulla febbre del parto: “Ignaz Semmelweis, un medico ungherese di nascita, portò a termine questa ricerca all’Ospedale Generale di Vienna negli anni dal 1844 al 1848. Come membro del corpo medico del primo reparto della Maternità dell’ospedale, Semmelweis era preoccupato nel riscontrare che una larga percentuale delle donne che partorivano i loro figli nel suo reparto contraevano una grave e spesso fatale malattia, nota come febbre puerperale o febbre del parto. Nel 1844, ben 260 delle 3157 madri che partorirono nel primo reparto, cioè l’8,2%, morirono per malattia; per il 1845 il tasso di mortalità fu del 6,8%, e per il 1846 fu dell’11,4%. Questi dati erano tanto più allarmanti, in quanto nel secondo reparto della Maternità dello stesso ospedale, adiacente al primo, il pedaggio di morti da febbre da parto che veniva pagato in quegli stessi anni era molto più basso: rispettivamente del 2,3, del 2,0 e del 2,7 %. In un libro da lui scritto in seguito, sulle cause e la prevenzione della febbre da parto, Semmelweis descrive i suoi sforzi per risolvere il terribile enigma. Egli incominciò col prendere in esame diverse spiegazioni correnti in quel tempo; ne respinse alcune, perché erano incompatibili con fatti stabiliti in modo certo; ne sottopose altre ad esami specifici. Un punto di vista largamente condiviso attribuiva le stragi operate dalla febbre puerperale a influenze epidemiche che venivano vagamente descritte come cambiamenti atmosferico-cosmico-tellurici propagantisi sopra intere regioni e che causavano la febbre da parto nelle donne in puerperio. Ma, pensava Semmelweis, come potevano queste influenze avere infestato per anni il primo reparto risparmiando però il secondo? E come si sarebbe potuto conciliare un tale punto di vista con il fatto che, mentre la febbre infieriva nell’ospedale, difficilmente si verificavano casi nella città di Vienna o nei dintorni? Una vera e propria epidemia, come potrebbe essere un colera, non avrebbe potuto essere così selettiva. Infine, Semmelweis notò che alcune delle donne ammesse al primo reparto, le quali vivevano lontano dall’ospedale, erano state sopraffatte dalle doglie durante il loro trasporto all’ospedale e avevano partorito nella strada; nonostante queste condizioni avverse, la percentuale di morti per febbre da parto in questi casi di nascite stradali era più bassa della media raggiunta dal primo reparto. Secondo un altro punto di vista, il sovraffollamento sarebbe stato una causa della mortalità nel primo reparto. Ma Sommelweis mise in evidenza che di fatto l’affollamento era maggiore nel secondo reparto, in parte anche come risultato degli sforzi disperati delle pazienti per non venire assegnate al tristemente noto primo reparto. Respinse anche due congetture analoghe che erano correnti, notando che non esistevano differenze tra i due reparti né per quanto riguarda il cibo, né per la cura generale delle pazienti. Nel 1846, una commissione, che era stata nominata per esaminare il caso, attribuì la prevalenza della malattia manifestatasi nel primo reparto a lesioni provocate da visite malamente condotte dagli studenti di medicina, che passavano tutti il loro periodo di tirocinio in ostetricia nel primo reparto. Semmelweis notò, a confutazione di questa teoria, quanto segue:
    a. le lesioni risultanti naturalmente dal processo della nascita erano molto più estese di quelle che mai potrebbe procurare una visita mal condotta;

    b. che le levatrici che passavano il proprio tirocinio nel secondo reparto esaminavano le loro pazienti esattamente nello stesso modo, ma senza esser causa degli stessi dannosi effetti;

    c. che quando, in seguito al rapporto della commissione, il numero degli studenti di medicina fu dimezzato e le loro visite alle donne furono ridotte al minimo, la mortalità, dopo una breve diminuzione, salì a livelli mai raggiunti prima.

    Furono tentate varie spiegazioni psicologiche. Una di esse notava che il primo reparto era messo in modo tale che un sacerdote che portasse gli ultimi sacramenti a una morente doveva passare attraverso cinque corsie prima di raggiungere la camera; si pensò che l’apparizione del sacerdote, preceduto da un inserviente che suonava una campanella, avesse un effetto terrificante e debilitante sulle pazienti delle corsie, tanto da renderle più facilmente vittime della febbre da parto. Nel secondo reparto, questo fattore avverso non esisteva poiché il sacerdote aveva diretto accesso alle diverse camere. Semmelweis decise di sottoporre a verifica questa congettura; persuase il sacerdote ad arrivare mediante un cammino indiretto e senza farsi precedere dal suono della campanella, in modo da raggiungere la camera dell’ammalata silenziosamente e senza attirare l’attenzione. Ma la mortalità del primo reparto non diminuì per questo. Una nuova idea fu suggerita a Semmelweis dall’osservazione che nel primo reparto le donne, mentre erano assistite venivano fatte giacere sul dorso; nel secondo reparto, invece, venivano poste su un fianco. Sebbene ritenesse l’idea improbabile, egli tuttavia decise, “come un uomo che, stando per annegare, si aggrappa a un fuscello”, di sperimentare se tale differenza di prassi potesse avere qualche importanza. Introdusse perciò l’uso della posizione laterale nel primo reparto, ma di nuovo, la mortalità rimase inalterata. Infine, all’inizio del 1847, un incidente fornì a Semmelweis l’indicazione decisiva ai fini della soluzione del problema. Un suo collega, Kolletschka, ricevette un taglio tutto intorno a un dito dal bisturi di uno studente, con cui stava facendo un’autopsia, e morì dopo una lunga malattia tormentosa, durante la quale manifestò gli stessi sintomi che Semmelweis aveva riscontrato nelle vittime della febbre da parto. Per quanto il ruolo dei microorganismi in queste infezioni non fosse stato ancora, a quel tempo, riconosciuto, Semmelweis capì che la sostanza cadaverica, che il bisturi dello studente aveva introdotto nella circolazione sanguigna di Kolletschka aveva causato la fatale malattia del suo collega. è la somiglianza fra il decorso della malattia di Kolleztschka e quello dei pazienti della sua clinica indusse Semmelweis a concludere che le sue pazienti erano morte del medesimo genere di avvelenamento del sangue; egli stesso, i suoi colleghi e gli studenti di medicina erano stati i portatori del materiale infettivo, in quanto sia lui, sia i suoi collaboratori erano soliti venire nelle corsie direttamente dopo aver fatto dissezione nella stanza delle autopsie, e esaminare le donne in travaglio dopo essersi lavate le mani soltanto superficialmente, tanto che spesso queste conservavano un caratteristico odore di sporco. Ancora una volta, Semmelweis sottopose a verifica la sua idea. Egli pensò che, se era nel giusto, sarebbe risultato possibile prevenire la febbre da parto distruggendo chimicamente i materiali infettivi che restano aderenti alle mani. Egli, perciò, emise un ordine che faceva obbligo a tutti gli studenti di medicina di lavarsi le mani in una soluzione di ipoclorito di calcio prima di procedere a una visita. La mortalità per febbre da parto cominciò prontamente a diminuire e per il 1848 calò all’1,27% nel primo reparto, rispetto all’1,33% del secondo. A ulteriore sostegno di quest’idea, o di quest’ipotesi, come anche diremo, Semmelweis nota come essa spieghi il fatto che la mortalità nel secondo reparto era regolarmente tanto più bassa: le pazienti, infatti, vi erano assistite da levatrici, il cui tirocinio non prevedeva una istruzione anatomica mediante dissezione di cadaveri. L’ipotesi spiegava anche la più bassa mortalità registrata fra le nascite stradali, poiché le donne che arrivavano con i bambini in braccio difficilmente venivano visitate dopo la loro ammissione e quindi avevano una maggior probabilità di sfuggire all’infezione. Analogamente, l’ipotesi spiegava il fatto che le vittime della febbre da parto fra i neonati fossero tutte fra quelli le cui madri avevano contratto la malattia durante il travaglio; perché allora l’infezione poteva venire trasmessa al bambino prima della nascita, attraverso la circolazione del sangue comune tra madre e figlio mentre questo era impossibile quando la madre restava sana. Esperimenti clinici successivi portarono presto Semmelweis ad allargare la sua ipotesi. In una certa occasione, per esempio, egli e i suoi assistenti, dopo essersi accuratamente disinfettate le mani, visitarono dapprima una donna in travaglio che stava soffrendo per un cancro cervicale in suppurazione; quindi, passarono a visitare altre venti donne che si trovavano nella stessa stanza, dopo essersi lavati le mani soltanto come d’abitudine, senza rinnovare la disinfezione. Ebbene, undici delle venti pazienti morirono di febbre puerperale. Semmelweis ne concluse che la febbre da parto può venir causata non soltanto da materiale cadaverico, ma anche da materia putrida derivata da organismi viventi.”117
    Il racconto di Semmelweis presenta degli aspetti truculenti che non credo abbiano riguardato la moglie dell’illustre primario: almeno le ultime undici vittime potevano essere risparmiate, perché Semmelweis aveva già intuito i risultati del suo ultimo esperimento. Ad ogni modo, questa fulgida pagina di storia della scienza illustrerebbe in maniera esemplare il lavoro dello scienziato. Lo scopo di Antiseri è quello di dimostrare che “una teoria, per essere scientifica, deve essere provata. Ma perché noi possiamo effettivamente provare una teoria, occorre che questa sia provabile, cioè che essa possa venir in collisione con la realtà. Pertanto, una teoria che non è falsificabile di principio non può avanzare la sua candidatura al regno delle scienze empiriche.”118
    Semmelweis avrebbe “dimostrato che per osservare occorre avere in mente una ipotesi, da cui poter osservare”, perché la natura risponde solo se le poniamo domande... e risposte interessanti verranno unicamente a patto che noi le poniamo domande interessanti, domande temerarie ed azzardate.”119 A coloro che pensano “che il problema deve per forza essere il risultato di esperimenti ed osservazioni”, Antiseri (tra l’altro citando Popper), vuole dimostrare che la nostra mente non è una tabula rasa, e che la scienza procede formulando teorie critiche.
    I filosofi naturalisti della storia hanno perfettamente ragione nel voler adeguare i contenuti dell’indagine storiografica alle leggi universalmente valide per ogni disciplina scientifica, e non solo per la fisica o la biologia. Perché ciò sia possibile è necessario che tali leggi universali, oltre che statisticamente, siano assolutamente valide. La storia è perciò affine alle scienze teoriche, teoretiche, ovvero generalizzanti (come la fisica, la biologia, la sociologia, ecc.) essendo interessata da ipotesi e leggi universali: “E queste leggi, lo scienziato puro cerca di provarle, sottoponendole alla critica falsificazionista degli esperimenti cruciali. Il suo interesse agli esperimenti, descritti da predizioni e da condizioni iniziali, è, in un certo qual modo, limitato: egli si occupa di essi come di mezzi per raggiungere determinati fini, mezzi attraverso i quali poter provare le leggi universali, interessanti sia di per se stesse sia come mezzi per l’unificazione del nostro sapere. Lo scienziato puro è colui che inventa le leggi delle scienze teoriche e cerca di provarle, tentando seriamente di falsificarle.”120
    La storia stabilisce una relazione tra le leggi o asserzioni universali (L), relative alle ipotesi che hanno il carattere di leggi di natura, e le asserzioni singolari, che valgono per l’evento specifico in questione, e che il Popper indica come condizioni iniziali ©. Leggi generali e condizioni iniziali costituiscono gli explicans, i quali a loro volta determinano la deduzione logica (E) per la descrizione di un fenomeno empirico da spiegare (explicandum): “... le scienze teoriche sono quelle che intendono provare le varie L¹, L², L³, ..., Lr delle diverse teorie; le scienze applicate sono le scienze che focalizzano il loro interesse sulla previsione degli explananda; e quelle storiche, in senso lato, sono le scienze occupate nella ricognizione delle varie C¹, C², C³, ..., Ck, che, opportunamente connesse con delle leggi universali, spiegano gli explananda in questione.”121
    Le ipotesi che hanno il carattere di leggi di natura dovrebbero però essere concepite come aventi il carattere di leggi assolute in armonia con i fenomeni naturali. La discussione di una metodologia storiografica entro un contesto scientifico di carattere generale non sorprende, giacché “il metodo scientifico è unico; le scienze si diversificano sulla base dell’interesse che, rispettivamente, si porta, di volta in volta, alla prova delle leggi, alla spiegazione dei fatti, o alla loro previsione.122
    Il metodo scientifico unico non è indispensabile che coincida con lo sperimentalismo materialistico (il quale tara la ricerca a danno dell’intera e legittima problematica ultrafisica). Lo stesso metodo unico può essere poliedrico ed atto a visionare i fenomeni naturali ordinari secondo quello sperimentalismo ordinario che è relativo alle leggi statistiche naturali, il quale preveda allo stesso tempo un campo d’indagine ultrafisico, indispensabile alla teorizzazione ed alla ricerca di leggi realmente assolute e fondamentali, che rendano realmente possibile lo studio delle sostanze interdisciplinari.
    Considerata perciò la riflessione epistemologica in atto nel pensiero scientifico; l’inadeguatezza della fisica classica alla spiegazione delle energie fisiche fondamentali e dei fenomeni subatomici e degli aggregati di materia cosmica; la ragionevolezza di un modello ipotetico-scientifico detto ultrafisico, soggetto a verifica e prove di falsificazione, si ritengono utili al progresso della ricerca storiografica, oltre che teoricamente legittimi, i procedimenti d’analisi, esplicazione e previsione della storia, quali dichiarati e deducibili da una lettura del libro di Daniele che sia conforme (anche se per vie solo ipotetiche), al carattere sovrannaturale dell’origine ch’esso dichiara di se stesso.

    - Le previsioni storiografiche nel libro di Daniele
    Le previsioni economico-politiche e le implicazioni sociologiche relative all’assetto internazionale ed all’ordine autarchico che precedono l’avvento del Regno di Dio, quali emergono dalla tradizione apocalittica in relazione alle profezie del libro di Daniele, rappresentano un importante riferimento del presente lavoro.
    Tra le previsioni che potrebbero farsi risalire al libro di Daniele, ed a cui si dedicherà maggiore spazio nelle pagine seguenti, è l’organizzazione di un ordine internazionale del pianeta, la cui realizzazione esige il sacrificio di tutte quelle religioni, sistemi e correnti di pensiero ed ideologie che perseguono ideali di tipo teocratico e monoteistico, ed in genere di disegni politici, il cui contenuto sociale è tale da escludere il principio dell’autarchia.
    A partire dall’ipotesi di tale previsione, qualunque fondamentalismo teocratico non ha nessuna speranza di globalizzazione del governo planetario, prima che l’autarchia del Piccolo Corno venga sconfitta senza opera di mano d’uomo. Che il Regno di Dio potrà coincidere con uno dei fondamentalismi teocratici noti è molto improbabile, anche se non teoricamente escludibile. L’ipotesi di una soluzione delle ingiustizie, delle oppressioni e dell’instaurazione di un ordine mondiale confessionale, che preceda i tempi dell’avvento del Regno di Dio menzionati da Daniele, e che proceda dalla forza di una delle grandi religioni monoteistiche, è esclusa. E’ verosimile che l’Islam ed il Cattolicesimo, più che altri, si cimenteranno eroicamente nell’opposizione all’autarchia, con un esito che si preannuncia però funesto. Quanto alle ideologie politiche laiche, sociali e democratiche, prive però di riferimenti spirituali, è prevedibile una massiccia assimilazione autarchica, da una parte, e la decisa resistenza di quelle entità, le cui convinzioni non sono animate da esclusivi interessi economici.
    E’ inevitabile il graduale passaggio dal laicismo democratico delle più avanzate società occidentali, all’autarchia. Perciò è anche prevedibile che ogni programma militare di liberazione teocratico-fondamentalista si traduca in un distruttivo e straziante fallimento, contribuendo anzi ad aggravare le oppressioni alla vigilia o anche dopo l’avvento del Piccolo Corno, perché ogni nuova occasione di guerra o di grande dispendio di risorse, si dimostrano puntualmente quali alibi, sia per gli statalismi sociali che per i poteri privati, per opprimere, licenziare, rubare, tassare, arricchirsi e perfezionare la strategia per l’internazionalizzazione del sistema vincente. Nella misura in cui i popoli, le ideologie e le religioni verranno fittiziamente e strategicamente acquisite al pluralismo ed alla democrazia, si potrà contribuire a determinare quelle condizioni di confusione, commistione ed abuso che sono necessarie al progetto autarchico.
    Vi sarà modo di riprendere l’argomento, ma per il momento vorrei far notare che la bestia che sale dal mare di Ap. 13, (la quale è l’equivalente del Piccolo Corno di Dan. 7) possiede alcune caratteristiche delle tre bestie precedenti. Il fatto che la quarta bestia sia di origine occidentale non significa che il potere di quest’ultima non possa dislocarsi ed implicare il coinvolgimento, l’assimilazione e la parziale e vigilata ricostituzione dei poteri delle precedenti tre bestie. Ciò non potrà però verificarsi sulla base d’ideologie che non siano compatibili con il programma autarchico, e tanto meno in relazione a qualsivoglia dei fondamentalismi attestati attualmente in seno al monoteismo. Le azioni rivoluzionarie dei fondamentalismi sono sempre un’occasione per snaturare la vocazione della democrazia e dell’autentico pluralismo, per rendere ancor più esasperata la capacità del Piccolo Corno di divorare, calpestare e frantumare la terra. Ogni azione rivoluzionaria dovrebbe oggi rendersi conto che l’Occidente non può essere messo in discussione, ma per i testardi, esperti apparenti di messianismo, le sofferenze non sono mai abbastanza. Se i testardi guardassero più addentro alle profezie, essi potrebbero scorgere altre soluzioni per la salvezza dei popoli che rappresentano, e che rivestono, malgrado ogni tentativo di esplicazione, carattere esoterico e strategico, quale è ad esempio l’attesa messianica nel deserto dei profeti e del popolo di Dio.123
    Per il fondamentalismo, non solo cristiano, è indispensabile lo studio della letteratura apocalittica, onde evitare inutili avventure belliche ed adeguarsi ai principi della coesistenza democratica, lasciando alla storia ogni decisione sull’esito del confronto tra i modelli teocratici del monoteismo ed il sistema autarchico verso il quale le ideologie umane sembrano convergere. L’ordine internazionale autarchico sembra riferirsi ad una confederazione di 10 blocchi, di cui tre destinati a cadere, probabilmente per fondersi e rappresentare un undicesimo blocco, capeggiato da un re detto l’ottavo, ovvero il Piccolo Corno. Se la fusione di tre blocchi riguardasse l’Occidente, i prossimi sviluppi della politica internazionale saranno sorprendenti.




    ALCUNE PAGINE ESTRATTE DAL TERZO CAPITOLO

    LE FONTI MESSIANICHE GIUDEOCRISTIANE




    1. ATTESA E VISIONI MESSIANICHE

    La venuta “sulle nuvole” di “uno simile a un figliuol d’uomo”, al quale vengono dati “dominio, gloria, e regno”, affinché tutti i popoli, nazioni e lingue gli siano sottomessi, per regnare eternamente, coincide nel libro di Daniele con il tempo in cui “il regno e il dominio e la grandezza dei regni che sono sotto tutti i cieli saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo”, essendo anche il regno di quest’ultimi sovrano per l’eternità.1
    Si tratterebbe del principio di uno stato vero e proprio, la cui grandezza è senza precedenti nella storia umana, il quale è stato posto in relazione con il rapimento menzionato dall’apostolo Paolo e con l’ascensione di Ares: “There is no reason with some to prefer the tr. of G “upon the clouds”; H is vouched for by pre-Theodotionic rdgs. of the N.T. and Fathers; s. Note. Behr. cft. Il., v, 867, where Ares is pictured as ascending to heaven... There is a reminiscence of this passage in 1Th. 4, 17 (“... poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo insiem con loro rapiti sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre col Signore.”) - in contrast to the Messianic interpretation of our v. in the N.T. - The clouds are in contrast to the chaos of waters - the Kingdom of Heaven opposed to the kingdoms of this world. It is a question how far we may press the nuances contained in the clouds; as with Dr., superhuman state and majesty, or possibly swiftness of motion. Position upon the clouds which the writer avoids, would rather be the attribute of Deity, e.g., Is. 19, 1, Ps., 104, 3, and his enthronement upon the cherubs. The contrast of the human being lies with both the Ancient and the beasts: God, man, beast, cfr. Ps. 8.”2
    L’attesa del Messia è così anche attesa di uno stato sovrano, di un ruolo e di una posizione assimilabili alle prerogative del figliuol dell’uomo, purché tale attesa non finisca per tralasciare la vocazione messianica nella conduzione degli affari della terra, pregiudicando la giustizia in terra in nome dei futuri privilegi del cielo.
    L’avvento del Messia implica la restaurazione della creazione da parte di Dio stesso, il quale avendo creato il cielo e la terra, ha pure stabilito che l’intera creazione dipenda dalla sua volontà, nonostante la sua misericordia lo induca a mostrare pazienza verso i malvagi, fino all’avvento dell’era messianica, in una sorta di tensione tra la verità e la misericordia, tra la carità, la pace e la giustizia: “Disse R. Shimon: Quando il Santo, Egli sia benedetto, si accinse a creare l’uomo, gli angeli del servizio divino si divisero in gruppi ed in schiere. Alcuni dicevano: Si crei; altri dicevano: Non si crei. Come sta scritto: La misericordia e la verità si incontrarono, e la carità e la pace si baciarono.3 La misericordia diceva: Si crei, perché sarà misericordioso; la verità diceva: Non si crei, perché sarà tutto falsità; la carità diceva: Si crei, perché è destinato a fare opere di bene; la pace diceva: Non si crei, perché sarà tutto liti. Allora che fece il Santo, Egli sia benedetto? Prese la verità e la gettò a terra. Dissero gli angeli del servizio divino al Santo, Egli sia benedetto: Ma tu disprezzi il tuo Sigillo (il Sigillo di Dio è la verità). Si rialzi la verità dalla terra come è detto: Germogli la verità dalla terra.4 I nostri Maestri dissero in nome di R. Haninah, R. Hidî, R. Pinehas e R. Hilqjah in nome di R. Shimon: E vide Dio quanto aveva fatto, ed era assai buono 5: ed ecco buono è l’uomo.6 R. Hunah l’anziano di Sefforide disse: Mentre gli angeli erano occupati a discutere fra loro, il Santo, Egli sia benedetto, lo creò, e disse loro: Che cosa discutete? L’uomo è già creato.”7
    L’attesa messianica dovrebbe corrispondere ad un impegno per garantire la giustizia terrena, la quale, quando è compromessa, attenta alla bontà ed all’ordine della creazione. Chi compromette la giustizia sulla terra attenta alla sovranità di Dio e si oppone all’ordine stabilito per la creazione, determinando l’intervento di Dio, il quale è tanto più grave quanto più potente è l’uomo o la nazione che lo ha provocato.
    La creazione, la giustizia, in terra come in cielo, ed il Regno di Dio, comprensivo del cielo e della terra, sono indissolubilmente collegati, benché i tempi che precedono l’avvento della restaurazione ne mostrino sempre meno l’evidenza: “Disse R. Laqish: Ecco, era assai buono, questo è il Regno del cielo; Ed ecco, era assai buono è il Regno terrestre... il Regno terrestre è assai buono? Sì, perché dalle creature esige giustizia, come è detto: Io ho fatto la terra ed ho creato l’uomo sopra di essa.8 L’affermazione di R. Simeon b. Laqish suggerisce che la legge formulata per le cose della terra debba dipendere dagli stessi principi del Regno di Dio, secondo quanto avviene per il cielo.
    R. Levi spiega le ragioni della necessità dell’esercizio del governo terreno in conformità di quello celeste come segue: “E’ gloria del Signore tener celato il fatto, ed è gloria dei re indagare il fatto 9 Da principio fino a qui: E’ la gloria del Signore nascondere il fatto,ma da qui in poi è gloria dei re indagare il fatto, la gloria delle parole della Torah, che sono paragonate ai re, come è detto: Mediante me 10 regnano i re con l’indagare il fatto.”11 Se il governo viene esercitato per mezzo della Torah, allora le norme ed i principi che dovrebbero caratterizzare il dominio terreno derivano da quelli celesti.
    L’attesa del Messia viene considerata, particolarmente presso i circoli hasidici, una mitzva di così grande rilevanza che la sua autentica presenza in un uomo è considerata indizio di elevata spiritualità, al contrario di quel che si può dire per un uomo ritenuto giusto, ma non animato dalle stesse aspirazioni: “Quando il Veggente di Lublin12 decedette, suo figlio, lo Tzaddiq R. Joseph di Torchyn, ricevette, quale sua parte di eredità, gli abiti di seta dello Sabbath, la cintura, e l’orologio, il quale era sempre affisso al muro della stanza dove il Veggente era solito risiedere. Sulla via del ritorno da Lublin a casa sua, iniziò a piovere, e divenne impossibile continuare il viaggio. R. Joseph fu costretto a fermarsi in un villaggio presso la casa di un giudeo... La pioggia continuò a cadere per diversi giorni, e quando cessò, egli volle continuare il suo viaggio, ma l’uomo che lo aveva ospitato richiese di essere pagato per il soggiorno. R. Joseph disse: Non ho denaro, ma ho qui con me alcuni oggetti sacri. Egli tirò fuori dal sacco tutto quel che aveva ricevuto in eredità, e disse a quell’uomo che avrebbe potuto scegliere qualunque cosa avesse voluto al posto del denaro che aveva chiesto. L’uomo chiamò sua moglie per consultarla a tal riguardo, la quale disse: Gli abiti e la cintura non sono di alcun valore per noi, ma l’orologio è un oggetto che può esserci utile, in modo che possiamo sapere all’inizio di ogni giorno qual’è il tempo per mungere la mucca. è così fecero: essi accettarono l’orologio al posto del denaro. Qualche tempo più tardi, l’anziano sant’uomo, R. Ber di Radoshitz,13 si trovò di passaggio per il medesimo villaggio, e siccome era ormai sera avanzata egli si fermò quivi. Entrò nella casa di quel giudeo per trascorrere ivi la notte. Quell’uomo gli diede la stanza in cui l’orologio era appeso. Durante l’intera la notte Rabbi di Radoshitz non poté dormire, e dunque fu ben felice almeno di andare su e giù per la stanza con passi danzanti. Al mattino l’uomo gli chiese perché non avesse dormito durante tutta la notte e perché fosse così felice. il rabbino rispose: Dimmi, ti prego, dove hai preso quest’orologio? L’uomo disse al rabbino che aveva ricevuto l’orologio in pagamento dell’alloggio da un uomo che non aveva denaro. L’anziano sant’uomo disse: Quando ho sentito i rintocchi dell’orologio ho istantaneamente riconosciuto che quello era l’orologio del nostro santo maestro di Lublin. Al rintocco di qualsiasi orologio l’uomo sente una nota che lo informa di essere più vicino alla morte di un’ora. è benché egli necessiti di una tale conoscenza, una tale nota risulta di tristezza e pena. Viceversa, l’orologio del rabbino di Lublin produce note di gioia e giubilo perché un’altra ora è trascorsa fino all’avvento del nostro vero Messia. Questa è la ragione del perché non ho potuto dormire ed ho danzato preso dalla gioia.” 14
    Il sentimento hasidico è un esempio del coinvolgimento spirituale nell’attesa del Messia e del forte desiderio del suo avvento, tale da mobilitare non solo le emozioni (talora suscettibili di atteggiamenti assimilabili all’unilaterale fanatismo che con l’autentica attesa messianica nulla hanno da spartire - passione religiosa ed opposizione ai principi messianici e teocratici talvolta si accompagnano), bensì l’essere intero.15 In alcuni casi l’attesa messianica assume connotazioni così pregnanti e toccanti da infondere tenerezza: “R. Yirm’ya commanded: “[When I die] clothe me in a white shroud, dress me in my socks, put shoes on my feet and the staff in my hand, and lay me on the side [of the road], so that when the, Messiah comes, I shall be ready.”
    L’attesa mette alla prova la speranza dell’avvento del Messia e soltanto il desiderio più radicato può essere appagato: “R. Hiyya bar Abba disse nel nome di R. Yohanan: La speranza differita fa languire il cuore, ma il desiderio adempiuto è un albero di vita. Quando un uomo aspetta qualcosa ma la sua attesa non è soddisfatta, il suo cuore diviene sofferente; ma quando la sua attesa è adempiuta egli è come qualcuno al quale si dona la vita. Allo stesso modo la comunità d’Israele dice: ... Ogni speranza nel mondo ha un limite, e la speranza per il Messia non avrà essa un limite? Il Santo, che Egli sia benedetto, le disse: Vieni e ti darò conforto, siccome è scritto, Così l’Eterno sta per consolare Sion, consolerà tutte le sue ruine. 16 E cosa le dice? Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria dell’Eterno s’è levata su te!17 E come il Santo, che Egli sia benedetto, la conforterà nel futuro? Riunendo i suoi figliuoli nella gioia...”18
    L’avvento del Messia è previsto per un tempo durante il quale le nazioni avranno ormai consolidato il rifiuto della fede messianica, cercando d’indurre Israele alla perdita della speranza nell’avvento del Messia (fatto che implica non soltanto la negazione del Messia, bensì anche la perdita del sistema etico-teocratico che gli è congeniale e che è sempre fondamentale ed implicito quando si tratta della letteratura apocalittica, salvo che non si voglia ridurre il messianismo agli edificanti calcoli escatologici adatti ai circoli salottieri di quel conservatorismo schierato il più delle volte contro il valore contingente dei principi del Regno di Dio) allo scopo di rifondare il mondo secondo un ordine che non è quello della Torah: “... Le nazioni del mondo dicono ad [Israele]: Quanto a lungo aspetterai per la salvezza? Vedi quanto sei umiliata tra noi, e quante sofferenze e pene ti sono toccate. Vieni e che tu sia come una di noi, e faremo di te duchi, principi e capi! Ma Israele entra nelle sinagoghe e nelle case di studio, tira fuori i rotoli della Torah e legge in essi, e io mi volgerò verso voi, vi renderò fecondi e vi moltiplicherò, e riaffermerò il mio patto con voi, ed in questo trova consolazione. è nell’ora quando giunge la fine, il Santo, che egli sia benedetto, dirà ad Israele: Sono meravigliato, come sei stata capace di aspettare per così tanto tempo? Ed Israele dirà: Se non fosse stato per la Torah che ci hai dato, le nazioni del mondo mi avrebbero indotta a perdermi...”19
    L’attesa del Messia viene paragonata spesso all’attesa di una sposa per lo sposo e viceversa, rivelando che il desiderio e la sofferenza del Messia non sono da meno di quelli della sposa: “R. Yoshua ben Levi disse: Quando venni presso il Messia, egli mi chiese: Cosa sta facendo Israele nel mondo dal quale provieni? Io gli dissi: Ogni giorno sono in attesa di te. Immediatamente egli alzò la voce e pianse.” 20 Il desiderio e l’attesa riguardano sia il Messia che Israele, il quale ne dimostra l’intensità anche dimostrandosi impegnata nella frequenza delle sinagoghe e delle scuole per lo studio della Torah. E’ stata suggerita una precisa relazione tra questi ultimi comportamenti e l’assimilazione del rapporto tra Israele ed il Messia a quello che intercorre tra i protagonisti del dialogo del Cantico de’ Cantici.
    Il seguente brano del Targum può essere menzionato in relazione al verso 8 del primo capitolo del Cantico: “Said the Holy One, blessed be He, to Moses the Prophet: If they wish to wipe out the Dispertion, the congregation, which is likened to a beautiful maiden, and so that I Myself may love her, let her walk in the ways of the righteous, and let her arrange her prayer-service according to her prayer-leaders and the leaders of her generation; and let her teach her children, who are comparable to kids, to go to the synagogue and to the school, and by the merit thereof they shall be provided for in the Dispersion until the time when I send the King Messiah, who shall lead them gently to their tents, that is, the Temple which David and Solomon, the shepherds of Israel, have built for them.” Nel testo ebraico il brano non sembra implicare un’interpretazione messianica e dunque il Targum al Cantico è piuttosto un commentario midrashico. L’interpretazione messianica può essere stata suggerita dalle immagini pastorali e dalla figura del pastore. In ogni caso, se si guarda al contesto del citato verso 8, l’invito a seguire “le tracce delle pecore” e la richiesta di far “pascere i... capretti presso alle tende de’ pastori”, fanno seguito alla dichiarazione dell’amore della donna nel verso 7, e dunque il riferimento messianico è fin troppo palese. L’attesa, talora spasmodica, del Messia, ha indotto sia i rabbini sia i i cristiani, dal primo secolo fino ai nostri giorni, allo studio dei tempi messianici. La distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito nel 70 E.V., l’insurrezione di Bar Kokhba nel 132-135, la caduta di Roma e la conquista persiana della Palestina (614-628) venivano interpretati come segni dell’avvento del Messia.
    Il Pirqe R. Eliezer fornisce nel settimo secolo alcune date messianiche21 ed il Rashi (1040-1105) riteneva che il Messia sarebbe venuto nel 1352 oppure nel 1478,22 mentre Maimonide (1135-1204) suggeriva la data del 1210. Tra il 1087 ed il 1172 erano attestati in seno al mondo giudaico, in Marocco, Babilonia, Kazaria, Palestina, Spagna, Francia, e Yemen e Bisanzio, almeno nove diversi movimenti messianici. I nahmanidi (1194-1268) calcolarono che il Messia sarebbe venuto nel 1403.23 R. Moses de Leon (1240-1305), l’autore dello Zohar, diede varie date: 1300, 1306, 1324, 1334, 1340, 1608 e 1648.24 Nel XVII secolo furono suggerite per l’avvento del Messia le seguenti date: il 1648 da Isaiah Horowitz, Yom-Tov Lippmann Heller, Shabbatai Cohen, Joseph Sambari, il 1713 Isaac Cohen ed il 1725 da Nathan Nata Spira. 25 Nel 1868 Meir Loeb ben Y’hiel Mikhael Malbim, capo rabbino in Romania, suggerì la data del 1913 quale inizio del processo di redenzione fino al 1928.26 Tale data è quasi coincidente con quella suggerita dai Testimoni di Geova, i quali hanno sostenuto che il tempo della fine è iniziato nel 1914, che a loro avviso “fu pure l’anno in cui il regno di Dio retto dal suo Agnello cominciò a regnare.”27
    Il calcolo dei tempi per la realizzazione delle promesse messianiche si accompagna allo studio delle vicende apocalittiche, con particolare riferimento ai presunti sette anni della Grande Tribolazione, ai quali sembra far riferimento il Talmud: “Disse il Maestro: Nel sesto anno si udiranno dei suoni; nel settimo si verificheranno delle guerre, ed alla fine del settimo, il Figlio di Davide verrà. Le guerre segnano l’inizio della redenzione.” 28 Nel Bet haMidrash alcuni segni che precedono un settenario, appaiono simili ai primi sei suggelli dell’Apocalisse di Giovanni: “E questo è per voi il segno [dell’avvento del Messia]: ... un settenario inizia con la pioggia; nel secondo anno dardi di carestia vengono lanciati; nel terzo si verifica una grande carestia; e nel quarto - né fame né abbondanza; nel sesto grande abbondanza, ed una stella crescerà da oriente con una verga sul suo capo, la quale è la stella d’Israele... e se sorge è a beneficio d’Israele, dopodiché germoglierà il Messia figlio di Davide. E questo è il segno per voi: Quando vedrete l’orientale Nerone cadere in Damasco, ed il regno dei figliuoli d’oriente venir meno, allora sorgerà la salvezza per Israele, ed il Messia figlio di Davide verrà...”29
    Il carattere esoterico dei tempi messianici, suggerito nel libro di Daniele, emerge in un’affermazione talmudica di R. Levi: “[Dio ha fatto giurare Israele affinché] non riveli la fine messianica ed il segreto [della Torah] agli idolatri.”30
    I tentativi d’individuazione dei tempi messianici sulla base dell’assunto che il settimo millennio dall’inizio della creazione è un epoca di riposo per la terra, ritrovano nel Talmud un importante precedente, benché non all’unanimità: “Rav Qetina disse: Il mondo esisterà per 6000 anni, e per 1000 anni sarà lasciato incolto... E’ stato insegnato in sintonia con Rav Qetina: Così come durante l’anno sabbatico, i campi vengono tenuti a maggese un anno su sette, così anche il mondo sarà resterà incolto per un millennio su sette... Elia disse a Rav Yhuda, il fratello di Rav Sala il Pio: Il mondo esisterà per non meno di 25 giubilei (4250 anni), e nell’ultimo giubileo il Figlio di Davide verrà.” 31 L’inizio del processo che conduce all’avvento del Messia ed al rinnovamento del mondo viene indicato nei primi secoli del V millennio, in modo tale che l’epoca più rilevante per gli eventi apocalittici riguarderebbe gli anni 4291-6000 dall’inizio della creazione secondo il calendario ebraico: Rav Hanan bar Tahlifa spedì [un messaggio] a Rav Yosef: Ho incontrato un uomo il quale è in possesso di un rotolo scritto... nella lingua sacra. Gli ho detto: Dove l’hai preso? Ed egli mi ha risposto: “... L’ho trovato tra i tesori nascosti di Roma.” In esso era scritto: “Dopo 4291 anni dalla creazione, il mondo verrà reso orfano. In alcuni di essi [gli anni seguenti] vi saranno guerre dei mostri del mare,32 in altri le guerre di Gog e Magog, ed i rimanenti saranno i giorni del Messia. Ed il Santo, che Egli sia benedetto, rinnoverà il suo mondo soltanto dopo settemila anni.” Rav Aha figlio di Rav disse: “Dopo cinquemila anni.” 33
    L’idea di una coincidenza dell’avvento del Messia con l’inizio del VII millennio, la suddivisione dei tempi storici in epoche millenarie, la distribuzione degli avvenimenti apocalittici entro un’epoca di circa 2000 anni, e la destinazione delle vicende escatologiche agli ultimi sette anni, hanno indotto ad intravedere nel sistema apocalittico cristiano l’equivalente di quello giudaico, il cui pregio è però nella sistematica chiarificazione apportata dal N.T. e dall’Apocalisse in particolare, la quale risulta concepita quale approfondimento delle sezioni apocalittiche ed escatologiche del libro di Daniele.
    Gordon Lindsay ad esempio, nel ridurre la storia biblica a 14 cicli di 490 anni, ripropone in realtà una sistemazione milleniale, se si considera che tra i cicli compaiono degli anni di compensazione, i quali, pressoché regolarmente riportano i gruppi ai valori millenari.34


    A. LE VISIONI DEL VII CAPITOLO DI DANIELE
    L’intero libro di Daniele è fondamentale per gli studi escatologici ed apocalittici, ma il settimo capitolo si pone quale archetipo per ogni successiva visione apocalittica, trattando, per la prima volta, le vicende storiche complessive in relazione a quattro imperi, i quali sono da intendersi come i più rilevanti ai fini della realizzazione dei disegni messianici: ragion per cui la comprensione delle immagini, dei simboli, delle affermazioni e della dinamica in esso presenti è essenziale per la comprensione di altre principali opere apocalittiche.
    Gli intenti etico-messianici del libro di Daniele (particolarmente evidenti nel settimo capitolo) suppongono un relazione tra visioni apocalittiche ed etica aspirazione al Regno di Dio ed ai suoi principi, per la regolamentazione delle istituzioni umane. Tale relazione non è genericamente limitata alla moralità dei costumi, così come alcuni s’illudono, pensando in tal modo di poter preservare le connivenze o gli interessi in seno a poteri economici e politici, mancanti di basi etiche e di affinità costituzionale.
    E’ stata riconosciuta la relazione con il capitolo 2: “In semplicity and grandeur of theme this vision falls behind that of c. 2. But in this vision the author allows himself more room for fantasy, as in the details of the first three beasts, which have accordingly offered large room for inventive ingenuity on part of exegetes.”76
    La diversità del settimo capitolo rispetto al secondo consisterebbe in una lettura della storia secondo una prospettiva spirituale, tale da evidenziare il carattere bestiale degli imperi, nonostante le ostentazioni della civile perfezione: “If you read history as viewed simply by the natural man, you will find that a great deal of space is given to congratulating humanity upon their marvelous exploits; and one would suppose that we have now almost reached perfection, so far as human government or political economy is concerned. Civilization and the progress of the race are presumably at the zenith of their glory. But if one reads history in the light of Holy Scripture, with the Spirit of God illuminating the page, it gives one a very different impression indeed. We then begin to realize that the things that are most highly esteemed among men are abominations in the sight of God; and, concerning the great ones of the earth who wield power over the nations, we are reminded of what is written in psalm 49: 12, Man being in honor abideth not; he is like the beasts that perish.77
    Edward J. Young suscita, nel tentare di precisare la natura dei sogni e delle visioni di Daniele, un complesso di problemi normalmente soggetti ad un’indagine psicologico-religiosa: “Il sogno che Daniele ebbe e le visioni nella sua mente non ebbero origine nella sua mente o cervello, ma piuttosto vennero alla sua mente e furono comprese intellettualmente... Ci troviamo di fronte non ad un sogno ordinario di Daniele, ma ad una rivelazione di Dio.”78 Sono stati tentati degli studi sulle esperienze dei profeti avvalendosi dei contributi della moderna psicanalisi, ma i tentativi di dimostrarne l’attitudine schizofrenica non risultano aver avuto successo, benché non sia da escludere, alla luce di taluni studi freudiani, che la psiche dei profeti fosse fortemente condizionata da traumatiche circostanze esistenziali, a causa di rapporti conflittuali con l’ambiente socio-politico del proprio tempo, le cui scelte risultano lesive dei valori del Regno di Dio, dai quali il profeta era completamente dominato.79
    E’ stato suggerito dal Gaebelein che le ragioni delle visioni del settimo capitolo sono probabilmente da intravedersi nelle lacune del sogno del secondo circa lo stato di abbandono della città e del popolo santo, il cui destino Daniele cercava di sondare nei libri dei profeti che lo avevano preceduto, e dai quali apprendeva qualcosa riguardo al futuro del popolo di Dio ed alle glorie ad esso promesse per gli ultimi giorni. Leggeva anche, nelle profezie scritte nel passato, che i nemici d’Israele sarebbero stati giudicati e sconfitti.80 Nel secondo capitolo viene rivelato l’avvento di “un regno che non sarà mai distrutto e non cederà mai il dominio ad un’altra nazione” ma non si danno direttive ed indicazioni al popolo santo per la propria sopravvivenza; non vengono fornite informazioni strategiche sulla natura, l’identità e le intenzioni reali dell’impero di ferro e terracotta. Le visioni del settimo capitolo rispondono a tali esigenze, anche se il processo di approfondimento escatologico implica i successivi contributi apocalittici ed un loro studio comparato, conforme all’abitudine degli stessi scrittori apocalittici ed anche in Daniele riscontrabile.81
    La comparazione suggerita dalla Baldwin è incompatibile con l’idea che la quarta bestia corrisponda all’impero ellenistico.82

    a. Visione delle quattro bestie
    Il Montgomery sostiene anch’egli che la visione sostanzialmente sia una replica del sogno della statua; che i quattro metalli corrispondano alle quattro bestie, e che l’eterogeneità della zona inferiore della statua, (ferro ed argilla) sia l’equivalente del conflitto tra i vari corni della quarta bestia.83 A differenza, però, della Baldwin, il Montgomery non sembra includere l’Impero Romano tra i regni simboleggiati dalle quattro bestie e dai quattro metalli.84
    L’idea secondo cui la meta storica del libro di Daniele sia il periodo ellenistico e non l’intera epoca dell’Impero Romano e dei suoi derivati, è determinata dalla formale divisione degli imperi di Media e di Persia, i quali, al contrario si presentano indubitabilmente quale unità nella successione a Babilonia: “This appears definitely in the climax, the final vision, cc. 10-12, in the exact survey of history from the end of the Persian empire... down through a clearly limned sketch of Hellenistic history to the time of Antiochus Epiphanes... The present writer agrees with the great majority of modern commentators in understanding by the four successive metals or beasts the several empires of Babylonia, Media, Persia, Greece...”85 Per le stesse ragioni l’inumano personaggio descritto in 11: 21, ss., il quale corrisponderebbe pienamente al ruolo di Epifane, (“the tyrannical persecutor of the Religion and forerunner of the idea of the Antichrist”) viene assimilato al personaggio descritto in 8: 24, ss. (“a king in the latter time of the kingdom of Greece”), ed ancora con il piccolo corno della quarta bestia della prima visione ed il principe che “distruggerà la città ed il santuario” in 9: 29.86
    Secondo il Montgomery “analogy requires the identification of the fourth Beast with its successive horns in c. 7 with Greece as specified in c. 8” ed “according to the equally specific statements at the end of c. 11 and the beginning of c. 12 the predecessor of Greece is the kingdom of Persia, i.e., the third kingdom.”87 La Baldwin conviene sul fatto che “... in chapter 11 the writer will return to the Greek period, and in particular to the eastern part of the Greek empire in the third and second centuries B.C., though he uses enigmatic language”, ma nello stesso tempo ritiene che “... the author does not name the fourth kingdom -Historically it was, of course, the Roman empire which superseded the Greek...”88
    L’impressione è che ogni posizione sulla questione dipenda, in buona parte, dalla soggettiva identificazione delle quattro bestie, benché quest’ultima operazione dovrebbe tendere all’armonia con gli altri documenti apocalittici giudeocristiani, per i quali è generalmente implicito che il processo escatologico non si esaurisca in fase ellenistica, talché non sorprendono i riferimenti della Baldwin all’apocalittica del N.T. ed il tentativo di distinguere il piccolo corno del settimo capitolo da quello dell’ottavo: “The book ends with a warning of intense suffering, deliverance for the faithful, resurrection for many and a call to endurance, which is relevant for all time (Mt. 24: 13; Rev. 2: 10)... Such an understanding of the last two periods demands that the little horn of 8: 9, which grew out of one of the four horns of the he-goat, be distinguished from the little horn of 7: 8, which came up among the ten horns of the indescribable beast. Though they have a superficial similarity, there are many differences between them and they do not belong to the same era.”89
    Il fatto che ci si trova dinanzi a più di un piccolo corno viene spiegato evidenziando la tendenza storica all’autarchia, nel senso che il piccolo corno più recente è il perfezionamento di un tentativo autarchico precedente, fino a culminare negli avvenimenti escatologici: “This fact is an indication that we are being introduced to a recurring historical phenomenon: the clever but ruthless world dictator, who stops at nothing in order to achieve his ambitions. The book proclaims that such rulers cannot ultimately succeed. Though they talk and act big, and though they cause great suffering to many, their end is sure.”90
    La confusione nell’identificazione dei regni e dei re di cui si parla alla fine dell’undicesimo e l’inizio del dodicesimo capitolo di Daniele risulta essere la conseguenza di precendenti fraintendimenti. Si è riconosciuto che la gran parte del capitolo undicesimo (vv. 2-35) concerne l’invasione della Grecia nel 480 a.C. e la successione dei re da Alessandro Magno ad Antioco Epifane, ma tra il verso 35 e 36 scorrerebbe un lungo periodo di tempo, e la parte restante del capitolo non riguarderebbe l’impero ellenistico.91 Per il Gaebelein molti commentatori applicano i vv. 36-39 ad Antioco Epifane, “perché non si accorgono dell’intervallo di tempo importante che esiste fra il versetto 35 ed il versetto 36.” Il re di cui si parla nel brano citato non sarebbe neppure il piccolo corno del settimo capitolo ed il Gaebelein ritiene che si tratti di un giudeo.92
    Un esame dell’origine dei tre re, solitamente intesi come un solo personaggio, (7: 25; 8: 9-12; 11: 36-39) e di ciò che compiono durante il tempo della fine comproverebbe “conclusivamente che non possono essere una stessa persona... bensì tre differenti personaggi.”93 Sia il Bernini che il Montgomery interpretano i vv. 36-39 menzionati, attribuendone il contenuto ad Antioco Epifane, allo stesso modo di quanto avviene per il v. 25 del settimo capitolo.94 Alcune teorie interpretative relative alla visione concernente le quattro bestie sono state indicate da E.J. Young.95 Se il libro di Daniele non fosse autentico, non sarebbe soltanto l’apocalittica e l’escatologia in gioco, bensì lo stesso Cristianesimo, unitamente ai suoi complessivi derivati culturali: etici, sociali, economici, filosofici, ecc. Si può comprendere che positivisti e materialisti possano più facilmente dichiarare il carattere mitologico del libro di Daniele, ma non capisco gli studiosi ebrei e cristiani che tranquillamente si associano a tali conclusioni. In Matteo 24: 15 leggiamo: “Quando dunque avrete visto l’abominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge intenda) allora coloro che sono nella Giudea fuggano ai monti.” Se l’escatologia di Daniele doveva esaurirsi con l’avvento del Regno di Dio all’epoca dei maccabei, l’affermazione di Cristo e la conseguente apocalittica apostolica sarebbero all’origine di una spiritualità priva di fondamento e di un’attesa messianica inutile.

    1. La teoria d’ispirazione o tendenza naturalistica
    L’interpretazione che individua le quattro bestie che sorgono dal mare nei regni di Babilonia, Media, Persia e Grecia, viene generalmente attribuita agli studiosi che, palesemente o meno, confessionali e non, negano l’autenticità del libro di Daniele. E. J. Young riferisce che “poiché storicamente questi regni non si susseguirono in quest’ordine, si pensa che a questo riguardo il libro di Daniele sia in errore”, forse a motivo del fatto che i regni di Media e di Persia risultano contemporanei dal punto di vista del libro di Daniele, benché quest’ultima evidenza debba indurre alla persuasione che al Regno Greco possa seguire un successivo impero.
    Si ritiene che non possa trattarsi di Roma, perché quando nel 476 l’Impero Romano cessò di esistere, non sorsero da esso dieci regni come previsto nel settimo capitolo di Daniele. E’ controproducente e non necessario rispondere che “non si deve insistere troppo sul numero dieci, che non va preso necessariamente alla lettera”, che si tratta di “una cifra tonda”, ma è utile ricordare che “il simbolismo delle dieci corna si riferisce alla seconda fase della storia della bestia... che quelli che vedono nella quarta bestia un riferimento alla Grecia, hanno molte difficoltà nell’identificare i dieci re o regni.”96 Cercare di scoprire quali siano stati i dieci re che si sono succeduti dopo la morte di Alessandro, oltre a risultare arduo, serve a ben poco in quanto “il simbolismo delle dieci corna non mette l’accento sulla successione quanto sulla contemporaneità”.97
    All’affermazione secondo cui il piccolo corno del settimo capitolo debba essere identificato con quello del capitolo ottavo, e che ambedue a loro volta debbano essere identificati con un re greco,98 (per cui la quarta bestia rappresenterebbe la Grecia e non Roma) ritengo che si debba rispondere insistendo sulla necessità di evidenziare che una tale identificazione deriva dalla convinzione che l’ultima delle quattro bestie rappresenta l’impero al quale si oppone la rivolta dei maccabei.99 E’ una scelta determinata da una precomprensione del contesto storico del libro di Daniele e non da sicure evidenze che autorizzino l’assimilazione del menzionato ottavo capitolo ad appendice della descrizione del piccolo corno nel settimo. La tesi secondo la quale l’impero medo e quello persiano vadano distinti cronologicamente, in modo da rappresentare la seconda e la terza bestia, viene esclusa ricordando che pur essendo presentato Dario come un medo e Ciro come un persiano, il regno che essi governano è l’immediata e contemporanea eredità del dominio babilonese, il quale secondo Dan. 5: 28 era stato dato ai Medi e ai Persiani. Perché si insiste che la divisione non sia stata contemporanea “ma prima passò sotto il dominio dei Medi e quindi dei Persiani”, essendo la questione di gran rilevanza ai fini dell’individuazione della quarta bestia e della legittimazione degli eventuali riferimenti escatologici all’Apocalisse di Giovanni, ed il cui discorso riguardo alla bestia esige che la quarta bestia di Daniele sia proiettata oltre l’impero ellenistico, oltre che l’identità sia di Ciro che di Dario, maggiori elementi circa la conquista di Babilonia e delle prime fasi del regno di questi ultimi, sono da ritenersi fondamentali.100
    Young si oppone categoricamente al tentativo di distinguere tra medi e persiani, come tra seconda e terza bestia, facendo riferimento al sopra menzionato verso di Daniele: “Questo versetto non intende affermare che parte del regno sarà data ai Medi e parte ai Persiani. Alla luce, quindi, di queste considerazioni, ci sentiamo costretti a rifiutare l’identità delle quattro bestie, secondo cui la Grecia rappresenterebbe la quarta bestia.”101/a
    Perché con la Grecia dovrebbe esaurirsi l’escatologia di Daniele? Non tanto perché il penultimo capitolo di Daniele parla delle vicende di Iavan (dalla guerra contro Alessandro ad Antioco IV), apparentemente alla vigilia della salvezza del popolo santo. Non è difficile porre in evidenza l’affinità della quasi totalità delle vicende del capitolo unidicesimo con la narrazione del capitolo ottavo, quale esplicazione della descrizione della terza bestia nel capitolo settimo, le cui caratteristiche trovano un riscontro nelle vicende di Iavan.
    Giovanni Luzzi, la cui fama in ambiente protestante italiano è pari soltanto a quella del Diodati, ha ritenuto, a proposito delle quattro bestie del capitolo settimo di Daniele, “quasi con certezza che, come nel capitolo II, si tratta delle monarchie babilonese, meda, persiana e greca”, e che “il piccolo corno è il persecutore Antioco Epifane che cercherà di sterminare il popolo santo; ma non riuscirà nel suo intento...”101/b A proposito della seconda visione di Daniele nell’ottavo capitolo, il Luzzi prende atto del fatto che “il capro è il re di Javan”; che “il gran corno che era in mezzo ai suoi occhi è il primo re”; che “al suo posto spuntarono quattro corna cospicue, verso i quattro venti del cielo”; e che “da uno di questi uscì un piccolo corno...”. Passa poi a spiegare secondo una logica sequenziale che “il capro è l’impero greco”; che “il corno cospicuo di questo capro n’è il primo re, Alessandro il Grande; che “le quattro corna che s’ergono quando questo corno cospicuo è fiaccato, sono i quattro regni che si formano sulle rovine di quello d’Alessandro: il regno di Macedonia, di Tracia, di Siria, d’Egitto: i quattro regni, in cui si frantumò l’impero dopo la morte d’Alessandro; che “il piccolo corno ch’esce da una di codeste ultime corna è il re sacrilego e bestemmiatore, il flagello de’ Giudei, Antioco Epifane (175-164 av. Cr. - cap. VIII)”.101/c
    A questo punto si pongono alcune domande e relative risposte:
    1. Cosa rappresenta il capro?
    Risposta: l’impero greco.
    2. Quante corna ha l’impero greco dopo la morte di Alessandro?
    Risposta: quattro.
    3. Da quante corna procede il piccolo corno del capro?
    Risposta: quattro.
    4. Chi rappresenta questo piccolo corno?
    Risposta: Antioco Epifane.
    5. Quale impero rappresenta il montone?
    Risposta di Giovanni Luzzi: “Il montone dalle due corna è l’impero Medo-Persiano”.
    6. L’impero Medo-Persiano è un’unità?


    a. Se si risponde negativamente.

    Si deve comunque ammettere (dal punto di vista di Dan. 5: 28) che la Media (presunta seconda bestia) e la Persia (presunta terza bestia) hanno ricevuto contemporaneamente in eredità Babilonia. In questo modo però si compromette la successione cronologica sia storicamente attestata che testualmente evidente in Dan. 2: 39, perché Medi e Persiani diventano insieme un impero, benché l’elemento persiano si presenti rilevante fin dai suoi primordi.
    La quarta bestia verrebbe a rappresentare Iavan, trovandoci di fronte ad una discrepanza tra la descrizione della quarta bestia nel capitolo VII e le informazioni riguardanti il capro di Dan. 8: 8, in relazione ad 11: 4.
    Le settanta settimane vengono a cadere nel generico più incomprensibile, dal momento che il presunto Daniele pseudoepigrafico di epoca maccabea avrebbe potuto fare molto meglio i conti, evitando di sbagliare di oltre un secolo e mezzo nella collocazione di un avvento messianico a presunto uso patriottico.
    Ci si aspetterebbe dal medesimo pseudoepigrafista il tentativo di stimolare ed incoraggiare (almeno una volta) l’azione militare e la resistenza armata fino alla morte al comando dei maccabei, ed invece si insiste più volte nell’idea secondo cui (non per intervento umano) soltanto all’avvento del Messia cesserà l’oppressione del popolo santo. Se il patriota maccabeo, presunto autore del libro di Daniele, credeva seriamente nell’avvento del Messia e del Regno di Dio, come poteva inventare una collezione di vicende (o favole) e visioni a sfondo profetico ed apocalittico, attribuirla a Daniele e poi pensare di farla adottatare come testo autorevole per la fede dei giudei? Al contrario, sembra una favola la sola idea che questi possano aver dato il benvenuto ad un libro che ad un tratto compare in epoca maccabea, il quale per tre secoli e mezzo sarebbe stato latitante, per presentarsi con ricostruzioni storiche (dal punto di vista filoporfiriano infondate) traballanti e verosimilmente all’epoca più facilmente verificabili, oltre che con promesse messianiche che avrebbero dovuto compiersi non prima dello scadere di 490 anni a partire dall’ordine di restaurazione di Gerusalemme, ossia circa due secoli dopo l’abominio di Antioco IV.
    I tempi escatologici derivati da 8: 14 e 12: 11, 12 si presentano incompatibili.L’autore pseudoepigrafista di Daniele si troverebbe ad essere contemporaneo della quarta bestia e di Antioco IV, perché la tesi storico-critica di una datazione maccabea del libro andrebbe seguita fino in fondo. Se così fosse non si comprenderebbe perché mai si è fatto ricorso ad una descrizione della quarta bestia che implica 10 corni + 1 (cap. VII) e poi alla formula 4 corni + 1 (capp. 8 e 11). Se è verò che il presunto autore maccabeo del libro di Daniele conosceva benissimo le vicende di Iavan (si chiama in causa il capitolo XI per dimostrare la precisione delle informazioni storiche), avrebbe potuto far meglio i conti nel caso della bestia dalle dieci corna, dai quali sarebbe derivato Antioco IV, e fare meno confusione tra le due paia di corna dei capitoli VIII ed XI e le dieci del capitolo VII, dove le quattro corna non riguarderebbero Iavan, bensì la Persia: una tale confusione di corna non è molto comprensibile per un contemporaneo di Antioco IV.

    b. Se si risponde positivamente.

    I testi biblici si presentano in armonia, salvo apparenti eccezioni. L’impero Medo-persiano verrebbe rappresentato dalla seconda bestia e dunque la terza bestia riguarderebbe Iavan, col vantaggio di poter stabilire una relazione coerente tra Dan. 7: 6; 8: 8; 11: 4. Infatti la base numerica di quest’ultimi brani è il numero quattro, la quale sostiene nei vari casi l’idea di divisione quadripartita del regno. In questo modo viene resa possibile la comprensione della diversità dei tempi escatologici relativi all’abominio del piccolo corno del capitolo VIII (2300 sere e mattine) al confronto con quello del capitolo XII (1290/1335 giorni), per la semplice ragione che Iavan non sarebbe l’ultima bestia del capitolo VII di Daniele.

    La soluzione a cui il Luzzi ricorre riguardo a Dan. 8: 14, indica che l’identificazione delle quattro bestie del settimo capitolo può pregiudicare l’armonia dei testi escatologici e mutarla in oscura imprecisione: “Duemila trecento sere e mattine. Ci sono due maniere di calcolare questa cifra, e dipendono dal modo d’intendere quel sere e mattine. Se per sera e mattina s’intende un giorno nel senso di Gen. I. 5. 8 ecc., si hanno 2300 giorni, uguali a 6 anni, 4 mesi e 20 giorni, calcolando l’anno di 360 giorni. In questo senso, il passo si riferirebbe o al tempo scorso fra il 171, quando Menelao si comprò da Antioco la carica di sommo sacerdote (II Macc. IV. 23 e seg.) e la dedicazione del Tempio nel dicembre del 165, o tra la profanazione del Tempio, nel dicembre del 168, e la gran vittoria riportata da Giuda su Nicanore a Adasa il 13 di Adar (febbraio-marzo) del 162 av. Cr. (I Macc. VII. 43-50). - Se, invece, il sera e mattina si prende come originato dall’offerta dell’olocausto che si faceva tutt’i giorni la sera e la mattina (Es. XXIX. 38-42), e’ significherebbe che l’offerta di quest’olocausto sarebbe soppressa per 2300 volte, vale a dire per 1150 giorni, uguali a 3 anni, 2 mesi e 10 giorni, calcolando l’anno di 360 giorni. In VII. 25 (vedi nota) e in XII. 7 è detto che la persecuzione durerebbe 3 anni e mezzo, vale a dire 1260 giorni. E l’olocausto perpetuo, durante la persecuzione d’Antioco, rimase soppresso, secondo il libro de’Maccabei, per 3 anni e 10 giorni (confr. I Macc. I. 53. e IV. 51). Come si vede, il conto non torna con esattezza matematica; e, nondimeno, vien fatto naturalmente d’ammettere che in tutti questi passi si tratti dello stesso periodo di tre anni e mezzo. Il fatto è che non conosciamo abbastanza tutt’i particolari della storia di codesti tempi; se la conoscessimo, vedremmo senza dubbio subito che le varie differenze nelle cifre dipendono dal fatto che, ne’ vari casi, è diverso il punto di partenza o quello d’arrivo; e sapremmo certo anche il perché di cotesto vario modo di calcolare il periodo.”101/d
    Nel capitolo VIII si parla di 2300 sere e mattine; nel VII, di un tempo... due tempi e... la metà d’un tempo; nel XII, di 1290 e 1335 giorni.
    Il presunto pseudoepigrafista maccabeo di Daniele avrebbe potuto essere coerente e preciso nel calcolo dei tempi relativi all’abominazione di Antioco IV, perché conoscendo gli eventi ed essendo a questi fortemente interessato, non è concepibile che possa aver riportato dati differenti su un semplice calcolo, per giunta fondamentale ai propri fini messianici ed escatologici.
    Se si vuol provare a districarsi da tali numeri è necessario innanzitutto attenersi al testo ed evitare per il momento interpretazioni e collegamenti.
    Consideriamo i tempi escatologici/apocalittici sia in Daniele che nell’Apocalisse di Giovanni (con la quale lo stesso Luzzi stabilisce una relazione in occasione del commento a Dan. vii, 25), strettamente connessi agli eventi relativi menzionati nei particolari testi:

    TEMPI EVENTI CORRELATI

    1. Un tempo, due tempi Tempo durante il quale i santi saranno
    e la metà di un tempo. dati nelle mani del Piccolo Corno.
    (Dan. vii, 25)

    2. 2300 sere e mattine Durata della visione circa la
    (Dan. viii, 14) soppressione dell’olocausto perpetuo, circa l’infedeltà che è causa di tanta desolazione e l’abbandono del santuario e dell’esercito ad essere calpestati.

    3. Un tempo, due tempi Durata del tempo di angoscia fino a
    e la metà di un tempo. quando la forza del popolo santo sarà
    (Dan. xii, 1-7) interamente infranta.

    4. 1290 giorni Tempo che intercorre tra la
    (Dan. xii, 11) soppressione dell’olocausto perpetuo e l’erezione dell’abominio che porta desolazione.

    5. 1335 giorni Tempo che intercorre tra la
    (Dan. xii, 12) soppressione dell’olocausto perpetuo
    e la beatitudine, ossia 45 giorni a partire dall’erezione dell’abominio che
    porta la desolazione.

    6. 42 mesi Tempo in cui i gentili calpesteranno la
    (Ap. xi: 2) santa città.

    7. 1260 giorni Durata della profezia dei due testimoni
    (Ap. xi, 3)

    8. Un tempo, due tempi Tempo in cui la donna è nutrita nel
    e la metà di un tempo. deserto, lontano dalla presenza del
    (Ap. xii, 14) serpente.

    9. 42 mesi Tempo della potestà della bestia che
    (Ap. xiii, 5) sale dal mare di operare.


    A questo punto siamo nelle condizione di provare a proporre un ordine.
    Che siano 2300 tra sere e mattine (e dunque 1150 giorni), oppure 2300 giorni, è comunque certo e condiviso sia dai porfiriani che dai fondamentalisti, che tali tempi riguardano eventi correlati all’abominio provocato da Antioco IV, e che (se non esattamente corrispondente) perlomeno includono (stando al testo relativo di Dan. viii, 14) la durata della soppressione dell’olocausto perpetuo.
    Tali tempi vengono posti (sia dai porfiriani che dagli studiosi credenti ma accademisti, i quali relegano la fede al cuore ed indirizzano il porfirianesimo al cervello), nell’immediato, in relazione a Dan. xii, 7, 11 e poi a tutti gli altri testi relativi ai tempi apocalittici.
    Poniamoci ora la domanda: a cosa si riferisce Dan. xii, 11? Il testo riguarda il tempo che intercorre tra la soppressione dell’olocausto perpetuo e l’erezione dell’abominazione che cagiona la desolazione, e non l’intera durata della soppressione dell’olocausto. Non si tratta della stessa cosa... Se Dan. viii, 14 non c’entra nulla, perché riguarda strettamente Antioco IV, oltre che contenuti e durata incompatibili con Dan. xii, 11, è invece logica ed evidente la relazione di quest’ultimo brano non soltanto con Dan. vii, 25. Un tempo, due tempi e la metà di un tempo menzionati in xii, 7, vii, 25 ed Ap. xii, 14, ci permettono di affermare (benché entro gli ambiti della logica esegetica) che tali tempi equivalgono ad un tempo fissato - cfr. ebr. mo’ed - tempo - ma preciso soltanto quando vengono indicati il numero dei giorni e l’evento, correlati: 1260 giorni di Ap. xii, 6 e 1290/1335 in Dan. xii, 11, 12.
    Ciò che è stato osservato riguardo alla IV Bestia, unitamente alla compatibilità di Dan. vii, 25, xii, 7, 11 con i testi dell’Apocalisse di Giovanni menzionati, inducono a ritenere che debba esserci una interruzione del racconto relativo a Iavan e ad Antioco IV nel passaggio dall’XI al XII capitolo di Daniele, la cui entrata risulta già in relazione ai tempi dei versi vii, xi, xii.
    Perché i 1260 giorni della profezia dei due testimoni e della donna che fugge nel deserto (Ap. xi e xii) non coincidono con i 1290/1335 di Dan. xii, 11, 12?
    Il tentativo di rispondere a questa domanda ci porta ad apprezzare la scelta di servirsi di un tempo, [due] tempi e la metà di un tempo nel far riferimento agli ultimi tempi, perché in tal modo è stato possibile cementare numeri di giorni che altrimenti sarebbero potuti sembrare slegati tra loro.
    Anche i 42 mesi, di per sé, sono un tempo relativamente preciso benché fissato, sia perché il loro calcolo dipende dal tipo di calendario (solare o lunare), sia perché la precisione temporale è commisurata alle frazioni di tempo utilizzati: ragione per cui è legittimo comparare i 42 mesi con un tempo, due tempi e la metà di un tempo, ossia con circa tre anni e mezzo.
    In Ap. xi: 1 e 2 ci viene detto che i gentili calpesteranno la santa città per 42 mesi. Seguendo la logica sopra indicata, il primo giorno segna l’inizio della sospensione del sacrificio perpetuo ed il 1290° rappresenta il giorno dell’abominio. I 1260 giorni dei due testimoni potrebbero iniziare almeno dopo un mese, o comunque dopo meno di due mesi e mezzo, dall’inizio dell’assedio della città santa, perché sembra implicito che l’assedio di Gerusalemme viene calcolato fino al 1335° giorno: meno di due mesi e mezzo perché i due testimoni sembrano già assunti in cielo alla vigilia della settima tromba (Ap. xi, 14), la quale preannuncia la liberazione alla scadenza del 1335° giorno.
    Per la donna v’è maggiore convinzione nell’affermare che è soltanto dopo due mesi e mezzo dal giorno dell’assedio della città santa (in seguito agli eventi descritti in Zacc. xii, 10-14, xiii, 8, 9, xiv, 1, 2) che inizia in massa il trasferimento nel deserto, benché sia probabile che in occasione dell’assedio una minoranza d’Israele si sia già organizzata nel deserto e che un’altra parte possa farlo in seguito.101/e

    2. La teoria dispensazionalista
    Essa sostiene la tesi secondo la quale le quattro bestie corrispondono ai regni di Babilonia, di Media e Persia, di Grecia e di Roma, l’ultimo dei quali soggetto ad una riedizione in seno ad un nuovo impero romano. Le dieci corna della bestia, paragonate alle dieci dita della statua del secondo capitolo di Daniele, vengono intese come dieci potenze in seno al nuovo impero, secondo un ben preciso schema escatologico: “Si sostiene che il periodo dei dieci regni avrà luogo dopo il ritorno di Cristo per il suo popolo. Il piccolo corno rappresenta un principe del nuovo Impero Romano, che sarà guidato da uno spirito satanico.”102
    Se, come sostiene H. Lindsey, “the European Economic Community was the beginning of the revised form of the Roman Empire predicted in the Bible”, la teoria dispensazionalista, secondo la quale il rapimento si verifica prima della grande tribolazione, non può che suggerire l’idea secondo cui l’unificazione politica europea rappresenti un momento escatologico di grande rilevanza.103 L’Onorevole Pino Rauti del M.S.I.-D.N. ha sostenuto che l’Europa del 1992 è una conseguenza ed una riedizione dell’Impero Romano, benché in una presunta versione cristiana.104 Se quest’ultima tesi fosse fondata, la possibilità che le dieci corna della quarta bestia di Daniele facciano riferimento ad una federazione di nazioni europee non è da escludere con leggerezza, benché al momento i paesi membri della C.E.E. (ma non è detto nel 1992) siano dodici e non dieci, a meno che la romanizzazione non sia da intendersi nel processo di adeguamento al sistema occidentale, in atto in seno alle maggiori potenze mondiali.
    La tendenza presso alcuni ambienti religiosi fondamentalisti cristiani a criminalizzare l’unità europea verrebbe a ridimensionarsi fortemente nel caso in cui le dieci corna della IV bestia coincidessero con altrettante potenze mondiali ritrovando gli U.S.A., la Gran Bretagna, il Giappone ed altre potenze orientali (purché occidentalizzate) quali protagonisti a pieno titolo. L’idea di un coinvolgimento orientale è in linea con l’antica credenza secondo cui Nerone redivivo sarebbe ritornato a Roma a capo di eserciti orientali. Il vero problema non è l’Europa unita, bensì l’eventuale degenerazione di quest’ultima e dell’Occidente in autarchia.

    Inserimenti al 16 Dicembre, 1991.
    Se autarchia vi sarà, non sarà soltanto in Europa, e comunque non prima della conclusione di un processo di conflitti e mutamenti che è solo agli inizi. E’ significativo che uomini politici animati da indubbie aspirazioni etico-messianiche preferiscano promuovere e pilotare il processo in atto di federazione europea, anziché ostacolarlo e restarne fuori.

    3. La tesi sostenuta da Edward J. Young
    La posizione di Young è di tipo fondamentalista e dunque affine a quella dispensazionalista, riconoscendo nelle quattro bestie gli stessi imperi suggeriti da quest’ultima, ma escludendo la necessità che le dieci corna della quarta bestia, benché esistenti durante la seconda fase della sua storia, “siano contemporanei in senso stretto.”105
    Dalle affermazioni di Young si ha l’impressione che le dieci corna ed il Piccolo Corno si collochino in epoche diverse, e che quest’ultimo possa rappresentare soltanto un’entità politica, contribuendo così a rendere generico il carattere profetico del settimo capitolo del libro di Daniele: “Appena si chiude questo secondo periodo, ne ha inizio un terzo con l’apparizione del piccolo corno. Dal simbolismo usato non si può dedurre se si tratti di un uomo, di un governo, di una coalizione di governi o di una ideologia.”106
    I dieci re avrebbero luogo per i dispensazionalisti prima del rapimento pretribolazionista, secondo uno schema escatologico107 che non sembra tener conto della necessità che il Piccolo Corno si manifesti affinché l’avvento del Messia (rapimento incluso) possa compiersi, secondo quanto scrive l’apostolo Paolo, facendo chiaramente riferimento al libro di Daniele.108 La tesi di Young si renderebbe risolvibile specialmente entro uno schema che colloca il rapimento in fasi avanzate dell’ultima settimana di Daniele.109 Se l’abominazione che cagiona la desolazione di cui parla Daniele è, (come risulta essere) la medesima menzionata dall’apostolo Paolo e da Cristo nel capitolo XXIV del vangelo secondo Matteo110, dal momento dell’abominazione stessa fino al rapimento, e dunque alla fine di queste cose,111 dovrebbero trascorrere 45 giorni, ossia la differenza tra i 1335 ed i 1290 giorni di Daniele,112 giacché la soppressione del sacrificio sembra già inoltrata nella LXX settimana e contemporanea alla presa di Gerusalemme,113 mentre l’abominazione appare come conseguenza di un’ulteriore degenerazione della situazione (a distanza di 1290 giorni dalla cessazione delle funzioni templari), e di una scadenza che espone ai gentili il tempio stesso e non più soltanto il cortile esterno, di cui si parla in Ap. xi, 1 e 2. Tali sono le circostanze che sembrano far da cornice al discorso profetico di Cristo nei vangeli sinottici,114 dove la menzione del rapimento non segue immediatamente l’abominazione, bensì una serie di indicazioni e descrizioni, quali ad esempio la necessità di fuggire ai monti.115
    Soltanto dopo l’afflizione, “il sole si oscurerà, e la luna non darà il suo splendore, e le stelle cadranno dal cielo, e le potenze de’ cieli saranno scrollate... e allora apparirà nel cielo il segno del Figliuol dell’uomo, il quale manderà i suoi angeli con gran suono di tromba a radunare i suoi eletti dai quattro venti, dall’un capo all’altro de’cieli.”116/a Il verso 40 del capitolo XXIV di Matteo, nel quale tradizionalmente s’intravede il rapimento, si pone al seguito e quale implicazione dei versi precedenti, per cui sembra da escludere che l’attesa messianica non debba subire il confronto con gli avvenimenti ed i protagonisti dell’ultima settimana di Daniele, così come ottimisticamente presumono i dispensazionalisti.
    E’ vero che gli eventi descritti in Zacc. xii, 10-14, xiii, 8, 9, xiv, 1, 2 riguardano il rimanente d’Israele e Gerusalemme in particolare,116/b eppure, giacché i brani apocalittici dove si promette la liberazione escatologica sia al Rimanente che alla Chiesa risultano legati agli stessi tempi ed alle medesime vicende, dovremmo aspettarci che quest’ultime entità, solo formalmente separate ma facenti parte del medesimo popolo spirituale,116/c condividano l’afflizione fino al momento della liberazione.
    Se fosse altrimenti perché la Chiesa adotta i discorsi profetici di Cristo quale riferimento escatologico, nonostante il loro carattere ebraico e la funzione di collegamento tra l’apocalittica giudaica di Daniele e Zaccaria e l’Apocalisse di Giovanni?116/d Il fatto che al verso 17 di Ap. 12 si faccia menzione del resto della progenie della donna che ha la testimonianza di Gesù, è più che un indizio della presenza della Chiesa nel mondo durante la tribolazione: per una buona parte della cristianità un’ulteriore motivo per non illudersi di potersi dedicare agli affari occidentali fino alla vigilia della riforma autarchica, pensando poi di trasferirsi in cielo giusto in tempo per evitare le devastazioni planetarie e le conseguenze del distruttivo e squilibrato sistema politico, che illustri ed ortodossi cristiani stanno contribuendo ad edificare, ricavandone utili quite remarkable. Non si tratta di un pretesto per una condanna indiscriminata del liberismo economico, piuttosto che di una legittima occasione per confermare che l’apocalittica non è quella cosa che serve a consolare coi beni celesti quei cristiani che, abusando dell’economia occidentale per condividere le spoglie dei poveri coi potenti di turno, contribuiscono illustremente a snaturare la tradizione liberale e sociale del liberismo moderato in sistema dispotico, disumano ed autarchico di mercato.
    Altri sistemi dispotici ha conosciuto la storia, ma di veri ed onorevoli candidati all’autarchia, in grado di pilotare lo sviluppo economico e tecnologico e soffocare ogni resistenza, non ve ne sono più di uno da potersi confondere, benché alcuni fondamentalismi politico-religiosi e residui di comunismo siano ancora in grado di tentare rovinosamente e disperatamente una disfatta dell’Occidente. Non è il liberismo economico, sociale e liberale che si vuole biasimare.
    Sono invece i comportamenti asociali ed esasperati del liberismo ad indicare che le entità autarchiche stanno fagocitando l’Occidente, facendo leva sulla brama di potere di uomini essenzialmente scadenti, ma raffinati e brillanti nel perseguire con arroganza i propri fini di dominio (falsi democratici, laici, liberali o socialisti che siano, i quali stumentalizzano talvolta lo stato sociale, altre la libertà di mercato ed infine la confusione dei cittadini di fronte ai molti ladri della Patria, dei quali essi sono i più esperti e scaltri esponenti) servendosi della tecnologia, dell’economia e dei mass media.
    L’apocalittica intende ricordare, per Statuto Costituzionale Eterno, che l’uomo vive dei doni di Dio, al quale appartengono tutte le cose, essendo il Signore dell’Universo, e che nessun uomo può impadronirsi di ciò che gli appartiene, dichiarandosi, impunemente, divino autarca del mondo e privando gli uomini dei doni, dell’immagine e del Regno di Dio.

    4. Il settimo capitolo di Daniele: elementi esegetici.
    - Verso III -

    La rappresentazione simbolica delle potenze pagane quali bestie rapaci o mostri mitologici è comune nell’A.T.,117 un cui elaborato uso compare nella visione di Enoch.118
    Il contesto dell’emersione delle quattro bestie è quello di un mare turbolento prodotto dal conflitto dei venti e motivo di agitazione per l’umanità: “A certain preparation is intended when God offers to the eyes of his Prophet a turbolent sea produced by the conflict of the winds. Just as if he should say - after these troubles others shall spring up; thus men will wait for peace and tranquillity in vain, for they must suffer under fresh agitations. Now, the kind of trouble is expressed, by the words, four beasts proceed out of the sea. Hence that concussion, those storms, and that confused disturbance of the whole world through one kingdom succeeding to another.”119 Che l’agitazione sia rovinosa, globale e sintomatica, in misura crescente, del succedersi delle quattro bestie, è suggerito come segue: “It can scarcely happen that any kingdom can perish without involving others in its ruin. A single edifice can scarcely fall without the crash being heard far and wide, and the earth seeming to gape at its overthrow... Hence in this verse Daniel shews how the world is like a troubled sea, since violent changes among its empires were then at hand.”120
    Che il mare agitato dai venti rappresenti il mondo è condiviso da Girolamo: “Il mare, invece, sta a indicare questo nostro mondo attuale121 che trabocca di acque salse e amare, appunto come lo intende il Signore nella parabola della rete gettata in mare.”122 La connessione apocalittica tra il mare ed il drago viene confermata da Girolamo: “Per questo anche il drago lo si chiama il re di tutti gli esseri esistenti nelle acque,123 quello al quale - secondo David - vengono schiacciate le teste nel mare,124 e del quale Amos dice: Se scenderà nella profondità del mare, laggiù darò ordine al drago di morderlo.125
    La IV bestia non appare omogenea dalle descrizioni, benché “il ferro misto all’argilla” risulti comunque di una forza capace di globalità.126 Il Gaebelein ricorda anch’egli la corrispondenza simbolica tra il mare e le nazioni, citando Apocalisse 17: 15 ed Isaia 17: 12.127

    - Verso IV -
    Traducendo al femminile il termine ‘arieh, Girolamo ha sostenuto che “a motivo della sua spietatezza e crudeltà, oppure della lussuria e della vita dedita alla dissolutezza, il regno babilonese viene chiamato non leone ma leonessa; e in verità gli autori che hanno scritto sulla natura degli animali128 dicono che le leonesse sono più feroci, soprattutto quando allattano i piccoli, e che sono continuamente in fregola di accoppiamento.”129
    La superbia e la regalità dell’impero babilonese troverebbero conferma oltre che nelle formæ monstrosæ, tipiche del simbolismo di dominio e di conquista degli antichi monumenti orientali,130 tra gli altri della Bibbia, nel libro d’Isaia: “... tu pronunzierai questo canto sul re di Babilonia e dirai: Come! l’oppressore ha finito? ha finito l’esattrice d’oro? L’Eterno ha spezzato il bastone degli empi, lo scettro dei despoti. Colui che furiosamente percoteva i popoli di colpi senza tregua, colui che dominava irosamente sulle nazioni, è inseguito senza misericordia... Tu dicevi in cuor tuo: Io salirò in cielo, eleverò il mio trono al disopra delle stelle di Dio... sarò simile all’Altissimo.31 La superbia e l’arroganza di Babilonia trovano conferma al pari del sopraggiungere dei giudizi divini132, contemplati dall’immagine del leone a cui vengono strappate le ali: “Il fatto che portava ali d’aquila sta a indicare la superbia di quel regno di smisurata potenza - il capo di esso dice per bocca d’Isaia: porrò il mio trono al di sopra degli astri del cielo e sarò simile all’Altissimo, ed è per questo che gli viene risposto: Anche se sali in alto come un’aquila, ti abbatterò; - del resto, al pari del leone fra le belve, l’aquila è regina fra gli uccelli. E si deve ancora notare che l’aquila ha una vita molto lunga, e che il regno degli assiri ha predominato per diverse generazioni. Alla leonessa, o aquila che sia, vennero strappate le ali, vale a dire gli altri regni su cui prima, scorazzando, spadroneggiava.”133
    Se la prima parte della figura del verso 4 non sembra creare difficoltà, i momenti successivi risultano problematici secondo il Montgomery, il quale suggerisce che “the very evident dependence of the heart of a man upon the beast’s heart... which was later made human again... compels the exegete to take this as his point d’appui.”134 Vediamo come Girolamo risolve quest’ultima questione: “La frase che segue: e stette in piedi ritta come un uomo, e le fu dato un cuor umano se la riferiamo a Nebucadnetsar è assai chiara, in quanto una volta che questi perse il regno e fu privato della sua potenza, venne di nuovo riportato al suo stato primitivo, e capì di non essere una leonessa ma un uomo, e riebbe il cuore che aveva perso. Se la riferiamo invece in modo più generale al regno dei caldei, l’interpretazione è questa: quando fu ammazzato Baltassar e l’impero ebbe come successori i medi e i persiani, i babilonesi si resero conto di possedere una natura comune e fragile. Si noti la corrispondenza: qui viene chiamato leonessa colui che nella figura del sogno si presenta con la testa d’oro.”135
    La spiegazione che Giovanni Calvino ci fornisce a questo riguardo induce ancor più ad intravedere nella figura in questione la riduzione degli attributi regali e titanici della bestia all’ordinaria umanità: “... By this form of expression, he means to imply the reduction of the Assyrians and Chaldeans to their ordinary condition, and that they were no longer like a lion, but like private men deprived of their power and strength. Hence the expression, a man’s heart was given to them, is not intended by way of praise, but by “a man” he intends any private person; as if he had said, the aspect of the Chaldeans and Assyrians was no longer terrible, since, while their sway prevailed, all men dreaded their power.”136
    Il riferimento all’umanizzazione di Nebucadnetsar, nel tentativo di spiegare la seconda parte del verso 4 del settimo capitolo di Daniele, accomuna, oltre che i commentatori a tal riguardo menzionati, Ippolito, Jephet, Stuart, Keil, Zöckler, Pusey.137 L’umanizzazione di Nebucadnetsar a seguito della sua riduzione a bestialità (affinché la semplice e dipendente umanità dall’Iddio Altissimo potesse essere appieno valutata e desiderata) è anche suggello del giudizio che, nonostante ogni contraria evidenza, puntualmente sopraggiungerà sulle bestie successive, compresa la IV bestia ed il Piccolo Corno, benché quest’ultimi possano illudersi, allo stesso modo di Nebucadnetsar, di essere i fautori di un impero invincibile e gli arbitri di un destino eterno, contro i tempi, la legge ed il popolo santo.138
    Semplicemente cambiando la vocalizzazione, ‘nsh si può leggere ‘anash139 anziché ‘(e)nash, ovvero giocare “on the rt. mng of ‘nsh as debilis” come fa il Rashi140 e dunque con maggiore facilità semplicemente intendere che la forza d’animo della bestia viene mutata in fiacchezza, scoramento ed umiliazione.141 La traduzione fatta da Giovanni Calvino del termine n(e)tilat142 sembra soverchiare, a detta del Montgomery, la determinazione alla umiliazione/umanizzazione del re Nebucadnetsar, la cui presunta santità la saga giudaica ha voluto sostenere come canonica.143 Se il termine n(e)tilat va inteso nel senso di una radicale rimozione della bestia in oggetto dalla terra, è inevitabile che si debba convenire con il Montgomery sulla probabilità del consenso alla seguente affermazione del Charles nel suo commentario a Daniele, a proposito della tesi della semplice umanizzazione della bestia ma non del suo annichilimento: “It must be confessed that the above explanation is rather forced, but this is owing to the combination of two really incongrous sets of ideas,e., with the interpolation of the theme of Neb.”144 Appena dopo aver dichiarato un tale consenso, il Montgomery sembra però voler attenuare l’incidenza dei quattro verbi al passato presenti nel verso e dunque anche della forma n(e)tilat della radice ntl: “The four pass. vbs. in this v., followed by other cases below (of the Peîl peculiar to early Aram.) belong to the later euphemistic language.”145 Pur essendo altrove attestato un tale uso eufemistico146 non è necessario che ciò venga nel nostro caso ammesso, dal momento che il contrasto tra la tesi dell’umanizzazione della bestia e quella del suo annichilimento può essere spiegato altrimenti. La relazione tra il sogno del capitolo due e la visione delle quattro bestie è evidente, ma va notato che la testa d’oro sembra limitare la relazione della prima bestia al re Nebucadnetsar, mentre negli altri casi si tratta della globalità dei regni oltre che dei relativi principali esponenti, benché l’affermazione “... e dopo di te sorgerà un altro regno...” induca a ritenere che la testa d’oro rappresenti nello stesso tempo l’impero babilonese nel suo insieme.147
    Il sogno del capitolo 2 di Daniele è destinato nell’immediato ad un individuo, e dunque il suo contenuto tende a svilupparsi nei termini di un messaggio esclusivo. Il verso 4 concerne l’intero sviluppo della prima bestia, ossia dell’impero babilonese, e non soltanto il re Nebucadnetsar, il quale si colloca nella prima parte del verso, perché le ali non furono strappate alla bestia se non quando questi ormai non era più in vita, nonostante egli avesse già subito un giudizio, poi seguito dal riconoscimento del dominio di Dio e dalla riabilitazione,148 perciò l’umanizzazione di Nebucadnetsar è di tutt’altro genere e non ha nulla da spartire con lo scoramento definitivo dell’impero babilonese all’epoca ed a seguito della profanazione di Belsatsar.
    La tesi del Rashi sulla corretta vocalizzazione di ‘nsh149 sembra la più adatta al nostro caso e nello stesso tempo compatibile con la traduzione di Calvino del termine n(e)tilat senza con ciò voler compromettere la santità di un re pagano.

    - Verso V -
    Per il Montgomery h(a)qimat viene “incorrectly pointed by M as active”, mentre la sua vocalizzazione, benché risultando attiva nella coniugazione Hiphil,150 è in realtà passiva nella struttura aram. della radice qwm in oggetto, secondo la coniugazione Haph, (Pf. 3 fs.) attestata altrove nel libro di Daniele,151 e dunque, per le medesime ragioni è errata la traduzione della AVRV.152
    Il violento carattere e l’attitudine della bestia in questione al cruento sono evidenti in Isaia ed Aristotele,153 e della forza distruttiva dei Medî si riscontrano tracce nei Profeti.154
    Il verso è risultato particolarmente emblematico ai vari commentatori che si sono cimentati nella sua interpretazione, specialmente per la difficoltà d’identificare le entità che si celano nella figura delle tre costole tra i denti dell’orso. Il Bernini, secondo il quale non è chiaro cosa rappresenti la bestia del verso in questione, a questo proposito scrive: “... forse allusione al fatto che quando la bestia feroce ha preso la sua preda tra i denti, appena si riesce a strapparle qualche resto dalle fauci.”155 E’ stato suggerito che le tre costole rappresentino tre re persiani156 ma Girolamo non sembra altrettanto convinto: “... dopo Ciro, che regnò per trent’anni, sappiamo che in Persia regnò suo figlio Cambise coi maghi suoi fratelli, e poi Dario (al secondo anno del suo regno si iniziò la costruzione di Gerusalemme); il quinto successore fu Serse, figlio di Dario, il sesto Arbatano, il settimo Artaserse soprannominato Longimano, l’ottavo Serse, il nono Sogdiano, il decimo Dario soprannominato lo Spurio, l’undicesimo Artaserse detto Mnemone, il dodicesimo un altro Artaserse soprannominato anche lui Oco, il tredicesimo Arsen, figlio di Oco, il decimoquarto Dario figlio di Arsamo, sconfitto da Alessandro re dei macedoni; ora, com’è possibile dire che siano stati tre i re della Persia? a meno che non ne tiriamo fuori tre dei più crudeli, ma anche questi non riusciremmo a trovarli nei resoconti storici...”157 Per la Baldwin invece “three ribs represent the victim of a previous hunt which has not satisfied its appetite.”158
    L’ipotesi sostenuta sia da Girolamo che da Ippolito ritiene che “le tre serie o file nella bocca e nei denti del regno persiano le dobbiamo considerare come i tre regni - babilonese, medo e persiano - riuniti in un unico regno.”159 Calvino vorrebbe proporci una versione estesa a più regni della stessa ipotesi, ma finisce per affiancarsi a Girolamo ed Ippolito, nel momento in cui riconosce che sono specialmente i Medî, gli Assiri ed i Caldei l’oggetto principale della conquista persiana, giacché l’Asia Minore avrebbe acknowledged his authority: “Cyrus also subdued many nations... When, therefore, the Prophet speaks of three ribs, it implies the insatiable nature of this beast... For, by many ribs, he means much prey. This is the whole sense.”160 Gli argomenti di Calvino dovrebbero indurre alle medesime conclusioni: se la Persia rappresenta l’entità che promuove all’origine la conquista ed impone il proprio dominio, rappresentata dunque più verosimilmente ed esclusivamente dall’orso, allora le tre costole rappresentano, quali maggiori conquiste, gli Assiri, i Caldei, ed i Medî, benché quest’ultimi vengano incorporati a pieno titolo nell’impero, secondo l’illuminata sobrietà persiana registrata dalla tradizione giudaica, specialmente a motivo dei notevoli benefici ricevuti da Israele.161

    - Verso VI -
    Imprevedibilmente, il Montgomery attribuisce il contenuto del verso alla Persia, senza titubanze e confutando l’impressione di conservatorismo fondamentalista che di questi ci si potrebbe fare a primo acchito.162 La tesi fondamentalista, ritiene generalmente che vi sia una progressione irreversibile nel processo di successione al potere delle bestie, tale da escludere la possibilità di una riedizione della seconda bestia nella terza, e di questa nella quarta, presentando ciascuna caratteristiche peculiari.
    La generalità dei commentatori e degli esegeti appone il proprio sigillo sull’eterogeneità della quarta bestia, oltre a riconoscerne l’origine occidentale, la quale è riconosciuta dallo stesso Montgomery, benché non nel senso del fondamentalismo.163 Certamente non meno determinato del Montgomery, Girolamo è ancora tra i primi riferimenti di opposizione fondamentalista nell’affermare al primo impatto la tesi secondo cui la terza bestia altro non è che il regno macedone, in equivalenza al “ventre ed ai lombi di bronzo” di Dan. 2: 32.163 E’ logico attendersi da coloro che hanno riconosciuto nella prima e nella seconda bestia i Babilonesi ed i Persiani, che riconoscano ora che nel regno macedone l’unico candidato ad essere rappresentato dalla terza bestia, a meno che non si voglia comprimere il simbolismo delle quattro bestie, estinguendone la portata al tempo dei Maccabei, e comunque prima dell’avvento dei Romani sulla scena del potere.
    La prima impressione è che non manchino tra i conservatori coloro che non si rendono conto della posta in gioco, o forse semplicemente, che non colgono la dinamica della progressione del simbolismo apocalittico, lasciando pericolosamente aperta la questione, col rischio di farsi scalzare nel momento in cui si deve operare il passaggio tra quarta bestia e l’attualità di quei derivati che sono essenziali alla resa escatologica del libro di Daniele: “La terza bestia che sorge dal mare è un leopardo o pantera, un animale noto per la sua velocità ed agilità... Le quattro teste non rappresentano i quattro re persiani menzionati in Daniele 11: 2 né i quattro successori delle conquiste di Alessandro, ma piuttosto, simboleggiano il carattere universale del regno, i quattro angoli della terra. In Daniele 2: 39 è affermato che questo regno dominerà sulla terra”.164 In realtà l’indefinizione di Young è soltanto momentanea e metodologica, perché al termine dei versi 1-13 egli fa seguire le varie teorie relative all’individuazione delle quattro bestie, esplicitando la sua propria posizione a tal riguardo, del tutto compatibile con quella di Girolamo.165 L’opinione che Ciro ha di se stesso, quale monarca delle quattro regioni, non implicherebbe il superamento dell’interpretazione “... of this beast as Greece, since Hipp.’s day, identified the four heads with the four kingdoms of the Diadochi.”166
    Calvino ha tentato l’identificazione della bestia, delle sue teste e delle ali, collegando le vicende storiche ai contenuti simbolici, perché, dopo aver passato in rassegna (come da manuale) le principali tappe ed i fatti salienti dell’impero alessandrino, egli scrive: “By four wings and four heads, Daniel means that partition which was made immediately after the death of Alexander. Now, therefore, we understand what God shewed to his Prophet under this vision, when he set before him the image of a leopard with four wings and heads.”167 Quando consideriamo la fine di tutte le parti coinvolte nella lotta per la successione ad Alessandro e la divisione del regno tra i generali sopravvissuti, non si può che associare l’idea del dissolvimento, ossia della volatilità, e del decentramento del potere, alle quattro teste ed alle quattro ali: “But four only survived, and so the whole empire of Alexander was divided into four parts. For Seleucus, whose successor was Antiochus, obtained Upper Asia, that is, the eastern empire; Antigonus, Asia Minor, with a part of Cilicia, and Phrygia, and other neighbouring regions; Ptolemy seized upon Egypt and a part of Africa; Cassander and then Antipater were kings of Macedon.”168
    Va notata (per essere altrove ripresa) l’evidenza di un’implicita ottica politologica che progressivamente va delineandosi nei capitoli 2, 4, 5, 7-12 di Daniele, secondo un crescendo simultaneo alla descrizione delle quattro bestie, fino all’avvento del Regno di Dio, quasi a sottolineare ed a confermare la necessità che la relazione, ovvero il conflitto, tra il regno dei cieli e le bestie terrene, vada posta in categorie teocratiche tali da poter essere decodificate, oltre che in termini teologico-spirituali anche in quelli familiari alla dottrina dello stato, dai vari codici ai molteplici ministeri, dalla sua struttura alle sue funzioni, inevitabilmente collegate ai temi della giustizia, del diritto, dello sviluppo globale ed imparziale. Il libro di Daniele rappresenta un costante richiamo a tali valori (perché la volontà di Dio “sia fatta in terra come è fatta nel cielo”), piuttosto che una delega al pietistico disinteresse per il mondo in attesa del regno futuro. E’ proprio il simbolismo utilizzato per le bestie e la sovranità di Dio sulle vicende di quest’ultime che inducono all’idea di una religione che si occupi di etica sociale e dello sviluppo, nonostante ciò debba significare la traduzione dei principi spirituali del Regno di Dio in termini politici, e benché quest’ultima operazione vada elaborata specificamente a motivo della tecnicità dei suoi contenuti. Il libro di Daniele è perciò un ostacolo per i teologi del disimpegno etico-sociale e politico, per i distruttori di una religiosità intera, per i dissacratori ed i mistificatori dei valori spirituali, per gli emissari del potere temporale delle bestie, animati dal disegno di rendere bestiale anche la religione, pur assecondandone la forma, affinché la seduzione sia palese solo quando ormai la cristianità è condotta oltre i tempi e la legge.
    La logica bestiale è la lotta per la sopravvivenza ed il dominio per non farsi dominare: in tale formula si racchiudono tutte le mostruosità politiche, economiche e sociali della storia umana. Ai nostri giorni tale logica continua a seminare ingiustizia, sofferenza e distruzioni, perché umanamente sembra non vi siano alternative alla possibilità di dominare o farsi dominare. Un despota è detto illuminato, quando pur sapendo che i deboli devono pagare più di tutti per garantirsi la simpatia e la collaborazione dei forti, egli trova la maniera per porre dei limiti all’ingiustia ed alle sofferenze. Un despota illuminato deve spesso far fronte a molte congiure di palazzo, perché l’avidità non si accontenta delle mezze misure, in quanto acceca e rende vili, disumani, superbi e presuntuosi. Gli statisti che rubano il meno possibile, anche se spesso e volentieri, accontentano molti ricchi e tanti poveri, ma non coloro che vorrebbero rubare tutto e per sempre. Così oggi in economia v’è la tendenza non a chiedersi cosa sia giusto per una nazione, bensì a predisporre le condizioni più convenienti per gli investitori, garantendo che la privatizzazione sia profonda e non implichi l’onere del deficit di bilancio dello Stato (ossia quella cosa che serve ed è servita ad arricchire la quasi totalità di coloro che compreranno lo Stato) e spese sociali, comunque e sempre, specialmente a carico dei cittadini più deboli e non integrati nei processi finanziari, perché altrimenti il paradiso finanziario non sarebbe competitivo. Quando la cristianità diventa complice del ricatto della logica bestiale, l’apocalittica viene anche tristemente ridotta a servire e consolare la brama di possesso del mondo e l’esigenza di farsi un’assicurazione privata con la bestia che comanda di qua ed il padreterno che comanda di là, in maniera che tutto possa essere cambiato in travel cheques validi all’altro mondo. La logica bestiale è ancora oggi logica di ricatto e di dominio: logica che penalizza pesantemente la vita di coloro che oppongono la logica del regno di Dio, rendendola ardua ed aliena, sia che si tratti di politica, di economia, di cultura che di chiese, sinagoghe, moschee e religione in genere. La situazione è sempre quella descritta nel vangelo di Luca xxii, 24-27, dove anche si spiega in cosa consista la divinità della vera grandezza in evidente contrapposizione alla logica della grandezza bestiale, a cui gli apostoli in qualche misura (forse inconsapevolmente) continuavano a far riferimento: “E tra di loro sorse anche una contesa, intorno a chi di loro doveva essere considerato il maggiore. Ma Gesù disse loro: I re delle nazioni le signoreggiano, e coloro che esercitano autorità su di esse sono chiamati benefattori. Ma con voi non sia così ; anzi il più grande fra di voi sia come il minore e chi governa come colui che serve. Chi è infatti più grande chi siede a tavola, o colui che serve? Non è forse colui che siede a tavola? Eppure io sono in mezzo a voi come colui che serve.” Similmente uno statista è realmente un grand’uomo nella misura in cui serve e non nella misura in cui signoreggia, benché la storia sia ricca di pagine dedicate alle mezze tacche.
    Il luogo comune è che il Protestantesimo debba coincidere con la promozione di un esasperato liberismo economico, oltre che con il rifiuto di un riconoscimento teocratico alla religione,169 ma a giudicare dalle conclusioni a cui giunge Calvino (il cui commentario sul libro di Daniele è certamente tra i maggiori) nella sua Istituzione della Religione Cristiana, il Protestantesimo dovrebbe fondarsi sull’etica biblica per realizzare con equilibrio gli ideali teocratici, così spesso soggetti agli abusi del fanatismo e della prepotenza. Si direbbe che alcuni signori vorrebbero strumentalizzare il Protestantesimo pensando con ciò di “liquidare” la nobile vocazione e la straordinaria portata dell’etica cattolica, allo scopo di sbarazzarsi, una volta riusciti nel loro intento, sia del Protestantesimo che del Cattolicesimo, come anche di ogni altro monoteismo che si prefigga degli obiettivi teocratici (dunque l’Islam ed il Giudaismo).
    Le sezioni del libro di Daniele relative alle quattro bestie ci dicono che, non soltanto non ci si può ritenere cristiani, (prescindendo dall’ortodossia della dogmatica tradizionale) ma neppure monoteisti se si rifiutano i valori della sovranità di Dio (impliciti negli assunti teocratici), sull’umanità ed il pianeta, senza eccezioni e limitazioni temporali.169 Quando, infatti, Calvino interpreta “Power was given to the beast” è al successo delle incredibili imprese politiche e militari di Alessandro che egli pensa, le quali però non sfuggono mai, dal punto di vista della sua visione teocratica, alla sovrana provvidenza ed al giudizio di Dio, assicurati alle bestie di tutte le epoche, come lo fu per Nebucadnetsar ed il discusso Belsatsar: “Alexander... engaged in battle with 150,000, then with 400,000, and then with almost a myriad. For Darius in his last battle had collected above 800,000 men besides camp-followers, so that there were almost a million with him... Fifteen or twenty leaders divided among themselves both offices and power, while no one dared to assume the name of king... But they soon afterwards united; and that was an admirable specimen of God’s Providence, which alone is sufficient to prove that passage of Scripture: He who sheds man’s blood, by man shall his blood be shed.170 His mother, at the age of eighty, suffered a violent death; his wife, Roxana, was strangled; his son perished miserably; Aridæus, his brother... was slain with the rest - in truth, the whole family of Alexander suffered violent deaths...”171 La stessa affermazione “le fu dato il potere” viene ad assumere nel commento del Bernini la forte coloritura teocratica che gli è propria: “... da Dio, da cui dipendono i regni della terra (cfr. Dn. 2,37; 4,14.22.29.32; 5,18-19.21-28).”172
    L’idea di un’autonomia della storia del mondo e, dunque, di una legittimazione dell’indifferentismo pietista, i cui aspetti liberistici di rado e molto difficilmente si distinguono dall’utilitarismo laico, è insostenibile quando si considera che persino le conquiste ed i progressi più formidabili, in ogni tempo, dipendono da Dio, secondo quanto anche Girolamo afferma, commentando il verso in esame: “... E portava quattro ali: nessuna vittoria, infatti, fu più fulminea di quella di Alessandro, il quale con una corsa dall’Illirico e dal mare Adriatico fino all’Oceano Indiano e al fiume Gange passò non tanto da una battaglia all’altra ma da una vittoria all’altra, e in sei anni pose sotto il suo dominio parte dell’Europa e tutta l’Asia. Le quattro teste, poi, significano gli altrettanti suoi condottieri divenuti suoi successori al regno: Tolomeo, Seleuco, Filippo e Antigone. L’espressione aggiunta: e le fu dato il potere, fa capire che dipese non dalla potenza di Alessandro, bensì dal volere del Signore.”173
    Uno stato laico può credersi autonomo pur dipendendo la sua esistenza dalla volontà di Dio. Il laicismo può dimostrarsi preferibile in alcune epoche, perché Dio sceglie i sistemi di governo in base alla maggiore capacità di garantire i principi etici del regno dei cieli. Quando le teocrazie rappresentano un grave pericolo per la coesistenza umana, essendo spesso animate dalla brama di ricchezze e dal fanatismo anziché dall’amore per i propri simili (ben oltre i limiti confessionali), è comprensibile che Dio scelga i governi laici, i quali però dovrebbero curarsi di non superare i limiti imposti affinché non degenerino in brame e fanatismi almeno altrettanto perniciosi, provocando l’estinzione della propria forma di governo.

    - Verso VII -
    Dal mio punto di vista, accapigliarsi per decidere chi o cosa rappresenti la quarta bestia e se le dieci corna siano dieci re macedoni oppure romani, è sostanzialmente inutile. L’inutilità dipende dal fatto che l’esegesi e la ricostruzione storica dei fatti soggiace in realtà ad una precomprensione dell’intera questione. Il problema è piuttosto un altro e riguarda la dignità e la credibilità del messianismo giudeocristiano, ovvero la possibilità che il libro di Daniele possa rientrare coerentemente in un più ampio quadro apocalittico, non illusorio e neppure confutato da un presunto fallimento dell’obiettivo escatologico che abbia esaurito il complesso del simbolismo delle quattro bestie con l’avvento di Antioco IV detto Epifane, senza che la fine di quest’ultimo abbia determinato l’avvento del regno di Dio. Quando non si è animati dal tentativo di verificare una relazione coerente tra, ad esempio, il libro di Daniele e l’Apocalisse di Giovanni,174 le cui descrizioni della bestia che sale dal mare ben si adattano alla quarta bestia di Daniele, ogni identificazione è buona, quasi indifferentemente, (tanto si tratta di miti...) purché si riesca a collocarla nel simbolismo del settimo capitolo di Daniele: “Le dieci corna potrebbero simboleggiare dieci diramazioni dello stesso ramo cioè dello stesso regno, in senso di simultaneità o di successione. Nel primo caso potrebbero simboleggiare i Diadochi o i dieci successori di Alessandro Magno. Nel secondo, invece, dieci successori di Alessandro fino all’ultimo corno, di cui nel v. 8.”175 L’attitudine a risolvere la questione dell’identità della quarta bestia entro l’epoca di dominio ellenistico è l’inevitabile conseguenza della storiografia naturalistica, nel senso che, a partire dal gratuito assunto che l’autore principale (o gli autori) del libro di Daniele sia un patriota vissuto al tempo dei maccabei, si è indotti a spiegare la seconda sezione del libro, in particolare, (denominata dagli storico-critici Daniele B) in esclusiva dipendenza dalle vicende storiche di quel tempo, richiamando in tutto ciò gli assunti, le prevenute motivazioni ed i procedimenti porfiriani, la cui opera ci perviene in frammenti attraverso le citazioni dei padri della Chiesa e specialmente di Girolamo.176 E’ infatti Porfirio a ritenere che Antioco Epifane rappresenti l’ultima espressione della quarta bestia a differenza degli antichi autori ecclesiastici, i quali all’unanimità ritengono che le dieci corna rappresentano dieci re romani.177
    Un tentativo di ovviare all’apparente fallimento delle profezie messianiche all’indomani della caduta dell’Impero Romano, tale quale concepito tradizionalmente, è quello riferito da Giovanni Calvino, il quale così commenta il verso in questione: “... since it is clear, from this prediction, that Christ’s kingdom was erected by the overthrow of the Roman dominion, the Jews turn round, and as I have said, join the Turkish monarchy with the Roman, since they do not find their Christ according to their imagination. And there are some of our writers who think this image ought not to be restricted to the Roman Empire, but ought to include the Turkish. In My view, there is nothing probable in that opinion; I have no doubt that in this vision the Prophet was shewn the figure of the Roman Empire, and this will be more apparent as we go on.”178
    L’individuazione della quarta bestia, a partire dai presupposti naturalistico-porfiriani, implica la compressione dei tempi escatologici e dunque la persuasione che le tesi messianiche siano così confutate. Le ragioni per cui la quarta bestia è considerata formidabile e molto forte vengono individuate nelle stabili ed estese conquiste dell’Impero Romano, oltre quelle delle bestie precedenti.179 Un motivo, infatti, per cui è poco credibile che la quarta bestia riguardi Alessandro ed i suoi derivati, è la globalità, anche se conflittuale, del potere della bestia a cui i vv. 23 e 25 sembrano riferirsi, senza escludere alcun territorio, popolo e lingua, (medesimo destino per Israele) in assoluta sintonia con la medesima idea della globalità del sistema apocalittico del N.T.180 Se di globalità si tratta nei versi di Daniele prima menzionati, allora l’evidenza che Israele sia l’ultima a capitolare a seguito di una coalizione internazionale capeggiata dal Piccolo Corno concerne una situazione che si colloca nel tempo che intercorre tra il verso 23 ed il 25.181
    Se tutto ciò è necessario al sistema apocalittico, senza soluzione d’interdipendenza e continuità tra Antico e Nuovo Testamento, come si spiega che l’Impero Romano, pur essendo più vasto dei precedenti non può essere considerato globale neppure dal punto di vista delle dimensioni del mondo allora conosciuto? E come si spiega che, pur prescindendo dal presunto fallimento dell’ideale messianico all’epoca di Antioco IV, relativo alla tesi seleucida e comunque ellenistica della quarta bestia, l’apocalittica giudeocristiana sembra aver fallito anche qualora si sostenesse la tesi tradizionale dei padri della Chiesa riguardo all’identità tra quarta bestia ed Impero Romano? Per poter rispondere a quest’ultimi interrogativi è opportuno proporne ancora altri. Dal punto di vista biblico, l’Impero Romano è realmente estinto oppure soltanto apparentemente e momentaneamente nel V secolo d.C.? Gli imperi costituitisi sul suolo europeo, o comunque dei popoli originariamente parte dell’Impero, purché non soppiantati radicalmente e geneticamente da altri, sono da considerarsi romani? I nuovi continenti ed eventuali territori aggiuntivi, non facenti parte originariamente dei domini di Roma, ma attualmente sotto il controllo politico e culturale di popoli anticamente governati da Roma, sono eventualmente da considerarsi di fatto o potenzialmente parte dell’Impero, benché questi sia in apparenza in frammenti? Nell’ipotesi in cui si possa parlare d’Impero Romano di fatto o potenziale, includendo tutti i popoli i quali, geneticamente o soltanto culturalmente rappresentano uno sviluppo della romanità (benché ciò non implichi la generalità del ceppo latino, sia genetico che linguistico), è possibile che la nuova capitale possa essere diversa da quella antica e situarsi persino sul territorio di altri continenti o di nuove colonie emancipatesi?
    In primo luogo dovremmo, prima di rispondere a tutti gli altri interrogativi, verificare la possibilità che l’antico Impero Romano non sia da considerarsi realmente estinto, ovvero che possa, dal punto di vista biblico, rinnovarsi e rifondersi più che ricostituirsi. Un possibile indizio di quest’ultima possibilità è rappresentato semplicemente dai versi 3, 12 e 14 del tredicesimo capitolo dell’Apocalisse di Giovanni. L’apocalittica giudaica, senza le possibilità offerte dal N.T. e dall’Apocalisse di Giovanni in particolare, si troverebbe con molta probabilità dinanzi ad un muro imponente di avverse evidenze storiche, tali da provocare la riduzione dell’ideale messianico a mito religioso. Inoltre, se l’apocalittica del libro di Daniele non si risolvesse in quella del N.T., i tentativi di attualizzazione degli schemi escatologici, così come il messianismo, risulterebbero privi di senso, inutili ed utopici.182 Gli elementi che si ricollegano al settimo capitolo di Daniele sono così evidenti in Apocalisse 13 che si può parlare di complementarità ed interdipendenza. G. R. Beasley - Murray ritiene che i particolari del mostro marino sono tratti da Daniele 7, e, che, pur trattandosi di caratteristiche delle prime tre bestie in Daniele, nondimeno esse si riferiscano, tra le altre, alla quarta bestia (l’Impero Romano), alle sette teste (la successione degli imperatori) ed alle dieci corna (dieci re alleati), mentre i nomi di bestemmia sarebbero gli attributi divini che i sovrani pretendono.183
    Si è riscontrato che la testa rappresenta un’entità personale di una particolare bestia, ma non si può dare per certo che, almeno illusoriamente, la forma di potere non muti in modo da chiamare con un diverso appellativo l’entità che prima veniva riconosciuto come l’Imperatore. Se la testa è il rappresentante del potere, allora la testa come ferita a morte non è la quarta bestia nel suo insieme, bensì soltanto uno degli imperatori che a causa del colpo mortale ricevuto determina un’attenuazione del potere della quarta bestia, oppure una sua parziale sospensione. Prescindendo dai riferimenti storici, “la maggior parte dei commentatori sono propensi ad interpretare la guarigione della ferita a morte riferentesi alla testa (imperatore) in questione, che è quindi identificata con la bestia stessa (come nei vv. 12, 14, 17)” e “ciò potrebbe significare soltanto che uno degli imperatori doveva sorgere dai morti e riassumere il carattere dell’Impero di diabolica ispirazione.”184 Negli anni in cui si scriveva l’Apocalisse di Giovanni si andava dicendo di Nerone, suicidatosi nel 68 D.C., “che sarebbe ritornato alla testa delle potenze orientali contro Roma.”185

    a. Attualità e composizione della IV Bestia
    In un certo numero di testi qumranici i kittim rappresentano l’ultimo potere mondiale dei gentili, ma lo stesso termine è usato nel Commentario di Habacuc dalla Grotta n. 1 per far riferimento ai Caldei (mandati da Dio per giudicare la rapacità dei governanti della Giudea), ed in un frammentario commentario su Isaia dalla Grotta n. 4, in cui l’avanzata e la caduta degli Assiri è intesa quale “guerra dei kittim”.186 Una rilevante coincidenza ai fini dei propositi etico-messianici del presente lavoro, concerne il contesto escatologico entro il quale i kittim operano contro il Patto e dunque in opposizione ai tempi e la legge, nel luogo ove si menziona la guerra dei figli della luce contro “le bande dei kittim di Asshur e coloro che aiutano chi opera malvagiamente contro il Patto”.187 E’ stata suggerita una derivazione da Dan. 11: 45 della seguente affermazione: “Asshur giungerà alla sua fine; nessuno lo aiuterà”.188 Se il seguito del medesimo brano conduce nuovamente al momento escatologico della tensione tra i kittim ed i figli della luce, allora Asshur si rivela una componente della IV bestia di Daniele, essendo che “il dominio dei kittim svanirà, facendo soccombere l’empietà senza lasciare traccia, e non rimarrà alcun rifugio per tutti i figli delle tenebre”.189 Tale idea è rafforzata dall’atmosfera apocalittica dell’avvenimento e dalla globalità delle sue conseguenze, in armonia con la predizione dell’eternità del regno messianico in Daniele190: “Verità e giustizia risplenderanno per tutti i confini del mondo, illuminando senza posa fino a quando saranno finiti tutti i tempi stabiliti per le tenebre. E al tempo stabilito per Dio, la sua eminente maestà risplenderà per tutti i tempi determinati in eterno per la pace e la benedizione, la gloria, la gioia e giorni lunghi per tutti i figli della luce. Nel giorno in cui i kittim cadranno vi sarà un combattimento e una strage grande al cospetto del Dio di Israele; giacché questo è il giorno, da lui determinato da molto tempo per la guerra di sterminio dei figli delle tenebre nel quale saranno impegnati in una grande strage, l’assembramento degli uomini, i figli della luce e il partito delle tenebre... Sarà questo il tempo dell’angustia per tutto il popolo della redenzione di Dio: tra tutte le loro angustie non ce ne fu mai simile, dal momento nel quale si scatena fino al suo compimento nella redenzione eterna”.191
    L’idea che l’angustia corrisponda alla grande tribolazione (la più grande che ci sia stata fino ad oggi, e non ce ne sarà più una uguale) collocata al tempo in cui “un giorno vedrete nel luogo santo colui che commette l’orribile sacrilegio”, ci ricorda che “il profeta Daniele ne ha parlato. Chi legge cerchi di capire”.192 Che Asshur sia solo una componente, tra le altre, dei kittim, ed indicativo del territorio attraverso il quale l’ultima bestia muove alla conquista di Gerusalemme, è suggerito come segue: “In such a passage Asshur (Assyria), as in Isaiah, is probably a term to denote the gentile oppressor of Israel, whereas Kittim indicates more precisely where this oppressor comes from. If the arms and tactics specified in the war scroll are of Roman type, as Y. Yadin argues, the Kittim would be the Romans, as in Daniel 11: 30. Likewise, in the Nahum Commentary, Jerusalem remains uncaptured by the kings of Greece from Antiochus (VII) to the rise of the rulers of the Kittim, who are most probably the Romans”.193
    Una lettura attenta delle informazioni riportate nella Encyclopaedia Judaica,194 è in grado di chiarire quale sia il carattere composito dei kittim, riconoscendone però ai Romani un’attribuzione del tutto speciale, alla cui origine è la semplice constatazione che “in the table of nations Kittim is mentioned among the sons of Javan and the brothers of Elishah”.195 L’idea che kittim divenga poi tutto ciò che è conquista degli stessi (e dunque si comprende perché Asshur venga inteso come tale) si spiegherebbe in “an obscure verse in the prophecies of Balaam, which seems to say: Ships come from the quarter of Kittim; they subject Ashur, subject Eber...”196 Tale criterio può indurre ad estendere l’individuazione della IV bestia con il potere che è conseguenza dei tradizionali territori dei kittim e con le nazioni subordinate al proprio ordine politico ed economico, perciò può essere in tal modo ammessa l’ipotesi che l’Impero Romano non si sia mai realmente estinto e che sia sopravvissuto, sia pure con alterna fortuna, nelle forme di potere ed in seno ai popoli di matrice ed origine occidentale ed europea, in genere, e latina ed italica in particolare, con Roma quale centro motore, la cui rinascita in tutta la sua ispirazione autarchica si presenta come probabile e verosimile, secondo le forme politiche, economiche e spirituali che le sono più congeniali.
    Tutto ciò esige una visione più elastica nell’individuare, in relazione a quel sistema politico globale che potrebbe con maggiore probabilità unificare i popoli e le nazioni, i caratteri peculiari della IV bestia. Il cedimento delle ideologie e delle barriere politiche a tale processo di globalizzazione, per quanto inevitabile ed addirittura necessario agli scopi del pluralismo, anche se non necessariamente in una sfrenata e vincente versione laico-capitalistica, appare come il segno dell’approssimarsi dei tempi escatologici e quale indizio della consapevolezza delle nazioni dell’impossibilità di opporre resistenza al medesimo processo, la cui risonanza sembra emergere dal funesto presentimento apocalittico, nonostante i proclami di pace e sicurezza: “Gli abitanti della terra moriranno per la paura e per il presentimento di ciò che dovrà accadere... Chi è simile alla bestia? e chi può guerreggiare con lei? Quando diranno: Pace e sicurezza, allora di subito una improvvisa ruina verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno affatto”.197
    Fermo restando la destinazione privilegiata dell’identificazione della IV Bestia all’Impero Romano è ammissibile che il suggerimento dell’Olmstead, quale citato dal Montgomery, si collochi nel contesto dell’esegesi di Dan. 7: 7: “... Professor Olmstead suggests that the monstrous sirushu198 beast would have given a prototype from Bab. art.”199 Si può anche capire che “this terrible beast is type of the Hellenistic age” e che “this fearful figure meant to the Maccabæan Jew the Seleucide Hellenism which he knew”, ma dire che “it might be equally applied, although with no better reason, by later interpretation, to the Roman empire or its barbarous continuation, to Edom (Rome)” riduce i termini complessivi della questione e mira a suggerire la necessità della compressione dei tempi escatologici sulla base di motivi che non sono necessari all’esegesi in senso stretto.200

    - Verso VIII -
    Nella sostanza la storia non è cambiata e gli argomenti sono sempre i medesimi: i naturalisti riprendono la tesi di Porfirio, mentre i biblisti d’ispirazione metafisica, o anche neo-platonici ecclesiastici e conservatori fondamentalisti in genere, ripropongono l’apologetica di San Girolamo. Benché di opinione diversa, il Montgomery riconosce che esiste “one ancient and very respectable reason why the Fourth Monarchy has been sought in Rome”, ma egli crede che tale ragione derivi dal fallimento dell’aspettazione apocalittica relativa al Regno di Dio e dunque dalla necessità di posticipare la data della profezia.201 Il fatto che i giudei abbiano (in seguito al presunto fallimento al tempo dei Maccabei), intravisto nell’Impero Romano prima (“and this ruling Jewish interpretation was naturally carried over by the Church with its vivid eschatological hopes”) e nell’Islam dopo, la IV monarchia (“and in the same spirit Protestant theologians were content to work out the fulfilment of prophecy through the Middle Ages down to their own day”) e che il Papato sia stato identificato con l’Anticristo, dovrebbe al più dimostrare che i fallimenti riguardano le interpretazioni, anche se animate dall’attesa messianica, e non le profezie.202 Nel prendere atto che i primi cristiani seguirono l’interpretazione giudaica, intravedendo la profanazione del santuario203 nell’opera di distruzione di Gerusalemme compiuta dai romani, il Montgomery è naturalmente consapevole dell’interpretazione di Gesù Cristo circa le profezie di Daniele relative ad un’abominazione della desolazione ancora da verificarsi.204 Ciononostante, a sentire il Montgomery dovremmo convenire sull’attendibilità che i dieci re altro non sono che re greci, per cui il Cristo stesso non sarebbe attendibile nella sua interpretazione del libro di Daniele.205
    Ammesso che gli Oracoli Sibillini, i quali Hilgenfeld e Schürer ascrivono ad una data non più tarda del 140 a. C., possano interpretare le dieci corna quale simbolo di Antioco Epifane e dei suoi successori, ciò non dimostra nulla di autorevole, perché è verosimile e comprensibile che ogni generazione abbia la tendenza ad applicare le profezie al proprio tempo, in quanto il criterio della globalità del potere del Piccolo Corno non sembra aver indotto i movimenti messianici di ogni epoca alla conclusione che la realizzazione delle profezie esige un processo di unificazione planetario del potere che solo la nostra epoca rende concretamente imminente.206
    All’esegesi del Montgomery, indubbiamente accompagnata da utili citazioni e riferimenti, si devono ancora proporre le semplici riflessioni di San Girolamo al seguito dei tentativi esegetici porfiriani, perché nelle contrapposizioni accademiche sugli studi biblici, non c’è nulla di effettivamente nuovo sotto il sole: “E’ inutile che Porfirio insinui che il corno piccolo, spuntato dopo le dieci corna, sia Antioco Epifane, e che delle dieci corna le tre strappate siano rispettivamente per il sesto Tolomeo detto Filometore, per il settimo Tolomeo Evergete e Artassia re di Armenia; i due primi morirono molto prima che Antioco nascesse, e sappiamo che Antioco combatté, si, contro Artassia, ma questi rimase sempre sul suo trono”.207 Ciò che sorprende è la sicurezza con cui San Girolamo interpreta le tre corna divelte: “... verso la fine del mondo, quando l’impero romano sarà in completa dissoluzione, verranno dieci re che si divideranno il mondo romano, e sorgerà poi un altro piccolo re, l’undecimo, che dei dieci re ne abbatterà tre, ossia quelli d’Egitto, d’Africa e d’Etiopia, come veniamo a sapere più esplicitamente nei versetti che seguono; e una volta fatti fuori questi, anche gli altri sette re si sottometteranno al vincitore”.208
    I tratti umani del Piccolo Corno indicherebbero che si tratta di un individuo e non di un’entità composita ed impersonale, o addirittura “come opinano alcuni...”, di un demone o del diavolo, giacché in questi Satana tutt’intero abiterà corporalmente: “ne eum potemus iuxta quorumdam opinionem, uel diabolum esse uel daemonem, sed unum de hominibus”.209 Oltre che astuzia e perspicacia, tali tratti esprimerebbero anche orgoglio ed insolenza.210 Il Piccolo Corno ha una bocca che proferisce grandi cose specialmente nel senso che “ha il coraggio di piazzarsi nel tempio di Dio proclamandosi lui stesso Dio.”211 Le corna rappresenterebbero capacità di autodifesa ed attacco, e dunque potere.212 L’affermazione di San Girolamo a proposito dell’identità delle tre corna abbattute ripropone ancora una volta la questione relativa alle componenti della quarta bestia discussa altrove. Dirò qui semplicemente che la tesi secondo cui si tratterebbe di 10 nazioni europee sostenuta generalmente dai fondamentalisti, presenta l’inconveniente del rischio di un’ennesima confutazione a seguito delle vicende politiche che si stanno consumando alla vigilia dell’unificazione europea, benché non sia definitivamente da scartare. Se il criterio è quello della globalità del potere del Piccolo Corno perché non ipotizzare che si tratti delle principali 10 potenze mondiali? In tal caso le tre corna divelte rappresentano, tra le 10, quelle che soccombono all’emergere di un undicesimo corno, per affluirvi. Quanto alla loro identità si possono soltanto fare ipotesi rese verosimili dai contemporanei avvenimenti politici. Ad esempio, la crisi del blocco sovietico può essere interpretata come la rimozione di una delle tre corna, mentre la rinascita dell’Europa come l’apparizione del Piccolo Corno, resa ancor più ragionevole dal fatto che nell’Apocalisse di Giovanni si dice che “avea ricevuta la ferita della spada ed era tornata in vita”.213 In tal modo una riedizione dell’Impero Romano e gli abitanti delle isole verrebbero a costituire nel loro insieme i kittim, attesi sullo scenario escatologico-apocalittico dalla tradizione giudeocristiana.
    Che Giovanni l’apostolo abbia potuto ritenere confermati nel proprio tempo i dati suggeriti dal libro di Daniele intorno alla IV Bestia, descritta dotata di dieci corna più uno, può essere confermato dall’evidenza di dieci imperi confluiti nell’Impero Romano nelle varie fasi della sua espansione, sette dei quali forse acquisiti dall’impero macedone. Tale evidenza è stupendamente descritta nella The Wall Chart of World History,214 dove a tutto tondo risulta che a partire dal 168 a. C. si attua quel processo di assorbimento secondo il quale la Tracia e la Macedonia, in un unico blocco, al tempo di Perseo, nel 168, distintamente la Grecia e Cartagine nel 146, Pergamo nel 138, la Bitinia al tempo di Nicomede III, il Ponto insieme alla Cappadocia nel 41, la Siria sotto i Seleucidi nel 65, l’Egitto sotto i Tolomei, al tempo di Cleopatra nel 30, e più tardi la Palestina e la Britannia, escludendo le conquiste minori, entrano a far parte della Repubblica Romana, la quale al termine di tale processo si trasforma in Impero. Se tutto ciò è originato da una migrazione di una colonia greca in Italia nel 1700 a. C. circa,215 è probabile che i kittim, biblicamente discendenti di Iavan, siano da identificarsi col la medesima colonia, giacché con tale termine si tende ad identificare tutti i popoli assorbiti dall’Impero Romano. Infatti la Genesi cita i discendenti di kittim tra coloro e che abitarono le isole delle nazioni, al fianco però degli altri figli di Iafet, perciò il termine kittim andrebbe riferito in primo luogo agli antenati dei Romani, ed in un secondo momento a tutti i popoli assorbiti da questi ultimi.216
    Il problema, comunque, di una distinzione di kittim dagli altri suoi fratelli non esiste, dal momento che Iavan nel suo insieme penetra nel IV Impero, assumendo esso stesso la connotazione di kittim. Secondo la stessa Wall Chart soltanto Fohi oppure Yao, supposti discendenti diretti di Noè e fondatori della I dinastia Hiah e dunque della Cina, resterebbero esclusi, insieme ai Parti, alla Caledonia, e loro derivati, dall’antica conformazione dell’Impero Romano, fino a quando la nuova non assorbirà tutto. La Scozia, derivata dall’antica Caledonia finisce per essere assorbita, ad opera degli Stuart, dall’Inghilterra, mentre l’India ed il Giappone contemporanei possono essere intesi (nonostante la loro indipendenza) quali sintomi d’indebolimento dell’autonomia degli antichi Parti e Cinesi. L’idea base dell’intera questione relativa all’ipotetica riedizione della IV Bestia, consiste nel ritrovare 10 + 1 entità, progressivamente differenziatesi all’indomani della caduta dell’Impero Romano, nel senso che i relativi gruppi etnici, distintisi come imperi durante il Medioevo, hanno dato luogo alla nascita della quasi totalità delle nazioni, secondo quanto ci viene indicato dallo studio comparato della storia dei popoli fino all’età contemporanea.217 Ad esempio il ceppo britannico verrebbe a caratterizzare, oltre alla già menzionata Scozia, anche gli U.S.A., la Repubblica d’Irlanda, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada, la Repubblica del Sudàfrica e la Gran Bretagna, allo stesso modo di quanto si può concepire per gli altri ceppi originari dell’antico impero.218
    E’ di grande interesse l’ottica con cui la Wall Chart guarda allo Stato del Vaticano, ponendo quest’ultimo quale diretta conseguenza dell’Impero Romano d’Occidente, per cui esisterebbe un residuo cristianizzato dell’antica tradizione imperiale, a cominciare da Costantino il Grande e senza soluzione di continuità. L’idea che la ricostituzione dell’Impero possa procedere dallo Stato del Vaticano non può che ripugnare all’intera cristianità, se è vero che la ricostituzione della IV bestia procede dal medesimo impero. Potrebbe rendersi verosimile che un’autorità secolare possa influenzare così pesantemente lo Stato del Vaticano da riuscire con inganni e prepotenze a farne il centro dinamico e politico per la ricostituzione dell’Impero Romano. Ciò potrebbe significare l’unificazione di tre potenze occidentali in seno allo stato vaticano riformato in senso imperiale. Il Piccolo Corno potrebbe impossessarsi della sede del potere vaticano, unificare tre componenti occidentali e procedere alla stipula di un patto internazionale di pace e sicurezza, con particolare riferimento ad Israele ed in accordo con un falso messia giudeo, il quale può essere assimilato alla bestia che sale dalla terra di Ap. 13. Dovremmo perciò considerare con attenzione quelle entità che oltre a combinare il potere dell’economia e della politica, mirino al potere religioso e siano capaci di acquisirlo.
    E’ difficile arrendersi all’idea che la prima autorità morale della cattolicità possa concepire e soggiacere ad una simile deviazione, radicalmente contrapposta alla concezione etico-messianica del regno di Dio, anche se i tentativi di snaturamento dell’autorità cattolica da parte di entità animate dalla volontà di un ritorno all’autarchia imperiale sia tutt’altro da escludere. Evidentemente si tratterebbe di un impostura, perché è impossibile che il Piccolo Corno possa credere e rappresentare la tradizione della Chiesa Cattolica Romana: la finzione sarebbe tale da non poter dubitare dell’adesione sia alla teologia dogmatica in senso stretto che alla dottrina sociale, alla quale l’attuale papa è fortemente ispirato. Comunque, nel valutare i fenomeni religiosi, economici e politici da una prospettiva apocalittica, non si può rischiare d’interpretare affermazioni programmatiche di sviluppo etico e civiltà spirituale quale sicuro segno d’ortodossia ed estraneità alle decisioni ed alle responsabilità che preludono all’avvento del Piccolo Corno. Il dominio della religione, e probabilmente anche quello della politica, dovrebbero dunque stare in guardia nei confronti delle manovre del mondo economico, il quale appare sempre più ed implicitamente deciso ad espugnare quelle roccaforti ch’esso palesemente interpreta come una minaccia al raggiungimento della propria meta finale? Il tentativo di dominare la cultura e la comunicazione di massa, oltre che i processi di produzione e le regole di mercato, quale intento cela in realtà?219 Esiste il rischio di una degenerazione del liberismo economico, nel senso di una opposizione sia ai principi di democrazia che a quelli di teocrazia? Anche se tale rischio fosse reale, a motivo delle grandi questioni antropologiche rimaste insolute e problematiche per il dialogo ecumenico, è improbabile che vi sia una soluzione alla belligeranza tra ideologie, diversa dalla strategia del laicismo liberistico.
    Ciò che può essere fatto consiste nella promozione della comprensione e della coesistenza tra diverse entità confessionali, ma la laicizzazione dello stato ed una liberalizzazione sociale dell’economia rappresentano delle tappe inevitabili per un’umanità irrisolta ed eterogenea. Ritengo che, da una prospettiva biblica, la religione umanistica non sia in grado di eticizzare il mondo e le forme degenerate dell’economia e della politica, a meno che non si affrontino i problemi antropologici correlati alla verità teologica. In seno al fondamentalismo protestante è diffusa l’idea secondo la quale “la Babilonia finale è un grande sistema ecclesiastico, il cui centro è Roma... una chiesa universale piena di corruzione, che si costituirà durante il tempo della fine.”220 Il sopravvento della IV Bestia sul sistema ecclesiastico sarebbe previsto: “Babilonia sarà sovvertita dalle dieci corna prima che i sette anni, con cui terminerà il tempo dei Gentili, siano compiuti... Il potere politico abbatté la Babilonia di un tempo e così pure il potere politico sovvertirà la Babilonia ecclesiastica.”221
    Talvolta l’impressione è che nel fondamentalismo ognuno interpreta le cose a suo uso e consumo, dichiarandosi al di fuori di Babilonia. Se una parte della cristianità applica al Vaticano il ruolo apocalittico di falsa chiesa al seguito della tradizione imperiale romana, altri coinvolgono l’insieme delle religioni, ivi comprese le chiese protestanti, dichiarandosi naturalmente esclusi: “Il vino della sua fornicazione: Una parte notevole di Babilonia la Grande è la Chiesa Cattolica Romana... Babilonia la Grande è la componente religiosa dell’organizzazione di Satana... La sua parte più notevole è oggi l’apostata cristianità, che emerse nel IV secolo dopo Cristo come potente organizzazione illegale, con credi e formalismi attinti non dalla Bibbia, ma in gran parte dalla religione babilonica.”222
    Il rischio per il fondamentalismo è quello di giudicare le altre chiese, oltre che le altre religioni, senza accorgersi di fungere in alcuni casi da supporto teologico a quelle entità economiche che sono ancor più rappresentative delle forze oscure schierate contro il Regno di Dio, e di essere da queste nello stesso tempo strumentalizzate ai fini della legittimazione di una spietata, disumana e liberistica competitività, propagandando la necessità di una coalizione laico-pietistica allo scopo di far fronte comune contro gli indubbi mali burocratici, la corruzione e la strumentalizzazione dello stato sociale, e dunque gli abusi della politica d’ispirazione cattolica e socialista, all’origine del dissesto del bilancio di molti stati, tra i quali la Repubblica Italiana. Sia il fondamentalismo pietista che (non di rado) riformato, non sembrano neppure sufficientemente consapevoli del rischio di una combinazione del liberismo economico con le forze autarchiche. Credendo così di evitare il coinvolgimento babilonico, si rischia l’acquisizione di un ruolo apocalittico ancor più diretto, ed illudendosi di non partecipare alle colpe della politica, si prevarica economicamente contro lo stesso uomo che si vorrebbe salvare.
    Sarà pure che il Vaticano possa in teoria rappresentare il prolungamento cristianizzato dell’antico impero di Roma, e che grandi prove storiche possano attenderlo, è però un fatto ch’esso stia esercitando un determinante ruolo di equilibrio di poteri e che determini la riscoperta di valori etico-sociali affini all’ideologia messianica ed apocalittica, benché i suoi riferimenti antropologici siano discutibili. La convinzione secondo la quale la Chiesa Cattolica è falsa ed animata, attraverso manovre ecumeniche e pacifiste, dall’intenzione di stabilire un primato a scapito dell’altrui libertà religiosa, della quale però si fa nominalmente garante, facendo ricorso ad un patteggiamento politico-religioso che possa essere interpretato come fornicazione spirituale con tutti i re della terra, (in modo da corrispondere alla descrizione del XVIII capitolo dell’Apocalisse di Giovanni) è tutta da dimostrare, ma non attualmente escludibile. Certi atteggiamenti ufficiali e popolari della cattolicità lasciano perplessi: laddove quest’ultima si trova in minoranza o in un contesto di debolezza, s’invocano i principi etico-sociali della propria tradizione, si promuove pacifismo ed ecumenismo, si invita alla coesistenza ed alla reciproca comprensione, ma nelle circostanze in cui il potere è consolidato, l’intolleranza ed il pregiudizio verso talune minoranze di matrice non solo fondamentalista, si può talvolta avvertire più che sottilmente o diplomaticamente, fino a coinvolgere i mass media, le istituzioni, ed una fitta rete di dinamiche sociali, non di rado strutturate secondo le regole del nepotismo, del provincialismo e del clientelismo partitico e religioso, benché ciò sia arduo da dimostrare.
    Anche i fondamentalisti protestanti cadono in simili contraddizioni, ma quando le subiscono si sentono ancor più legittimati ed indotti a radicarsi nel sentimento di diffidenza nei confronti dei presunti ideali ecumenici e pacifisti. Le conseguenze di simili comportamenti, per quanto socialmente e culturalmente elaborati e complessi sul piano strategico e psicologico, rappresentano in primo luogo una grave minaccia alla stessa dottrina sociale del Cattolicesimo, ed inoltre suscitano il sospetto che l’insegnamento etico del Magistero sia strumentalizzato per affermare il primato del potere religioso e delle dottrine, tradizionalmente oggetto di disputa nel dialogo con i protestanti, la cui disapprovazione si manifesta, a sua volta, proprio nell’irrigidimento etico-sociale, per riconfermare i modelli di una borghesia religiosa votata all’impegno evangelistico, ma scettica riguardo all’ipotesi di concessioni economiche e politiche inopportune, che possano minacciare la propria incolumità e gli interessi spirituali nel processo di superamento dei mali spirituali all’origine dello snaturamento e degli abusi della politica internazionale, pur risultando arduo chiarire alle masse le ragioni di tali atteggiamenti, e rendendosi perciò vulnerabile nei confronti della divulgazione dei principi etici, i quali non è escluso che possano soggiacere a manovre di propaganda che oscurano gli effettivi termini di un’etica alternativa a quella cattolica. Si deve però ammettere che vi sono dei casi in cui è preferibile una democrazia cattolica, solo parzialmente laica e liberale, a certi laicismi di marca iperliberistica che finiscono per negare e compromettere sia la libertà e la democrazia che le prerogative costituzionali degli stati più civili. Lo Stato Vaticano potrebbe teoricamente essere invaso da forze autarchiche apocalittiche, ma spesso il Cattolicesimo può rappresentare un’alternativa civile, preferibile a tutte le altre, anche per un protestante.
    Un’etica alternativa ed ispirata ad una strategica differenziazione dello sviluppo economico, si consolida in virtù di una dinamica religiosa e culturale che esclude la coesistenza nella misura in cui gli interlocutori vengono ritenuti inaffidabili e tortuosi nella realizzazione di progetti di solidarietà, coesistenza e pacificazione, i quali si presentano formalmente ispirati a valori civili e costituzionali, ma che nella pratica destano forti sospetti di strumentalizzazione dello stato sociale, per arricchirsi alle spese della maggioranza dei cittadini ed eventualmente costringerli a debiti, penuria ed oppressione. L’ipotesi di colpa nei comportamenti economici del fondamentalismo evangelico, specialmente negli ultimi decenni, consiste proprio nella presunta assenza di un’etica sociale che renda accessibile una misura essenziale di sviluppo agli uomini ed ai popoli di tutte le nazioni, gran parte dei quali si dibattono tuttora tra le morse del ferreo groviglio del debito accumulato nei riguardi dei paesi occidentali, ragion per cui l’etica cattolica riconfermerebbe il proprio primato di valore ed attendibilità.
    Si deve ammettere che l’intolleranza ed il pregiudizio nei confronti delle minoranze è ordinariamente esercitato presso i paesi a maggioranza sia cattolica che protestante, ma non fino al punto (salvo eccezioni) di negare una ragionevole opportunità di sviluppo e di coesistenza. Le entità che non tutelano neppure al minimo le minoranze sono ben altre, le cui forme di democrazia sono fallaci, teoriche od inesistenti. Quest’ultime non dovrebbero attendersi un trattamento diverso ed illudersi che le società democratiche riservino loro opportunità illimitate e senza prudenti riserve. Anche qualora certi fondamentalismi non cristiani ritengano di dover superare le contraddizioni dell’Occidente, infiltrandosi in esso, le eventuali strategie terroristiche e violente dei propri modelli teocratici e rivoluzionari non potranno che, da una prospettiva messianica ed apocalittica, dimostrarsi fallimentari e tragiche per essi stessi, oltre che favorire la commistione e la confusione tra razzismi revanscisti ed oggettive ma coesistibili diversità strategiche ed ideologiche. La presenza degli immigrati extracomunitari, specialmente da paesi del terzo mondo, non ha posto fino ad ora problemi tali da giustificare il sospetto di tentativi rivoluzionari di fondamentalismi estranei alla tradizione laica ed alla sensibilità giudeocristiana, pur essendo teoricamente prevedibili, e dunque l’intervento del magistero cattolico in occasione dei recenti fatti razzisti di Firenze non può che aver suscitato sincera commozione per il coraggio e la visione evangelica dimostrati dai vertici della cattolicità, nonostante la defezione di una larga parte della cristianità.
    Se la profezia relativa al Piccolo Corno è fondata, ogni movimento rivoluzionario e violento contro quest’ultimo non potrà che rivelarsi inutile: una cosa però è il fondamentalismo rivoluzionario contro le forze autarchiche, altro è pretendere democrazia, pari diritti costituzionali (non di rado negate agli stessi occidentali), costruire luoghi di culto in occidente, e moltiplicarsi secondo una cultura esclusivista che non ricambia con pari opportunità, nei propri paesi d’origine, l’ospitalità delle nazioni presso le quali si è ospiti, residenti o dittadini. I cittadini extracomunitari provenienti da paesi non democratici (o tali per modo di dire) dovrebbero firmare una petizione da inviare presso il governo del proprio paese, in cui si dichiara l’adesione ai valori laici e democratici, nonché la richiesta di ricambiare la libertà e l’ospitalità, adeguandosi concretamente ai principi democratici, e riconoscendo la libertà di culto e di pensiero. Ad un rifiuto in tal senso dovrebbero seguire conseguenze immediate. Non si tratta di razzismo, bensì di chiarezza su questioni fondamentali per coesistere. So cosa sia fare la fila fuori di una questura e quale sia il calvario per un permesso di soggiorno, così come non mi è ignoto cosa sia pagare l’I.S.I., l’I.C.I. e centinaia di altre tasse ed essere costretti a riscaldarsi e cibarsi con fantasia, dopo che migliaia di grandi e milioni di piccoli patrioti hanno scassinato lo Stato (non deve tirare la cinghia chi ha rapinato ed imbrogliato la Patria, bensì comprarla e dominarla, e con mezzi persuasivi far pagare un’altra volta gli stessi debiti/rapine ai compatrioti), ma questo non è un motivo sufficiente per condividere gli attentati alla democrazia, anche da parte di certuni che non disdegnano comunque la dorata ospitalità ai ladroni d’Italia.
    La strategia del magistero cattolico riscontrabile nel pensiero etico-sociale delle encicliche, rappresenta una componente essenziale di una legittima resistenza, tale quale suggerita dall’apocalittica giudeocristiana, in relazione al settimo capitolo di Daniele. L’ispirazione autarchica del Piccolo Corno esige una struttura di governo estranea alla concezione politica del magistero cattolico. I tentativi di caratterizzazione del potere vaticano da parte del potere laico possono essere teoricamente previsti, e siccome ciò non può verificarsi coerentemente con l’insegnamento del Magistero, la maniera più efficace consisterebbe nella neutralizzazione della coscienza collettiva attraverso la strumentalizzazione dei mass media e l’elargizione o l’illusione di prerogative economiche sempre più accattivanti, da una parte, e la penetrazione ai vertici dell’autorità del Vaticano, facendo leva sulle divisioni tra vescovi e cardinali circa il governo ed il futuro della Chiesa Cattolica. E’ prevedibile una divisione in seno al Cattolicesimo, perché il Vaticano è una forza a cui le forze autarchiche dedicheranno grandi risorse ed attenzione, ritrovando in esso gravi motivi ed occasioni di divisione.
    A sommario si deve ritenere parziale l’interpretazione della IV Bestia quale entità costitutiva di 10 nazioni europee. I kittim, nella tradizione apocalittica, sia biblica che apocrifa, rappresentano un insieme di popoli acquisiti ad un ceppo d’origine iavanita al seguito di conquiste non soltanto e necessariamente militari, e comunque tali da determinare un’unico blocco interattivo, la cui destinazione è nella ricostituzione visibile di una struttura imperiale capace di esercizio planetario del potere, la cui tendenza ed i cui riferimenti sono d’ispirazione autarchica ed radicalmente contrapposti ai principi complessivi del Regno di Dio. Non importa tanto quante e quali nazioni costituiranno l’Europa del 1992, piuttosto che il processo di globalizzazione in atto, pilotato dall’Occidente e specialmente dall’Europa, il cui ruolo profetico è particolarmente significativo ed attestato dall’evidenza che la IV bestia corrisponde all’Impero Romano. L’idea di un’attualità della IV Bestia e delle relative conseguenze escatologiche ed apocalittiche, può ritenersi derivazione di una interpretazione metafisica, ma non mitologica, del libro di Daniele, il cui carattere scientifico è soltanto ipotetico e dialetticamente coesistente con la scuola di pensiero di matrice naturalistica, detta anche storico-critica.
    I criteri d’individuazione del Piccolo Corno esigono innanzitutto un esame dei comportamenti e del carattere di quest’ultimo a partire dalle stesse indicazioni del settimo capitolo di Daniele, per poi convogliare le informazioni derivate dal testo in seno ad una riflessione etico-messianica più ampia e, per quel che è possibile, interdisciplinare.

    - Verso IX -
    Girolamo nota subito la somiglianza di un brano dell’Apocalisse ed identifica i troni visti da Daniele con i ventiquattro della visione di Giovanni.223 Esistono a questo riguardo ulteriori suggerimenti. Secondo un’antica interpretazione, nelle Parabole di Enoch224 l’Antico che siede sul trono è il Figlio dell’Uomo.225 L’attribuzione di due troni, uno per Dio l’altro per Davide, sostenuta da Akiba, rappresenterebbe, secondo il Montgomery, un’intuizione messianica determinatasi a partire dal libro di Enoch.226
    Anche il N.T. avrebbe subito la medesima influenza: “This doubtless had its influence on the N.T. thought of the judgeship of the Christ... Or the assessors are the elders of Israel acc. to Tanhuma (Way., 36b, ed. Buber), with which may be compared the promise of Jesus to his apostles that they should sit, along with him on his throne of glory, on twelve thrones judging the twelve tribes of Israel, Mt. 19: 28.”227
    Il trono fiammeggiante con le sue ruote può essere paragonato alla visione della Merkabah nel primo capitolo di Ezechiele. E’ ciò che Girolamo sostiene, ricordando anche Deut. 4: 24, dove è detto che “Dio è un fuoco divoratore”, pensando con ciò di rendere esplicita l’idea “che al giorno del giudizio tutto ciò che è legno, fieno e stoppia brucerà”, e che “il fuoco gli andrà innanzi bruciando attorno a lui tutti i suoi nemici.”228

    - Verso 10 -
    L’idea del fuoco non sembra essere originale di Daniele. Dal pruno ardente di Es. 3: 3 a Mal. 4: 1, il fuoco esprime la presenza di Dio oppure la prossimità della sua venuta.229
    La Baldwin nota che “a thousand thousands is entirely parallel with ten thousand times ten thousand...”230
    L’apogeo della descrizione è nell’apertura dei libri, ovvero nell’inizio del giudizio, preparato per il giorno stabilito.231 I libri aperti costituiscono l’immagine di un tribunale che ha davanti a sé i documenti con le accuse contro il presunto reo. Il Bernini aggiunge al riguardo: “Questa solenne rappresentazione di Dio giudice e del suo tribunale, che ha le sue lontane origini nell’antica concezione di Dio e che nella predicazione fu adoperata soprattutto dal profeta Ezechiele, crea una solennità straordinaria dell’atto che Dio sta per compiere sui destini della storia del mondo.”232
    L’evidente ricongiungimento del libro di Enoch e dell’Apocalisse di Giovanni, rilevante ai fini di una formulazione escatologica unitaria, è dal Bernini riconosciuta.233 Se l’imminenza del giudizio in Ap. 1: 13-16 coincide con quella di Daniele, allora il Piccolo Corno ne è l’oggetto più eminente ed, in ambedue i casi, l’entità che si contrappone alla divinità. L’interpretazione che si deve fare di Dan. 7: 10 sembrerebbe di carattere cristologico, essendo l’antico di giorni descritto similmente dall’interlocutore dell’apostolo Giovanni, dalla tunica lunga fino ai piedi e dagli occhi ardenti come il fuoco. Però, a ben guardare il testo di Daniele, al verso 13 del settimo capitolo, il figliuol dell’uomo il cui termine è attestato nel N.T. quale titolo cristologico, viene condotto dinanzi al Vegliardo per ricevere dominio, gloria e regno, perciò dovremmo trovarci al cospetto di due entità simili che esplicano la medesima funzione nella stessa occasione, benché l’una sia subordinata all’altra.

    - Versi 13, 14 -
    Il carattere messianico dovrebbe essere attribuito al figliuol dell’uomo che viene sulle nuvole, perché è quest’ultimo che riceve gloria e dominio sovrano per sempre.234 Il Montgomery nota la reminiscenza del verso 13 in Tess. 4: 17, ma non vedo in ciò un contrasto con l’usuale interpretazione messianica del N.T.235
    Ci troviamo di fronte ad elementi biblici rilevanti per la comprensione messianica del Regno di Dio, la sua dinamica e l’interazione col potere temporale.
    Nel settimo capitolo di Daniele, la posizione del figlio dell’uomo e l’avvento della sua sovranità sul mondo sono centrali, perché rappresenta la forza o il potere radicalmente alternativo alle quattro bestie, nonché la causa per la quale la storia umana subisce una brusca mutazione di orientamento, quando, in seguito alla restaurazione autarchica da parte del Piccolo Corno, il Regno di Dio supplisce alla definitiva incapacità umana di alternative ideologiche e politiche alle strutturali e connaturate iniquità delle bestie politiche, per affermare incontestabilmente il proprio dominio. Le quattro bestie, anche se garanti di un qualche ordine e di surrogato di giustizia, rappresentano comunque il caos. Al mare apocalittico delle bestie si oppongono le nubi: “The clouds are in contrast to the chaos of waters - the Kingdom of Heaven opposed to the kingdoms of this world. It is a question how far we may press the nuances contained in the clouds; as with Dr., superhuman state and majesty, or possibly swiftness of motion.”236 La descrizione “of the viceregal investiture of the humanlike being” corrisponde al passaggio di poteri per opera di Dio, di Dan. 2: 44 e 45.
    Praticamente, insistendo Daniele con l’idea di royal audience da una parte, e con la metafora della pietra rotolata dal monte, dall’altra, si deve intendere che, sia l’ascesa al potere del Piccolo Corno che la destituzione di quest’ultimo, siano irresistibili. Se l’ascesa al potere da parte delle bestie è pur sempre in larga misura il prodotto del consenso e del coinvolgimento di forze umane (e per quanto riguarda il Piccolo Corno, è necessario che la corresponsabilità sia, ai fini del giudizio, diffusa), l’instaurazione del Regno di Dio e delle benefiche conseguenze ch’esso comporta, non possono che dipendere dall’esclusivo intervento di Dio nella storia.237 Nella stessa direzione va il commento del Bernini: “Tutti i popoli della terra, che avevano fatto parte del regno babilonese e medo-persiano, ossia dei regni precedenti, ora sono costituiti sudditi del regno del figliuol dell’uomo. Il suo potere è un potere eterno: come il regno stesso di Dio, come il regno formato dalla piccola pietra abbatutasi sulla statua.”238 Medesimo accostamento (in chiave cristologica) tra il secondo capitolo di Daniele ed il settimo, nel commento di Girolamo: “Colui che nel sogno di Nebucadnetsar viene descritto come un sasso che si stacca non per opera d’uomo e che diventa una montagna enorme dopo aver frantumato il ferro, il bronzo, l’argento e l’oro della statua, qui ci viene presentato nella figura d’un figlio d’uomo in allusione alla carne umana assunta nel Figlio di Dio, conformemente al testo che leggiamo negli Atti degli Apostoli: “Uomini di Galilea, perché state guardando verso il cielo? Quel Gesù che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà nello stesso modo con cui l’avete visto salire in cielo.”239
    Se la dinamica d’ascesa al potere del Piccolo Corno e di passaggio al Regno di Dio dipendono dalla volontà di Dio, ci si chiede fino a che punto è logica una resistenza di tipo militare per difendere gli ideali messianici durante la fase escatologica, detta nell’Apocalisse di Giovanni, la grande tribolazione. Quando il cedimento, ovvero lo snaturamento, delle strutture democratiche non permetteranno più la libera circolazione delle idee, cos’altro si potrà fare di fronte ad un potere internazionale e soverchiante, se non prendere atto del fatto che l’erudizione tecnologico-finanziaria avrà relegato la cultura ad una condizione di servitù e ridotto all’impotenza ed all’umiliazione i suoi più autentici protagonisti? La ritirata, tuttavia, può essere graduale, e la diffusione del pensiero dovrebbe poter continuare ad utilizzare i metodi ordinari, nella misura in cui i mass media e le istituzioni accademiche non saranno già contaminate ed asservite. La ritirata graduale non è da confondersi però con la rassegnazione, perché si tratta piuttosto di risparmiare inutili sacrifici umani e rimandare lo scontro al momento e sul fronte ideali, concordemente con le profezie apocalittiche, le cui indicazioni rappresentano il piano logistico per l’attesa e la resistenza.
    Se questa tesi è fondata, dovremmo sempre più approssimarci allo snaturamento, alla deformazione, all’asservimento, alla preclusione ed al tracollo delle istituzioni accademiche, dei mass media e delle case editrici, sempre più al servizio di forze economiche e politiche che avranno deformato retoricamente i principi etici e democratici per rifondare il regime autarchico e tradire la vocazione stessa della cultura e dell’informazione, opponendosi alla spiritualità biblica. I tentativi in atto di difendersi dall’accusa di scollamento etico dell’economia laica, cercando di dimostrare la legittimità del profitto e dello sviluppo, trascurano il fatto che l’accusa riguarda solo gli abusi e gli squilibri che si compiono a questo proposito, quando le regole di mercato assumono sacralità e centralità rispetto all’uomo. La misura etica con cui confrontarsi non è soltanto il diritto individuale al progresso, ma la prerogativa di tutti a rientrare socialmente nel processo di sviluppo, proprio perché l’esistenza individuale è unica ed irripetibile, e perché non si può assumere di sacrificare una sola vita umana alle esigenze delle regole di mercato per l’arricchimento di una minoranza privo di quella moderazione che è indizio di legittimità, senza che vi sia una fondata e contingente ragione storica e sociale, tipica delle circostanze di pericolo, oppressione e pregiudizio a cui talvolta le minoranze vanno soggette. I maggiori fruitori e sostenitori del liberismo economico più smodato non sembrano certo poter disporre dell’alibi di minoranza perseguitata, perciò i loro comportamenti economici si compiono spesso a detrimento delle più elementari e fondamentali norme costituzionali, oltre che contro la dottrina sociale cristiana, nonostante essi possano concretamente aspirare al potere politico e religioso.
    Se l’Occidente intendesse legittimare il proprio modello di sviluppo, dovrebbe poterlo fare rendendo concretamente accessibile un minimo tenore di vita per tutti gli uomini, sancendo nei fatti il diritto di tutte le nazioni a condividere i benefici dello sviluppo che fanno capo all’origine antropologica ed alle vicende storiche, comuni. I fondamenti dell’etica non concernono la sodomitica distinzione tra ciò che è mio e ciò che è tuo, ma il principio d’amore e condivisione che caratterizza, ai suoi fondamenti, il Regno di Dio, il quale si presenta come dono per tutti, pur riconoscendo onori, meriti e privilegi individuali a coloro che per via d’impegno, esempio e sacrificio hanno promosso lo sviluppo umano secondo la volontà di Dio, coinvolgendo se stessi nei processi d’avvento del regno messianico. L’apostolo Paolo, scrivendo agli indefessi ed imprenditoriali cristiani di Corinto (terzo capitolo della prima epistola) ricorda che, perché si tratti di vero lavoro ed averne il guadagno anziché il danno, non basta lavorare, ma lavorare secondo il regno di Dio e per il suo avvento, affinché, alla sua rivelazione, l’opera compiuta non venga, quale paglia e fieno, consumata dal fuoco.
    Il potere economico laico dovrebbe realizzare che, oltre ai principi messianici, esistono, all’origine di ogni nazione, valori patriottici e risorgimentali, per cui il territorio ed i valori acquisiti con il sacrificio di generazioni non possono essere ceduti al miglior offerente ai danni dei discendenti di coloro che hanno combattuto e sacrificato la vita per la Patria. Nascondere il liberismo esasperato sotto la maschera di un internazionalismo emancipato dagli interesse nazionali e dallo strapotere delle ideologie, è una patente e sfacciata ipocrisia, perché l’obiettivo non è l’estensione della Patria a tutti gli uomini, bensì il suo stravolgimento in autarchia ad uso dell’ipocrisia, della superbia e della presunzione di chi crede di candidarsi alla divinizzazione per spodestare Colui che resiste ai superbi, ma che fa grazia agli umili, rendendoli dei. Uno sviluppo economico che non rispetta i valori costituzionali della giustizia e della solidarietà nazionale, oltre quelli etico-messianici, deve inevitabilmente essere considerato antipatriottico ed antirisorgimentale, alla stregua di un esercito nemico, animato dalla cupidigia e non da quell’amicizia, in virtù della quale è anche possibile estendere i confini ed il sentimento di una patria comune.
    L’impressione è che la concezione del diritto individuale sia molto spiccata in seno agli ambienti economici più potenti (v’è perfino chi, nonostante tutto, s’ammanta di Risorgimento alla presidenza delle parate militari), presso i quali però molto modesta ne risulta l’umanità, retorica l’ispirazione democratica, fazioso il sentimento patriottico, pretestuoso il ricorso alle libertà costituzionali, triste e deludente lo snaturamento etico-sociale. La crisi dell’ideologia marxista dei paesi dell’est non dimostra l’intrinseca validità del Capitalismo, che non sia la sua superiorità strategica e tecnologica. Le encicliche sociali del magistero cattolico da Leone XIII a Giovanni Paolo II hanno esaurientemente chiarito quali siano le contraddizioni etiche del modello economico-politico occidentale. E’ veramente improbabile che improvvisati e discutibili consessi siano capaci di confutazione accademica dell’analisi cristiana, cattolica, ma anche protestante, degli squilibri del capitalismo occidentale.
    Il laicismo è in grado di promuovere la coesistenza delle religioni e delle ideologie, prevenenedo ed attenuando il rischio costante e gli eccessi dei fondamentalismi sul piano politico, ma ciò sarà possibile soltanto se il laicismo non soggiacerà ai continui tentativi di caratterizzazione da parte del liberismo, fino a ridursi esso stesso a fondamentalismo confessionale della peggior sorta. Quanto al rischio di una degenerazione del potere temporale in autarchia planetaria, ed alle strategie di resistenza a tale degenerazione, è utile e verosimile l’indicazione biblica dei tempi e dei modi con cui l’ipotesi di un avvento messianico potrebbe dimostrarsi fondato, a meno che non si voglia concludere che si tratta di miti e fantasiose elucubrazioni, prive di ragionevolezza e fondamento. Ad ogni modo, è parte del mio compito l’esplicazione teorica delle conseguenze che potrebbero derivare dall’attendibilità delle informazioni ricavate dalla letteratura apocalittica in esame. I lettori potranno, spero, perlomeno riconoscere il tentativo di giustificare le affermazioni di tale esplicazione, facendo ricorso ad un numero di fonti e citazioni il più nutrite possibile. La prerogativa del giudizio e della riflessione circa la fondatezza delle ipotesi formulate riguardo alle implicazioni della profezia apocalittica del libro di Daniele, spetta naturalmente ai lettori ed agli esperti, ma, in tutta franchezza, il peso che vi riconoscerò non potrà che commisurarsi alla sensibilità dei giudizi, ancor prima che alla competenza.240
    Da un punto di vista teorico non è possibile affermare con sicurezza che il sistema autarchico del Piccolo Corno sia da ricondurre allo sconfinamento delle concentrazioni economiche d’ispirazione occidentale nella politica e nella religione, ma credo sia ormai chiaro che, se le tesi apocalittiche sono fondate, si dovrebbe guardare alla capacità di un sistema economico-politico di diffondersi e consolidarsi globalmente, per riuscire ad individuare le entità protagoniste in fase escatologica.

    - Versi 17 e 18 -
    Girolamo si spinge in un ambito confutabile nel commentare i vv. 17 e 18, nel tentativo di scalzare il millenarismo, il quale egli definisce come storiella.
    Quanto all’idea che il regno eterno faccia riferimento ai Maccabei, Girolamo chiede che si dimostri “in che modo potrà essere eterno il loro regno.”241 Vero è che i Maccabei poterono aggiudicarsi nei primi anni della presenza greca in Israele delle importanti vittorie, al punto da entusiasmare un ipotetico autore pseudoepigrafista del libro di Daniele ed a proiettare nel libro la prossimità di un regno eterno ideale che rappresentasse per il movimento patriottico un forte incentivo all’azione. Però, il fatto che alla morte di Antioco Epifane (il quale, dal punto di vista dello pseudografista doveva rappresentare il Piccolo Corno del settimo capitolo) non si realizzarono le profezie messianiche, avrebbe prodotto l’effetto opposto a quello desiderato, e dunque radicalmente disincentivato lo spirito religioso dei patrioti. Alla morte di Antioco IV non si nota alcun indizio di una speciale aspettativa messianica da parte dei giudei, anzi la guerra continua regolarmente e l’atmosfera di contrapposizione persiste senza soluzione di continuità: “Poi il re Antioco fece chiamare Filippo... gli consegnò la corona, il suo manto regale e l’anello, con l’incarico di educare suo figlio Antioco e di prepararlo al governo del regno. Poi il re morì in quel luogo l’anno 149 dell’era greca. Ma Lisia appena seppe che il re era morto, prese suo figlio Antioco, che aveva educato fin da bambino, lo proclamò re e gli impose il nome di Eupatore. Ora quelli che abitavano nella fortezza dell’Acra tenevano gli Ebrei bloccati attorno al tempio. Li molestavano continuamente, mentre favorivano gli stranieri. Giuda Maccabeo pensò di toglierli di mezzo e riunì tutto il popolo per stringerli d’assedio. Si riorganizzarono e, nell’anno 150 dell’era greca, circondarono con l’esercito la fortezza dell’Acra, costruirono terrapieni e macchine adatte all’assedio...”242 Nessuna traccia di disillusione o scoramento dovuto ad una mancata realizzazione profetica, così come di una non violenza determinata dalla persuasione che la pietra discesa dalla montagna, relativa alla profezia di Dan. 2: 45, stesse per realizzare il regno messianico senza intervento umano.
    Il Bernini nel tentativo d’identificare le quattro bestie, fa cessare le successioni delle stesse con Antioco IV,243 ma ciò non sembra coincidere con le intenzioni del libro di Daniele in relazione agli avvenimenti storici dei Maccabei. Immaginiamo però che un ipotetico pseudoepigrafista abbia consolidato con il proprio scritto il sentimento messianico all’epoca dei Maccabei e che il Piccolo Corno rappresentasse Antioco IV. In tal caso i caratteri messianici dovrebbero essere attribuiti a Giuda Maccabeo, la qual cosa appare inverosimile a posteriori e dal punto di vista del messianismo cristiano, ma che poteva non apparire così incredibile durante il corso degli eventi descritti dal primo e secondo libro dei Maccabei. Non mi sembra perciò che un vero argomento per contrastare le tesi porfiriane sia quello a cui ha fatto ricorso Girolamo, commentando Dan. 7: 14: “Ci dica, Porfirio, a quale uomo si confanno simili espressioni, e chi è questo tale così potente da spezzare e annientare quel piccolo corno che lui identifica con Antioco. Se ci risponde che i capi di Antioco vennero vinti da Giuda Maccabeo, ci deve pure far sapere come farà, questi, a venire come un figlio d’uomo sulle nubi del cielo, ed essere presentato all’antico di giorni e ricevere potere e regno, tanto che tutti i popoli e le nazioni lo serviranno, mentre il suo potere dura in eterno perché non avrà mai fine.”244
    E’ probabile che Porfirio ed i suoi discepoli più congeniali non avrebbero titubanza nel rispondere a Girolamo, perché non sarebbe nelle loro intenzioni dimostrare che Giuda Maccabeo sarebbe potuto venire sulle nuvole come un figlio d’uomo al cospetto dell’antico di giorni. Infatti l’intenzione degli studiosi scettici è quella di dimostrare il carattere mitologico delle descrizioni messianiche e l’ambientazione maccabea del libro di Daniele, e non il carattere sovrannaturale di Giuda Maccabeo.

    - Versi 19 e 20 -
    Per il Bernini, “il particolare interesse per il simbolismo della quarta bestia nasce dal fatto che i lettori sono in rapporto attuale con essa.”245 Il brano attentamente letto potrebbe condurre all’identificazione della quarta bestia, perché Daniele ottiene, in risposta al desiderio di conoscere la verità, informazioni per noi fondamentali per sfuggire al rischio di un’identificazione greca, la quale imbragherebbe il messianismo all’epoca maccabaica senza rendere possibile la transizione all’Apocalisse di Giovanni ed alla sua attualità.246 Il termine l(e)yatzava’ - per la verità, descrive infatti l’autentico desiderio di una conoscenza reale ed inconfutabile, piuttosto che di una generica informazione simbolica che possa adattarsi ad un regno che non esprime tutti quei caratteri rivelati dall’angelo intorno alla quarta bestia ed in particolare al Piccolo Corno. La traduzione letterale, per la verità, proposta da Calvino, ma resa nel testo alla maniera del Luzzi, (“Then I would know the truth...”) concerne un Qi. Chald. + pref. idiom. = inf. di ytzv - render certo, guadagnare certezza, seguito da ‘l - riguardo a, per cui va colta la determinazione tzv’ - volere, scegliere, decidere (volontà e determinazione sono più che desiderio) di Daniele ad acquisire certezze circa l’identità della quarta bestia. Calvino nota a proposito che “here the prophet interrogates the angel concerning the Fourth Beast more attentively and carefully...”247 La prima informazione è che la quarta bestia sh(a)n(e)yah min-kal(e)hevn - era diversa dalle altre - “and surely the subjugation of so many kings by the Romans was a difference worthyof notice.”248 Il Bernini considera tale diversità nel carattere occidentale del Regno Greco,249 ma questi non presenta quella capacità di dominio globale, implicita nella comparazione del v. 19 con il v. 23, perché la bestia terrificante dai denti di ferro e dalle unghie di bronzo, che mangiava, stritolava e calpestava il rimanente coi suoi piedi è la medesima che divorerà tutta la terra, la calpesterà e la stritolerà. Il Regno Greco sarà stato sì feroce, ma non globale.
    Si potrebbe obiettare che l’idea di globalità d’allora era limitata, ma anche in questo caso, quale interesse avrebbe avuto uno pseudoepigrafista a sostenere l’idea di globalità del proprio tempo, giacché Alessandro, benché abbia potuto spingersi fino in India ed impossessarsi dei territori degli imperi orientali, non si può sostenere che abbia realizzato un impero che si potesse definire globale? Gli stessi Maccabei godevano, nonostante tutto, di margini ampi di manovra, resi possibili da alleanze con regni autonomi da quello greco.250 Per questa ragione la stessa Palestina non può essere annoverata, a rigore, tra i possedimenti del Regno Greco. Non solo in ciò è la differenza con l’Impero Romano, bensì anche nel fatto che tre ulteriori grandi blocchi di quest’ultimo non sono stati nell’insieme compresi nel Regno Greco: il territorio italico, Cartagine ed una gran parte dell’Europa. E’ evidente che né il Regno Greco, né l’antica versione dell’Impero Romano, hanno realizzato un’effettiva globalità, ma il secondo si è avvicinato più del primo a tale meta.
    La tesi che emerge dal confronto del libro di Daniele con l’Apocalisse di Giovanni consiste nell’attualità dell’Impero Romano, per cui non si può escludere che la globalità mancata nel passato non possa essere realizzata nel futuro. Una tale eventualità, naturalmente, non può essere anteriormente dimostrata, ma neppure esclusa a priori, ricorrendo ad una precomprensione naturalistica della letteratura biblica. L’informazione relativa alla globalità, non soltanto è utile al tentativo d’identificazione della quarta bestia, bensì anche ad escludere che il suo potere riguardi esclusivamente l’Europa, secondo quanto buona parte degli evangelici fondamentalisti tradizionalmente sostengono.
    E’ facile comprendere che soltanto negli ultimi anni si sono verificate le condizioni per la realizzazione di un sistema, il quale viene infatti detto villaggio globale. E’ una novità assoluta per l’esperienza umana, perciò se esiste un fondamento alla tesi dell’interazione delle profezie apocalittiche con le vicende del pianeta, disponiamo per la prima volta di criteri per la previsione storico-sociologica e l’identificazione dei protagonisti della fase escatologica delle medesime profezie, nonché per l’elaborazione teorica di opportune strategie logistiche da adottare lungo il corso dei relativi eventi. Sembra sia il criterio della globalità, e non l’aspetto terrificante della bestia, il dato più rilevante concesso in risposta alla determinazione di Daniele ad acquisire certezza. D’altro canto il testo non dice letteralmente che la bestia era spaventosa o straordinariamente terribile, piuttosto che più terribile - d(e)hiylah yatiyrah. Come si può decidere quale sia il potere più terribile se non paragonandolo ai precedenti e disponendo di una prospettiva ai vertici delle successioni storiche al potere? Quest’ultima questione è perciò correlata all’idea della globalità, rendendosi sempre più intellegibile nella misura in cui ci si approssima alla realizzazione di un sistema di potere planetario.
    Un’altra obiezione è nel fare mostra dei notevoli contenuti civili della nostra epoca. Rispondere a questa obiezione appare, a prima vista, difficile, perché mai come oggi una cosa ed il suo contrario sono mescolati, così come il benessere ed il disagio, il progresso ed il regresso, la civiltà e la barbarie. Quanto male il sistema sia capace di fare al mondo intero, divorando, stritolando e calpestando, pur conservando un civismo aggraziato, è di una vivida trasparenza nella Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II. Desta meraviglia che civiltà e progresso possano coesistere con le strutture di peccato all’origine degli squilibri e del divoramento planetario, ma è proprio ciò a cui automaticamente il sistema sembra condurre. L’elaborazione teorica del sistema appare civile, mentre le sue conseguenze meno civili vengono conosciute come tali solo da quelle entità ai margini dello sviluppo e che per varie ragioni non possono o rifiutano di esserne sistematicamente o definitivamente coinvolte. Fieramente il villaggio è globale, ma una cosa è viverlo a Calcutta, ben altra esserne parte a Milano, Bonn o New York, dove, nonostante il processo di partecipazione liberistica all’economia sia soltanto teoricamente accessibile a tutti, il fenomeno della povertà non tocca i livelli degradanti del terzo e quarto mondo.
    Presso alcune aree del mondo la natura liberistica ed autocratica del villaggio globale non è ancora riuscita ad espugnare le roccaforti dell’ideologia sociale del Welfare State, ma la retorica iperliberistica incalza promettendo ai cittadini grandi progressi e profitti all’indomani della vittoria nei riguardi dell’etica sociale in favore di unemployement benefits ed health insurance di uno stato in which the government assumes primary responsibility for the social welfare of its members..., esasperando i sentimenti di legittima contrarietà di molti cittadini nei confronti degli abusi dello stato sociale. L’idea del superuomo è stimolante ed ancor più l’idea delle superbenedizioni economiche di molti fondamentalisti evangelici in odore d’iperliberismo, ma quanto miserevole deve apparire all’ideale etico-messianico ed al Vangelo la concezione di quel merito individuale determinato secondo quelle regole di potenza che pesano sui più deboli, i quali nella gran parte dei casi non rappresentano né una minaccia ideologica né tanto meno un pericolo economico o geopolitico, bensì semplicemente i coeredi nella creazione o nella grazia, la cui scomodità consiste nel limite ch’essi rappresentano all’accumulo di beni, di campi e case, finché non rimanga più spazio.
    Le caratteristiche interiori o spirituali sono all’origine dei complessi comportamenti economico-poltici. I sistemi economici e politici sono evidentemente perfettibili quando già funzionano discretamente, ma in assenza di un discreto spessore interiore o spirituale qualunque sistema tenderà a corrompersi, procurando l’illusione della necessità di un governo sempre più forte per la soluzione dei problemi e dei conflitti di entità afflitte in realtà da gravi malattie spirituali, le quali diversamente potrei indicare come antropologiche. Le dinamiche che portano all’autarchia concernono specialmente le disfunzioni o le malattie spirituali di quei popoli che hanno fatto indigestione di falsa cultura, ossia di quelle informazioni che, prescindendo dalla loro mole e dall’erudizione (in cui vi è sempre tecnicamente un gran numero di verità da manuale), hanno distorto i termini, viziato i procedimenti e falsato i contenuti del problema relativo alla natura ed all’origine dell’uomo.
    Potremmo chiederci: esiste un modello antropologico-spirituale in grado di risistemare le cose con gli uomini, i popoli ed i governi delle nazioni? La possibilità di rispondere implica l’idea di una filosofia in grado di accedere ad effettive e fondamentali verità circa l’uomo e la sua origine. E’ evidente che si è ricondotti inevitabilmente a modelli metafisici, ontologici e teologici, a meno che non si voglia limitare la questione all’antropologia del naturalismo, accettandone nel bene e nel male tutte le ormai risapute conseguenze. Il libro di Daniele correlato alla tradizione apocalittica, specialmente biblica, opera da catalizzatore nel promuovere la riflessione antropologica e nel risolverla in seno alla teologia biblica. Il Nuovo Testamento indica la nuova nascita o la rigenerazione quale soluzione delle malattie spirituali che affliggono l’uomo. Esiste una soluzione tradizionalmente giudaica della questione che si riferisce alla legge, ma anche in tal caso è inevitabile incappare nelle enunciazioni profetiche relative alla necessità della rigenerazione interiore, di cui Ez. xi, 18, 19, xviii, 31, xxxvi, 25-27, e Ger. xxiv, 7, xxx, 33 rappresentano un modello.
    Anche per il libro di Daniele è così, nelle varie storie in esso riferite: allontanarsi dalla volontà di Dio, dal pentimento, dalla misericordia per i poveri e dalla rigenerazione spirituale, per radicarsi al dominio arrogante, alla superbia ed all’avarizia, significa smarrire la sapienza e diventare simili alle bestie dei campi, conducendo governo e sudditi alla rovina. Anche presso le nazioni dove la predicazione riformata ed evangelica ha forgiato la cultura e gli uomini sembra necessaria una fase di riflessione, perché sottilmente l’arroganza, la superbia e l’avarizia sono discretamente riuscite a riformare la Riforma, oltre che ad esemplificare convenientemente la predicazione evangelica, privandola del suo carattere profetico e riducendo molti leaders evangelici a sostenitori di un sistema di oppressione economica ed a precursori dell’autarchia, anziché del Regno di Dio, in quanto apparentemente privi di giustificazioni teoriche dei propri modelli economici aggressivi, i quali forse in taluni casi potrebbero anche essere adotatti, senza violare i termini dell’etica sociale. Non necessariamente è il fondamentalismo teologico degli evangelici nel suo complesso che si deve chiamare in causa, bensì quei fondamentalisti o quei fondamentalismi (non solo evangelici) che non si degnano di giustificare adeguatamente l’adozione delle forme più esasperate di liberismo economico in odore di autarchia ed evidente oppressione dei popoli, ai quali trasversalmente si pretende però di predicare la liberazione del Vangelo. Se però i valori teologici del fondamentalismo evangelico che si riferiscono alle S. Scritture quale parola di Dio rivelata ed alle fondamentali dottrine bibliche della predicazione evangelica fossero ormai destinati a confondersi con un fondamentalismo iperliberista in politica ed economia, mancante di giustificazioni e riconoscimenti teorici da parte delle discipline etico-sociali, allora sarebbe prudente, se non inevitabile, indicare la teologia del fondamentalismo evangelico semplicemente quale conservatrice.
    E’ inevitabile concludere che ogni insensibilità strutturale e metodologica nei riguardi dell’ideologia etico-messianica della tradizione apocalittica del Giudeocristianesimo non può che rappresentare una misura, più o meno rilevante, di antropocentrismo confluito in seno alle entità confessionali del monoteismo, perciò l’usuale ed acritica adesione dei fondamentalismi giudeocristiani agli estremismi del laicismo economico contribuiscono a snaturare il senso ed il valore delle dottrine teologiche di base, nonostante le possibilità teoriche di una giustificazione etica di scelte liberistiche in economia. Se ciò avviene è perché, evidentemente, esistono anomalie nelle relative strutture teorico-antropologiche, strutturatesi e consolidatesi al seguito di complessi collegamenti con la cultura secolare ed i suoi idoli economici. Tutto ciò favorisce quelle strutture di peccato del sistema economico internazionale maggioritario, il quale si traduce globalmente nell’applicazione radicale ad automatica delle regole di mercato, le quali a loro volta sviliscono ed alienano le sensibilità, i comportamenti e l’analisi dell’etica sociale, fino a renderne insolubile l’impercezione da parte di coloro che definiscono a priori la coincidenza dell’automaticità economico-liberistica con l’unica etica ad essi accessibile, ossia il prolungamento delle medesime attitudini economiche, camuffate, a seconda dei casi e della necessità, in politologia (per cui si danno lezioni agli statisti), etica (per cui si insegna a rabbini e reverendi in cosa debba consistere la vera religione), filosofia (ma i filosofi, che non siano sedicenti tali, che il denaro decida della verità non l’hanno affatto bevuta). PUNTO L’esistenza delle emergenti caricature dei legittimi protagonisti dell’attività religiosa, politica ed accademica ritrova così la più semplice spiegazione che le sia allo stesso tempo congeniale. Ricaviamo da tale evidenza un ulteriore suggerimento ai fini del nostro tentativo esegetico, premeditatamente discorsivo ed animato dall’intento d’individuazione della fenomenologia storica, quale attività costante di dinamiche archetipiche dello spirito, talché il medesimo tentativo possa essere detto esegetico-attualistico, onde corrispondere, inoltre, anche all’esigenza di attualizzazione della riflessione apocalittica ed etico-messianica (se non fosse ancora chiaro, l’esegesi del libro di Daniele esige attualisticizzazione ed attualizzazione del messaggio in esso contenuto, a meno che non si voglia ricadere nell’includente e romantico edificazionalismo simbolico-apocalittico): la globalizzazione della IV bestia all’epoca del Piccolo Corno si accompagna alla mistificazione della religione, delle istituzioni politiche e della cultura accademica. La mistificazione globale è correlata al divoramento, allo sbranamento ed al calpestamento della terra. Ulteriore implicito suggerimento è che tali attitudini distruttive non possono che derivare da un surrogato della disciplina etica. Le bestie apocalittiche, in quanto poteri organizzati, dispongono di una strutturazione teorica, e perciò il complesso degli elementi etici che le ispira deve verosimilmente ricollegarsi al complesso delle relative strutture di potere. Tale ipotesi rende verosimile il contenuto di Dan. 7: 25, dove il Piccolo Corno cerca di mutare i tempi e la legge, evidentemente perché in essi egli ritrova motivi contrastanti con i propri piani di dominio. E siccome ad un sistema etico (i tempi e la legge), oltre che con l’oppressione si può rispondere con la propaganda di un sistema alternativo, si annuncia ricca di conseguenze la pista relativa all’approfondimento del menzionato v. 25. Emerge dalle riflessioni delle pagine precedenti l’importanza di ulteriori riflessioni circa la relazione e l’interdipendenza tra l’etica a cui fa riferimento il libro di Daniele (i tempi e la legge) e la disciplina antropologica. Quest’ultime rappresentano due piste da seguire lungo l’intero percorso del presente scritto, intese come esigenze teoriche derivate dalla sommaria esegesi del settimo capitolo di Daniele, al fine della sua comprensione. Quanto all’atmosfera che permea i vv. 19 e 20 sui quali ci stiamo soffermando, essa non appare dissimile da quella che si sta diffondendo in seno al mondo contemporaneo e da quella descritta nell’Apocalisse di Giovanni. Il fatto che un piccolo corno spunti tra le dieci corna indica che verso la fine si assiste ad una novità: si organizza o si riorganizza, con grande successo, un’entità nazionale che vincerà su tre componenti in seno alla stessa quarta bestia. I tre corni che cedono di fronte al Piccolo Corno potrebbero essere i soli capaci di veto o d’intervento alla vigilia di tale evento. Se si trattasse della nascita di una federazione europea, i tre capaci d’intervento potrebbero risultare gli U.S.A., il Giappone e la Russia, ma si tratta di una congettura, benché verosimile se paragonata al graduale consenso che questi ultimi si ritrovano a riconoscere, volenti o nolenti, alla riorganizzazione unitaria della vecchia Europa. A rigore però i tre corni che cedono al controllo del Piccolo Corno dovrebbero rappresentare tre ceppi etnologici e relativi territori, perciò dovrebbe trattarsi di tre maggiori entità d’ispirazione od acquisizione, occidentali, unificate da una quarta che s’imporrebbe come prevalente. Si tratta di vedere come s’imporranno gli U.S.A., il Giappone e l’Europa unita nel prossimo futuro. Una soluzione è che la questione si risolva entro i termini dei ceppi slavo, latino, britannico e germanico. Se così è la belligeranza agli inizi formativi del regno del Piccolo Corno si attuerebbe incruentemente ed in termini culturali, economici e politici. Nel libro di Daniele esistono gli indizi del potere autarchico della quarta bestia ed i generici effetti di oppressione globale al livello socio-economico. ma è l’Apocalisse di Giovanni a rendere vivido il clima di violenza, idolatria e condizionamento che caratterizza il mondo durante il governo del Piccolo Corno. Se in Daniele la menzione dell’oppressione globale è sintetica ed essenziale, Giovanni l’apostolo riferisce la situazione del mondo alla vigilia dell’avvento del Piccolo Corno, quale crescendo, senza soluzione di continuità, di violenze, oppressioni, guerre, pestilenze, carestie e dissesti geologici.251 La visione introduttiva al Piccolo Corno è catastrofica sotto ogni profilo (sociale, economico, politico, ecologico, geologico, etico-religioso), a dimostrazione dell’incapacità dell’uomo a garantire il governo del mondo, nonché la tendenza di quest’ultimo all’oppressione, all’iniquità ed all’ingiustizia, il cui epilogo è la ricostituzione di un’autarchia bestiale, sicuramente propagandata quale legittima ed inevitabile soluzione al disordine ed ai conflitti, in seno ai quali vanno ricercate, anche in Italia, quelle forze risolutrici che sono alibi a se stesse. L’avvento del Piccolo Corno è la sostanza della restaurazione autarchica: un sistema economico impropriamente liberistico ed apparentemente laico è l’ipotetica dinamica di acquisizione graduale del potere; l’idea dell’inglobamento di partiti politici e confessioni religiose in seno all’ideologia autarchica, realizzata con l’arte della propaganda e dell’affascinamento; l’apparente riferimento al laicismo, affinché, reso laico il tutto, tutti siano pronti a riconoscere nel Piccolo Corno il primato del laicismo, per poi tradurre, insensibilmente, il laicismo in autarchia, specialmente quando giungerà il momento in cui l’indebitamento dei paesi del terzo mondo sarà irreversibile ed il tracollo delle banche verrà premeditatamente risolto con una neocolonizzazione militarizzata. L’apertura del secondo sigillo indica il fallimento dell’anagrafico ideale della coesistenza e della pacificazione.252 L’apertura dei restanti sigilli indicano inflazione monetaria, l’uccisione e la mortalità di una quarta parte degli uomini, dissesti geologici, scoramento e timore, diffuso tra i potenti, che il castigo di Dio sia imminente, a dimostrazione dello scoramento di fronte al disordine ed ai cataclismi. Il giudizio divino sembra iniziare prima ancora dell’avvento del Piccolo Corno, e quindi l’idea che quest’ultimo sia una soluzione è in realtà parte dello stesso giudizio. Seguono altri giudizi, innescati dalle preghiere del popolo di Dio, il quale anela al superamento della crisi globale ed all’avvento del Regno di Dio.253 Seguono le sei trombe: tempesta di grandine e fuoco ed un terzo della terra, degli alberi e della vegetazione, arsi; una massa ardente precipita nel mare; un terzo del mare diventa sangue, un terzo delle creature che vivono in esso periscono ed un terzo delle navi vanno distrutte; un terzo delle acque s’avvelena; un terzo del giorno e della notte rimane privo di luce; dal mondo sotterraneo fuoriesce un fumo che oscura il sole e l’aria, accompagnato da nuvole di locuste che tormentano gli uomini, ad eccezione del popolo di Dio; i quattro angeli incatenati presso il fiume Eufrate vengono liberati per uccidere un terzo degli uomini, servendosi di una cavalleria di duecento milioni di soldati, dotati di mezzi assimilabili a carri armati. Ciononostante gli uomini non rinunziano ai delitti, alla magia, alla prostituzione ed ai furti. La settima tromba annuncia l’imminenza del Regno di Dio e segue l’attività profetica dei due testimoni, i quali hanno il potere di tramutare l’acqua in sangue, di non far piovere sulla terra e colpirla con ogni sorta di flagelli.254 La prima menzione della bestia che sale dalla terra è in relazione ai due testimoni, i quali, quando avranno esaurito il proprio mandato, verranno da questi uccisi ed esposti alla vista dei popoli per tre giorni e mezzo, dopodiché verranno rapiti in cielo ed un decimo della città di Gerusalemme verrà distrutta da un terremoto, durante il quale settemila persone verranno uccise. Il mostro che uccide i due testimoni sale dal mondo sotterraneo e probabilmente coincide con la bestia che sale dalla terra del tredicesimo capitolo. Non si tratterebbe del Piccolo Corno ma di un suo collaboratore, perché è la bestia che sale dal mare dei versi precedenti che possiede le caratteristiche indicate dal settimo capitolo di Daniele. La visione di Giovanni integra la visione di Daniele a questo proposito. Le prime tre bestie in Daniele vengono rispettivamente rassomigliate ad un leone, ad un orso e ad una pantera, mentre per la quarta bestia non viene esplicitata alcuna comparazione: soltanto essa viene descritta come terribile, diversa e con dieci corna, più un piccolo corno. Giovanni ne dà una descrizione composita, che si aggiunge a quella di Daniele, stabilendo una relazione con le prime tre bestie: “Il mostro era simile ad una pantera. Aveva zampe come quelle di un orso, e una bocca come quella di un leone.”255 Il termine n(e)mar è tradotto da alcuni come pantera e da altri come leopardo, ma, trattandosi di sinonimi, ambedue le traduzioni sono valide. Ciò che importa è che i termini ebraici utilizzati nel libro di Daniele e quelli greci dell’Apocalisse di Giovanni coincidano, perché ciò è rilevante per confermare che ambedue i due brani riguardano il Piccolo Corno. I termini greci utilizzati nel capitolo tredicesimo dell’Apocalisse sono pardalei - leopardo, arkou - orso, leontoV - _leone, esattamente corrispondenti a quelli ebraici del settimo capitolo di Daniele, ma nell’ordine inverso: ‘ar(e)yeh, dov ed il già menzionato n(e)mar. Le rivelazioni che l’apostolo Giovanni ottiene in Ap. 13 a proposito del Piccolo Corno sono anch’esse da considerare un’esaudimento del desiderio di conoscenza: “Chi è degno d’aprire il libro e di romperne i suggelli? E nessuno, né in cielo, né sulla terra, né sotto la terra, poteva aprire il libro, o guardarlo. E io piangevo forte perché non s’era trovato nessuno che fosse degno d’aprire il libro, o di guardarlo. E uno degli anziani mi disse: Non piangere; ecco, il Leone che è della tribù di Giuda, il Rampollo di Davide, ha vinto per aprire il libro e i suoi sette suggelli.”256 Il Montgomery sembra condividere l’idea secondo cui in 7: 19 Daniele abbia voluto accertarsi, e dunque le informazioni che quest’ultimo ottiene conservano quella pregnanza a cui abbiamo accennato: tzvyt vocalizzato con sewa semplice + hireq magnum, viene confrontato dal Kauzsch257 con hwyt (hatef pathah + seré) di 4¹ e trova che quivi vi sia Abschwächung des ê zu î, ma il Nöldeke spiega la vocale a partire dalla i interna alla radice ytzv’ (pàthah + qàmes + qàmes + daghesh in tz), così edd. = Pael inf. MSS. hanno ytz(y)v’ (pàthah + hireq + qàmes + daghesh), preferito da Leng., Hitz., Mein. Da quanto segue è chiaro che il Montgomery propende per la lettura suggerita al v. 19: “There is no reason to tamper with the good idiom here = make sure, ascertain, or with Behr. to suppose implicit change of subject for the inf., cft. 2¹³, Ex. 32: 29. - shnyh (qàmes + sewa + qàmes) So edd., exc. Bär shny’ (identico al precedente ma pàthah in I cons.); the former is act. ppl., and so shnyn (qàmes + sewa + qàmes) v. 5, shnyn (qàmes + pàthah + hireq) in 5: 9; ... The latter is more appropriate here and v. 5, while shnyn (qàmes in I) 5: 9 is properly verbal.”258

    Versi 21 e 22
    L’undicesimo corno rendeva Daniele particolarmente perplesso perché faceva guerra ai santi e li vinceva, ed “il cuore del profeta s’immedesimava così pienamente col suo popolo che bramava sapere la verità su ciò che aveva veduto.”259 L’interpretazione del Bernini è puntualmente prevedibile: “quel corno mosse guerra ai Santi: cfr. v. 18; essi sono gli appartenenti alla comunità dei figli d’Israele. La guerra contro di loro è descritta in Dan. 11, 21-39 e in 1Mc 1, 10-63.”260 Gli argomenti ai quali Calvino ricorre per dimostrare che il Piccolo Corno che combatte contro i santi non è Antioco IV non si dimostrano molto stabili, ma è illuminante il suggerimento secondo cui per santi non si deve intendere qui soltanto il popolo giudaico aderente al Patto, bensì anche i cristiani, a dimostrazione di una visione capace di attualizzare l’apocalittica: “... When Titus, under the auspices of his father Vespasian, took and destroyed the city, the Jews were stabbed and slaughtered like cattle throughout the whole extent of Asia. Thus far, then, it concerns the Jews. When God had inserted the body of the Gentiles into his Church, the cruelty of the Cæsars embraced all Christians...”261 Le crudeltà dei romani rientrano nell’ambito dei comportamenti della quarta bestia, ma l’attribuzione dei comportamenti del Piccolo Corno ai Cesari potrebbe indurre a limitare le predizioni di Daniele non molto oltre gli anni dell’apostolo Giovanni: “... thus the little horn waged war with the saints in a manner different from that of the former beasts, because the occasion was different, and the wrath of Satan was excited against all God’s children on account of the manifestation of Christ. This, then, is the best explanation of the little horn waging war against the saints. Thus he says, It must prevail. For the Cæsars and all who governed the provinces of the empire raged with such extreme violence against the Church, that it almost disappeared from the face of the earth. And thus it happened, that the little horn prevailed in appearance and in general opinion, as, for a short time, the safety of the Church was almost despaired of.”262 Praticando tale lettura, quasi inevitabilmente si è costretti a comprimere i tempi escatologici e ad intravedere nella Chiesa la realizzazione del regno messianico, con la conseguenza della metaforicizzazione millenarista. Se, ad una prima impressione, risulta teologicamente plausibile l’attribuzione di una nozione unificata di popolo di Dio ai giudei come ai gentili, inglobati in un solo Israele, (per cui si può ben comprendere che il Piccolo Corno opprima gli uni e gli altri) Calvino però accusa la difficoltà di spiegare come la Chiesa del suo tempo possa ancora esperimentare la persecuzione pur avendo i santi già ricevuto il regno promesso: “Thus, by this repose, the saints received the kingdom which had been taken from them; that is, the kingdom of God and of the saints obtained some fame and celebrity in the world, through the general diffusion of the doctrine of piety, in every direction. Now, therefore, we understand what Daniel wished to convey by the phrase, The Ancient of days came, and judgment was given to the saints of the lofty ones... We... began to explain how judgment was given to the saints at the commencement of the gospel era. For we know how very partial even in those times was the Church’s tranquillity. Because when it was free from external persecution and the shedding of blood, domestic enemies arose who proved far more injurious. Thus the kingdom of Christ never flourished in the world, so as to have anything in common with those empires, in which great splendour and pomp were apparent.”263 Ripetutamente Calvino menziona i Cesari in relazione al Piccolo Corno ed ai comportamenti di quest’ultimo, così come a proposito del verso 23, con riferimento alle conquiste romane nella Gallia, in Britannia, Germania, Illiria, Grecia e Macedonia ed altrove in Asia, benché tali conquiste non implichino il dominio ed il calpestamento di tutta la terra.264 In altre parole sembrerebbe che per Calvino il regno dei santi sia già iniziato e le persecuzioni che accompagnano il processo del suo sviluppo siano dovute al fatto che non si è compiuto nella sua completezza: “Thus Daniel or the angel does not predict here occurences connected with the advent of Christ as Judge of the world, but with the first preaching and promulgation of the Gospel, and the celebration of the name of Christ. But this does not prevent him from drawing a magnificent picture of Christ’s reign, and embracing its final completion. It is sufficient for us to perceive how God begins to give the kingdom to his elect people, when, by the power of his Spirit, the doctrine of the holy Gospel was everywhere received in the world.” (265/a) Se una tale comprensione dell’escatologia di Calvino è corretta, l’opera che questi scrive a commento del libro di Daniele non ha lo scopo di dipingere uno scenario drammatico per la Chiesa, alla ricerca di un protagonista bestiale in grado di acquisire il controllo del mondo e di soggiogare il popolo di Dio, bensì quello di consolidare nelle menti dei credenti la certezza di una vittoria già acquisita, nonostante le sofferenze lungo il percorso fino alla seconda venuta di Cristo quale Giudice, per adempiere pienamente alle promesse di redenzione degli uni e di punizione degli altri. Verrebbe ad essere perciò necessario sacrificare l’idea di un millennio apocalittico letterale che cronologicamente segua il giudizio sul Piccolo Corno, per intenderlo come la nuova realtà ecclesiale che il mondo si ritrova a contenere. Il libro di Daniele avrebbe per la Chiesa un significato edificazionale sì, ma non apocalittico in senso stretto. Procedendo da un’analisi parallela sui diversi fronti della letteratura apocalittica, le cose si presentano alquanto differenti. L’idea centrale di globalità, già precedentemente menzionata, induce ad escludere che la quarta bestia abbia realizzato, storicamente, dimensioni mondiali. Con il giudizio sul Piccolo Corno si compie il decorso del potere concesso alle quattro bestie, ed il regno passa stabilmente ed interamente ad un’entità spirituale polarizzata, per cui il mondo è governato in sintonia con i principi dell’etica biblica. Se l’Apocalisse dell’apostolo Giovanni è da considerarsi coerentemente parte del disegno apocalittico del libro di Daniele, è facile rendersi conto che le predizioni in essa contenute non si sono sinora realizzate, benché vi siano ai nostri giorni segni di vigilia. Le condizioni di una globalizzazione del potere internazionale emergono dalla storia per la prima volta soltanto di recente, e certo i principi sui quali esse si fondano risultano contrari alla tradizione etica giudeocristiana, Tutto si può dire del nostro secolo eccetto che la morte, la spada e la pestilenza siano scomparse e che pace e serenità millenaristiche riescano a procedere oltre gli artifici della pacificazione formale e provvisoria. Un tentativo di dittatura planetaria è stato nel nostro secolo miracolosamente sventato in extremis, senza però evitare un micidiale attentato alla vita della razza ebraica, di un genere e di una portata che non si registravano dai tempi delle trame ordite da Amman all’epoca di Assuero nel libro di Ester, e della distruzione dell’ultimo tempio nel 70 d.C. Certo il nostro secolo non è un esempio di avanzata del regno messianico, e la Chiesa stessa anziché procedere all’eticizzazione del governo del mondo sembra coinvolgersi, nella misura in cui appare fondamentalmente ortodossa, nelle responsabilità di oppressione e sfruttamento, accogliendo a larghe maniche le ideologie occidentali più perniciose per la vita dell’uomo e la sopravvivenza del pianeta. La lucidità etico-sociale riguarda sempre più spesso le solenni dichiarazioni programmatiche, l’élite di teologi tacciati d’umanesimo, le encicliche, ed alcune recenti dichiarazioni fondamentaliste evangeliche, le quali si ritrovano ad esprimere una sensibilità etica che nel recente passato è stata in ogni modo repressa unitamente ai suoi esponenti, mentre i repressori hanno fatto carriera ai vertici delle istituzioni ecclesiali e temporali. L’etica ha dovuto anche soggiacere a quell’arte retorica che serve a convincere i propri rivali a perdere, e tuttora non è chiaro se certe nuove sensibilità non servano a difendersi dalla perdita di potere temporale per mezzo dalla popolarità della disciplina etico-sociale. Non si è mai scritto e parlato tanto di regno di Dio come nel nostro secolo e forse mai nel passato come oggi gli uomini ne sono stati, spiritualmente ed eticamente lontani. Nel passato, inoltre, gli schieramenti risultavano relativamente chiari, mentre oggi i precursori del regno possono essere fuori della chiesa visibile ed i nemici nel seno di essa, proclamando parziali virtù e verità evangeliche. Tutto ciò, oltre ai motivi esegetici, induce a ritenere, come verosimile e coerente con la tradizione giudeocristiana, l’idea apocalittica relativa alla realizzazione della sezione più cruciale del settimo capitolo di Daniele e dell’Apocalisse di Giovanni quale sua appendice. Se così non fosse non avrebbe neppure senso porsi il problema di una lettura etico-messianica delle medesime porzioni bibliche, oltre che degli impedimenti antropologico-culturali relativi alla mancata realizzazione nello Stato e nella Chiesa dei principi del Regno di Dio che emergono dal complesso dell’etica biblica e monoteistica in genere, giacché anche nell’Islamismo e nel Mazdeismo ritroviamo notevoli contributi assimilabili in tal senso alla tradizione giudeocristiana. Il tempo in cui il popolo santo entra in possesso del regno non è, per tutte queste ragioni, ancora giunto, e se ciò fosse accaduto l’evidenza ne risulterebbe, a dir poco, contraddittoria e banale. Se le credenziali del regno non fossero all’altezza della solennità e della coerenza unitaria della letteratura apocalittica, vi sarebbe da chiedersi se non sia il caso di fare della tradizione giudeocristiana nel suo insieme un bel fagotto da scaraventare nell’archivio dei tanti miti illusori e mistificanti dell’umanità, per concludere che è connaturato all’esistere la premiazione della prepotenza, della violenza e del progresso unilaterale, quale condizione di successo e realizzazione.Se il Regno di Dio non è il capovolgimento della regola secondo cui laddove non v’è progresso individualistico e violenza mafiosa non esiste neppure sviluppo, cosa vogliamo che sia se non mistificazione destinata a chi non trova consolazione né in questo mondo e neppure in quello a venire? Se il Regno di Dio non è il capovolgimento di questa regola cosa volete che sia? La mafiosità e l’individualismo liberistico potranno anche disporre dei fondamenti rinsecchiti della fede ortodossa, ma ciò non toglie ch’essi non abbiano nulla da spartire con l’etica essenza delle finalità e la vocazione messianica del regno di Dio. Se l’esegesi e le discipline coinvolte nello studio interdisciplinare della cultura derivata dalla spiritualità biblica non perseguono le medesime finalità a che servono se non a mistificare se stesse? L’evidenza che non si è verificato alcun avvento messianico è proprio nella situazione sociale, politica, economica e culturale del mondo, nonché nelle contraddizioni, negli squilibri, negli opportunismi, nelle presunzioni, nelle violenze materiali e psicologiche che accompagnano il progresso e l’attività dell’uomo in terra, nel secolo e nella chiese, in contrasto con la volontà del cielo. La convinzione secondo cui i santi hanno ricevuto il regno suppone a sua volta l’idea della cristianizzazione graduale ed irresistibile del mondo, e siccome gli statuti costituzionali dei paesi occidentali dimostrerebbero una sostanziale affinità con la spiritualità biblica, in certi casi realizzata anche nella condotta dello Stato e di autentici uomini politici, si pensa che l’umanità stia per realizzare le condizioni per la piena realizzazione del regno e la seconda venuta di Cristo. Il regno che i santi ricevono si colloca cronologicamente all’indomani della guerra e della vittoria che il Piccolo Corno si aggiudica nei loro confronti. Il soggiogamento della terra, quale può essere inteso nel v. 19 e quello dei santi del v. 21 sono in relazione, così come ambedue gli elementi sono nel medesimo rapporto in Ap.13: 7, a conferma del collegamento col settimo capitolo del libro di Daniele: kai edoqh autw poihsai polemon meta twn agiwn kai nikhsai autouV, kai edoqh autw exousia epi pasan fulhn kai laon kai glwssan kai eqnoV. Gli fu dato edoqh autw, compare due volte: la prima in relazione al soggiogamento dei santi, la seconda in connessione con l’autorità globale della bestia che sale dal mare su ogni tribù, popolo, lingua e nazione. Il concetto di globalità si presenta quale codice di decodificazione dei tempi escatologici. Infatti viene spontaneo escludere che il popolo di Dio sia stato mai soggiogato da parte di un dominatore planetario. Il parallelo in Apocalisse integra i vv. 21-23, nel senso che, pur riconfermando il potere globale della bestia in questione, chiama in causa il motivo della Sovranità di Dio sulle vicende umane, con ciò condividendo l’atmosfera di trascendenza del libro di Daniele, dall’inizio alla fine votato a dimostrare che il potere temporale è sempre subordinato a quello celeste, il quale quando non viene emulato in qualche sufficiente misura, l’altro ne è scardinato del tutto. Al Piccolo Corno viene dato il potere di soggiogare i santi finché il giudizio divino non sorgerà in favore di quest’ultimi. Formalmente l’inizio del soggiogamento dovrebbe aver inizio all’indomani della vittoria militare che segue la conquista di Gerusalemme, nella seconda metà dell’ultima settimana di Daniele, in coincidenza con la rottura di un patto, le cui tracce si ritrovano in Dan. 9: 24-27. Della disfatta vi è traccia in Lc. 21: 20 ed in Zc. 14. E che si tratti dell’occasione in cui Gerusalemme viene conquistata per l’ultima volta dai pagani è indicato dal fatto che subito dopo seguirà il giudizio delle nazioni e l’avvento del Regno di Dio. Sia che nel verso 27 del nono capitolo di Daniele si voglia intravvedere il Messia, come colui che determina la cessazione dei sacrifici, (265/b) sia che entrambi, abominazione e cessazione siano da attribuire al Piccolo Corno, la conquista di Gerusalemme alla fine dei tempi è confermata in Ap. 11: 1-3, a prescindere dalla variabile del patto con i molti di Dan. 9: 27, la quale implica soltanto una diversa distribuzione dell’ultima settimana di Daniele. (265/c) A supporto della prima tesi, il P. G. Guinness afferma quanto segue: “It is significant that this interpretation of Daniel’s Messianic prophecy was accepted by those living near the time of fulfilment. The early Christians became convinced that the Messiah did, in fact, “cause sacrifice and oblation to cease”; he did “confirm the Covenant” with many, as the Angel Gabriel had declared; for at the Feast of Passover, the Seder on the eve of his crucifixion, Jesus blessed the cup of wine and said: “This is my blood of the New Covenant which is shed for many for the remission of sins.” (265/d) Il fatto che DAN. 9: 25 riguardi il Messia, non implica che la cessazione e l’abominazione, alla fine della prima metà della settantesima settimana del verso 29, sia da assimilare all’apparire di un unto alla fine della sessantanovesima settimana del verso 25, secondo quanto sembra scaturire dalle indicazioni del Grattan Guinness: “... now a new thing is revealed - an Advent of the Messiah to make an end of sins, to make reconciliation for iniquity, to bring in everlasting righteousness, to seal up vision and prophecy and to anoint the Most Holy. And the angel declared that, in the midst of the final week, Messiah would be cut off - rejected by his people.” (265/e) Il verso 26 riferisce che un unto sarebbe stato eliminato dopo sessantadue settimane (+ sette del verso 25), ma non si può dire che tale indicazione generica del tempo venga risolta nel verso 27, alla metà dell’ultima settimana, il cui riferimento sembra tutt’altro che messianico. Ho l’impressione che in ambito giudeomessianico si propenda per un’interpretazione ed un’esegesi in contrasto con l’idea di una grande tribolazione che significhi ancora una volta una conquista pagana di Gerusalemme. Al contrario ci si basa su Ez. 36 per convincersi che a partire dalla ricostituzione dello Stato d’Israele nel 1948 non vi sarebbe stata più alcuna diaspora, trascurando il fatto che i termini della profezia riguardano l’epoca milleniale, e che la fallimentare impresa bellica di Gog e Magog a cui fa riferimento Ezechiele è chiaramente collocata alla fine del millennio. (265/f) Se l’idea di un patto fallimentare con Israele, ed ancor più che questo patto possa essere stabilito tra le due bestie di Ap. 13 (pensate alla versione ebraica di bestia che sale dalla terra), dispiace, animati dal desiderio che l’epoca messianica sia graduale ed indolore per Israele, tutto quel che si può fare, anziché sottoporre Dan. 9: 27 ad un’esegesi azzardata, è limitare l’esplicitazione della questione, evitando il rischio di trattarne inopportunamente i delicati aspetti logistici. (265/g) Se l’esegesi privilegiata in ambito giudeomessianico e la tesi del Grattan Guinness fossero fondate non vi sarebbe da attendersi necessariamente alcuna abominazione ed alcun patto con Israele, senza con ciò escludere l’ipotesi di un assedio di Gerusalemme senza preavvisi escatologici. In altri termini se il processo di pace arabo-israeliano, (d’ispirazione statunitense) fallisse e non si stipulasse alcun patto con Israele, non è escluso che una federazione mondiale d’ispirazione europea possa intervenire brutalmente ed improvvisamente in Israele. Non è detto però che l’Europa non possa riuscire autoritariamente nell’impresa di formale pacificazione perseguita con prevedibile insuccesso dagli americani, riproponendo la collocazione dell’assedio gerosolimitano allo scadere della prima metà dell’ultima settimana di Daniele. In Dan. 9: 27 si dice che il condottiero confermerà un patto con molti, ma non si dice chiaramente che ciò riguarderà direttamente e formalmente anche Israele, perciò la tesi, secondo cui il Piccolo Corno farà cessare i sacrifici, non implicherebbe la certezza di una soluzione vigilata di un eventuale accordo israelo-palestinese della durata di tre anni e mezzo. Il fatto però che la menzione del patto durante una settimana sia seguita dall’avversativo/congiunzione waw nello stesso verso 27, sembra implicare l’abrogazione di una convenzione, la quale diviene ancora più probabile quando l’apostolo Paolo trattando del giorno del Signore in 1Tes. 5: 1-3, afferma ch’esso verrà quando la gente dirà eirhnh kai asfaleia (pace e sicurezza). A tale possibilità sembra anche condurre l’eventuale origine ebraica della falsa personalità messianica di Ap. 13: 11-18, la cui intesa o convenzione con il Piccolo Corno descritto poco prima è palese. Se non vi fosse alcun patto tra Israele ed il Piccolo Corno, allora la grande tribolazione che si colloca nella seconda parte dell’ultima settimana di Daniele, inizierebbe brutalmente senza alcun rilevante indizio politico-diplomatico, benché a seguito dei giudizi di Ap. 6-9, e comunque contemporaneamente all’assedio di Gerusalemme. L’esegesi di Dan. 9: 27 è di grande importanza per la conoscenza del futuro d’Israele e delle scelte che quest’ultima è chiamata ad operare per la sua sopravvivenza. E’ stato utile ed interessante sottoporre le mie impressioni su Dan. 9: 27 alle riflessioni di Dov Chaikin, (a third-generation Israeli Jew who has been living in Jerusalem since 1928) il quale è un accurato lettore del testo biblico, ebreo di nascita e di formazione giudeo-ortodossa. Non si tratta di un accademista, ma la sua accuratezza linguistica è nota, alla pari dell’equilibrio delle sue riflessioni bibliche, le quali ancor più incoraggiano, nel nostro caso, a lasciare aperta la possibilità di una spiegazione alternativa di Dan. 9: 27. (265/h) E’ stata contestata la seguente tradizionale resa della Luzzi del v. 22b: “... e il giudizio fu dato ai santi dell’Altissimo...” La Baldwin così si esprime al riguardo: “Judgement was given for the saints of the Most High, that is, in their favour and not to the saints (AV, RV), an idea which does not belong to the sense here - though see 1Cor. 6: 2.”266 W(e)diyna’ y(e)hiv l(e)qadiyshey ‘el(e)yowniyn del v. 22 chiarisce che ambedue i significati sono possibili, perciò si può suggerire che il giudizio sia a favore dei santi perché questi vengono riconosciuti quanto alla prerogativa dell’acquisizione del regno, ed è per i santi che Dio interviene per mettere fine alla loro oppressione. Nell’Apocalisse coloro che erano stati trucidati per la loro fedeltà alla parola di Dio e per la loro testimonianza gridano con voce possente: “Fino a quando, Signore santo e verace, aspetterai a punire gli abitanti della terra e a vendicare la nostra morte?”267 Il momento di esaudire la preghiera dei martiri giunge in coincidenza con l’acquisizione del regno e col giudizio del mondo: “O Signore, Dio dominatore dell’universo, che sei e che eri, noi ti ringraziamo perché hai preso in mano il potere che ti appartiene e hai cominciato a regnare. I popoli si sono sollevati contro di te, ma è giunta l’ora della resa dei conti, è venuto il momento di giudicare i morti, di ricompensare i profeti tuoi servi, e quanti sono tuoi e rispettano il tuo nome, piccoli e grandi; il momento di distruggere tutti quelli che corrompono la terra”.268 Alla luce di tali affermazioni si può anche comprendere che il giudizio sia per i santi. Un interpretazione alternativa è implicita in G (Q) che suggerisce, da thn arisin (to crima) elwce = S/V, , la vocalizzazione interna di yhv con sewa + patah, per cui anziché con l’usuale passivo, accreditato anche dalla Ki, la quale registra in nota la menzionata variante Vs G/S/V, si può tradurre con l’attivo Qal, come ad es. AEz = egli diede loro rivincita/vendetta.269 Diyna’ è una forma chald. n.m.s. emph. di dyn d. 1a = oltre che giudizio, giustificazione, ragione, perciò la lettura di Ibn Ezra appare quasi una parafrasi, che però coglie il senso del favore rivolto ai santi. Un’ulteriore lettura viene citata dal Montgomery, il quale sembra escluderla, ma che alla pari delle altre risulta attendibile e non nega affatto l’autorità divina, anzi la conferma perché l’autorità concessa ai santi di governare il mondo è sottoposta pur sempre alla sovranità divina (e ciò è confermato dal contesto del cap. 7 di Daniele, giacché il regno viene dato ai santi -v. 27): “ 2) The (power of) judgement was given to, properly denied on the ground that God is the judge in this chap...”, ma si riconosce che “of this interpretation there is reminiscence of the passage in Wis. 3: 8, the righteous will judge nations and rule peoples, and in Mt. 19: 28, when the Son of Man sits on the throne of his glory, ye also shall sit on twelve thrones judging the twelve tribes of Israel, and 1 Cor. 6: 2, Do ye not know that the saints shall judge the world? and in a combination of v. 9 and this v. in Rev. 20: 4.”270 Entrambe le letture si presentano in armonia nella versione del Bernini: “... e fu resa giustizia ai Santi dell’Altissimo e venne il momento quando i Santi possedettero il regno.”271

    Versi 23-27
    Si ritorna con questa sezione a trattare dei medesimi argomenti dei vv. 7 e 19, ma qui l’atmosfera escatologica ed apocalittica giunge al culmine della tensione, caratterizzandosi nella prima parte del potere del Piccolo Corno sul mondo e sui santi, mentre nella seconda dell’avvento del Regno di Dio. Il passaggio dal primo al secondo elemento è costituito da un’informazione di contenuto puramente escatologico e soggetto ordinariamente ad una lunga discussione interpretativa che spazia in lungo ed in largo per la tradizione apocalittica relativa al calcolo dei tempi messianici, collegando un tempo, dei tempi, e la metà d’un tempo agli eventi che precedono ed accompagnano gli stessi. Edward J. Young ritiene che “queste parole caratterizzano l’intensità della persecuzione del piccolo corno”, e la “durata del periodo indicato dalla parola tempo non è specificata e quindi non possiamo parlare con certezza di anno” e che “l’espressione stessa è cronologicamente indefinita, ma il senso è chiaro...”: “La potenza del piccolo corno si manifesterà per un tempo e quindi per dei tempi (o due tempi, come qualcuno traduce). Con ciò si vuole esprimere simbolicamente la crescente potenza del piccolo corno.”272 Nelle parole di Young appare anche la consolidata tendenza a dilatare gli stessi tempi al fine di farli coincidere integralmente con l’ultima settimana di Daniele, la cui collocazione dovrebbe inserirsi in un più elaborato contesto, ed alla quale si dedicherà più avanti un qualche spazio. Dalla stessa dilatazione deriva anche l’opinione secondo cui la grande tribolazione si protrarrà per sette anni. La presenza di sezioni settenarie nelle tavole 1-4A, 4B e relative emendazioni comprese (provvisorie quanto all’ultima settimana di anni), sono in parte causa del complicarsi delle teorie riguardo al rapimento-LXX settimana di Daniele della tav. 4B, quali alternative alla tesi dispensazionalista di Hal Lindsey, anch’essa coinvolta dal medesimo assunto (tav. 4A). A considerare la sua collocazione nel capitolo dodicesimo dell’Apocalisse di Giovanni, la grande tribolazione, (propriamente detta, benché in senso largo nelle tavole proposte il termine riguardi l’intera settantesima settimana) dovrebbe iniziare con la seconda metà dell’ultima settimana di Daniele, a prescindere dalla possibilità o meno che quest’ultima sia da collocarsi integralmente alla fine dei tempi, senza l’interruzione ipotizzata a partire dall’idea che Dan. 9: 27 implichi la cessazione dei sacrifici ad opera del Messia, e conseguente interruzione delle settanta settimane di Daniele. Appare prudente la conservazione di ambedue le letture di Dan. 9: 27, ma l’idea che in quest’ultimo brano vi siano due soggetti mi sembra sempre meno convincente, pur avendola presa disinteressatamente in considerazione. A questo punto si verificherebbe una coincidenza con la teoria dispensazionalista, ma non tale da procedere oltre la distribuzione dell’ultima settimana di Daniele. La teoria tribolazionista, comunque, verrebbe ad esemplificarsi se per tempi dei gentili in Lc. 21: 24 ed Ap. 11 intendessimo quelli in Dan. 7 e 12, (ossia la seconda metà dei sette anni) come anche suggerito dal Montgomery, per subito dopo proporne, in bilico, la letterale o simbolica problematicità: “The extent of time is expressed, in apocalyptic fashion, indefinitely, and the problem is whether a definite term is meant or an indefinite era is symbolically expressed. Essaying an exact interpretation, time may be interpreted as year after the usual interpretation at 4: 13.273 In Dan. 7: 25 è stato notato che tempi in ‘ad-‘idan w(e)‘idanin wup(e)lag ‘idan, benché la parola si mostri al plurale, possa essere un duale, perché, avendo l’aramaico perso quest’ultima forma, la tendenza di M è d’ignorarlo nell’aramaico biblico, perciò il tempo conteggiato equivarrebbe a tre tempi e mezzo, ovvero alla mezza settimana di Dan. 9: 27, ed approssimativamente alle 2300 sere e mattine di 8: 14, ossia 1150 giorni. Ciò pone un problema, perché se è vero che i tempi escatologici di Daniele coincidono con quelli di Ap. 11: 2 e 3, i 1150 giorni del primo non corrispondono ai 1260 menzionati da Giovanni l’apostolo (3 ½ anni non corrispondono a 1260 giorni né secondo l’anno lunare, né secondo quello solare). Inoltre, mentre i giorni riportati in Ap. 11: 3 riguardano l’intero periodo di 3 ½ anni lunari concesso ai Gentili perché calpestino “la santa città per 42 mesi”, in coincidenza con il tempo della predicazione dei due testimoni, i 1150 giorni di Daniele potrebbero aver decorso dal momento dell’abbandono del luogo santo, senza coprire interamente il periodo di oppressione su Gerusalemme, secondo quanto Ap. 11: 2 sembra suggerire. Ciò significherebbe che soltanto dopo 110 giorni, (ossia 1260-1150) dall’inizio dell’occupazione della città santa i Gentili potranno profanare la zona che è oltre il cortile del tempio. Ritengo che tutte queste soluzioni, pur sembrando spiegazioni ragionevoli, sono fuorvianti, perché partendo dall’unica affermazione dei 3 ½ tempi si assimilano a quest’ultimi sere e mattine, giorni e mesi, sia in Daniele che nei Vangeli e nell’Apocalisse, purché approssimativamente equivalenti a 42 mesi, senza però distinguere o prevedere contesti o periodi diversi per ciascuna menzione dei tempi menzionati. I 3 ½ anni di Dan. 7: 25 sono escatologici, mentre le sere e le mattine del capitolo ottavo non lo sono, perciò dovremmo stare attenti a non inglobare indifferentemente nel medesimo sistema escatologico entrambi i capitoli, tenendo presente, allo stesso tempo il fatto che “l’Apocalisse cristiana si ispirerà a questa circonlocuzione (quella di Dan. 7: 25 in questione) per indicare la ricorrenza delle calamità e delle persecuzioni sopra gli eletti di Dio lungo il corso dei secoli - cfr. Ap. 11, 2-2; 12, 14; 13, 5; Lc 4, 25; Gc 5, 17.”274 Perché dunque escludere che nel libro di Daniele non si tratti di almeno due diverse ricorrenze di un’oppressione che si protrae per un tempo approssimativamente equivalente? La tesi del Gaebelein circa la diversità del piccolo corno del capitolo ottavo da quello del settimo, ritroverebbe conferma anche nell’evidenza di quest’ultima questione di cui ci stiamo occupando. Il Gaebelein pone in relazione ad Antioco Epifane le 2300 sere e mattine, evitando però di confonderle con i 3 ½ tempi di Dan. 7: 25: “Daniele... viene a sapere che l’afflizione durerà 2300 giorni (letteralmente: sere e mattine), dopo di che il santuario sarà purificato. Questi 2300 giorni abbracciano il tempo in cui Antioco Epifane commise i suoi atti abominevoli. La cronologia di questi 2300 giorni è interessante. Giuda Maccabeo purificò (lett. giustificò) il santuario dalla abominazione il 25 dicembre dell’anno 165 a.C. Antioco Epifane morì miserabilmente due anni più tardi. Indietreggiando di 2300 giorni dal tempo in cui Giuda Maccabeo purificò il tempio profanato, ci ritroviamo nell’anno 171 a.C., quando è descritta la narrazione dell’intervento di Antioco contro i Giudei. Menelao, dato ad Antioco ciò che era richiesto per essere eletto sommo sacerdote, saccheggi• il tempio e complottò di uccidere Onia, terzo sommo sacerdote in carica.”275 Notiamo che il Gaebelein intende le sere e le mattine di 8: 14 come 2300 giorni. Sia però che si tratti di 7 anni, sia che si debbano quivi intendere 42 mesi, esiste comunque la possibilità di applicare la profezia alle vicende maccabaiche, perché esistono due momenti della profanazione del tempio: l’uno nel 171, l’altro nel 168 a.C. Siccome “i fatti più iniqui riguardanti la profanazione del tempio furono perpetrati dal principale generale di Antioco, Apollonio, nell’anno 168 a.C.”, è più probabile che l’operazione di divisione per due di 2300 suggerita dal Montgomery, ritrovi,55 oltre che nel dato filologico, nelle vicende storiche un valido riscontro.276 Liberatisi (per così dire) delle interferenze del capitolo ottavo di Daniele, non siamo più nelle condizioni di dover spiegare i 1150 giorni in relazione ai 1290 ed ai 1335 di Dan. 12: 11 e 12, oltre che con i 1260 di Ap. 11: 3. Mentre, però, i 1260 di Ap. si presentano approssimativamente in sintonia con l’interpretazione lunare dei tempi di Dan. 7: 25, i 1290 ed i 1335 non sembrano adeguarsi ad una comprensione letterale dei 3 ½ tempi. Sia H.C.L. che F.B. comprendono plg (sewa + pathah) in ‘ad-‘idan w(e)‘idaniyn wup(e)lag ‘idan come una metà, ma dovremmo tener presente che l’area semantica da cui deriva il costrutto indica l’idea di generica divisione, da non intendersi necessariamente composta di due metà. In Gn. 10: 25 viene detto che ai giorni di Peleg la terra fu divisa,per cui interviene l’idea di frazione o parte. Perché dunque non poter interpretare per un tempo, e dei tempi ed una parte di un tempo, giacché l’idea di una comparazione approssimativa di 3 ½ anni con 1290 e 1335 giorni si presenta poco convincente, trattandosi di circa due mesi di differenza?277 E’ ciò che, in sostanza, ha sostenuto Calvino: “... and they shall be given into his hand, until a time and times and the dividing of time.”278 I motivi di Calvino, evidentemente anche filologici (di cui però egli non parla), sembrano però catalizzarsi dalla preoccupazione di salvaguardare l’attendibilità delle profezie escatologiche del libro di Daniele da relazioni apocalittiche che possono risultar loro perniciose: “But a greater consolation is added in the last clause, even for a time and times, and the division of a time, or half, as some translate it; it is properly a division. Interpreters differ widely about these words, and I will not bring forward all their opinions, otherwise it would be necessary to refute them. I should have no little trouble in refuting all their views, but I will follow my own custom of shortly expressing the genuine sense of the Prophet, and thus all difficulty will be removed. Those who consider a time to mean a year, are in my opinion wrong. They cite the forthy-two months of the Apocalypse, (chap. xiii. 5,) which make three years and a half; but that argument is not conclusive, since in that case a year will not consist of 365 days, but the year itself must be taken figuratively for any indeterminate time.”279 Non si comprende a cosa Calvino voglia riferirsi con “in that case a year will not consist of 365 days”. Probabilmente vuole riferirsi al fatto che i 42 mesi sono collegati ai 1260 giorni dei due testimoni, deducendo che in quest’ultima relazione un anno non corrisponde a 365 giorni, tralasciando probabilmente anche il computo approssimativo secondo l’anno lunare. Se anche quest’ultimo rappresenta un motivo di rifiuto dell’equiparazione di un tempo con un anno, allora Calvino sta cercando di evitare un collegamento con l’undicesimo capitolo dell’Apocalisse, il quale, non calzando, a suo avviso, coi tempi di Dan. 7: 25, in base all’assunto secondo cui un anno debba contare 365 giorni, egli cerca da una parte di allontanarlo da un’orbita necessariamente comune con la profezia dei tempi, e dall’altra di orientare il computo dei tempi in una maniera tale da garantire il più ampio e libero margine di definizione, evitando così di sottoporre i tempi escatologici di Daniele a pericolose precisazioni. Tale soluzione equivale, nella sostanza, ad attenuare, ovvero a rimandare l’argomento escatologico, ottenendone tra l’altro un congeniale conforto alla sua tesi teologica, adombrata dal mistero, a proposito della sovranità di Dio: “It is better then to keep close to the Prophet’s words. A time, then, is not put for a certain number of months or days, nor yet for a single year, but for any period whose termination is in the secret counsel of God.”280 La mia opinione è che si possano trovare nel libro stesso di Daniele le informazioni necessarie per definire il computo dei tempi di Dan. 7: 25, avendo però cura che tali informazioni riguardino circostanze e frangenti escatologici comuni, evitando dunque l’errore di andare a cercare le stesse informazioni nell’ottavo capitolo di Daniele. Il problema, poi, della compatibilità dell’esito di quest’ultima operazione con i dati escatologici dell’Apocalisse di Giovanni, dei Vangeli o di altri scritti apocalittici, si pone in un secondo momento, nonostante la sua rilevanza nel controllo delle conclusioni a cui si giunge nello studio dei tempi di Daniele. La discussione relativa alla compatibilità delle 2300 sere e mattine con le vicende verificatesi a partire dal 165 a.C. non sembra aver fornito esiti conclusivi.281 E’ d’aiuto, per non confondersi nei tentativi di armonizzazione dei tempi in Daniele con le vicende storiche ed il sistema escatologico apocalittico, prendere in considerazione il seguente suggerimento del Gaebelein: “Sarà molto utile al lettore unire il capitolo 7 con il capitolo 9, e l’8 con l’11, perché i capitoli 7 e 9 si occupano specialmente dell’Occidente, cioè dell’Impero Romano, e il piccolo corno del capitolo settimo corrisponde al capo d’un popolo che verrà del capitolo nono. I capitoli 8 e 11, invece, ci trasportano in Oriente. Il piccolo corno del capitolo ottavo e il re del Settentrione che invade la gloriosa terra di Canaan, conforme a quanto è predetto nel capitolo 11, sono una stessa persona. Se il lettore terrà bene a mente ciò, gli sarà più facile intendere questa parte del libro. I capitoli 8 e 12 di Daniele devono dividersi in tre parti, perché contengono tre grandi visioni: la visione del montone e del capro al capitolo 8; la visione delle settanta settimane al capitolo 9; la gran visione finale ai capitoli 10 a 12.”282 Condivido appieno tale suggerimento e dunque ricollego il capitolo 7 alle settanta settimane del capitolo 9, ai 1290 ed ai 1335 giorni del capitolo 12. A questo punto l’emendazione della tradizionale lettura di 7: 25 suggerita da Calvino renderebbe possibile la sistemazione delle tre sezioni apocalittiche appena menzionate in un unico sistema escatologico, perché non esisterebbe più la pregiudiziale di una rigorosa comparazione dei tempi con 3 ½ anni. L’approssimazione dei tempi che deriverebbe dalla lettura di 7: 25 secondo Calvino, si spiegherebbe nel diverso numero di giorni del capitolo 12, con il quale si precisa meglio l’attesa e l’oppressione del popolo dei santi, solo menzionati nel capitolo 7, evidentemente per ragioni di linearità e progressione del discorso apocalittico di Daniele. Nel capitolo 7 infatti il soggetto principale concerne le quattro bestie ed i loro comportamenti, ma soltanto nel dodicesimo si sviluppa la sezione conclusiva del tema dell’oppressione e della salvezza dei santi, ai tempi della fine, secondo lo schema suggerito dal Gooding.283 L’emendazione suggerita da Calvino, la quale è senza dubbio filologicamente possibile e pregevole per la potenziale versatilità nell’adattarsi ai 1290 e 1335 giorni del capitolo 12, incontra però un’apparente ostacolo nella diversa resa dei tempi in 12: 7, dove è detto con indiscutibile chiarezza che i tempi sono 1+2+½, purché sia scontato quivi un significato duale al plurale ebraico. Confrontiamo la sezione di quest’ultimo brano dove si menzionano i tempi con l’equivalente in 7: 25 l(e)mow‘ed mow‘(a)diym wahetziy - un tempo, tempi, ed una metà. Mow‘ed deriva dalla radice y‘d la quale riconduce all’idea di un tempo assegnato, predetto, ovvero ad una stagione, la qual cosa induce a ritenere che quivi si tratta di un tempo profetico già noto. Dovrebbe trattarsi della resa in ebraico dell’aramaico di 7: 25, ma ciò implica anche che plg corrisponda, ovvero venga assimilato ad htzy. Si può riconoscere l’emendazione di Calvino a 7: 25 nonostante la scrittura htzy in 12: 7, ed allora se ne ricava l’impressione della designazione di un tempo predeterminato ma rivelato con un’iniziale approssimazione che si riduce in 12: 7 e si risolve, svelandosi definitivamente, in 12: 11, 12. Ciò implica però la necessità che 3 ½ tempi nell’uso giudaico tradizionale rappresenti una designazione approssimativa. Che i tempi di 12: 7 siano gli stessi di 7: 25 è chiarito dalla circostanza di oppressione del popolo santo menzionata in ambedue i brani. Come si collocano allora i 1290 ed i 1335 giorni di 12: 11 e 12 in relazione all’ipotetica designazione approssimativa di 7: 25 e 12: 7? Non si può rispondere a tale interrogativo se prima non si definiscono i criteri per il computo del tempo. L’attuale calendario giudaico è solare e lunare allo stesso tempo, perché i mesi vengono calcolati con riferimento alla luna e gli anni secondo il movimento solare. La congiunzione della luna con il sole è detta mwld nascita, dalla radice yld.284 Un mese lunare corrisponde al tempo che intercorre tra una congiunzione e la successiva. Il mese sinodico intermedio (lunazione) è di 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 3 ½ secondi. L’anno solare è invece di 365 giorni, 48 minuti e 46 secondi, eccedendo perciò quello lunare di circa 11 giorni. In 19 anni il ciclo solare eccede quello lunare di circa 209 giorni o sette mesi. Per colmare il gap dell’anno lunare si ricorre al mese aggiuntivo detto Adar II, il quale non è altro che la settima parte dei 209 giorni redistribuiti periodicamente durante i 19 anni. Durante l’epoca templare l’intercalazione veniva decisa a seconda delle condizioni dell’agricoltura. L’intercalazione che durante la deportazione la comunità dei giudei doveva praticare è probabile che fosse di già regolamentata e fissata negli anni III, VI, VIII, XIV, XVII, XIX dei 19 anni dell’eccedenza menzionata del ciclo solare. Il calcolo del tempo secondo l’uso giudaico deve anche tener conto del fatto che soltanto i mesi pieni o completi (plur. di ml’) di 30 giorni, ed i difettivi di 29 detti mancanti (plur. di hsr) vengono computati nel calendario. I mesi di Nisan, Sivan, Av, Tishri, Shevat e Adar I (in un anno bisestile) sono sempre pieni; Iyyar, Tammuz, Elul, Tevet, ed Adar II (anno bisestile) sono sempre mancanti, mentre Heshvan e Kislev variano. Quindi, gli anni comuni contengono 353, 354 o 355 giorni mentre gli anni bisestili 383, 384, ovvero 385 giorni.285 Tutto ciò spiega perché la menzione di 3 ½ anni, dal punto di vista del calendario giudaico, implica pur sempre approssimazione, perché rimane comunque da vedere come e quanto gli anni dichiarati si dispiegano. Se ad esempio consideriamo 3 ½ anni tra il XVII ed XIX anno del ciclo solare in relazione a quello lunare, ammettendo ipoteticamente la presenza di un mese variabile non computato dal calendario, ci troviamo a concludere che l’intero periodo è composto di 42 mesi di 30 e 29 giorni, un mese variabile aggiunto, due compensazioni intercalari di circa 11 giorni. Il totale è con stretta approssimazione di 1290 giorni. E’ più arduo supporre la medesima operazione per i 1335 giorni, benché ciò non possa essere escluso a priori. L’esegesi in atto dimostra che avvicinandosi ai brani del libro di Daniele in questione con una mentalità non giudaica, si rischia di fraintenderne e mistificarne il messaggio apocalittico. Il rischio esiste non soltanto per l’A.T., bensì anche per il nuovo, secondo quanto risulta con evidenza in J.N.T. Il tempo escatologico di 7: 25 e 12: 7 è in relazione, secondo quanto il Gaebelein ha sostenuto, con le 70 settimane e dunque con l’ultima settimana del cap. 9, e ciò ha indotto una rilevante componente della cristianità fondamentalista ad identificare i 3 ½ anni, oltre che con la tribolazione apocalittica, con l’intera LXX settimana di Daniele. La presenza nel cap. 12 di 1290 e e 1335 giorni può essere, probabilmente, meglio compresa in seno alla discussione delle 70 settimane, e ciò ha la sua utilità per spiegare meglio i 3 ½ tempi del cap. 7. Conforme alle profezie d’Isaia286 l’Impero Babilonese fu abbattuto dagli eserciti di Ciro il Persiano e/o Dario il Medo. Dario divenne re intorno al 539 a.C., ossia 68 anni dopo la devastazione di Giuda e di Gerusalemme e della deportazione dei giudei a Babilonia da parte di Nebucadnetsar. Stavano per compiersi i 70 anni della profezia di Geremia, oggetto di studio da parte di Daniele: “Nel primo anno del suo regno, io, Daniele, studiavo i libri sacri e cercavo di capire il significato di quel che il Signore aveva comunicato al profeta Geremia, cioè i settant’anni durante i quali Gerusalemme doveva rimanere distrutta.”287 Il decreto di Ciro in favore dei giudei stava per concludere il tempo fissato per la deportazione e permettere la ricostruzione del tempio a Gerusalemme.288 La preghiera di Daniele in occasione dello studio della profezia di Geremia ebbe come risultato immediato la rivelazione delle 70 settimane, le quali procedevano ben oltre il ritorno in patria degli ebrei, per proiettarsi fino ai tempi escatologici e dunque ai 3 ½ tempi di 7: 25 e 12: 7. Il Bernini conviene che le settanta settimane shv‘ym shv‘ym vadano intese come 490 anni.289 In base a Dan. 9: 25 è erroneo iniziare a contare le 70 settimane a partire dal decreto di Ciro, perché quest’ultimo autorizzava soltanto alla riedificazione del tempio e non alla restaurazione ed alla riedificazione di Gerusalemme.290 La questione indica la necessità di un traduzione letterale di Dan. 9: 25, perché è facile cadere nell’assunto che la fine dell’esilio sia da identificarsi con la ricostruzione di Gerusalemme, così come fa ad esempio LDC-ABU, (in linea con G.B.) la quale è in errore anche quando suggerisce che Ciro sia il condottiero consacrato perché 69 x 70 = 483 anni e dunque non può trattarsi di un contemporaneo di Daniele e neppure di un maccabeo.291 Anche la traduzione di Dan. 9: 25 fornita dal Bernini non sembra corrispondere al contenuto dei testi in lingua originale: “Da quando è uscita la parola per far ritorno e ricostruire Gerusalemme, fino ad un Consacrato, a un Principe, sette settimane.”292 La Luzzi invece traduce letteralmente ed evita quella precomprensione del testo che in un secondo momento impedisce la collocazione delle 70 settimane, fino a credere che il testo biblico si riferisca ad “una profezia post eventum, cioè relativa agli eventi contemporanei o di poco anteriori al tempo dell’autore, ma per finzione attribuiti a Daniele, vissuto quattro secoli prima...” con la conseguenza che “in tale prospettiva vanno interpretati gli altri elementi cronologici dei vv. 26-27...” compromettendo così l’esito dell’interpretazione.293 Il testo, letteralmente tradotto non parla di ritorno ma soltanto di restaurazione del tempio: w(e)teda‘ w(e)taskel min-motza’ davar l(e)hashi w(e)liv(e)nowt y(e)rwushalaim ‘ad-mashiyha nagiyd shavu‘iym shiv(e)‘ah w(e)shavu‘iym shishiym wush(e)nayim. Lo Slotki, come segue, traduce a fronte del testo in lingua originale: “Know therefore and discern, that from the going forth of the word to restore and to build Jerusalem unto one anointed, a prince, shall be seven weeks...”294 Il Green, nella traduzione interlineare rende i due verbi lvnwt: and to rebuild; e lhsh: to restore.295 Il primo ritorno in Erez Israel si ebbe sotto Sheshbazzar nel 538 a.C. in seguito all’editto di Ciro, ma le mura di Gerusalemme vennero ricostruite soltanto nel 445 al comando di Nehemia. Dall’editto di Ciro all’inizio della ricostruzione di Gerusalemme trascorsero dunque 93 anni, di cui G. Lindsay ne tiene inesattamente conto, pur se involontariamente, facendo iniziare la cattività babilonese tra il 517 ed il 510 e sottraendo a questi anni i 70 della profezia di Geremia, in modo da far iniziare le 70 settimane nel 447 per poi interromperle alla LXIX nel 30 d.C.296 Le tappe che seguono la LXIX settimana secondo G. Lindsay non procedono di pari passo con le datazioni suggerite, fino all’inizio della presunta LXX settimana nel 1994, perché tre blocchi di 490, in aggiunta ad uno di 405, a partire dal 70 d.C. non conducono al 1994, bensì al 1985, nonostante l’inserimento di due gruppi compensativi di 40 anni ciascuno, alquanto discutibili, perché 80 anni nell’ottica di Lindsay, dovrebbero assimilare 4 blocchi di 490 a due millenni, a partire dal 70 d.C. (di cui uno ridotto a 405 a motivo dei 70 anni babilonesi e dei 15 dell’usurpazione ismaelita), anziché 8, come ci si aspetterebbe. Anziché inserire arbitrariamente i gruppi compensativi non sarebbe meglio lasciare che il sistema dei cicli annuali compensi se stesso con gli anni delle deportazioni storiche in senso stretto e con i 93 anni che intercorrono tra l’editto di Ciro e la ricostruzione delle mure di Gerusalemme, la quale è sicuro riferimento per l’inizio di un nuovo gruppo di 490 anni (le settanta settimane di Daniele)? L’emendazione ipotetica che ne deriverebbe297 non risulterebbe molto più lineare? Evitando, infatti, l’interazione dei 70 + 15 anni di deportazione/usurpazione con il primo blocco di 490 anni della Tav. 1A, riducendoli a 405, a partire dal 70 d.C., ci ritroveremmo storicamente in una situazione più attendibile. La prima data da fissare riguarda l’anno in cui iniziò la ricostruzione di Gerusalemme per ordine di Artaserse, perché quest’ultima è decisiva per stabilire l’inizio delle 70 settimane e l’interruzione a 3 ½ anni dalla loro conclusione. Formalmente, il primo ordine di riedificare Gerusalemme compare in Ne 2: 1-18, ma vi sono indizi di una possibile e precedente enunciazione di una tale volontà dei monarchi persiani. In Esd. 9: 9 Esdra infatti menziona il programma della restaurazione dei luoghi desolati ed un muro di pietra in Giudea e a Gerusalemme quale dimostrazione della benignità di Dio. Esdra salì a Gerusalemme da Babilonia entro il quinto mese, nel settimo anno di Artaserse, e dunque, secondo la cronologia più consolidata,298 nel 458 a.C., purché l’Artaserse menzionato dal testo sia il Longimano (465-424 a.C.). Sono state suggerite per la missione di Esdra altre due date (428 e 398 a.C.) con riferimento al XXXVII anno di Artaserse I, ovvero, in alternativa, al regno di Artaserse II (404-358 a.C.) perciò la sopra menzionata affermazione in 9: 9 non presenterebbe particolare importanza se non in relazione ad una datazione precedente alla missione di Nehemia.299 Se adottassimo l’anno XX di Artaserse I (il 445 secondo la cronologia dei re persiani) quale riferimento per il computo delle 70 settimane di Daniele, l’interruzione alla metà dell’ultima settimana verrebbe a collocarsi nel 42-43 d.C., ossia in un periodo che non presenta un particolare significato per l’apocalittica giudeocristiana. Quest’ultima, da un punto di vista analitico, in base alle evidenze interne del libro di Nehemia, in relazione alle 70 settimane di Daniele ed ai dati cronologici acquisiti dall’indagine storiografica, sembrerebbe proprio la più ovvia conclusione, benché siano stati fatti dei discutibili tentativi per trasferire la cronologia dei re persiani di 10 anni, in modo da far tornare i conti con il computo cristologico di 69 delle 70 settimane in questione: “Il primo anno di regno di Artaserse sarebbe il 474 a.E.V. Di conseguenza, il suo 20º anno sarebbe il 455 a.E.V.”300 L’adozione del settimo anno di Artaserse I quale data del mandato di Esdra a Gerusalemme e di un’autorizzazione imperiale concessa a quest’ultimo di dichiarare l’imminenza della ricostruzione delle rovine e delle mura è solo ipotetica, in assenza di validi elementi adatti a rendere flessibile la cronologia dei re medo-persiani. Se Esdra si recò a Gerusalemme nel settimo anno di Artaserse I, ciò dovrebbe essere accaduto nel 458 a.C., ma si deve tener conto del fatto che Artabano regn• per sette mesi in luogo del legittimo re, ancora giovinetto, per poi tentarne l’uccisione, sventata da Bagathukhsha.301 Il quinto mese del settimo anno di Artaserse I potrebbe dunque porsi approssimativamente tra il 456 ed 457 a.C. Se potessimo considerare tale data come l’inizio del decorso delle 70 settimane di Daniele, e considerando l’anno zero nel passaggio all’era cristiana, la conclusione di 69 ½ settimane si verificherebbe all’incirca nel 30 d.C. Ci chiediamo se veramente in Esd. 9: 9 si menzionino le rovine ed il muro di Gerusalemme. Il Luzzi infatti traduce il brano in modo tale da rendere molto improbabile l’idea di un’autorizzazione imperiale ad una ricostruzione delle mura, ma la possibilità, in tal senso, di una concessione parziale è difficilmente escludibile: “Poiché noi siamo schiavi; ma il nostro Dio non ci ha abbandonati nel nostro servaggio; ché anzi ha fatto sì che trovassimo benevolenza presso i re di Persia, i quali ci hanno dato tanto respiro da poter rimettere in piè la casa dell’Iddio nostro e restaurarne le rovine, e ci hanno concesso un ricovero in Giuda ed in Gerusalemme.” Senza dubbio il testo ebraico menziona un muro in Giuda e Gerusalemme: latet-lanwu mih(e)yah l(e)rowmem ‘et-beyt ‘eloheynwu wul(e)ha‘(a)mir ‘et-har(e)votayw w(e)latet-lanwu gader biyhwudah wuviyrwushala(y)m... per darci preservazione di vita onde innalzare (pilel inf. cst. da rwm) la casa del nostro Dio, restaurarne le sue rovine (Hiph. inf. cst. da ‘md) e darci un muro in Giuda e Gerusalemme. Quanto al 458 quale data del mandato di Esdra a Gerusalemme essa è sostenuta come la più probabile in V.D.B. e J.J.S. Il 30 d.C. si porrebbe dunque concretamente come punto di riferimento per risolvere lo schema di G. Lindsay della Tav. 1A, ma non si tratta che di un’ipotesi, suggerita per rispondere alla necessità di adeguarsi alle implicite istanze di discussione escatologica dei testi apocalittici, ed in particolare, del libro di Daniele, conforme al programmatico e dichiarato intento di valutare, quanto più è possibile, ma senza porsi in una situazione di contraddizione storiografica ed esegetica, i criteri ermeneutici che emergono dagli stessi testi apocalittici, evitando così di liquidare come mitologico e leggendario tutto ciò che in quest’ultimi non risulta, a prima vista, compatibile con gli assunti filosofici di una moderna ricerca scientifica. Se salta la data suggerita da G. Lindsay per il computo delle 70 settimane, anche le Tavv. 2A e 3A vanno emendate secondo l’ipotesi delle Tavv. 2B e 3B. Il libro di Daniele esige una discussione escatologica per la comprensione del suo contenuto etico-messianico, e dunque si è inteso rispondere a tale istanza, pur evitando di perdersi in elucubrazioni pseudoprofetiche. A questo punto, ritornando a Dan. 7: 25, 9: 24-27 e 12: 11, 12, si può suggerire che la differenza tra 1290 e 1335 giorni corrisponde in Lc. 21, Mt. 24, Ap. 11: 15-19, all’attesa messianica a decorrere dalla profanazione del tempio di Gerusalemme. I 42 mesi di Ap. 11: 2 rappresentano il tempo di oppressione da parte dei Gentili sulla città santa, senza però che questi possano accedere oltre il cortile che è fuori del tempio. All’inizio dei 42 mesi il sacrificio continuo sarà soppresso, ma soltanto dopo 1290 giorni verrà profanato il tempio con l’abominazione che cagiona la desolazione.302 A partire da questo momento andrebbero contati i giorni che corrispondono alla differenza tra 1290 e 1335 per ricollegarsi a Mt. 24: 14-18, 30, 40, 41, 1Cor. 15: 51 e 52, II Tess. 2: 1-17; Ap. 11: 15-19. In tutto ciò può esservi armonia tra il libro di Daniele ed il N.T., secondo una comune prospettiva apocalittica ed escatologica.303 Il tentativo in Dan. 7: 25 di mutare i tempi e la legge esprime con forza il carattere diabolico del Piccolo Corno e suggerisce l’esistenza di una precisa ed elaborata ideologia allo scopo di riformare definitivamente la società planetaria in senso autarchico, perciò s’intende dedicare a tale questione una specifica sezione d’indagine per comprenderne meglio la portata e l’incidenza in seno alla lettura etico-messianica del libro di Daniele.304 Il Regno di Dio nel verso 27 dello stesso capitolo rappresenta con il precedente, un’altro grande tema che è riferimento ideale del presente lavoro.305 Sembrerebbe che dal punto di vista dell’Apocalisse di Giovanni la cessazione dell’oppressione dei santi alla fine dei 1335 giorni non dovrebbe coincidere immediatamente con l’avvento del Regno, perché altri castighi sono annunciati dalla settima tromba, prima del trionfo sul Piccolo Corno.306

    DISCUSSIONE









    Estratti dal IV Capitolo

    I TEMPI E LA LEGGE



    Perché il Piccolo Corno cercherà di mutare i tempi e la legge? 1 La risposta a questo interrogativo è destinata a condurci all’essenza del messianismo in Daniele, perché i principi spirituali e politici del Regno di Dio, secondo quanto risulterà evidente, sono contenuti negli stessi tempi e nella stessa legge. Intanto vanno notati i seguenti dati, caratteristici della personalità e della strategia del Piccolo Corno nel settimo capitolo di Daniele.
    A. Caratteristiche generali della IV Bestia di cui il Piccolo Corno è espressione. 2

    1. Dotata di una forza straordinaria .

    2. Denti di ferro per divorare e stritolare le sue
    vittime.

    3. Calpesta tutto quello che non mangia.

    B. Caratteristiche specifiche del Piccolo Corno. 3

    1. Spunta tra dieci re.

    2. Ne fa cadere tre.

    3. Ha occhi come un essere umano e una bocca
    che parla con superbia.

    4. Fa guerra al popolo santo.

    5. Pronunzia insulti contro il Dio Altissimo ed
    opprime il popolo santo.

    6. Pensa di mutare i tempi e la legge del
    popolo santo.

    7. Divora tutta la terra.

    La Torah è il fondamento della legge giudaica, e benché il termine si riferisca spesso a tutti i libri della Bibbia, il suo uso è normalmente limitato ai cinque libri di Mosè. In essa sono contenuti 613 comandamenti (taryag mitzvot), la cui applicazione è individuale o collettiva. Gli altri scritti sacri, storici, profetici, o poetici, sono strettamente dipendenti dalla Torah, in quanto espansione dei comandamenti e dei principi in quest’ultima contenuti. Nel Giudaismo si ritiene che alla legge scritta (Torah She-Bikhtav), vada aggiunta una legge o tradizione orale (Torah She-B’al Peh), data anch’essa a Mosè, a formare con la prima un’unità4. Trattando della legge si terrà come riferimento la Torah in senso stretto e gli altri libri biblici, intesi quali sua espressione, ma nello stesso tempo la legge orale e la letteratura legalistica giudaica vanno tenute in considerazione. Molte decisioni giuridiche vennero infatti prese sotto la guida di Esdra, a capo della Kneset Hag’dolah (la Grande Assemblea), all’epoca delle dominazione medo-persiana, prima dei due enti giuridici detti zugot (paio o coppia), essendo uno il capo della corte rabbinica (av bet din), l’altro il patriarca (nasi), i quali erano indipendenti dai re asmonei, dal sommo sacerdote e dai governatori assegnati da Roma. Hillel e Shammai segnano il termine di questo periodo, per lasciare il ruolo della autorità giuridica ai discendenti del primo, uno dei quali codificherà per la prima volta parte della legge orale. Rabbi Yehudah, protagonista di tale impresa, suddivise la sua Mishnah in sei sedarim (ordini; 5). I sedarim che ci riguardano da vicino sono il Moed, trattando del ciclo annuale e delle feste 6 ed il Nezikin, relativo ai codici di legge criminale, commerciale e civile, e basilare per lo studio dei temi di economia giudaica, in quanto la forza straordinaria di un potente impero, come quello del Piccolo Corno, non può che trovare nella propria struttura economica le ragioni della propria forza. Più che i temi genericamente morali e rituali degli altri sedarim (fatta eccezione per lo Zera’im, il quale presenta delle relazioni con le tematiche economiche), è la pretesa o la vocazione della religione ad influire nella vita economica e politica, a contrariare ed a provocare le reazioni di uno stato pagano, sedicente sovrano. A fianco alla Mishnah sono considerati importanti la baraita (insegnamento esterno) e la Tosefta (supplemento), incorporate nelle discussioni rabbiniche. Nella metà del quinto secolo, Ravina e Rav Ashi, presso Babilonia, codificarono la tradizione post-mishnaica nella Gemara, la quale, a fianco della Mishnah costituisce il Talmud. Gli Amora’im (rabbini della Gemara - 7) non possono rigettare una norma dei saggi della Mishnah, perché precedente ai propri contributi, sulla base dell’assunto di una comune origine dalla rivelazione sinaitica. La Gemara comprende la halakhah e la agadah. Contemporaneamente alla Mishnah un genere di letteratura omiletica, traduzioni e commentari biblici venivano elaborati: la traduzione aramaica della Torah e relativo commentario ad opera di Jonathan ben Uzziel; lo Zohar di Shimon bar Yochai; il Midrash Halakhah (una sorta di commentario giuridico su materiale biblico); il Midrash Rabbah. I contributi di ogni generazione giudaica vanno aggiunti ai precedenti, dai quali dipendono in autorità. Il Talmud babilonese rimane il maggiore soggetto di studi giudaici, per i rabbini come per gli uomini di legge di ogni epoca. I geonim, i capi delle accademie di Sura e Pumbedita seguono gli Amora’im ed i loro discepoli. Il loro compito è rispondere agli interrogativi relativi ai riti, alla fede, alla storia ed alla legge, nella forma delle t’shuvot. Un certo numero di codici di legge risalgono a questo periodo fino all’undicesimo secolo: Halakhot P’sukot e Halakhot G’dolot citate nella letteratura rabbinica delle successive generazioni come base per le proprie decisioni. Il primo ed il più ampio dei codici è quello del Rambam, Rabbi Moshe ben Maimon (Maimonide). La Mishneh Torah comprende 14 volumi e comprende ogni aspetto della vita giudaica. Le sezioni che di essa ci riguardano maggiormente sono quelle relative al commercio ed agli elementi giudiziari: Nezikin, Mishpatim, Shoftim. 8 Le decisioni dei rabbini sono importanti per la trattazione dei temi economici, come anche due movimenti dell’Europa orientale: il chasidismo, fondato da Israel Ba’al Shem Tov nel diciottesimo secolo, ed il Musar. Entrambi i movimenti applicarono un rigoroso codice morale alla sfera delle attività economiche, attraverso un costante riesame dell’integrità personale.

    A. REDIFINIZIONE DEI TERMINI ECONOMICI
    La lettera pastorale della Chiesa Cattolica americana sulla povertà, dibattuta per più di cinque anni dai vescovi statunitensi, ritiene “uno scandalo sociale e morale che non si può ignorare” il fatto che tanta gente sia povera in una nazione come gli Stati Uniti d’America. 9 Ora, per evidenziare quanto sia vitale per uno stato sovrano riservare a se stesso la sfera economico-politica, citerò il classico genere di spartizione proposto implicitamente dalla Casa Bianca, tramite Patrick Buchanan 10, in reazione al documento menzionato: “La Chiesa parla con voce infallibile in materia di fede e di morale, ma non ha mai preteso di essere infallibile in questioni economiche”. 11 Si disse che nelle mani di un cattolico progressista come il governatore di New York, Mario Cuomo, questa lettera pastorale sarebbe potuta essere “una valida piattaforma da cui lanciare la scalata alla Casa Bianca”. 12 E’ indiscusso che negli ultimi anni il Cattolicesimo, tra documenti pastorali ed encicliche ha tenuto lezioni di etica sociale ed economica, chiamando in causa, a tal riguardo, precisi valori biblici. 13 I vescovi, pur ammettendo “un certo grado di diseguaglianza... per ragioni sociali ed economiche quali il bisogno di incentivi e la concessione di più forti ricompense per i più grossi rischi”, ricordarono che “l’etica cristiana è incompatibile con un esclusivo o primario interesse per la massimizzazione del profitto”. La lettera deplorava “la ricerca costante di autogratificazione e l’esagerato individualismo della nostra era”, allarmando contro “la continua tentazione della ricchezza”. 14 Ambito di contesa, dunque, tra religione e stato, è il più delle volte l’etica economica. Iniziando dal concetto di ricchezza o proprietà e lavoro, vanno definiti secondo la legge ebraica i termini della dottrina economica, in modo da verificare la tensione potenziale tra il messianismo innescato, ma latente nel libro di Daniele, ed il potere secolare, in primo luogo; la possibilità di una qualche coesistenza o di un uso strumentale dei modelli economici contemporanei, senza pregiudicare i principi messianici stessi, in secondo luogo.

    1. Proprietà e lavoro
    Le società occidentali ed, oramai, anche quelle che tali forse non lo erano fino a poco tempo addietro, interpretano indubbiamente la gestione ed il possesso della realtà in termini esclusivi e privati, tanto che viene considerata eroica impresa e motivo di progresso l’incremento indiscriminato del capitale e l’indefessa attività verso la conquista di nuovi mercati, nuove tecnologie, nuovi territori. Gli esempi sotto i nostri occhi sono quotidiani, e probabilmente noi stessi siamo presi in qualche misura da questo modo di ragionare. Infatti chi non traduce in reddito, se non in prestigio finanziario, la propria esistenza e le proprie idee, è praticamente un “fallito”, tanto che si dovrebbe riformulare un vecchio titolo di Fromm in “Essere è avere!” Da questo diffuso punto di vista la seguente dichiarazione di M. Tamari è di un assoluto stridore: “All wealth belongs to God, who has given it temporarily to man, on a basis of stewardship.” 15 L’affermazione sta a significare in primo luogo che non è idealmente concepibile per il Giudaismo che la proprietà sia rigorosamente privata, in quanto ogni cosa è di Dio; che le ricchezze temporanee dell’uomo vanno amministrate per se e per gli altri “since Judaism is a community-oriented rather than an individual-oriented religion (...this means that the group at all levels - comunally, nationally, and internationally - is thereby made a partner in each individual’s wealth).” 16.Il Kli Yakar (un commentario biblico) si esprime a proposito del comandamento sul riposo della terra ogni sette anni 17 come segue: “the purpose of the law is to teach us not to regard man as absolute lord over the produce of the land, and that one is required to have faith in God that he will provide adequate crops in the sixth year not only for that and the seventh year but also for the eighth, until the new harvest is gathered.” 18 L’idea della provvidenza di Dio è il messaggio di molte mitzvot, perché in tal modo è reso possibile un tempo speso esclusivamente per lo studio della Torah e la pratica della carità. L’atteggiamento dell’uomo nella stima e nell’uso dei beni materiali, dovrebbe essere quello del re Davide 19: “... A te, o Eterno, la grandezza, la potenza, la gloria, lo splendore, la maestà, poiché tutto quello che sta in cielo e sulla terra è tuo! A te, o Eterno, il regno; a te, che ti innalzi come sovrano al di sopra di tutte le cose! Da te vengono la ricchezza e la gloria; tu signoreggi su tutto; in tua mano sono la forza e la potenza, e sta in tuo potere il far grande e render forte ogni cosa. Or dunque, o Dio nostro, noi ti rendiamo grazie, celebriamo il tuo nome glorioso. Poiché chi son io, e chi è il mio popolo, che siamo in grado di offrirti volonterosamente cotanto? Giacché tutto viene da te; e noi ti abbiam dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto. Noi siamo dinanzi a te dei forestieri e dei pellegrini, come furono tutti i nostri padri; i nostri giorni sulla terra son come un’ ombra, e non vi è speranza. O Eterno, Dio nostro, tutta questa abbondanza di cose che abbiam preparata per edificare una casa a te, al tuo santo nome, viene dalla tua mano, e tutta ti appartiene.” L’uomo contemporaneo dimostra di amare le opere pie, e, tra un affare e l’altro talvolta fa l’elemosina e dona quel che ritiene indiscutibilmente proprio. Davide si comporta nelle relazioni con Dio non come chi fa l’elemosina, bensì come chi ha ricevuto da Dio ciò che si possiede. Lo stesso pensiero è presente nel Nuovo Testamento. 20 L’arricchimento materiale può essere indizio di benedizione ma anche il contrario, 21 e non necessariamente la sapienza è accompagnata dal denaro. 22 Importanti mitzvot che confermano il carattere relativo e sociale della proprietà individuale, riguardano l’anno sabbatico (shmitah) ed il Giubileo. Quel che la terra produce durante l’anno sabbatico è hefker (senza padrone), provvedendo parzialmente al bisogno dei diseredati in attesa di una ridistribuzione dei beni in occasione del Giubileo. Dal momento della spartizione della terra di Canaan, ogni vendita di porzioni di territorio sancisce il diritto di proprietà solo fino all’avvento del Giubileo. La prevenzione dell’accumulo di beni da parte di una minoranza della popolazione è solo la motivazione secondaria del Giubileo, mentre suo primo oggetto consiste nell’affermazione dell’insegnamento relativo alla totalità della proprietà di Dio 23, il quale è fattore primario di ogni autentico successo economico. 24 Della confessione giudaica in occasione di bikurim M. Tamari afferma: “Nothing could be more indicative of Judaism’s teaching of man’s utter dependence upon God for his economic welfare than this confession.” 25 Il complesso delle motivazioni teologiche intervenuto nella cristianità verso il superamento delle feste menzionate, va rivisto con attenzione, giacché i concetti di libertà e di grazia, quando vissuti disancorati dallo spirito delle festività ebraiche, determina modelli sociali ed economici in antitesi con i principi teocratici. Una parte rilevante della cristianità ha dichiarato le feste e la teocrazia ebraica, superate, specialmente dove la religione, compreso il Giudaismo, tende a ridursi a dominio “morale” e “spirituale”, tanto da chiedersi se non sia in atto il disegno di una pietà che avendo rinnegato la sua potenza, è perfettamente in sintonia col tentativo di “mutare i tempi e la legge”. 26 La proprietà privata è intesa nell’Antico Testamento piuttosto come uso privato di beni che appartengono a Dio, ma che all’occasione, va opportunamente condivisa con il prossimo, secondo la norma dell’amore recitata dal decalogo, purché ciò non pregiudichi l’incolumità del popolo di Dio e l’interezza della sua spiritualità. 27 I padri della Chiesa hanno ritenuto che, essendo i beni del mondo destinati a tutti gli uomini (patrimonio comune che è nei cieli), la proprietà è per sua essenza al servizio dell’amore, e che la ricchezza procura sofferenza quando sfugge a questa vocazione. 28 L’origine e la funzione dei beni terreni, essendo inalienabili, definiscono l’ordine delle proprietà, il quale viene a mancare “là dove una parte degli uomini vengono considerati figliastri esclusi da un dignitoso lavoro e dall’uso dei beni necessari alla vita.” 29 L’origine è la proprietà divina, la funzione, quella sociale “a suprema garanzia del diritto di tutti ai doni del Padre comune, anche quando sono distribuiti nell’ordine della proprietà privata.” 30 Il Giudaismo previene gli abusi che possono derivare dalla spontanea applicazione dei principi teologici agadici, mediante le norme della Alakhah. Nella sfera economica questa provvede all’applicazione in concreto dei concetti della proprietà divina dei beni, della responsabile amministrazione di tali beni, dell’attiva partecipazione divina al successo economico dell’uomo. Tra gli altri provvedimenti halakhici, le norme previste a tutela dei più deboli e dei poveri, implicano direttamente delle limitazioni alla proprietà privata o individuale. 31 La Mishnah cita alcuni atteggiamenti verso la proprietà e definisce chi dice “ciò che è mio è tuo e ciò che è tuo è mio” un uomo semplice; chi dice “quel che è tuo è mio e quel che è mio è mio” un malvagio; chi dice “ciò che è tuo è tuo e ciò che è mio è tuo” una persona giusta”; mentre nell’affermare “quel che è tuo è tuo e quel che è mio è mio” è il “marchio di Sodoma”. 32 A questo proposito Meir Tamari cita il commento di Malbim su Genesi 18: 20 come segue: “It must be remembered that the Bible stresses that Sodom was fertile and rich “as the garden of Egypt” before its destruction. The citizens of Sodom were worried that the desert dwellers or the poor from the surrounding areas would come to their cities in search of a livelihood and wealth. It was in order to prevent others from sharing in the wealth that legislation against strangers - unless they were rich, like Lot - was passed and enforced in Sodom. This jealous protection of their wealth later led to the corrupt laws and practices which characterized Sodom and precipitated its destruction.” 34 Spesso le definizioni che si adottano nei confronti della proprietà derivano dalla volontà di realizzare o procedere nell’accumulo di un capitale, collocandosi a seconda dei casi a “destra”, al “centro” o a “sinistra” di un qualche riferimento convenzionale, oltre i dettami costituzionali, i quali si tenta puntualmente di mutare qualora si rappresenti l’ostacolo alla loro realizzazione, al punto che può capitare di vivere in uno stato fondamentalmente ed economicamente sodomitico con la costituzione più bella del mondo. L’operazione che verosimilmente andrebbe compiuta a tal riguardo dal Piccolo Corno, consiste nella espulsione di ogni residuo ebraico dalle costituzioni nazionali, per una economia più dinamica. Alla componente economica liberistica del Giudaismo e di molte minoranze religiose occidentali, ipertrofica in situazioni di conflitto ideologico, si è risposto, dopo tentativi di soluzioni più radicali, con il liberismo economico stesso, ma all’ideale economico giudeocristiano il Piccolo Corno non vorrà rispondere con l’autentica socializzazione, in quanto ciò significherebbe la resa definitiva al Regno di Dio ed il superamento della civiltà umana concepita secondo schemi e criteri destinati, secondo il libro di Daniele, a fallire miseramente “senza intervento umano”. Una costituzione che prevede una dignitosa esistenza umana senza realizzarla, non corrisponde all’idea di carità biblica, la quale non è semplicemente formale cortesia, bensì adempimento degli obblighi legali: “The haves in Judaism have an obligation to share their property with the have nots, since it was given to them by God partly for that purpose. Sometimes this sharing takes the form of individual gifts, but Judaism also provides a moral basis for the power of society to tax its members so as to provide for the needy and weak. The Jewish concept that the market mechanism may, legally or morally, be distorted to assist the poor and weak at the expense of the property rights of the strong flows from this view of charity.” 35 Allo stile contemporaneo del mondo della finanza può giovare un’indicazione dello Shulchan Arukh: “If one seeks to buy or rent either land or movables and another comes and buys it, he is called a rasha (a wicked person).” 36 Ulteriori limitazioni all’arricchimento derivano dalla concessione di prestiti senza interesse, quale atto di rettitudine oltre una vaga o generica carità 37, dall’illegalità delle confische di beni di primaria necessità. Uno dei motivi per cui Dio non avrebbe revocato la punizione di Israele era l’abitudine di vendere il giusto per l’argento ed il povero per un paio di sandali (na’alim38) Rashi ritiene che il crimine consisteva “nell’accerchiamento” del povero (na’al significa anche “rinchiudere”39), il quale, vedendosi costretto a vendere il proprio campo oppure un bene primario, innescava un processo di corruzione sociale, che alla fine coinvolgeva l’intera comunità. Con l’emancipazione politica dell’Europa occidentale nel diciannovesimo secolo 40 l’autonomia dei tribunali giudaici venne a mancare, per cui essendo la legge religiosa applicabile solo col consenso individuale, la secolarizzazione della religione si mostrò inevitabile, precorrendo la scissione tra spiritualità e vita economica. La concezione dei “due domini” (Stato e Chiesa) riflette il superamento dell’ordinamento teocratico dello Stato. Si tratta di decidere come gli stati moderni possano essere legittimati dalla legge giudaica e come le comunità religiose che ad essa si ispirano possano conservare la propria ortodossia senza scendere ad un fatale compromesso. Il tema della proprietà è immediatamente coinvolto quando si voglia realizzare tale obiettivo. Il Concilio di Padova del 1577 ed il Sinodo dei giudei di Castiglia nel 1431 mostrano l’importanza dei tribunali giudaici ma anche i segni dei tempi a venire in Europa: “It has become increasingly common for our people to take their personal conflicts and quarrels to the Gentile courts, to use those courts to frustrate the decision of the Jewish communal council and to prevent through them the implementation of the rulings of the rabbinic court of Venice against recourse to the Gentile courts. In view of this we proclaim that any member of the community who uses the Gentile courts will be excluded from all holy things [and hence not be eligible to be included in a minyan, or quorum for prayer]; nobody will be permitted to deal with him, as is usual in the case of excommunicated people; it will not be permitted to slaughter ritually or examine food for him [to determine its Kashrut]. “ 41; “No Jew or Jewess shall bring his or her neighbor, whether a Jew or Jewess, before any judge, ecclesiastic or secular, who is not of our faith. This even though such a judge should decide in accordance with the laws of Israel. The exceptions are the payment of taxes or imports or coinage or other rights of our Lord the King or of Our Lady the Queen or the money or rights of the church or of a lord or lady of a place. Whoever transgresses this law is to be declared anathema and excommunicated, and no one shall have any dealings with him.” 42 In quest’atteggiamento v’è similarità tra il Giudaismo ed il pensiero dell’apostolo Paolo 43, benché i modelli economici teorici siano spesso solo apparentemente simili: “there is an important distinction to be made between the economic modesty of the religious Jew and that of non-Jewish groups such as the Puritans. To the latter, economic activity was not restricted by the injunction to study (la Torah)... To many of them, hard work and frugality were part of man’s destiny. 44 This meant that side by side with their modesty in economic affairs one can observe their intensive involvement in economic and commercial affairs over and above their actual needs. In Judaism, however, economic progress and continuous growth are not unlimited but, rather, severely restricted.” 45 L’obiettivo è la limitazione della proprietà di spazi, risorse e territori, affinché l’esistenza sia vivibile per i propri simili, ed i beni siano benedetti: “Guai a voi, che continuate a comprare palazzi e terreni. Voi che non lasciate un pezzo di terra a nessuno e diventate così gli unici padroni del paese. Ho sentito che il Signore dell’universo ha fatto un giuramento: Tutte queste abitazioni saranno distrutte, questi palazzi grandi e belli resteranno disabitati. Una vigna di tre ettari non produrrà nemmeno cinquanta litri di vino; e chi seminerà cento chili di grano ne raccoglierà appena dieci.” 46 Non si vuole con ciò condannare la ricchezza e la proprietà, bensì indicare quegli atteggiamenti e quei comportamenti in economia, i quali pur procurando fortune ed imperi finanziari, a lunga o a breve scadenza sono nocivi per se stessi e per la comunità. Il superlavoro, quando non è motivato da reali esigenze della comunità, civile e religiosa, in sintonia coi valori di responsabilità sociale della legge giudaica, per l’adeguamento dello stato ai principi di equità, giustizia e verità del Regno di Dio o da conflitti militari o ideologici in atto, tali da pregiudicarne l’incolumità; di fabbisogno, spesso determinato da una inadeguata politica occupazionale o da semplice sfruttamento, cela inevitabilmente la determinazione alla realizzazione dell’arricchimento ai danni della collettività. Entro i limiti dell’etica biblica, è possibile un’adeguato compenso al lavoro individuale, tale da significare una ricchezza differenziata, purché ciò non pregiudichi la dignitosa esistenza dei propri simili. 47 La modestia (tzniyut) riguarda non soltanto le maniere e la sessualità, bensì anche ogni altro aspetto del comportamento umano, incluso quello economico. Maimonide, descrivendo l’ideale di studioso della Torah (“the paradigmatic ethical personality in Judaism” - 48) mette l’accento sulla moderazione: “Just as the Torah scholar is known for his wisdom and his piety, so should his everyday actions be different and elevated above those of the ignorant; he provides for his family according to his means, yet without excessive devotion to this. His clothing should neither be that of kings nor that of poor men, but rather pleasant, ordinary clothing. His commerce shall be conducted in thruth and faith. His word shall be his bond, and he shall be scrupulous in his accounting. He shall always be ready to concede to others when he buys from them and should not press his interests on them.” 49 Prendere per sé, anche se forniti dell’alibi imprenditoriale dell’attività sregolata ed indefessa, protesa verso l’asociale ed unilaterale progresso, quel che è minimo e vitale per la dignità altrui, è semplicemente furto. Nel commento di Rabbi Shimshon Raphael Hirsch a Genesi 6: 11, l’immoralità in economia ed il furto compaiono nello stesso contesto: “The Talmud, discussing the biblical description of spiritual conditions prior to the Flood, concludes that the destruction of that generation was finalized only when they were guilty of robbery. 50 It should be noted that the word chamas (wrongdoing) is understood in halakhic terms as referring to the theft of a marginal item (less than shaveh prutah). Pre-Deluge society was to be destroyed because of all-pervasive economic immorality that concerned itself with the theft of even relatively unimportant things.” 51 Il rapporto tra frodi finanziarie, abusi in economia e politica, e decadimento morale, dalla violenza alla perdita di ogni modestia e pudore, è stato chiaramente verificato negli ultimi anni in Italia, come altrove, tanto che l’ulteriore precisazione di Shmuel of Sochochov riguardo al peccato di chamas, non meraviglia affatto: “After all, we know that the sin of that generation [of the Flood] included all three cardinal sins - idolatry, adultery, and murder - for which halakhah prescribes the death penalty. Theft, however, would seem to be a lesser crime, since it does not incur the same penalty. Yet, once theft and robbery become normal and accepted patterns of behavior, they bring in their wake all the cardinal sins - so it was chamas that sealed the death of the generation of the Flood.” 52 Infine Moshe Chayim Luzzato, nel suo lavoro moralistico Mesilat Yesharim, afferma: “Most people are not outright thieves, taking their neighbours’s property and putting it in their own premises. However, in their business dealings most of them get a taste of stealing whenever they permit themselves to make an unfair profit at the expence of someone else, claiming that such profit has nothing to do with stealing. It is not merely the obvious and explicit theft with which we have to concerne ourselves, but any unlawful transfer of wealth from one individual to another that may occur in everyday economic activities.” 53 Quando si è determinati a riferirsi ad un concetto di proprietà che rifiuta il principio dell’amore che permea il decalogo e che pone l’uomo come amministratore di beni affidatigli da Dio, non vi è dubbio che in qualche modo e per un tempo limitato si possa riuscire nel disegno dell’arricchimento, apparendo come capaci, meritevoli e saggi interpreti del progresso e della competizione. Infatti una tale ingiustizia contro i beni altrui è grave proprio in quanto offende l’amore 54 L’uomo può disporre di beni solo nel senso della parabola del servo fedele e del servo infedele 55 il cui carattere messianico è evidente . La trasgressione del servo infedele consiste, in sostanza, nell’abuso delle sue prerogative di amministratore, il cui risultato consiste non solo nell’inadempienza nella cura dei suoi conservi, ma nel maltrattamento di quest’ultimi. Come nel libro di Daniele il Dominio viene affidato al popolo santo 56 il servo fedele riceve l’amministrazione di tutti i beni 57, tanto che ricevere il potere ed il dominio corrisponde ad amministrarlo per sempre 58 secondo i principi della “legge e dei tempi”. Il servo che pretende di essere il padrone a danno dei suoi conservi non ha compreso il principio su cui si basa l’andamento del palazzo presso il quale serve: l’amore, in virtù del quale si ricevono il Regno di Dio, e negando il quale si perde. 59

    2. Essenza, tutela e remunerazione del lavoro
    Tra i doveri dei padroni o datori di lavoro “... principalissimo è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che né le divine, né le umane leggi permettono opprimere per utile proprio i bisognosi e gl’infelici, e trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa sì enorme, che grida vendetta al cospetto di Dio.” 60 Si è ritenuto che i doni divini ed i beni terreni vadano acquisiti attraverso i seguenti modi fondamentali ed originari di acquisizione: 1. occupazione di beni che non siano ancora proprietà di alcuno; 2. il lavoro; 3. l’accessione; 4. i titoli derivati di acquisizione: l’eredità, la prescrizione acquisitiva ed estintiva, il contratto. 61 Purtroppo è una realtà che vada aggiunto ai precedenti un ulteriore modo: la guerra motivata. 62 Il lavoro non consiste necessariamente in una attività remunerata, svolto per produrre o scambiare beni e per mettere a disposizione servizi economici 63, né tanto meno nell’esclusivo generico svolgimento di un’energia umana, intellettuale o materiale, esplicata da un soggetto a favore di un altro soggetto 64. La concezione del lavoro nell’A.T. corrisponde all’idea di una attività volta alla creazione del cosmo, alla sua evoluzione ed alla conservazione del suo ordine. Il lavoro se inteso impropriamente e finalizzato alla remunerazione anziché all’ordine cosmico 65, produce morte anziché vita, nonostante la parvenza di dinamismo, professionalità e prestigio. L’autentico lavoro rimane tale anche quando non viene remunerato o viene svolto da coloro il cui status è la disoccupazione. A seconda del livello o dell’ambito dell’ordine cosmico entro i quali si pone l’individuale vocazione, il lavoro può essere intellettuale, materiale, o ambedue le cose nello stesso tempo. Nella concretezza esistenziale, la mancanza di risorse e l’incompatibilità della strutturazione culturale della società può limitare la propria vocazione al lavoro, per cui può essere necessario limitare al minimo l’incidenza delle esigenze economiche ed esistenziali, sacrificando prerogative ritenute costituzionali (benessere, matrimonio, prole, abitazione), per limitarsi a ricavare da una attività remunerata, provvisoria, probabilmente precaria, comunque morale, le sostanze per la realizzazione della propria vocazione umana. La collettività subisce il danno della privazione o del ritardo di un autentico contributo umano di un individuo operante in condizioni esistenziali ed economiche precarie. Ordinariamente, per lavoro si intende un’attività che corrisponda ad un salario oppure, in genere, ad un profitto. 66 Fonti halakhiche si esprimono nel senso della protezione del lavoratore, in quanto vulnerabile a motivo della dipendenza salariale, delle asprezze legali e dei repentini cambiamenti delle esigenze di mercato; del datore di lavoro, il quale non si deve defraudare, neppure a motivo della lotta di classe. 67 Il Giudaismo contempla una diversificazione di ruoli e di compensi, purché ciò non si traduca in asservimento e privazione di lavoro, risorse e dignità della persona umana, tanto che “there does not seem to be any trace of a Marxist labor theory of value in the Jewish concept of wages...” 68 Tra lavoratore e datore di lavoro esiste una relazione contrattuale, derivazione del concetto di “nolo, affitto” _ che i rabbini applicano al lavoratore prima che ad altro, sicché la cancellazione dei contratti, la durata ed i costi, attengono alla relazione menzionata. 69 Lavoratore e datore di lavoro non appartengono a due diverse classi, perché una tale divisione distruggerebbe l’affermazione dell’unità del popolo d’Israele. 70 La tesi della relazione contrattuale menzionata pone un problema: come si può evitare la disoccupazione e lo sfruttamento? 71 Evidentemente deve essere chiamato in causa lo Stato per verificare una sufficiente occupazione dei cittadini, l’adeguata remunerazione, provvedendo eventualmente all’integrazione di ambedue, perché altrimenti lo stesso criterio contrattuale diviene premessa alla dissoluzione dell’ordine sociale. E’ noto quanto la spontaneità della carità, per compensare i mali sociali, possa essere crudele ed insufficiente, ma è anche fin troppo risaputo quanto clientelare ed iniquo può risultare l’apparato burocratico determinato dall’esigenza di garantire ad ogni individuo le prerogative costituzionali, (le quali risultano nel loro complesso affini all’etica biblica) quando l’intera società e i suoi rappresentanti si servono dell’etica, della legge e della religione, quale alibi per continuare a servirsi dell’uomo e garantirsi i frutti di una duplice rapina, facendosi da una parte sostenitori della libertà occidentale per usufruire dei vantaggi del liberismo economico, dall’altra sostenendo la nozione della previdenza e dell’assistenza sociale, in modo tale che molti individui, i quali non sono altrettanto “versatili” o “motivati”, debbano pagare due volte un medesimo servizio, e debbano rinunciare alle medesime prerogative in misure e forme duplici. La questione morale non si risolve se non assimilando lo spirito dell’etica biblica, oltre che i suoi contenuti formali. Quando una società ha conservato solo le forme dell’etica e della legalità è destinata a dipendere da modelli corrotti dell’etica e dunque a produrre ed a subire i mali prodotti dalla visione antropologica che realmente la ispira, anche se camuffata dalle forme della religione. Le istituzioni di uno stato possono rispondere al proprio dovere, conforme alla propria ragion d’essere, di promuovere e realizzare i termini economici e sociali previsti dall’etica biblica, evitando la miserevole decadenza della corruzione burocratica, solo se i tempi, la legge, ed i loro veri intenti, saranno l’oggetto della propria vocazione, risparmiando a se stesse ed alla nazione, prima la sofferenza e la violenza, dopo la guerra e la distruzione, perché l’esempio degli uomini in gamba piazzati molto in alto, tende a ridurre il numero di cittadini responsabili o ingenui che agiscono per il bene comune. Cercare di giustificare la relazione contrattuale chiamando in causa lo status dello schiavo ebreo (eved ivrì) non è corretto, perché è noto quanto fosse riprovevole nell’A.T. la riduzione dei connazionali a schiavitù. 72 Quanto al valore capitalizzato, concesso momentaneamente ai meriti dell’impresa individuale, sappiamo che esso tendeva all’estinzione in occasione del giubileo. Contrattualità e differenziazione economica sì, ma con la supervisione responsabile di uno stato responsabile e la maturità sociale del datore di lavoro, a tutela dei tempi e della legge. Per essere un datore di lavoro non basta lo spirito dell’impresa, così come per essere uno statista non basta la diplomazia e la conoscenza delle leggi (dallo statista al faccendiere può esserci solo un passo, così come tra democrazia e dittatura...). E’ necessario che la collettività eserciti su entrambi un critico controllo etico e spirituale, evitando di paralizzarne le funzioni con pretese irragionevoli. Il danno è però inevitabile quando gli statisti e gli imprenditori sono il miserevole prodotto di una collettività corrotta nell’etica e nello spirito, pur se erudita e ben nutrita. In sintonia coi codici di legge, la Torah contiene quattro precetti negativi ed un comandamento positivo riguardo alla sollecita remunerazione. Vari commentatori ritengono che il soggetto in Dt. 24: 15 sia l’operaio o il dipendente (sakir), mentre un’opinione riferisce il termine nafshò (la sua anima) al datore di lavoro: “... an allusion, it seems, to the employer’s unholy desire to benefit from the interest-free loan represented by withheld wages, irrespective of the hardship caused to the worker.” 74 Tale idea forza il testo, per edificante che sia l’applicazione, perché l’anima è quella del dipendente che aspira alla remunerazione, essenziale per vivere alla giornata (il suffisso in w’lyw ha relazione con skrw). In varie economie moderne, il costo dell’assistenza grava sulle aziende, per cui il consumatore trasferisce il suo equivalente in forma di prezzo aggiuntivo, al momento dell’acquisto del prodotto o del servizio. L’azienda assume obblighi sociali, che in caso di eccessivo peso burocratico e crisi morale delle istituzioni, possono distorcere l’efficienza del mercato e della produzione, col rischio per le aziende e gli imprenditori di finire quale capro espiatorio di mali pilotati in effetti dalla collettività e dallo stato stesso. Il problema degli abusi burocratici ed istituzionali non è materia puramente tecnica (stipulando un accordo diretto tra azienda e dipendente in forma di assicurazione si alleggerirebbero le strutture dello stato e dunque le opportunità di abusi), bensì, secondo i presupposti biblici, essenzialmente morale e spirituale. Quando un’attività umana non è vissuta conformemente al decalogo non esprime l’ordine creazionale, e dunque produce morte anziché vita, essenzialmente disordine, nonostante l’apparenza distinta e civile della professionalità. 75 La questione dei moventi nel rivestire una funzione istituzionale o nell’esplicare una qualunque attività, caratterizza l’equilibrata efficienza e l’eticità complessiva della vita dello stato, del mercato e della produzione. L’intervento puramente tecnico per evitare la corruzione produce ulteriore burocrazia, che si accompagna normalmente a connivenze tra mondo politico e realtà socio-economica (imprenditoria, poteri occulti, mafia, lottizzazioni e clientelismo). La burocrazia riduce il suo peso ed esplica la sua funzione solo quando l’indole del popolo e dei governanti è in sintonia con la legge ed il diritto. L’insegnamento della religione e della morale sono fondamentali per forgiare la natura di un popolo e disporla verso la legge, ma tale insegnamento non deve ridursi ad elementi dottrinali estranei o contrari all’etica sociale. Prescindendo dal contenuto dogmatico tradizionalmente controverso, la cui incidenza dovrà essere valutata, la religione cattolica esplica un ruolo di formazione etico-sociale e coscientizzazione politica, di grande valore civile e spirituale, il quale non dovrebbe essere considerato come un freno al progresso ed alla crescita economica, bensì come una matrice ordinatrice della realtà a servizio dell’intera umanità e della stessa sicurezza delle aziende e degli imprenditori. Dal punto di vista della legge giudaica i mali di uno stato in preda alla crisi morale, alle spartizioni ed alle lottizzazioni, agli appalti pilotati, all’inadempienza costituzionale ed all’inefficienza dei servizi, vanno spiegati nei termini di abbandono dei tempi e della legge, al quale non vi può essere rimedio di qualsivoglia natura o complessità che non consista nel ritorno al fondamento dell’etica giudeocristiana. Se il libro di Daniele non fosse autentico, ogni fenomeno economico e sociale potrebbe essere spiegato in termini di scontro inevitabile di individui e corporazioni, di cui lo stato rappresenterebbe soltanto il tentativo delle parti interessate alla moderazione ed alla regolamentazione del conflitto, attivo solo fino a quando una corporazione precedentemente illegale ad esso non si sostituisca. Il rischio di uno stato totalitario che non intenda condividere la sovranità con una presunta divinità, la quale anziché starsene “buona” nei “cieli” pretende la conduzione degli affari della terra 76, viene suggerito nel libro di Daniele come il necessario e logico epilogo all’abbandono dei tempi e della legge. Il totalitarismo del Piccolo Corno verrebbe ad esigere dai sudditi l’ubbidienza assoluta ed il rifiuto della divinità e della legge d’Israele. E’ prevedibile la conseguenza di un rifiuto di obbedienza al Piccolo Corno: l’impossibilità di uno status economico e l’eliminazione fisica. Tale ipotesi, oltre alla similare collocazione escatologica, stabilisce una relazione tra il Piccolo Corno ed una bestia dell’Apocalisse, dove è pure descritto il suo comportamento economico. 77 Non sorprende che il libro di Daniele sia sempre stato oggetto di aspre dispute. Gli oscuri presagi rivolti agli imperi del passato si addenserebbero sul potere secolare, le ideologie ed i grandi del nostro tempo. Le democrazie occidentali, nessuna esclusa, le più consolidate e le più recenti, proprio a motivo dell’ormai accertata tendenza ad imporsi quale sistema vincente internazionale, verrebbero ad intravedere nelle profezie del libro di Daniele la possibilità di un ruolo da protagonisti, vissuto alla vigilia dell’avvento del Regno di Dio, come l’ultima parte concessa sulla scena del teatro della storia.


    DISCUSSIONE



    Inserimento al 22 Gennaio, 1992.
    La necessità di un’orizzonte teologico globale e di una visione unitaria della realtà ai fini della messa a punto e della realizzazione della dottrina etica delle Sacre Scrittura, è chiaramente esposta in un articolo di Pietro Bolognesi in SDT/2, n.5, pp. 79-88. circa il quale seguono alcune riflessioni. Giacché la Scrittura “non suggerisce mai che vi sia una sorte di dualismo tra Dio e l’uomo o tra Dio ed il mondo, o tra Dio ed il peccato” ed anzi “dovrà pervadere l’indagine in tutte le sue dimensioni se non si vuole finire col diventare prigionieri di qualche dualismo”, è inevitabile giungere alla seguente conclusione: la chiesa che riduce od annulla (anche se animata da sentimenti di presunta semplicità evangelica) gli uomini capaci o votati ad una comprensione globale ed unitaria delle Sacre Scritture, predicano una salvezza che rende gli uomini prigionieri di qualche dualismo, adoperandosi anche, consapevolmente o meno in favore di una società dualistica e dunque schizofrenica. In una tale situazione non v’è da meravigliarsi che almeno taluni uomini (forse più radicali) tra coloro che s’ispirano ad una comprensione organica sia della teologia che della filosofia, finiscano per essere coinvolti essi stessi dalla schizofrenia e dal dualismo etico, per ritrovarsi con una lucida comprensione del “consiglio di Dio”, ma nell’impossibilità di applicare quest’ultimo in maniera costante ed armonica alla propria esistenza. Dio è luce, ma ci si ritrova dopo lunghi percorsi di alienazione e spasmodiche confrontazioni con la realtà a non poter più autenticamente rappresentare coerentemente la volontà etica della sua luminosità. Per non compromettere la visione e la portata di “tutto il consiglio di Dio” (At. 20: 27), il Regno di Dio come “qualcosa di globale” (cfr. Mt. 28: 18) e la “norma dell’ubbidienza” come “qualcosa di unico”, non rimane che annichilirsi, dichiarando la giustizia di Dio, ma nello stesso tempo la propria insufficienza dinanzi a prove, ostacoli e resistenze, le quali si dimostrano, in particolar modo nell’isolamento (spirituale e dottrinale), soverchianti ed a misura di una divinità compiuta.

    C. LA SOLIDARIETA’ TRA LEGGE E SPIRITO
    Dal momento che il Giudaismo considera l’interesse dal punto di vista morale, non si sta a distinguere tra i tassi percentuali praticati, a differenza degli economisti, impegnati tutt’al più nel ridurli anziché eliminarli, la cui esistenza presso una società è il sintomo della conflittualità delle sue componenti. Il ricorso ad una bet din, ovvero ad una corte rabbinica, annulla l’interesse stabilito nella concessione di un prestito tra correligionari. 109 I tentativi di raggirare il divieto della Torah sono numerosi, cercando di realizzare le medesime transazioni e presentandole in una forma tale da non farle apparire formalmente un prestito. L’interesse detto rabbinico riguarda tale categoria di operazioni economiche, le quali fanno appello al concetto di rischio, di opportunità commerciali perdute a motivo dell’impossibilità di poter contare su di un patrimonio in possesso di altri. Mentre il ricorso a tali argomenti, quando si tratta di un prestito tra giudei (e più generalmente, tra credenti che presumono un collegamento tra propria fede ed i principi dell’etica biblica) dimostra una chiara prevaricazione della Torah e l’incomprensione del senso della comunità giudaica, nel caso del tasso d’interesse praticato a gentili, gli stessi motivi si presentano del tutto legittimi, (purché prescindendo dalla definizione di giudaicità, sempre dibattuta in seno agli ambienti giudeocristiani) senza che alcuna norma biblica o rabbinica venga trasgredita, a meno che la riscossione dell’interesse non tradisca una crudeltà che le circostanze storiche non giustificano. 110 Tali motivi corrispondono ai principi strutturali per i quali il Giudaismo è fortemente sociale nell’ambito comunitario, fino a relativizzare il concetto della proprietà privata, ed estremamente competitivo e liberistico nell’attività economica secolare. Quest’ultima constatazione è potenzialmente sufficiente a ridimensionare l’assunto secondo il quale l’eticizzazione sociale riguardi, indiscriminatamente ed a pieno titolo, l’intera società, trascurando i motivi all’origine dei comportamenti liberistici di alcune confessioni religiose, le quali piuttosto subiscono (anziché usufruire di quei vantaggi ordinariamente attribuiti secondo regole corporativistiche e clientelari e quale aggiunta alle persecuzioni, materiali o psicologiche, del passato e del presente) la propaganda della retorica che non coglie l’essenza e la portata spirituale dell’etica sociale, ma che al contrario è motivata e mobilitata da ragioni strategico-confessionali, la cui portata risulta però globale a motivo di un’oggettiva esigenza di riforme etico-sociali, i cui procedimenti attengono però alla sfera dello studio antropologico e, di conseguenza, alle dinamiche spirituali per il rinnovamento della natura dell’uomo e delle istituzioni. In un clima di sopraffazioni sociali, diffuse corruzioni istituzionali, stragi e boicottaggio della Giustizia, è necessaria la riflessione relativa alla definizione di giudaicità, onde coordinare le forze per evitare quelle condizioni che puntualmente finiscono con olocausti ed uccisioni di coloro che rappresentano un ostacolo alla realizzazione della bestiale sopraffazione dell’uomo sull’uomo, ed all’origine e nell’essenza la dinamica etico-sociali del Regno di Dio. Se tale riflessione non comporta storicamente un soluzione ecumenica è sicuramente possibile che il dialogo e la comprensione possano evitare la sanzione della conflittualità economica e l’usura perlomeno tra alcune componenti religiose, e perlomeno ridurne la portata negli altri casi. Nell’ambito di tale ordine di riflessioni andrebbe verificato se il Cristianesimo primitivo sia autonomo dal Giudaismo, oppure se, compatibilmente con alcune affermazioni paoline, possa essere considerato come una componente dell’Ebraismo, tale da confermarne la giudaicità, trattandosi di fatto di una denominazione messianica del Giudaismo, riducendo così il conflitto economico ai più sobri livelli della coesistenza in seno ad una medesima tradizione religiosa. 111 L’affermazione ed il riconoscimento della giudaicità del Cristianesimo sono in buona parte compromessi dalla presenza di elementi teologici non espressamente citati nel Nuovo Testamento. 112 L’apostolo Paolo afferma la giudaicità dei cristiani, 113 i quali sono intesi, anche se gentili d’origine, come innestati nel Giudaismo, 114 ed ai quali, pertanto, è richiesta l’umiltà e la riconoscenza verso Israele, titolare dei “patti e delle promesse”, oltre che di un futuro glorioso e nazionale. 115 L’indicazione cristiana alla soluzione dei conflitti con Israele passa, oltre che attraverso la realizzazione di uno stato laico in attesa della realizzazione delle promesse messianiche e motivato dalla centralità della grazia nella predicazione evangelica a tutti i popoli, specialmente attraverso il riconoscimento dello stesso Israele e l’inserimento nella sua spiritualità, resa accessibile dalla medesima grazia. Se però possono essere condivise le promesse d’Israele, va assicurato, nello stesso tempo, il diritto dei giudei ad inserirsi, incidere e progredire presso tutte le nazioni. La diversa interpretazione dell’Ebraismo tra Giudaismo e Cristianesimo è però una realtà e ciò conduce erroneamente a credere che si tratti di religioni del tutto distinte. In molti casi i cristiani, i quali credono d’interpretare lo “spirito della legge”, devono riconoscere che grazie alla conservazione delle feste ebraiche e del sabato (alla cui osservanza secondo il Nuovo Testamento non si è comunque costretti) la comunità è tenuta in contatto con i principi ed i propositi della legge e dei profeti. Il Cristianesimo avrebbe sostituito alle feste la libera applicazione delle conseguenze etiche in esse contenute, ma se confrontiamo, ad esempio, l’abitudine dei prestiti ad interesse e la ferrea nozione della proprietà privata, su cui si fonda l’economia occidentale cristiana, con le medesime presunte conseguenze etiche, dovremmo giungere alla conclusione che lo spirito delle feste è andato perduto, salvo che in limitate eccezioni e minoranze che non fondano affatto o regolano un’economia né della comunità cristiana, né tanto meno di un’intera nazione, che non sia quella di un laicismo strutturale e disancorato dalle aspirazione iniziali dell’amor fraterno e della libertà nello spirito. Se si vuole ritenere superata l’esperienza teocratica dell’A.T., il Giubileo ed il Sabato, in cosa consiste la sostituzione e la spontanea applicazione dei principi di tali istituzioni? Lo stesso Israele deve chiedersi se sia corretto celebrare tutte le feste ad eccezione di quelle ricorrenze che maggiormente caratterizzerebbero l’economia dello Stato, e se sia sempre valido giustificare talune inadempienze ricorrendo all’argomento dell’inesistenza del tempio. Non si può pretendere di rifondare nei fatti uno stato confessionale che rifiuti i criteri del laicismo e del pluralismo determinatisi a partire dalla volontà di coesistenza della cristianità, e poi boicottare proprio quelle pratiche teocratiche che alleviano i poveri e gli “stranieri” dalla miseria e dalla sofferenza, ritornando a forme di degenerazione del laicismo, determinatesi da eccessi di liberismo economico. Quando la religione e lo Stato, oltre ad aver negato al povero il mantello gli tolgono anche le brache, con buona pace della città santa e dei profeti, vanno oltre l’offesa di Colui che l’ha fatto e certo non resteranno impunite. Un’ulteriore riflessione riguarda il grado di conflittualità economica nei confronti dell’Islam e viceversa, e dunque la possibilità di realizzare una coesistenza, utile anche a promuovere una soluzione della questione palestinese. La più attenta comprensione dell’esperienza iberica medioevale potrebbe contribuire a convincersi della capacità dell’Islam di prodigarsi nella formulazione di norme convenzionali di coesistenza, di rispettarle e di contribuire in tal modo alla comprensione tra mussulmani, giudei e cristiani, non solo in Israele. 116 Probabilmente ciò implicherebbe però la rinuncia da parte del fondamentalismo di ognuna delle parti alla realizzazione di uno stato confessionale, applicando quei principi teocratici che non sono comuni, riconosciuti e condivisi, esclusivamente alla propria comunità. Non si tratta di rifiutare e diluire i valori teocratici nel vasto mare del laicismo, bensì di adeguarsi alla necessità della coesistenza, evitando però di pregiudicare, nel ricorso ai mezzi ed ai privilegi offerti dal sistema laico, l’incolumità e la sicurezza di ogni particolare confessione religiosa. Quando si pretende di subordinare il mondo intero ai valori etico-sociali, ci si dovrebbe anche chiedere se dal confronto con le altre identità spirituali, il proprio modello teocratico ed i relativi presupposti teologici sono riconoscibili come autentici, e se, comunque sia, ottengono il consenso dell’altrui coscienza. Perciò ognuno si faccia coinvolgere perlomeno dal proprio ed originario modello teocratico, limitandosi però al di fuori della comunità religiosa alla cooperazione, affinché gli essenziali valori etico-sociali, nella misura in cui il livello di coesistenza lo permette, siano riconosciuti e praticati dallo Stato e dai cittadini. In tal modo lo Stato pur essendo laico nell’impostazione potrà fondarsi sui principi della teocrazia biblica, benché sia soltanto l’avvento dell’era messianica a realizzare, secondo la tradizione giudeocristiana, il governo ed i cittadini ideali. L’eterogeneità della spiritualità umana e l’inclinazione al malgoverno che ne deriva, laddove si costruiscono complesse strutture sociali e previdenziali gestite da enti pubblici, non permettono per il momento il superamento del liberismo economico, però si può, a seconda dei casi, calibrarlo: se la spiritualità di un popolo è elevata l’efficienza dello stato sociale può dimostrarsi molto elevata e la coesistenza riuscita, nondimeno anche in tal caso una certa misura di liberismo provvederà maggiore sicurezza e garantirà un più effettivo pluralismo. Una soluzione provvisoria per i popoli maggiormente caratterizzati dall’opportunismo e dalla corruzione del potere, oltre che dall’indisciplina e dall’ignoranza, non consiste nell’instaurazione di una dittatura, bensì nella presenza al governo di almeno due forze di potere e concezione economico-finanziaria. Ogni tentativo di resistere a tale equilibrio (purché non sia dovuto a sincera incomprensione delle grandi questioni di uno stato contemporaneo) dovrebbe essere inteso come il tentativo di continuare a faccendare con le strutture pubbliche e le entità che da esse dipendono, oppure come il timore che i progetti autarchici possano sfumarsi del tutto, tanto da diventare strategicamente indispensabile sfasciare lo Stato (pur facendosi paladini della patria) ed attentare alla vita ed alla dignità sia dei cittadini che degli uomini di governo più credibili e determinati alla sua difesa ed alla riforma delle istituzioni. L’autarchia potrebbe essere presentata e promossa a necessità specialmente qualora si rendesse chiaro che religione e democrazia, non avendo forgiato sufficientemente il popolo, siano fallimentari a causa di una qualche disfunzione che a mio avviso deve ricercarsi in ambito antropologico. In Italia lo Stato accusa la Mafia, la religione accusa ambedue e la Confindustria biasima tutti e tre, ma non ci si sogna di riflettere quale sia stato il contributo di tutti all’identità dell’uomo italiano. Lo sfascio, prima antropologico e poi sociale ed istituzionale facilita l’avanzata delle forze compatibili con il regime autarchico, ma la sconfitta è di tutti perché il cittadino, il popolo e le istituzioni sono il prodotto della cultura, del costume e della religione. Gli avvenimenti esigono con maggiore urgenza che il Giudaismo, il Cristianesimo e l’Islam adeguino la competitività all’esigenza di coinvolgere l’umanità in una comune esperienza soteriologica, e di non applicare spregiudicate strategie di guerra finanziaria, politica e militare. Le “applicazioni”, per eccesso o difetto, non potranno che rispecchiare l’oggettivo e globale stato delle relazioni internazionali tra religioni e culture, perché non è pensabile colpire un particolare nella periferia di una qualsivoglia entità ideologica e spirituale senza chiamarne in causa la sua anima globale ed interattiva. Tale premessa è necessaria prima di trattare della legittimità del prestito ad interesse nei confronti di non giudei, perché che così facendo si determinano le condizioni perché anche quest’ultimi siano disposti ad imitare i precedenti a partire da un paragonabile atteggiamento religioso che gradualmente si trasforma in semplice cupidigia di denaro e potere individuale. La responsabilità dell’autenticità dei propri motivi religiosi e culturali, la consapevolezza della reazione di quelle entità che oggetto di sfida finanziaria (oltre che la fondatezza dei propri moventi a partire dall’oggettiva pericolosità ed inimicizia delle entità con le quali ci si confronta), la necessità di limitare i costi e le sofferenze umane (disoccupazione, miseria, fame, sottosviluppo) che inevitabilmente ne derivano, la speciale tutela dei membri della propria comunità, 117 rappresentano una componente essenziale nell’adozione delle regole della competitività e del liberismo economico, implicite nel prestito ad interesse e all’origine dell’attività bancaria. Maimonide descrive il verso 20 del XXIII capitolo del Deuteronomio, (“Potrete esigere interessi da uno straniero...”) come un’ingiunzione positiva, in quanto egli intravede in tashikh (presterai ad interesse) l’ingiunzione di una mitzvah 118 e non una prerogativa lasciata alla personale discrezione, secondo quanto sostenuto dal Ramban (Nachmanide) e dal Raivad sulla Mishneh Torah. 119 Rav Hiya ha sostenuto che il prestito ad interesse ad un gentile è motivato soltanto in mancanza di occupazione alternativa o comunque sufficiente a coprire le spese di sostentamento. 120 Il ricorso all’attività bancaria non è da intendersi come fine a se stessa, bensì quale strategia per giungere ad un sufficiente controllo della realtà economica, politica e commerciale, onde difendere la propria incolumità e quella della propria comunità, oltre che dal rischio di vedersi esclusi da una dignitosa esistenza in grado di fornire quei mezzi per l’attualità dello sviluppo del popolo di Dio. Se l’accumulo di capitale è finalizzato alla sicurezza del popolo di Dio, quest’ultimo è chiamato a manifestare l’amore di Dio per tutti gli uomini, e dunque all’utilizzazione delle risorse anche nei riguardi di quei gentili che non rappresentano una minaccia per la propria incolumità, altrimenti il medesimo accumulo si traduce in profano capitalismo, il quale non essendo animato dai valori messianici, utilizza l’alibi della sicurezza confessionale (non solo giudaica) per imporre agli uomini un duro servaggio e promuovere il tentativo di mutare i tempi e la legge: avversare l’avvento del Regno di Dio usandone il pretesto ed ostentandone le forme di pietà, ma rinnegandone la potenza. 121 Il supporto ideologico della strategia del Piccolo Corno da parte di una falsa religione, tale quale suggerito nell’Apocalisse di Giovanni 122, è in linea con l’impoverimento del sentimento messianico nell’ambito di varie confessioni monoteistiche, nel senso della riduzione della religione morale e spirituale, senza l’autorità e la volontà di promuovere i valori del Regno di Dio nell’ambito politico e sociale, dal quale piuttosto dipende strettamente e ne è pesantemente condizionata. Quando il principio di separazione tra Chiesa e Stato procede dallo smarrimento della visione teocratica persino in seno alla propria comunità, anziché dall’interesse per la coesistenza con differenti ideologie e confessioni religiose, il risultato consiste in un laicismo motivato all’origine da finalità liberistiche in economia fine a se stesse, piuttosto che dalla volontà di promuovere libertà, coesistenza e salvaguardia dei valori etico-sociali. Tale forma di laicismo perde di vista la necessità di assicurare un’equilibrio tra forze politiche, tale da evitare, finché è possibile, il rischio di una dittatura mondiale. Il laicismo compatibile con gli obiettivi teocratici dovrebbe mirare alla conservazione di un equilibrio di potere tra le ideologie che si adeguano concretamente al pluralismo democratico. Lo smarrimento di tale regole credo sia sempre un contributo alla realizzazione di una qualche forma di dittatura. E’ lo Stato a poter esser laico e non essenzialmente le entità religiose che consensualmente possono averlo determinato, perché è nella natura della religione il carattere confessionale, (in quanto riferimento per la realizzazione comunitaria dell’ideale teocratico) il quale però esige pur sempre un qualche pluralismo giacché ogni tradizione spirituale, quando siano definiti le dottrine fondamentali e vincolanti, è soggetta ad una varietà d’interpretazioni. La Chiesa è confessionale per sua natura, ma laica nelle relazioni con le confessioni, le religioni, i popoli e le ideologie che aspirano alla coesistenza ed al pluralismo.
    Il laicismo dovrebbe rappresentare un riferimento fondamentale di ogni nazione, popolo, cultura e religione. Quando però il laicismo sconfina nel liberismo economico esasperato ed asociale, smarrendo i fondamentali valori del regno di Dio (i quali coincidono generalmente con gli stessi statuti costituzionali delle nazioni civili e delle istituzioni internazionali), diviene comprensibile (anche se raramente giustificabile) l’azione mirata e calibrata dei fondamentalismi politico-religiosi contro le aberranti degenerazioni dell’Occidente, in quanto conseguenza di quelle dinamiche storico-spirituali che rendono possibile violenza e guerra in risposta all’ingiustizia ed all’oppressione mascherata da libertà di mercato e progresso.
    La tradizione liberale, laica e sociale della politica è compatibile con tutte le forme di governo rispettose della libertà, della democrazia della giustizia. Sia che si tratti di socialismo o laburismo, che di monarchia o liberismo, l’eticità e la legittimità di un governo dipendono dalla libertà e dalla dignità che vengono riconosciute ad ogni singolo cittadino e ad ogni uomo in vita sul pianeta: di conseguenza qualsiasi governo di qualsivoglia ispirazione è fasullo e deplorevole se non vi si ritrovano tali contenuti. Il liberismo però, a motivo delle grandi risorse economiche, tecnologiche, informatiche e finanziarie di cui può disporre, se sfugge alle regole della civiltà politica ed assume le regole di mercato quale norma suprema della propria condotta politica, si traduce nello strumento più micidiale dell’autarchia.
    Vi sono più che ortodosse ragioni per ipotizzare l’inutilità dottrinale delle entità cristiane (specialmente tra gli evangelici fondamentalisti) che pretestuosamente sposano la causa del liberismo in via di degenerazione in autarchia pur di far denari, benché predicando i fondamenti della fede, ma combinati impropriamente a quell’idea di neutralità spirituale che piace tanto a chi vuol governare autarchicamente questo mondo. Conosciamo adeguatamente di tali entità, la pietà religiosa, ma anche la lungimiranza, l’efficacia, la capacità organizzativa nel boicottare ed isolare coloro che mescolano fede ed etica politica, candidandoli ad un esilio sofferto e complesso: e proprio per tale conoscenza si consiglia la riflessione e la prudenza nelle relazioni con le forme politiche ed economiche più esasperate del liberismo, per non ritrovarsi concausa di morte ed oppressione planetaria alla rivelazione del regno di Dio.
    Il Medio Oriente potrebbe ritrovare nel laicismo sufficienti condizioni per la coesistenza pacifica, purché l’Occidente non renda più aspro il conflitto col fondamentalismo islamico a causa di un mercato sempre più disumano, utilitaristico ed asociale: in tal caso sappia l’Occidente che dovrà prepararsi ad una guerra più distruttiva delle precedenti. Israele viene erroneamente confuso con l’Occidente oppressivo, ritrovandosi sempre quale immediato bersaglio del fondamentalismo islamico, mentre in realtà il Giudaismo potrebbe, in condizioni di pace, condividere le fondamentali concezioni etiche dell’Islam e del Cristianesimo, per una coesistenza in seno ad una civiltà politica che escluda e prevenga ogni degenerazione dell’economia e del mercato. Però ciò che è teoricamente possibile non significa che venga concretamente realizzato. Erroneamente si crede che tale coesistenza implichi necessariamente l’ecumenismo delle religioni monoteistiche ed il sincretismo di tutte le fedi. La Chiesa può essere ecumenica perché tale è in quanto unita quale corpo di Cristo, ma ciò che non è chiesa non può esser tale se non per la rigenerazione dello Spirito Santo. L’ecumenismo degli uomini invece compromette il carattere confessionale della Chiesa e vorrebbe ridurre l’identità della fede nel calderone del sincretismo oppure nelle maglie del potere religioso maggioritario. Una chiesa rigorosamente laica è un nonsenso che tradisce la tendenza alla pratica del Cristianesimo preferenziale, senza pane e senza fuoco menzionato nel capitolo secondo dell’epistola dell’apostolo Giacomo, dove libertà e gioia nello spirito sono sinonimi dell’opulenza degli abusi di mercato e della svamperia disinvolta ed estranea agli intimi contenuti del Vangelo, della legge e dei profeti. L’aspirazione religiosa può e deve essere teocratica anche se il risultato nel governo civile è laico, perché ciò è reso possibile ed inevitabile non dalla superiorità del laicismo, bensì dalla volontà delle ideologie e delle religioni di dialogare e coesistere, in attesa dello svelamento delle finalità dei fenomeni storici e del destino dell’umana vicenda. Da una prospettiva messianica il laicismo è destinato a cessare perché la verità, una soltanto e nulla di meno, è destinata a sopravvivere tra le tante voci ed ipotesi di realizzazione dell’uomo. L’evangelizzazione non può sradicare l’annuncio del Kerigma dalle implicazioni etico-messianiche del Regno di Dio, costitutive di un’autentica dottrina sociale, ma neppure quest’ultima deve adombrare o mistificare l’annuncio kerigmatico, assumendo a priori che le formulazioni etiche dimostrino necessariamente l’ortodossia teologica. Se gli ambienti più propensi ad affidare la teologia e l’attività pastorale alla riduzione pseudoevangelistica sono i più soggetti alla secolarizzazione ed alla strumentalizzazione da parte di quelle entità economiche e politiche (sempre avide di una legittimazione morale e di uno strumento di disinnesco e neutralizzazione delle formulazioni etico-sociali) incompatibili con il messianismo biblico, è anche vero le entità più pericolose per l’integrità del pensiero teologico, a fondamento di quello etico, sembrano intravedersi proprio laddove le formulazioni etiche sovrabbondano. La tendenziale o storica contrapposizione tra teologismo ed eticismo sociale, rispecchia la secolare tensione a cui si è voluto costringere la fede e le opere, e tradisce non l’eterogeneità della dottrina biblica, bensì lo stato di schizofrenia in cui versa da secoli la cristianità. La consapevolezza dell’interazione tra dottrina sociale e teologia, tra evangelizzazione e formazione teologica, è sempre più attestata, ma il coraggio di far dipendere il potere dalla sintesi della verità in frammenti non è su ogni versante altrettanto evidente, perché gli interesse in gioco sono oltre che spirituali anche temporali e materiali. L’impressione è che la medesima consapevolezza sia anche il frutto di una riflessione storica sulle origini ed i fondamenti della civiltà occidentale, onde evitarne gli errori e le persecuzioni religiose, perciò la speranza di riuscire di riuscire ad individuare nella matrice spirituale del mondo moderno le anomalie e le disfunzioni che ne hanno comportato la schizofrenia, passa attraverso lo stesso percorso, il quale è costellato di riflessioni intorno alle maggiori problematiche antropologiche onde risolvere le questioni più dibattute in teologia e ricostruire una spiritualità più omogenea, equilibrata ed adatta alla realizzazione dei valori etico-sociali. L’impegno primario per l’evangelizzazione è stato centrale nell’intervento di Giovanni Paolo II di Martedì 3 Maggio 1988 ai vescovi riuniti in occasione della ventinovesima assemblea generale, ma parlando della società italiana “caratterizzata da un radicato pluralismo “ha sì richiesto ai credenti una forte capacità di ascolto e di dialogo verso gli altri... nutrita di amore e di rispetto”, ma nello stesso tempo una chiara ed integra testimonianza della “parola che è stata loro affidata” e delle “esigenze etiche che ne derivano”. 123 L’etica alla quale si riferisce Giovanni Paolo II è in stretto rapporto con la dottrina sociale della chiesa cattolica, mentre il rischio consisterebbe nella dipendenza del Vangelo dai dettami della cultura secolare: “... un’illusione... realizzare l’evangelizzazione attenuando i profili della fede, dell’etica cristiana e della dottrina sociale della Chiesa, o mettendo al primo posto, invece che la proposta franca ed organica della verità di Cristo, il confronto culturale ed il tentativo di realizzare intese tra posizioni diverse, in realtà spesso inconciliabili.” 124 La stessa inconciliabiltà non induce però a denunciare in partenza le interferenze dell’eterogeneità ideologica e religiosa nell’applicazione delle formulazioni etico-sociali, le quali anzi vengono presentate come globali, interconfessionali, ecumeniche, pacifistiche ed adatte alla coesistenza, all’uguaglianza, alla dignità ed ai diritti di tutti gli uomini. I modelli etici, essendo subordinati “alla dottrina sociale della Chiesa” sono dunque confessionali e non dissimili, nell’impostazione, dalla tradizionale prudenza protestante fondamentalista riguardo all’indiscriminato abbassamento della guardia nei confronti di forze ostili incompatibili con la realizzazione di una liberazione socio-politica generalizzata e globale che non proceda di pari passo “con la proposta franca ed organica della verità di Cristo”, la quale però è purtroppo ancora soggetta a storiche divergenze, la cui soluzione è il vero contributo perché la cristianità possa nel suo complesso dimostrarsi credibile ed unitaria nel dialogo con le altre fedi per la realizzazione di comuni obiettivi etico-sociali. Al di là delle discussioni dottrinali si deve riconoscere che la dottrina sociale di Giovanni Paolo II risulta compatibile con l’idea di sovranità di Dio sulla realtà economico-politica, e dunque con la dinamica messianica del libro di Daniele nel contesto apocalittico giudeocristiano. Per tutte queste ragioni il ricorso all’accumulo di ricchezza non può essere spregiudicato o giustificato da semplici e presunte leggi di produttività e di progresso di una civiltà rispetto ad un’altra, secondo quanto è stato suggerito in ambienti fondamentalisti, anche se il laicismo, quando è animato da sensibilità teocratiche e motivato eticamente, rappresenta una conquista civile. 125 La natura del modello sociale giudaico, nell’A.T. come anche nella letteratura rabbinica è fortemente comunitaria, in assoluta armonia con l’ideale cristiano nel Nuovo Testamento, ed il ricorso ad atteggiamenti capitalistici nei riguardi dei gentili è considerato uno spiacevole provvedimento, richiesto dalle circostanze e del quale non si deve abusare. Alcune fonti giudaiche, come la Mekhilta di Rabbi Ishmael (commentando i versi paralleli di Esodo 22: 24) prevedono la destinazione degli atti di chesed, quali il prestito senza interesse, anche ai gentili. 126 Se ciò venisse realizzato, compatibilmente con la sicurezza della comunità giudaica, oltre ai benefici per l’immagine d’Israele, e della sua volontà di pace, il mondo economico internazionale verrebbe a polarizzarsi, senza possibilità di ambiguità, a favore o contro i principi teocratici del Regno di Dio, smascherando la propaganda delle ideologie della falsa filantropia e l’opportunismo delle missioni religiose a metà. Si può capire che i giudei non siano frequentemente nelle condizioni di occuparsi dei gentili indigenti, però si deve riflettere (allo stesso modo delle altre fedi o confessioni) sul rischio di scaricare i costi della ricostruzione confessionale di presunte entità laiche su coloro che sono esclusi a priori dai privilegi confessionali. A proposito del prestito ad interesse ai non giudei, Meir Tamari afferma: “It should be fairly obvious that an obligation to practice a oneway-street system of morality, whereby the Jew did not charge interest to non-Jews who themselves lent their money at interest, would be a superhuman demand and one doomed to failure.”; e di seguito riferisce un’ idea suggeritagli da Rabbi Simcha Wasserman: “He argues that lending money at interest is not only not intrinsically bad but is essential to the economy.” 127 Che la fonte ispiratrice di tale idea, per la verità condivisa da molti illuminati cristiani ed illustri cavalieri del progresso, non sia perniciosa per il Giudaismo, non è certo. E’ stato suggerito che la legalità dell’interesse bancario in Israele derivi dall’obiettivo di incoraggiare l’immigrazione giudaica e provvedere alla difesa dello stato, in sintonia con una considerazione halakhica (pikuach nefesh) che sostiene il principio della preservazione della vita dei giudei. 128 Le autorità halakhiche hanno permesso talvolta alle comunità la riscossione di interessi per prestiti concessi a giudei, con lo scopo di salvare dei correligionari rifugiati. Lo Stato di Israele trova in tale nozione il supporto per prestare ad interesse, senza heter iska. 129 Gli interessi ricavati sono considerati come un contributo ed un atto di carità a beneficio della comunità. Riflettendo su alcuni importanti aspetti dell’economia, dal punto di vista giudaico, 130 vorrei evitare che si abbia l’impressione che il benessere individuale, limitatamente differenziato, e la ricchezza, siano in contrasto col Giudaismo. Il principio che si può suggerire nell’uso delle ricchezze è il seguente: il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri e dunque possedere il superfluo è possedere un bene altrui. 131 Molti esempi biblici dimostrano che un’esistenza, dal tenore di vita ordinario, può essere vissuta con generosa nobiltà. La ricchezza che trae ispirazione dal Regno di Dio, può anche all’opportunità essere coinvolta nell’attività bancaria, ma essa si riconosce dalla premura di rifondare il mondo nell’ordine e nella vita, adoperandosi per la salvezza, il benessere ed una reale liberazione dell’uomo. La preghiera del giusto riguardo alle ricchezze sarà: “Due cose ti chiedo, o Dio, non negarmele finché vivo: tieni lontano da me falsità e menzogna, e dammi quel che è necessario per vivere, senza farmi né ricco né povero. Se fossi ricco potrei rinnegarti pensando di non aver bisogno di te; se fossi povero potrei rubare disubbidendo alla tua volontà.” 132 Nel Nuovo Testamento l’idea che il credente sia titolare di una proprietà senza limiti è ben consolidata, 133 benché la sua evidenza si realizzerà quando il “popolo santo del Dio Altissimo riceverà il potere e il dominio su tutti i regni...” 134 e “...governeranno con un bastone di ferro”. 135 Non è necessario esaminare ogni aspetto dell’economia per realizzare che alla base del punto di vista Giudaico su questa questione e sempre presente l’essenza della Legge e dei Profeti: “... Ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il comandamento più grande e più importante. Il secondo è ugualmente importante: Ama il tuo prossimo come te stesso. Tutta la legge di Mosè e tutto l’insegnamento dei profeti dipendono da questi due comandamenti.” 136 Il tentativo di mutare i tempi e la legge è animato da un atteggiamento ideologico avverso all’amore nei confronti di Dio e del prossimo, il quale caratterizza la tradizione e la spiritualità giudeocristiana. Quando, infatti, la religione è disposta a rinunciarvi, la tolleranza e la premiazione sono assicurate.

    D. IL FONDAMENTO DELL’ETICA GIUDEOCRISTIANA
    L’intuizione di Joseph Fletcher 137 consiste nell’individuare proprio nell’amore, il principio dell’etica per eccellenza, in modo da applicarlo alla vita economica e politica (Business Management, tassazione, amministrazione, proprietà), come anche alla sessualità, al controllo delle nascite, all’ Eutanasia. La definizione dell’amore è ardua almeno quanto quella dell’amicizia: “Questi infatti andandosene diranno che noi crediamo di essere amici (anch’io mi pongo tra voi) ma tuttavia non siamo stati capaci di trovare quale sia la definizione di amico.” 138 Aristotele evidenzia l’assiologicità interpersonale della relazione amicale (filia), distinta dall’affettività (filesis), come amore etico, benevolo o disinteressato, 139 ed Aelredo di Rievalaux e San Tommaso rapportano l’amicizia alla carità teologale. 140 L’amicizia e la comunicazione si esprimono idealmente nella comunità di vita e nella convivenza (synyen), dalla necessità di rendersi un gratuito vantaggio all’amico: “Unde manifestum est quod amor habet rationem primi doni, per quod omnia dona gratuita donantur.” 141 L’autentica amicizia riguarda la proprietà, secondo quanto recita il proverbio: “Le cose degli amici sono comuni” 142; ma specialmente l’essenza stessa delle persone, intesa come proprietà per eccellenza, tesi ad unificare le loro personalità, ma secondo una dinamica diversa da quella sessuale, essendo che “...gli amici hanno un’anima sola.” 143 Nel senso della condivisione della proprietà spirituale, ritengo vada intesa l’identificazione dell’anima degli amici, (“... Sentii che l’anima mia e quella del mio amico avevano formato una sola anima in due corpi”)144 aspirando all’unità delle idee, fino a formare “di due anime una sola anima” 145 ed a ritrovare nell’amico un “secondo se stesso” 146. Gli amici come i cittadini, sono autenticamente tali quando sono disposti a sacrificare persino la vita fisica “per gli amici e per la patria” 147: “In quid amicum paro? ut habeam pro quo mori possim” 148. Le fonti bibliche sostengono lo stesso principio di donazione totale, differenziandolo nelle varie manifestazioni dell’amore (amicizia, matrimonio, paternità, comunione spirituale, ecc.) e facendolo risalire alla conoscenza di Dio. 149 L’amore dell’uomo verso Dio corrisponde all’amore per la sua legge 150, ma l’obbedienza non può essere limitata ad una vaga santità individuale, anziché coinvolgere tutte le relazioni della vita morale, civile e giuridica: “...i suoi principi sono riassunti nel Decalogo ed espressi nelle leggi del Pentateuco, nelle istruzioni dei profeti e dei savi; essi si riassumono nel dovere di amare il prossimo come te stesso 151, d’un amore generoso che si estende anche al nemico personale 152 e al forestiero 153”. Quando i traduttori greci dell’A.T. resero il termine ebraico ‘ahabah in greco, scelsero agape, l’amore di Dio che dona se stesso all’uomo e si traduce nella compassione, nella benevolenza, nella donazione dell’uomo stesso a Dio ed al suo simile: “Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figliuolo”. 154 L’amore riassume tutta la legge 155, è il frutto dello Spirito 156 ed il contrassegno di una vita spirituale, 157 l’unico capace, per mezzo della fede, di vincere il “mondo”, per cui alla base dell’etica giudeocristiana v’è un atteggiamento che esprime non la regolamentazione sociale in base al presunto merito o al diritto di proprietà esclusiva ed assoluta, ma, piuttosto, la determinazione a donarsi per adeguarsi all’unica dinamica, la cui origine è divina, capace di conservare e promuovere la vita. 158 Il problema nella sua concretezza economica, non è quello di decidere quanti individui le strutture sociali siano capaci di integrare, senza mettere in discussione i privilegi acquisiti, bensì come far bastare le risorse, se necessario internazionali, per conservare in vita e dignità ogni singola esistenza: “...Quando l’amore era forte, potevamo sistemare il nostro letto sulla lama di una spada; Ora che l’amore si è infiacchito, un letto di 60 cubiti non è sufficientemente grande per noi.” 159 Mentre Maimonide spiega che “amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore” significa “farai delle Sue apprensioni il fine delle tue azioni” 160, non è un caso che Meir Tamari stabilisce, nel titolo della sua opera menzionata, quale fondamento etico, il nesso tra proprietà ed amore per Dio, chiarendo inoltre che “cuore” sottintende (chiamando in causa l’interpretazione di Rashi) l’intera persona e quanto possiede: With all your possessions, Jewish Ethics And Economic Life. 161 Le istanze dell’etica giudeocristiana sono state, almeno in qualche misura, colte da uomini d’affari, di potere e di cultura, se ad un certo punto le Business Schools hanno avvertito la necessità di difendersi dall’accusa di coinvolgimento nell’abbrutimento del mondo economico. 162 Un gruppo di compagnie statunitensi, di ambito protestante, costituisce la Fellowship of Companies for Christ 163, il cui obiettivo è quello di adeguare la gestione, la produzione e la vita aziendale all’etica cristiana. L’accusa “that business schools are responsible for the bad ethics of corporate America” è forte. 164 La migliore soluzione, suggeriscono gli accusatori, “would be to abolish business schools, but if that is impossible the schools should at least take responsibility for the mess they have created and clean it up.”165 Lester C. Thurow ha cercato di dimostrare che l’etica scadente è una tendenza generale della società: “These assertions are unfair. Business students come to us from our society. If they haven’t been taught ethics by their families, their clergymen, their elementary and secondary schools, their liberal arts colleges or engineering schools or the business firms where most of them have already worked prior to getting a business degree, there is very little we can do. Injunctions to be good don’t sway young men and women in their mid-to late 20’s. In the final analysis, what we produce is no worse than what we get.”166 L’idea che chi si occupa d’affari considera spesso l’etica una spiacevole zavorra167 è ulteriormente assecondata da una pesante affermazione di Thurow: “If same group of potential business people were more ethical than others, we would be glad to limit our admissions to the more virtuose, but I know of no such applicant pool.”168 L’opinione di Aristotele è molto severa sull’etica degli uomini d’affari, i quali si doveva tenere lontani dal potere politico. Il fenomeno che maggiormente caratterizza gli ultimi decenni del XX secolo, sembra sia la corsa alla conquista del potere politico, culturale e religioso da parte della categoria imprenditoriale e delle grandi società multinazionali, talché ci si occupi contemporaneamente d’informatica, di maccheroni, di carta stampata, nonché della promozione e della caratterizzazione ideologica di più o meno noti gruppi politici ed associazioni religiose. Il tentativo di riformare l’etica giudeocristiana, contemporaneamente a quella islamica, è già in atto, col risultato dello snaturamento di molte confessioni religiose. Tale riforma viene introdotta dal controllo economico e culturale delle istituzioni civili e religiose. Il risultato è una religiosità secolarizzata che ha sacrificato l’essenza etica del monoteismo per adeguarsi ai principi di una ideologia estranea alle finalità della spiritualità messianica: “Choosing to sacrifice one’s appetites and self-interest is at the heart of ethical action... In our secolar religion, the importance of the individual greatly overshadows the importance of the community. The bumber sticker, the man who dies With the Most Toys Wins, depicts the current state of american ethics.”169 Le Business Schools sono responsabili dell’insegnamento dell’etica ai futuri manager: “... to do this, business schools cannot simply add courses in ethics to the curriculum. We have to change what is thaught in business classes. Today’s finance classes teach that the sole goal of business managers should be to maximize the net worth of shareholders.170 L’etica non corrisponde sempre alla legalità corrente: “ethics does not consist of asking one’s lawyer: Is it legal? The question, is it right? is not the same as is it legal? In the end, business ethics is merely a reflection of american ethics.”171 In una intervista di Giuliana Calandra172, Carlo De Benedetti dichiarò di riferirsi all’etica calvinista piuttosto che a quella cattolica. Ciò facendo, ha inteso Egli aderire all’etica sedicente calvinista la quale “... modellò lo spirito della nascente borghesia capitalistica: lo spirito attivo, aggressivo, sprezzante di ogni sentimento, continuamente teso alla buona riuscita”173, oppure alla regola di Giovanni Calvino per l’uso dei beni secondo carità “a cui abbiamo brevemente accennato trattando dei precetti della carità...”, la quale “indica che tutte le cose ci sono date dalla benignità di Dio, e sono destinate alla nostra utilità, simili ad un deposito di cui un giorno dovremo rendere conto”? Calvino ci esorta a condurci come sobri amministratori di beni che appartengono a Dio: “Parimenti, dobbiamo tener presente chi è colui che ci chiama a render conto, Dio, il quale avendoci tanto raccomandato l’astinenza, la sobrietà, la temperanza, la modestia, ha in orrore ogni intemperanza, orgoglio, ostentazione e vanità; Egli non approva nessuna gestione dei beni che non sia volta a carità; Egli ha già condannato con la sua bocca tutti i piaceri che distraggono il cuor dell’uomo da castità e purezza, o che istupidiscono il suo intelletto.”174 Se è questa l’etica calvinista a cui si riferisce Carlo De Benedetti, ci troviamo dinanzi ad una misteriosa gestione del potere economico, perché i valori del Calvinismo non sono molto evidenti nella strategia e nelle affermazioni del campione della finanza europea. Il “concetto professionale e morale del merito” che l’Ingegnere “adora” è troppo poco calvinista175 e solo nel senso che i paesi capitalistici occidentali, genericamente ed impropriamente, sono in una certa misura conseguenza di una cultura economica e politica che si è sviluppata a partire dalla Riforma. Tale ideologia pur usufruendo di una verniciatura riformata è di origine pagana, la cui abilità consiste nell’uso strumentale delle risorse civiche della religione, delle esperienze di persecuzione a causa del pensiero e della fede, sapientemente tradotte in alibi da chi non esprime un vero legame con quello stesso pensiero e quella stessa fede, per ricondurre il tutto al profitto individuale, inteso e propagandato come l’unico vero stimolo alla produttività ed alla professionalità: il materialismo edonistico, libertino, laico ed irresistibile. Secondo Pier Luigi Zampetti176 l’ideologia occidentale è il materialismo edonistico. In questa formula si addenserebbero tutti i fenomeni economici, politici, etici e sociali. La sua origine è stata indicata nel “sistema economico keynesiano, alla base di tutta la politica seguita dai governi che si sono succeduti in Occidente dalla fine della seconda guerra mondiale.177 Per quel che riguarda la religione, il materialismo edonistico si propone il disinnesco di una matura coscienza etica dalla società civile, ancora attestato e problematico per il definitivo consolidamento del sistema economico che gli è più congeniale. Le forme che la religione tende ad assumere in seguito alle complesse e multiformi influenze del materialismo edonistico, collegato ed evolutosi ad opera di sistemi filosofici quali il naturalismo ed il pragmatismo, corrispondono alle forme di corruzione dell’etica e della cultura, secondo l’antica massima: corruptio optimi pessima.



    DISCUSSIONE






    F. SOMMARIO

    Le indicazioni del libro di Daniele riguardo al tentativo del Piccolo Corno di modificare i tempi e la legge, sono utili ad individuare con maggiore facilità e convinzione i motivi della contesa tra il Regno di Dio e le quattro bestie del capitolo settimo di Daniele, fino a raggiungere quel che potremmo definire il cuore dell’intera questione: non è tanto l’eliminazione o la conservazione di un precetto o di una legge che preme nello stesso tempo alle due entità rivali menzionate, quanto piuttosto il superamento o la conservazione della dinamica della legge mosaica, intorno alla quale ruota l’intero complesso della spiritualità giudeocristiana, e corrisponde al fondamento dell’etica descritto al §. 4. Qualunque atteggiamento individuale o collettivo contrario a tale dinamica conduce al potere del Piccolo Corno, del quale è criterio di previsione ed individuazione. Le forme di corruzioni dell’etica, quando sono ancora in corso, traviano la religione e, privandola dell’essenza del culto, ne fanno uno strumento di legittimazione dei poteri economici, politici e militari, opposti all’avvento dell’era messianica. Il presente capitolo non si pone il problema della legittimità scientifica della tesi escatologica del libro di Daniele, essendo implicitamente discusso nella sezione introduttiva destinata all’enunciazione filosofica del metodo metafisico in uso per la realizzazione del presente lavoro. E’ motivo di perplessità che la ricerca sui tempi e la legge sia lacunosa e che la generalità degli studiosi non dedichi neppure una parola a questo proposito, tanto da chiedersi se ciò non sia dovuto ad una difficoltà di percezione culturale di ordine strutturale. In tal caso il rischio consisterebbe nella probabilità della perdita della visione etico-messianica, senza la quale il libro di Daniele e la letteratura apocalittica nel suo insieme si ridurrebbero a disorganico e rottambolesco riferimento escatologico. Lo stesso elaborato ed erudito lavoro critico di J. A. Montgomery311 dedica una lunga riflessione alla parte finale del verso 25 del VII capitolo di Daniele,312 ma neppure un cenno al nostro problema. Altrettanto dicasi per H. A. Ironside,313 Gordon Lindsay,314 J. G. Baldwin.315 G. Bernini,316 fa menzione dei tempi e la legge, ma attribuisce il tentativo del loro superamento ad Antioco IV, dimostrando con ciò una precomprensione del testo che va in direzione della scuola naturalistica. Giovanni Calvino, intravedendo nel medesimo tentativo del Piccolo Corno l’intenzione di opporsi all’insieme dei riti, dei costumi e delle istituzioni della legge, suggerisce l’importanza della relazione del libro di Daniele col complesso etico-messianico, per la comprensione della letteratura apocalittica.317






    DISCUSSIONE



    ESTRATTI DAL V CAPITOLO

    D. L’ANTROPOLOGIA DEL NATURALISMO
    La tesi secondo la quale l’antropologia debba necessariamente riferirsi allo studio dell’uomo in termini naturalistici, caratterizza la corrente maggioritaria, ma non è rappresentativa della scienza nel suo insieme: “Più usato, presentemente, è il termine naturalistico, ma non ha ancora un significato uniformemente accettato da tutti gli antropologi. La corrente più larga è quella che dà all’antropologia il significato di studio di tutto l’uomo, ma come potrebbe farlo un naturalista.” 81 Il De Quadrefages (1869) definisce l’antropologia quale “storia dell’uomo fatta come l’intenderebbe un naturalista che studia un animale”. 82 Il Martin (1914), nella sostanza, dà una definizione similare: “L’antropologia è la storia naturale degli ominidi nella loro espansione nel tempo e nello spazio”. 83 L’antropologia del naturalismo comprende, dal suo punto di vista, tutte le manifestazioni umane, fisiche o culturali. L’antropologia può essere fisica (la paleoantropologia: fisiomorfologia dell’uomo nelle variazioni individuali, razziali e sessuali), etnologica (la paleoetnologia: cultura, società e religione dei gruppi umani). Lo studio dell’uomo che pretendesse, partendo da premesse naturalistiche, di risolvere i maggiori problemi dell’origine della specie umana, verrebbe tacciato da alcune componenti della cultura (probabilmente alternative o non del tutto coincidenti con i criteri della ricerca scientifica del naturalismo) di presunzione o di temerarietà. 84 La comparsa dell’uomo sulla terra potrebbe essere spiegata solo risolvendo altre questioni relative alla natura dell’uomo ed al ruolo che a questi spetta in essa, il che è la medesima faccenda 85: “Questioni queste che la sola antropologia fisica non può risolvere senza il ricorso e l’aiuto delle altre discipline antropologiche, nonché della psicologia e della filosofia, insomma di tutte quelle scienze che hanno per oggetto l’uomo, visto da ogni suo lato, non solo naturalistico, ma filosofico e metafisico.” 86 L’antropologia e dunque il maggiore incrocio tra scienze sperimentali e discipline umanistiche (teologia, metafisica e filosofia in prima linea), perciò non ci si deve sorprendere se i contributi del naturalismo vengano proiettati in un contesto metafisico, specialmente per quanto riguarda gli studi cefalico-craniologici. La spiegazione antropologica che il naturalismo predilige coincide ordinariamente con le tesi evoluzionistiche, benché quest’ultime non escludano necessariamente le tesi della metafisica e dunque della tradizione biblica. Tornato in Inghilterra dal suo viaggio nelle Galàpagos, Darwin iniziò nel 1837 a stendere degli appunti sulla trasmutazione delle specie, e dopo aver letto l’opera di Thomas Malthus sulla popolazione umana, ebbe l’idea di una selezione naturale nella lotta o specializzazione per la sopravvivenza. 87 A. R. Wallace, anch’egli influenzato dall’opera di Malthus, ritenne che ogni specie viene ad esistere in coincidenza di tempo e di spazio con una specie preesistente cui è legata da una stretta affinità, nel senso che una specie deriva da un’altra per discendenza. Nel Luglio del 1858 Darwin e Wallace comunicarono le loro idee ad una riunione della Società Linneana. L’anno successivo, il 24 Novembre, fu pubblicata l’opera di Darwin: L’origine delle specie. Il principio della selezione naturale è all’origine di un modello culturale che opera da supporto ideologico delle società competitive, presso le quali il principio dell’individualismo rappresenta la dinamica del progresso, le cui vittime sono l’equivalente dei decessi o delle estinzioni di specie o di esemplari che il sistema biologico deve subire per garantire la sopravvivenza alle specie ed agli esemplari più forti o capaci di adattamento. E’ questa la relazione concettuale che rende l’idea della selezione naturale, quale capolavoro del naturalismo, perniciosa per la medesima sopravvivenza dell’etica giudeocristiana, che non sia una convenzione di regole sociali e deontologiche ad uso e consumo della selezione/competizione secondo però civiltà e buon gusto. L’antropologia criminale riguarderebbe in sostanza coloro che non attuano il modello della competizione e della selezione naturale secondo i termini delle convenzioni sociali maggioritarie, costitutive degli schemi etici correnti, per cui può risultare legittimo l’arricchimento a partire da iniquità e manovre politiche, amministrative o imprenditoriali, ma riprovevole la lotta tra cosche mafiose per il controllo di attività illecite, talvolta vitali per accedere a quelle lecite, e dunque convenzionali, pur essendo spesso la matrice ideologica fondamentalmente la medesima: la lotta per la sopravvivenza, ossia l’etica della non etica, ovvero della misura di un’etica inevitabile a motivo della presenza di specie geneticamente blasonate e specializzate nelle strategie di sopravvivenza, costrette a confrontarsi ed a coesistere il più cordialmente possibile. I metodi naturalistici dell’antropologia hanno dedicato molte ricerche alla scoperta delle caratteristiche somatiche e psichiche dell’uomo delinquente, talvolta ignorando che la demarcazione tra civiltà corrente e criminalità è così spesso estremamente labile, e riguarda tutte le razze, tutte le tipologie somatiche, così come tutte le morfologie e le capacità craniche. Il Cattolicesimo si è opposto, in particolare, all’antropologia criminale di marca lombrosiana estremista, la quale è stata ritenuta vincolata al pretto materialismo (determinismo biologico) ed in quanto tale rigettata. 88 L’antropologia criminale dovrebbe fondere l’insieme delle discipline a cui fa generalmente ricorso (biologia, psicologia, etnologia, demografia, sociologia, statistica, mesologia, razziologia) nell’orbita del diritto penale, consapevoli delle interferenze metafisiche e religiose, i cui apparati etici ed antropologici non tollerano l’affermazione pretestuosa di criteri alla base di una criminalizzazione delle tipologie umane, nella misura in cui queste sono distanti dalle caratteristiche ideali del tipo europeo o leucodermico, benché persino in seno a quest’ultimo vi siano ulteriori distinzioni, perennemente in bilico tra scienza e pregiudizio. L’insano presupposto che conduce al pregiudizio razziale ritengo sia l’idea, talvolta inconscia, di una superiorità genetica necessariamente in relazione alla costruzione socio-economica alla base del tecnologismo (talché un popolo che non produce computers, satelliti ed automobili si pretende che sia poco civile ed evoluto), ed alla morfologia anatomica e cranica, in particolare, secondo i criteri evoluzionistici della selezione naturale. A partire dai presupposti etico-biblici invece, un popolo può vantare la migliore produzione industriale ed essere nondimeno primitivo ed incivile. Altrettanto si può dire della conoscenza scientifica, sperimentale ed umanistica: se non determina rinnovamenti spirituali e non si costituisce entro categorie etico-sociali non giova a nulla ed è pura esercitazione od ostentazione della personalità naturale dell’uomo. Se la specie umana all’origine delle moderne società tecnologiche e capitalistiche fosse geneticamente superiore, più evoluta o più civile, non si spiegherebbe il fatto che la capacità cranica dei suoi esemplari non è mediamente la più elevata, se si prescinde dalla discussione relativa al cablaggio dell’encefalo, e dunque della sua qualità oltre che della quantità, la cui variabile riguarda però tutte le tipologie umane. 89 Probabilmente si vuole suggerire, riconoscendo più importanza agli indici del Retzius, che il dato decisivo in tal senso non è tanto la capacità cranica assoluta, quanto piuttosto la morfologia e le proporzioni della stessa, la cui idealità è però facilmente soggetta alle manipolazioni etno-culturali delle tipologie egemoniche. Ciò spiegherebbe i fenomeni d’imitazione europea anziché di quella eschimese, la quale potrebbe meglio rappresentare un modello craniologico di riferimento, almeno a seguito delle implicazioni socio-psicologiche determinate dal complesso dei significati intrinseci alla rilevanza che rappresenta nelle scienze evoluzionistiche il volume del cervello umano. E’ probabile che gli aspetti socio-economici delle società occidentali, all’origine della rivoluzione tecnologica, abbiano influito sui fenomeni d’imitazione del tipo più leucodermico della tipologia europea ed abbiano determinato il consolidamento di un pregiudizio razziale isterico di massa, tale da attribuire (anche inconsciamente nelle immediate relazioni interpersonali tra gli stessi europei) un’estrema importanza alle proporzioni craniche, al colorito dell’epidermide ai tratti somatici, unitamente a quel complesso di dettagli estetici che caratterizzano la vanità della civiltà dell’apparire. Se si è voluto distinguere una tipologia di classe A in seno alla razza europea, i fenomeni d’integrazione genetica di altre razze venute a contatto con gli occidentali, contribuiscono a sfumare ancor più la classificazione genetica dell’uomo bianco. La discriminazione, negli Stati Uniti tra neri di pelle scura e neri di pelle più chiara, evocata in film di Spike Lee 90 è un po’ l’equivalente delle contorte e mal celate discriminazioni esistenti tra gli stessi europei, che si accompagna storicamente ad un diverso livello d’integrazione nel sistema e nel processo di crescita economica, tant’è che si pone un’equivalenza tra dominio internazionale dei mercati ed egemonia sui modelli genetici di riferimento, al punto che la tipologia razziale è ordinariamente molto più determinante dei contenuti oggettivi dell’individuo, segnandone il destino, benché un esemplare egemonico ma riottoso possa essere meno fortunato di un esemplare di modesto lignàggio ma abile ed arruolato. Le implicazioni economiche del prestigio razziale sono verificabili: “I conflitti che nel film di Lee riguardano soprattutto differenze di sfumature di pelle sono stati ispirati da una più vasta realtà sociale. Il razzismo di ieri ha generato, oggi, anche una spiacevole gerarchia di valori tra i neri, spesso a dispetto delle loro intenzioni. Ma è stato inevitabile. La preferenza accordata nei posti di lavoro ai neri più simili ai bianchi nella pelle e negli atteggiamenti ha finito col creare strane divisioni.” 91 Una ricerca realizzata per conto dell’Istituto di Ricerche Sociali dell’Università del Michigan, ed altri più recenti dati statistici, hanno dimostrato “che il persistere di una discriminazione sociale tra bianchi e neri produce a sua volta una più insinuante discriminazione all’interno della stessa razza discriminata.” 92 La ricerca citata ha preso in esame oltre 2000 neri di pari istruzione scolastica, evidenziando una minore remunerazione del lavoro dei neri di pelle più scura, i quali guadagnano il 30% in meno dei neri dalla pelle più chiara. 93 Il prof. Michael Hughes ed il prof. Bradley Hertel hanno elaborato una ricerca, il cui titolo è loquacemente descrittivo della situazione dei neri negli Stati Uniti: “Il significato del colore rimane: uno studio dei cambiamenti verificatisi nella vita, nelle scelte matrimoniali e nella consapevolezza etnica dei neri americani.” Hughes ed Hertel sostengono che non ci sia alcuna prova che il colore della pelle abbia qualche rapporto con le doti intellettuali. L’affermazione, tradotta nei termini craniometrici dell’antropologia naturale relativizza la convinzione secondo cui il tipo europeo rappresenti il prodotto genetico più evoluto della presunta selezione naturale. Oprah Winfrey, approdata al successo televisivo ed alla ricchezza, ha riconosciuto di aver desiderato la pelle bianca, perché “socialmente trattata meglio”. 94 Le conclusioni a cui giunge il dott. Carol Cline sono valide sia per i bianchi d’oltreoceano che d’Europa: “Tutti sanno che i pregiudizi sono stupidi, ma la stupidità continua a imporre regole preferenziali.” (95a) L’antropologia del naturalismo procura, direttamente o meno, un diffuso pregiudizio verso le razze insufficientemente protagoniste dei destini dell’Occidente, il quale a sua volta produce criteri preferenziali incompatibili con l’etica biblica, anche se anche a prescindere dal pregiudizio e dalle preferenze, la nozione della selettività evolutiva si dimostra sufficiente a legittimare le competizioni, gli individualismi, i materialismi, maggiormente diffusi e strutturali nei paesi di tipo occidentale.


    DISCUSSIONE



    2. Implicazioni socio-economiche
    I professori, Alessandro Cavalli 96 ed Antonio De Lillo 97, hanno concluso il rapporto intitolato “Giovani Anni ‘80”, realizzata per l’associazione IARD, l’istituto per la ricerca sperimentale sui problemi dei giovani che ha sede a Milano, come segue: “ La buona società è quella che consente ai suoi giovani di guardare al futuro con fiducia e speranza”. 98 I dati che emergono dal rapporto sembrano condurre ad un’oscuro interrogativo: quale società e quali giovani? Il complesso dei valori culturali socio-economici ed i condizionamenti psicologici derivati dal principio evoluzionistico della selezione naturale, condizionano sottilmente il mercato del lavoro? I dati dell’associazione IARD dimostrano che “l’esperienza della disoccupazione è presente a tutti i livelli, ma è particolarmente grave per i giovani di bassa scolarità, per le giovani donne e per i giovani che vivono nelle regioni meridionali”. 99 La legge 44 del 28 febbraio del 1986 è stata varata per favorire lo sviluppo della imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno. Alla fine di Maggio erano già pervenuti al Comitato per lo sviluppo di nuova imprenditorialità giovanile, tramite le Camere di Commercio territoriali, 1921 progetti. Dei 1065 progetti esaminati ne sono stati approvati 166. La regione più attiva in questo senso si è dimostrata la Campania, seguita dall’Abruzzo, dalla Sicilia e dalla Puglia. Il Comitato ha riscontrato “più vivacità nelle regioni in cui è radicata già da tempo una cultura d’impresa, altre, come la Basilicata, stanno un po’ più indietro”. 100 Dunque la Basilicata, dal punto di vista della cultura d’impresa, risulta essere il Mezzogiorno del meridione d’Italia, confine tra Oriente ed Occidente, avamposto del disagio dei paesi perennemente ai margini dello sviluppo economico. Il modello di civiltà che l’antropologia del naturalismo sembra offrire in Occidente è di carattere tecnocratico e liberistico in economia. La nozione di civiltà secondo l’etica biblica risulta essere caratterizzata dall’idea di promozione e di donazione per la vita e non dal principio di competizione che indubbiamente concerne le specie inferiori e dunque le bestie. 101 La nozione di civiltà etico-messianica prevede l’esplicazione dei ruoli sociali e professionali secondo sobrietà, efficienza e solidarietà sociale. La Basilicata, ai margini della cultura imprenditoriale, oltre 40 anni fa, esprimeva i contenuti delle recenti encicliche sociali di Giovanni Paolo II, nella semplicità catechistica di un sofferente parroco della provincia lucana, (Rocco Mirauda) indubbiamente animato da una nozione della civiltà alternativa a quella dominante ai nostri giorni: “Tutti i padroni, gli operai ed i bottegai iscritti al Catecumenato, faranno delle riunioni speciali in Chiesa per accordarsi, pacificamente e come buoni fratelli, su tutte le questioni di lavoro e di paga, e sui prezzi giusti dei diversi generi di merci. Con queste riunioni dovremo ottenere che ai padroni non manchi mai la mano d’opera fedele e il giusto guadagno, e inoltre dobbiamo ottenere che agli operai non manchi mai il lavoro, la paga soddisfacente e il pane sufficiente in tutti i mesi dell’anno, anche se la loro famiglia è numerosa (Questi accordi avranno lo stesso valore che hanno i Comandamenti di Dio, ma obbligheranno solo gl’iscritti al Catecumenato, non potendo la Chiesa comandare a quelli che non credono. Poiché, con questi accordi, il pane non mancherà nemmeno alle famiglie numerose, nessuno deve fare ancora il gravissimo peccato di mettere impedimento a Dio, quando Egli vuol mandare altri bambini in casa...)”. 102 Don Rocco identifica la solidarietà, la fedeltà ed il dialogo per la ricerca della sopravvivenza comune e dignitosa, con gli stessi comandamenti di Dio, suggerendo in tal modo i termini etici che dovrebbero caratterizzare l’autentica civiltà umana, purché ciò non incoraggi il ricorso immotivato alla previdenza ed all’assistenza sociale: “... nessuno si deve vergognare di lavorare, perché Gesù Cristo, che è Dio, non si vergognò di fare il falegname. Si deve domandare l’elemosina solo quando è realmente impossibile vivere col proprio lavoro”. 103 Viene anche implicitamente indicato il metodo cristiano di caratterizzazione della collettività sociale e delle istituzioni laiche, secondo i principi di libertà democratica, senza però rinunciare alla prerogativa ecclesiale per una sua regolamentazione interna secondo criteri di autonomia teocratica (“... i Comandamenti di Dio... obbligheranno soli al Catecumenato, non potendo la Chiesa comandare a quelli che non credono.”). La visione di Don Rocco consisteva essenzialmente nel tentativo di adeguare la religione cristiana all’etica biblica e di ricondurre la vita ecclesiale e sacerdotale al suo originario atteggiamento di fede e carità, nonostante le resistenze che la struttura ecclesiale può opporre: “I Palazzesi e Monsignore Arcivescovo si devono persuadere che in Italia c’è la libertà di Religione e che perciò è una ingiustizia obbligare Don Rocco a fare per forza l’arciprete di un popolo che non crede che la Religione è un rigoroso Regolamento stabilito da Dio per farci viaggiare bene verso il Paradiso. Il popolo di Palazzo pretende che la Religione sia un violino suonato dal Sacerdote per divertire il pubblico. Chi si ostina a seguire questa Religione di violino, deve andare all’Inferno. Però per dimostrare ai Palazzesi che egli non ha nessun rancore per i continui disturbi o gli ingiusti insulti ricevuti, Don Rocco continuerà a fare per tutti gratuitamente ‘funerali, carte di matrimonio, battesimi’ e nient’altro, finché arriverà il nuovo arciprete.” 104 Nonostante alcune discutibili rigidità di una precorritrice visione etico-sociale cattolica, il contributo di Don Rocco è ancora valido per la Basilicata contemporanea, nel senso che, se i lucani hanno finalmente maturato la determinazione e la consapevolezza dell’importanza di un pieno inserimento nei processi di sviluppo culturale ed economico occidentale, è auspicabile che tale sviluppo venga realizzato contemporaneamente ai valori etico-messianici, giacché l’adesione indiscriminata alle regole del liberismo economico, nel passaggio da un radicale clientelismo politico, alimentato dallo statalismo esasperato, all’individualismo sfrenato e finalizzato all’arricchimento unilaterale, nonché il diffondersi dell’antropologia del naturalismo, procurerebbero, oltre quelli indirettamente subiti dal sistema di potere istituzionale ed economico continentale, gravi danni sociali, spirituali ed ambientali. Se la Lucania non saprà intravedere un giusto equilibrio tra stato sociale e liberismo economico sulla base di un’adeguata riflessione antropologica, essa potrebbe risultare, stando alle profezie del libro di Daniele ed alle indicazioni apocalittiche relative al futuro del pianeta, l’ultima arrivata al discutibile modello di civiltà occidentale e la prima a pagare per i danni arrecati all’uomo ed all’ambiente, alle soglie dell’avvento dell’era messianica. Se questo è quel che accadrebbe è preferibile che la Basilicata si conservi tale quale sostanzialmente è sempre stata, (nonostante i ricambi d’ordine e di padroni) purché venga maggiormente interessata dai valori della civiltà spirituale, rifiutando i secolari mali del provincialismo feudale e clientelare. L’industrializzazione non è una scelta inevitabile per la Basilicata, purché il turismo e l’agricoltura vengano meglio organizzati. Le strutture economiche e finanziarie non potranno evitare la competitività necessaria per adeguarsi alle esigenze del mercato, incoraggiare gli investimenti e rispondere alle esigenze occupazionali, ma ciò non dovrà significare l’estinzione della solidarietà istituzionale e privata nei confronti di molti concittadini e dei paesi del terzo mondo, sui quali ricadono le contraddizioni e le conseguenze dello sviluppo economico delle nazioni più avanzate. Le regole del mercato e della competitività potranno essere usate dunque, non fine a se stesse, bensì strategicamente per adeguarle nel privato e nella vita civile alle esigenze dell’etica. In sostanza il messaggio etico-messianico del libro di Daniele implica che il mezzogiorno d’Italia, a cominciare dalla malinconica Lucania di Carlo Levi, raccolta nel suo archetipo di mondo perduto nel tempo e nello spazio, (benché non così distante e fuori della portata del Regno di Dio) promuova il proprio sviluppo riformando innanzitutto l’individuo, all’origine degli abusi di potere, della deformazione della finalità delle leggi e degli investimenti statali a favore del sud, del clientelismo, della violenza e di uno strapotere feudale e criminale (il quale s’impone in molti casi quale unica alternativa); in secondo luogo, ospitando le strutture economiche ed industriali, adeguandosi alle regole del mercato, ma caratterizzandole indirettamente nelle forme di solidarietà, sia nei rapporti individuali, sia in seno alle istituzioni confessionali, ed interconfessionali, nella misura in cui la coesistenza sarà resa possibile ed affidabile. Nel coinvolgimento dell’industria e della finanza si dovrebbe sfuggire alla polarizzazione dei comportamenti tra capitalismo radicale e comunismo rivoluzionario superproletario, apprezzando le diversità, sia umane che culturali, tra spregiudicati e sprezzanti scalatori del mercato ed aristocratici uomini del progresso. a cui non mancano, quando è di vitale importanza, sentimenti e decisioni autenticamente filantropici. Se i lucani non sapranno dimostrare spirito di collaborazione e laboriosità nei confronti di quelle aziende impegnate nello sviluppo del Mezzogiorno, la responsabilità del sottosviluppo non potrà essere attribuita né allo Stato né tanto meno alle multinazionali. Il ricorso alle discipline etico-sociali non può trascurare o sottovalutare il diritto e l’impegno del mondo industriale e finanziario, schierandosi a priori ed indiscriminatamente dalla parte di coloro che non esprimono civili e costruttive attitudini. La violenza ed il clientelismo non incoraggiano l’impegno e gli investimenti nel Mezzogiorno, e dunque a maggior ragione la Basilicata dovrebbe attentamente resistere al clima di sfascio che la circonda, contribuendo alla conservazione di attitudini umane che stanno scomparendo persino laddove l’ospitalità e la bontà d’animo è tradizione radicata dal tempo della Magna Grecia. La virtù trasforma la povertà in ricchezza, ma la cattiveria la rende una tragedia. Qualora le comunità religiose ed i gruppi politici si dimostrassero sostanzialmente contraddittori ed inaffidabili sul piano dell’etica sociale, ritengo sia legittimo, quando e nella misura in cui ciò è possibile, rivolgersi ad altre istituzioni, ovvero acuire il proprio individualismo per dedicarsi privatamente all’azione sociale, distinguendo opportunamente tra gli stessi correligionari (la corruzione dell’etica e l’ideologia del Piccolo Corno saranno in tal caso prossime anche per i lucani, ed il ricorso all’individualismo sarà indizio di frattura con la retorica delle istituzioni politiche e religiose.105 Non si promuove un’economia efficiente ed equilibrata senza riforme spirituali e culturali, e la Basilicata, così come il Mezzogiorno nel suo insieme, non sfugge a tale regola.




    3. L'Evoluzionismo: considerazioni critiche

    Un esasperato individualismo può non essere, dunque, unicamente il prodotto di una visione naturalistica ed evoluzionistica dell'uomo, bensì anche una risposta strategica di chi propugna interessi di ben altra natura. 106 L'evoluzionismo viene dato come un fatto e la stessa ricerca scientifica subisce pesantemente la sua incidenza: "La teoria darwiniana è ora confortata da tutte le rilevanti testimonianze disponibili, e la sua veridicità non è messa in dubbio da nessun serio biologo moderno". 107 La tradizione del dubbio sull'evoluzionismo è invece da lungo tempo consolidata, in particolare da quando W. R. Thompson, ad un secolo dalla prima edizione dell'Origine delle Specie di Darwin, nell'introduzione all'edizione commemorativa della medesima opera ebbe a scrivere: "Come si sa, fra i biologi c'è una notevole divergenza di opinioni non soltanto sulle cause dell'evoluzione, ma anche sul suo effettivo meccanismo. Questa divergenza è dovuta al fatto che l'evidenza è insoddisfacente e non permette di giungere a una conclusione certa. E' pertanto giusto e opportuno richiamare l'attenzione dei non specialisti sui contrasti esistenti nel campo dell'evoluzione". 108 Le opposizioni nei riguardi dell'evoluzionismo non provengono soltanto dal conservatorismo religioso: "L'evoluzione non è presa di mira solo dai cristiani fondamentalisti, ma viene messa in dubbio anche da stimati scienziati. Un crescente dissenso si riscontra fra i paleontologi, gli scienziati che studiano la documentazione fossile". 109 Un evoluzionista ha ammesso l'eccesso del consenso della comunità scientifica nei confronti del darwinismo e le grandi difficoltà della teoria evoluzionistica. 110 Christopher Booker, articolista del londinese Times, pur essendo egli stesso favorevole alla teoria di Darwin, ne parla al passato: "... Era una teoria attraente e meravigliosamente semplice. L'unico guaio, come almeno in parte si rendeva conto lo stesso Darwin, erano le sue numerosissime e colossali lacune... A un secolo dalla morte di Darwin, non abbiamo ancora la minima idea dimostrabile, o anche solo plausibile, di come sia avvenuta in effetti l'evoluzione... fra gli evoluzionisti stessi c'è quasi guerra aperta, e ogni gruppo... reclama qualche nuova modifica". 111 Il New Scientist osserva che "un crescente numero di scienziati, in particolare un crescente numero di evoluzionisti, sostiene... che la teoria darwiniana... non è una teoria scientifica vera e propria... molti dei critici hanno le più alte credenziali intellettuali". 112 Il carattere non sperimentale piuttosto che congetturale dell'evoluzionismo è lampante nella risposta dell'astronomo Robert Jastrow alla domanda su come ebbe origine la vita: "... queste domande non hanno risposte precise, dal momento che i chimici non sono mai riusciti a riprodurre gli esperimenti della natura sulla creazione della vita a partire dalla materia non vivente. Gli scienziati non sanno come ciò sia avvenuto...". 113 La teoria creazionista è scientifica, perciò, almeno quanto l'evoluzionismo, nel senso che né l'una né l'altra sono sperimentali, essendo ambedue ordinariamente espressioni ipotetiche di natura filosofica o religiosa: "Gli scienziati non hanno prove che la vita non sia stata il risultato di un atto di creazione". 114 Spesso si accusano i creazionisti, i fondamentalisti ed i metafisici in genere, di inadeguatezza ed incapacità strutturale ai fini della ricerca scientifica, a motivo di quelle che vengono definite come "superstizioni della religione", alla cui credenza si attribuisce uno stadio antropologico a dir poco medievale, mentre è lo stesso evoluzionismo a dimostrare i segni del preconcetto dogmatico nella ricerca stessa: "... molti scienziati cedono alla tentazione di essere dogmatici... il problema dell'origine delle specie è stato presentato come se fosse stato definitivamente risolto. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità... Ma la tendenza a essere dogmatici persiste, e non rende un servizio utile alla causa della scienza". 115 Nella ricerca scientifica le spiegazioni che si spingono fino all'antropologia, inevitabilmente si traducono in atteggiamenti affini al fideismo, tanto che si auspica la prudenza di evitare affermazioni del tipo: "la fede è contraria alla scienza". Francis Hitching considera infatti la teoria dell'evoluzione "così inadeguata da meritare di essere considerata argomento di fede". 116 A proposito dell'idea che vuole l'uomo derivato da una scimmia è stato notato che "... non ci sono tracce di cambiamenti biologici nelle dimensioni o nella struttura del cervello da quando l'Homo sapiens comparve nella documentazione fossile circa 50.000 anni or sono, 117 fatto che rende legittimo il seguente interrogativo: Cosa spinse l'evoluzione... a produrre, dall'oggi al domani, l'uomo moderno col suo cervello altamente specializzato?" 118 La consistenza effettiva dell'evidenza fossile relativa alla presunta origine scimmiesca dell'uomo emerge dalle seguenti semplici affermazioni: "I fossili starebbero tutti su un'unica scrivania" 119; "I resti fossili conosciuti degli antenati dell'uomo riempirebbero un tavolo da biliardo: una piattaforma piuttosto misera da cui scrutare gli ultimi milioni di anni" 120; "Fatto degno di nota, tutta l'evidenza materiale a sostegno dell'evoluzione umana non riempie ancora una singola bara..." 121 L'anello mancante che spieghi la comparsa dell'uomo non esiste 122 e si tratterebbe della "più affascinante di un'intera gerarchia di creature fantasma", dal momento che "gli anelli mancanti sono la norma" nella documentazione fossile. 123 Nel Journal of the Royal College of Surgeons of Edinburgh l'anatomista Solly Zuckerman fece osservare che le opinioni in voga godono troppo spesso di eccessiva considerazione: "La ricerca del proverbiale anello mancante nell'evoluzione dell'uomo, il sacro graal di un'irriducibile setta di anatomisti e biologi, fa sì che la speculazione e il mito fioriscano altrettanto rigogliosi oggi come cinquanta a più anni fa". 124 Alcuni antropologi sostengono che gli uomini si sono evoluti gradualmente da antenati scimmieschi e non, per salti improvvisi da una forma all'altra, ma altri, lavorando essenzialmente sui medesimi dati, sono giunti a conclusioni opposte. 125 Un editoriale del New York Times fa osservare che la scienza evoluzionistica "lascia tanto spazio alle congetture che le teorie sull'origine dell'uomo permettono di capire più cose sul conto dei relativi autori che sull'argomento... Spesso chi trova un nuovo cranio sembra voler ridisegnare l'albero genealogico dell'uomo, mettendo la propria scoperta sulla linea centrale che porta all'uomo e tutti crani degli altri su linee laterali che si perdono nel nulla". 126 L'idea che l'antropologia debba ricorrere all'ausilio delle discipline metafisiche per riuscire a fornire dei modelli sull'origine dell'uomo è assecondata dalla recensione sulla rivista Discover del libro The Myths of Human Evolution degli evoluzionisti Niles Eldredge e Ian Tattersall, nel quale viene omesso un qualunque albero genealogico evolutivo, giacché "per quanto riguarda gli anelli che compongono l'insieme degli antenati della specie umana, si può solo tirare a indovinare": "Eldredge e Tattersall insistono nel dire che l'uomo cerca invano i propri antenati... Se l'evidenza ci fosse, dicono, ci si potrebbe fiduciosamente aspettare che, con la progressiva scoperta di altri fossili di ominidi, la storia dell'evoluzione umana diventasse più chiara. Invece, semmai, è successo il contrario La specie umana, come tutte le altre, rimarrà sotto un certo aspetto orfana, essendosi perduta nel passato l'identità dei suoi genitori". 127 Henry Blocher 128 ha sostenuto il "buon diritto" di non "accordare una fiducia cieca e credulona... a ciò che la scienza dice sulle origini", proprio perché "su questo punto le posizioni della scienza sono quanto mai precarie": "Gli scienziati sono obbligati a considerare dei dati avulsi dal loro contesto; non ci sono che le briciole dei fatti per nutrire le loro teorie. La sperimentazione pianificata che in altri campi è il metodo per provare le ipotesi, è praticamente impossibile. Ernest Renan parlava, quasi un secolo fa, delle nostre povere scienze congetturali. Si riferiva alla storia propriamente detta. Cosa dovremmo dire delle ipotesi avanzate dalla paleontologia a proposito delle origini dell'uomo?" 129 Non è nelle intenzioni di Blocher avallare ogni atteggiamento degli antiscientisti, i quali "sembrano cedere alla faciloneria di un manicheismo senza sfumature ed a sottovalutare il valore del consenso scientifico realizzatosi nel mondo": "Gli antiscientisti... dimenticano che gli scienziati sono spesso rivali e che si controllano a vicenda: ciò impedisce almeno parzialmente il verificarsi di estrapolazioni abusive. L'accordo fra migliaia di ricercatori non nasce dal caso, né è frutto di cospirazione! Ai nostri occhi gli avversari delle opinioni consolidate, patetici kamikaze in lotta contro il mondo accademico, danno prova di leggerezza su due punti fondamentali: quando minimizzano il valore dei punti di contatto e delle convergenze fra lavori di scienziati diversi e quando attribuiscono alla Genesi, senza tollerare discussioni, un significato che altri lettori non vi trovano e che essi stessi non possono giustificare altrimenti che con la loro scelta a priori del letteralismo." 130 Il fatto che l'evoluzionismo presenti gravi lacune e non si collochi come scientificamente in regola, non deve significare il ripudio del metodo sperimentale, il quale è un'altra cosa, e dovrebbe riguardare i naturalisti come i metafisici, nel senso che la scienza sperimentale concerne quel che è conosciuto e non pretende decidere dell'esistenza di quel che è ignoto ed ipotetico. L'errore del naturalismo a questo riguardo, consiste nella massificazione delle discipline scientifiche ed umanistiche, pretendendo la riduzione a mitologia di tutti quegli elementi che sfuggono al criterio sperimentale, trascurando l'evidenza del semplice carattere metodologico dello sperimentalismo. L'incapacità dell'evoluzionismo nel definire i termini antropologici dimostra infatti che il metodo sperimentale deve prendere atto e valorizzare le ipotesi o le formulazioni metafisiche sull'origine dell'uomo, (astenendosi dai ruoli che trascendono la metodologia) e non bocciarle in partenza come non scientifiche. Il carattere non sperimentale dell'antropologia biblica, da cui dipende la relativa disciplina etico-messianica, non può significare necessariamente la sua inconsistenza. Chi volesse sostenere quest'ultima ipotesi dimostrerebbe inevitabilmente non una più rigorosa scientificità, ma semplicemente la propria dipendenza dalle premesse naturalistiche. Il metodo sperimentale non può essere un monopolio né per gli uni, né per gli altri. Il fatto che i primi capitoli della Genesi, rilevanti per l'antropologia biblica, sfuggano alla verifica sperimentale, non significa ch'essa non riguardi il campo d'indagine della scienza. 131 La scienza sperimentale non va separata dalla metafisica 132 ma distinta. La separazione fideistica che Noel Weeks ed Henri Blocher disdegnano può essere riconosciuta come distinzione, purché il "sapere" non pretenda escludere la "fede" e la possibilità di una "storia" con quest'ultima compatibile. 133 La tesi evoluzionistica non è in grado di escludere il punto di vista antropologico che compare nella Genesi, nonostante i numerosi tentativi della craniologia e dell'osteologia in genere, di dimostrare l'origine scimmiesca dell'uomo. Le basi scientifiche della divulgazione dell'evoluzionismo e della credenza che sostiene l'origine animale dell'uomo, ricorrendo a ricostruzioni e riproduzioni di uomini scimmieschi, tramite le scuole, le università o anche i programmi di Piero Angela, (le cui parole d'ordine - elezione naturale, lotta per la sopravvivenza, evoluzione naturale, la specie più adatta -, unitamente ad opportune traduzioni socio-economiche del pensiero di Darwin - il professor Angela ci parla di finanza, delle condizioni per la ricerca scientifica, di adattamento all'era tecnologica, come anche della vita domestica e di come evitare un uso improprio delle moderne utilità - fanno chiaramente trasparire la vocazione naturalistica ed evoluzionistica), risultano insufficienti: "In queste ricostruzioni i tessuti muscolari e il pelo sono necessariamente frutto dell'immaginazione... Il colore della pelle; il colore, la conformazione e la distribuzione del pelo; i lineamenti; l'aspetto facciale: circa questi caratteri, per quanto riguarda gli uomini preistorici, non sappiamo nulla". 134 Science Digest si spinge fino all'ironia: "La stragrande maggioranza delle concezioni degli artisti si basa più sull'immaginazione che sull'evidenza... Gli artisti devono creare qualcosa che sia una via di mezzo fra la scimmia e l'uomo; più il reperto è considerato antico, più scimmiesco è l'aspetto che gli attribuiscono". 135 Il metodo di datazione basato sul radiocarbonio contribuisce a creare ulteriore confusione sui reperti, facendo risalire la comparsa dell'uomo a tempi straordinariamente remoti. Il fisico nucleare e premio Nobel W. F. Libby non sembra così ottimista sui metodi di datazione, quanto la dichiarazione degli istituti che hanno ritenuto la Sindone un reperto medievale: "La ricerca per sviluppare il metodo di datazione avveniva in due fasi: la datazione, rispettivamente, di esemplari di epoche storiche e preistoriche. Arnold e io avemmo la nostra prima sorpresa quando i nostri consulenti ci informarono che la storia risaliva a soli 5000 anni fa... Si leggono dichiarazioni secondo cui questa o quella civiltà o località archeologica ha 20.000 anni. Imparammo in maniera piuttosto brusca che queste cifre, queste epoche remote, non sono note con accuratezza". 136 Malcom Muggeridge alla genericità ed alla vacuità delle prove evoluzionistiche, ha fatto chiaramente trasparire il proprio interesse per l'antropologia biblica: "In paragone, il racconto della Genesi sembra piuttosto serio, e come minimo ha il pregio di corrispondere a ciò che effettivamente conosciamo sugli essere umani e sul loro comportamento... i repentini salti da un cranio all'altro non possono che apparire del tutto fantasiosi a chiunque non sia succube... I posteri si meraviglieranno senz'altro, e spero trovino molto divertente che una teoria così sconclusionata e poco convincente abbia fatto presa con tanta facilità sulle menti del XX secolo e sia stata applicata così estesamente e con tanto poco criterio". 137 L'etica sociale del XX secolo riflette l'ideologia dominante e l'antropologia del naturalismo. Quando si vuole che l'etica socio-economica sia facile e prescinda dalla visione messianica del libro di Daniele, l'antropologia del naturalismo svolge indubbiamente un ruolo decisivo. La riforma etica in occidente passa dunque attraverso la riflessione critica sull'antropologia del naturalismo.


    Inserimento al 2 Dicembre, 1991

    Non si può promuovere una cultura naturalistica e descrivere l'uomo come un animale in competizione coi suoi simili, e nello stesso tempo attendersi che lo Stato, il Parlamento, le aziende, i cittadini operino cristianamente. Quando le riforme etiche non si realizzano arrivano le dittature, perché si deve pur garantire l'ordine e la disciplina nel parco naturale, magari proponendo eticamente un nuovo ordine il quale è in realtà l'ennesimo prodotto riciclato e riaffermato nei termini più congeniali alla fauna, per poi ricominciare daccàpo con le guerre di liberazione, le rivoluzioni, i partigiani, le uccisioni strazianti ed altri nuovi ordini riciclati, almeno finché l'autarchia non è planetaria. Dio voglia che una nuova concezione dell'uomo risparmi all'Italia altre inutili sofferenze ed illusioni. L'alternativa è la volontà ed il coraggio di rifondare l'etica a partire dalla verità sull'uomo, affinché, anche qualora il mondo venga scosso dalle fondamenta, l'identità compiuta e serena di un popolo possa comprendere le vicende e gli sconvolgimenti che precedono la restaurazione di un'età nuova che non sia quella dell'autarchia ventura, già progettata ed in fase di costruzione.



    E. ANTROPOLOGIA E PREVISIONE SOCIOLOGICA

    Lo storicismo, sebbene sia fondamentale l'opposizione al naturalismo, non rinuncia del tutto all'ipotesi di elementi comuni tra i metodi della fisica e quelli delle scienze sociali. Popper ha sostenuto l'idea di un accordo dello storicismo con il punto di vista secondo il quale la sociologia, come anche la fisica, è un ramo dello scibile cui si deve attribuire contemporaneamente carattere teoretico ed empirico. 138 Il carattere teoretico della sociologia andrebbe intravisto nel tentativo di spiegare e predire gli eventi, ricorrendo all'aiuto di teorie sulle leggi universali della storia. Ma la previsione sociologica, in quanto conseguenza della conoscenza delle leggi universali della storia, è legata all'obiettiva conoscenza delle leggi fisiche ed alla loro natura. L'elemento metafisico interviene in sociologia proprio a motivo dell'attuale inadeguatezza della scienza sperimentale a consolidarsi definitivamente secondo i termini del naturalismo, in quanto le leggi fisiche e la loro natura, nonostante il metodo sperimentale, non sono state intimamente esplorate e dimostrate come contrarie alle tesi del creazionismo, del sovrannaturale e della rivelazione biblica. Mentre la fisica accede alla previsione di fenomeni soggetti all'osservazione sperimentale, nonostante non disponga di una teoria definitivamente oggettiva, in sociologia la minima previsione può esigere la conoscenza delle leggi obiettive ed universali della fisica, la cui assenza non pregiudica comunque le previsioni sperimentali, nella misura in cui esse siano state appurate statisticamente (sapere come si comporta ordinariamente l'atomo, non è conoscere l'atomo). La sociologia ha dunque carattere teoretico ed empirico, benché la messa a punto di un modello teorico scientifico richieda non soltanto l'osservazione sociale, bensì la conoscenza delle leggi universali della storia, dipendenti da quelle che spiegano l'essenza e l'origine dell'uomo e della natura. Scienze sperimentali, antropologia e storiografia sono dunque collegate ed interdipendenti dal punto di vista della sociologia. I contenuti antropologici influenzano non soltanto le formulazioni etiche, bensì anche le previsioni sociologiche. Se l'antropologia fisica non può risolvere le questioni relative alla natura ed all'origine dell'uomo, senza il concorso delle altre discipline antropologiche, nonché della psicologia, della filosofia e di tutte le scienze che hanno per oggetto l'uomo, visto da ogni suo lato, non solo naturalistico, ma filosofico e metafisico, come può essere pensabile una previsione sociologica ed una storiografia che pretenda il dominio sperimentale delle sostanze ontologiche della storia, quando la fisica stessa si dimostra incapace di risalire dalle conoscenze sperimentali alla sua sostanza ontologica? Il contributo del Popper a tal riguardo consiste infatti nel tentativo di dimostrare la necessità di tutti i modelli ipotetici di ricerca, di qualsivoglia scuola di pensiero, che non siano stati indiscutibilmente confutati, per il raggiungimento della verità scientifica. I contributi del libro di Daniele, rivalutati in questa ottica non possono che presentare notevoli incidenze in fase di previsione sociologica. Le previsioni che possono essere formulate sulla base delle informazioni contenute nel libro di Daniele non possono essere ricondotte dalla ricerca d'ispirazione naturalistica a semplice mitologia, "poiché spetterà alla storia futura verificarle o respingerle, cioè sottoporle a prova". 139 Lo storicismo ritiene comunemente che la sociologia dipenda da un principio causale similmente a quanto avviene per la fisica e la chimica, in quanto spiegazione del come e del perché siano accadute o accadranno determinate vicende, purché si disponga degli elementi per la formulazione di leggi, infallibili e puntuali nel loro meccanicismo. La sociologia in realtà non dispone della conoscenza delle sue intime leggi causali, per il semplice fatto che nessuna disciplina, ed ancor più quelle umanistiche, è in grado di disporre attualmente della conoscenza dell'intima sostanza ontologica di cui si occupa, essendo infatti da sempre oggetto di studio e di dibattito filosofico. Nella misura in cui ci si allontana dalle scienze esatte, dalla matematica alla fisica ed alla chimica, le discipline si presentano sempre più ipotetiche nello studio delle sostanze di cui si occupano, essendo maggiormente vulnerabili nei confronti del dibattito teoretico della filosofia. Come la determinazione delle forze interferenti in dinamica, si dovrebbero poter considerare le forze che determinano alterazioni degli equilibri sociali, fino a distinguere le componenti primarie per accedere alle cause fondamentali. Lo storicismo riconosce l'importanza delle forze storiche, comprese quelle spirituali ed economiche, ma sempre intendendole come forze intrinseche all'uomo stesso. La previsione sociologica deducibile dal libro di Daniele suggerisce che la sostanza ontologica della storia venga individuata anche nell'uomo ma non solo e principalmente nell'uomo, essendo le forze responsabili dell'estinzione dei poteri secolari e dell'instaurazione del Regno di Dio individuabili in seno alla sovrana onnipotenza di Dio che agisce ed irrompe nella storia, (anche attraverso i rivolgimenti sociali ed i conflitti bellici) la quale così facendo si presenta come storia umana e divina allo stesso tempo. 140 La previsione sociologica è resa possibile perché, secondo il libro di Daniele, Dio dispone della sostanza ontologica della storia, essendo egli "sapiente e potente... signore dei tempi e degli eventi", ragion per cui egli "svela i segreti più misteriosi, conosce quel che è nascosto nelle tenebre, egli è avvolto nella luce". 141 La conoscenza di quel che è nascosto nelle tenebre e l'essere avvolto nella luce è una chiara allusione al dominio della sostanza ontologica della storia, "dei tempi e degli eventi", le cui leggi, il cui senso globale ci appare spesso "nascosto nelle tenebre". Daniele può accedere al significato del sogno della statua dai piedi d'argilla, e dunque a delle rivelazioni che riguardano il futuro politico del mondo fino all'avvento del Regno di Dio, 142 non perché egli abbia compreso le leggi ed i principi della causalità storica responsabili dei rivolgimenti politici e sociali, ma solo perché Dio stesso ne ha fatto menzione. L'idea della dipendenza della storia e delle previsioni sociologiche dalle rivelazioni divine è confermata più volte nelle affermazioni che sottolineano la sovranità di Dio sui tempi, sugli eventi, sui regni e persino sulla nomina dei re e sui confini territoriali delle nazioni. 143 La capacità di prevedere le vicende storiche è stata attribuita allo "spirito degli dèi santi" che sostenevano Daniele. 144 In tutto ciò si vuole indicare la necessità di riconoscere nella rivelazione biblica e nelle sue previsioni storiche la risposta all'inadeguatezza della ricerca umana di una spiegazione autonoma della storia, la quale finirebbe per compromettere la giustizia sociale e gli equilibri dell'antropologia biblica. Secondo Daniele il governo terreno è reso possibile nella misura in cui si riconosce che "il Dio del cielo domina su tutto", e non a caso il ravvedimento, la pratica della giustizia e la misericordia verso i poveri vengono suggeriti in questo contesto, quale rimedio alla prerogativa di Dio di sostituire i re che non riconoscono la sua sovranità ed "innalzare il più povero degli uomini": 145 "Dio è potente e sa quel che fa... toglie il potere ai consiglieri di corte e rende pazzi i giudici... annulla l'autorità dei re, anzi li lega come prigionieri... e spodesta chi detiene posizioni di potere... copre i nobili di vergogna e annienta l'autorità dei potenti... scopre le cose nascoste dell'oscurità e porta alla luce anche le tenebre più fitte... ingrandisce e distrugge i popoli, alcuni li fa espandere, altri li annienta, toglie il senno ai loro capi, perché si perdano in deserti senza via d'uscita... li fa brancolare nell'oscurità più nera e li fa camminare come ubriachi." 146 E' stato fatto notare il rapporto tra la sapienza apocalittica e una visione della storia che fa dipendere gli uomini, le nazioni, i loro tempi e le loro vicende dalla "predeterminazione indefettibile" di Dio: "Dio creò i popoli nel mondo e noi; li vide, e vide anche noi, da principio fino alla fine del mondo; nulla, nemmeno il più piccolo particolare, fu da lui trascurato; tutto egli aveva previsto, tutto predeterminato... Il Signore ha previsto tutto quello che avviene in questo mondo e tutto si verifica di conseguenza..." 147 Il "pathos che pervade i libri apocalittici in tutte le loro ramificazioni è il pathos della conoscenza", il quale "ha come teatro l'ampia scena della storia universale", purché animato dalla radicata consapevolezza della sovranità di Dio sulle vicende umane e dall'assoluta persuasione dell'avvento del regno messianico escatologico. 148 L'accesso alla sapienza apocalittica richiede il riconoscimento dell'inadeguatezza delle scienze sperimentali alla conoscenza della sostanza ontologica dell'ordine del mondo, per rientrare in una dimensione di ricerca metafisica e spirituale che non rischi però di porsi in contraddizione con i fatti oggettivamente appurati dalla ricerca sperimentale, quando gli scrittori apocalittici, i quali a loro modo si sarebbero "coperti da tutti i lati", condividono la convinzione dell'antica sapienza secondo cui l'ordine del mondo rimane inaccessibile all'indagine razionale e si sottrae, anzi, alla sua logica." 149 Il superamento dei limiti dell'indagine sperimentale della scienza non significa il rifiuto di quest'ultima, ma semplicemente l'acquisizione di quelle condizioni e di quegli strumenti di pensiero che abilitano al riconoscimento "che Dio può iniziare singoli uomini ai misteri del mondo e della storia mediante sogni e visioni, soprattutto con prodigiosi rapimenti che li trasportavano nei più remoti spazi del cosmo": "... tra l'altro, la rappresentazione di un viaggio dello scrittore apocalittico nel cielo o agli inferi è uno schema tradizione che si prestava magnificamente a convogliare tutto il materiale di questo sapere". 150 Si riconosce ben volentieri "che la mentalità dello scrittore apocalittico, vista nella prospettiva di una storia generale dello spirito umano, presentava una struttura razionalistica esattamente agli antipodi di ogni forma di pensiero autenticamente mitico", ma "la funzione... dell'inquadramento mitico nel fornire una legittimazione teologica" che il Von Rad propone 151 risulta essere in contrasto con l'idea della rivalutazione dei contributi del libro di Daniele alla storiografia ed alla previsione sociologica, sulla base della teoria popperiana relativa alla validità delle ipotesi scientifiche che non siano state oggettivamente confutate dalla scienza. Perché dunque voler "imbrigliare" l'apocalittica nell'inquadramento mitico per ricavarne tutt'al più una legittimazione teologica, ma smarrendo il suo valore storiografico, se la scuola del naturalismo e quella metafisica contribuiscono entrambi, senza che l'una abbia confutato l'altra, alla ricerca scientifica? Il Von Rad ed il Rowley hanno sostenuto che "lo scrittore apocalittico... dissimula il proprio luogo storico", 152 la cui "preoccupazione dominante è di presentare gli svolgimenti come predeterminati fin da principio", fino a chiedersi "se una concezione del genere non sia indice di un grave smarrimento del senso storico, se questa visione gnosticizzante di uno svolgimento predeterminato non nasconda un pensiero fondamentalmente astorico, venendo completamente meno la funzione di un'esperienza del contingente storico", ed a "chieder conto all'apocalittica del rapporto esistenziale con la storia, pena la sua degenerazione nella gnosi e nella speculazione". 153 Si è preso atto dell'intenso interesse dell'apocalittica per l'escatologia, tanto da apparire ovvia una derivazione della tradizione profetica, la quale però è stata nei seguenti termini comunque negata: "... questo è impossibile. Essa non si concepisce come profezia, a volte anzi accenna alla fine di questa..." 154 Se da una parte si è voluto minare il legame storico della letteratura apocalittica, dall'altra si è voluta porla in contraddizione con la profezia: "C'è invece un aspetto veramente decisivo, ed è l'inconciliabilità della sua concezione della storia con quella dei profeti. Dal messaggio profetico, così radicato in un terreno specificamente storico-salvifico, ancorato cioè a ben precise tradizioni di elezione, non c'è alcuna via di raccordo con l'immagine apocalittica della storia, e tanto meno con l'idea che gli eschata siano fissati fin dai primordi." 155 La discussione di tali affermazioni è nel nostro caso rilevante, perché la prima entità ad essere direttamente coinvolta è proprio il libro di Daniele: "Non troviamo alcun accenno alla storia d'Israele nelle parti storiche delle due grandi visioni oniriche di Daniele, quella della statua delle monarchie e quella delle fiere. Qui Dio è solo con gli imperi del mondo; né il figlio dell'uomo viene da Israele, bensì con le nuvole del cielo. L'evento salvifico, quindi, si trova interamente proiettato nel futuro escatologico." 156 Quando si pensa di chieder conto all'apocalittica del rapporto esistenziale con la storia, di cui già s'intravede la sua degenerazione nella gnosi e nella speculazione, è ancora alle visioni del capitolo 2 e 7 di Daniele che ci si vuole in concreto riferire: "... questo vale soprattutto per il modo di concepire l'unità della storia implicito nelle visioni della statua e delle quattro fiere. Gli imperi mondiali hanno un'origine, una natura e un fine e quel che in essi si sviluppa è insito nella loro struttura fin da principio. Il movimento della storia, raffigurato con immagini simboliche, rivela un progressivo affermarsi del male. E' una visione storica estremamente pessimistica. E' necessario che la storia attinga una soglia negativa, che la misura del peccato sia colma (Dan. 8, 23). La storia non ha altro sbocco che un abisso, una grande catastrofe (Hen. aeth. 83, 7). Questo male inesorabile alligna evidentemente nella natura dell'uomo e degli imperi da lui fondati, pur nella varietà delle sue manifestazioni." 157 Quando il Von Rad lamenta nell'apocalittica la dissimulazione del luogo storico, è "la preoccupazione dominante... di presentare gli svolgimenti come predeterminati fin da principio... l'assoluto controllo esercitato da Dio sugli eventi... il problema dell'ordine divino che presiede agli sviluppi storici... e la risposta nel riconoscimento di un rigoroso determinismo storico" a fargli difetto. 158 L'idea che ritiene "diverse le parole dei profeti sul divino reggimento delle vicende umane" non sembra potersi reggere. 159 Non può neppure essere dimostrato che "... ogni volta è qualcosa di nuovo e di inatteso che ad essi si manifesta... che dietro la loro predicazione non v'è ombra del problema squisitamente umano di un senso e di un'intelligibilità del corso della storia." 160 Ragion per cui le seguenti conclusioni, al fine di dimostrare la diversità della concezione dei profeti sul divino reggimento della storia, sono perlomeno vacillanti: "E' un opus alienum quello cui Jahvé si accinge. L'immagine che Isaia ci offre di Asur è così mutevole perché mutevoli erano i disegni di Dio"; benché, tutt'altro che per dimostrare la mutevolezza divina ed il libero arbitrio della storia umana, nei libri dei profeti "Israele poteva convertirsi, Jahvé pentirsi per la sventura del suo popolo... ora costruire un popolo, ora annientarlo." 161 La citazione di Geremia 162 a cui fa ricorso il Von Rad serve piuttosto a confermare la compatibilità tra apocalittica e profetismo, giacché in essa si conferma la dipendenza dei popoli e delle vicende che li riguardano dalla sovranità di Dio: "... ecco, come l'argilla del vasaio, così siete voi nelle mie mani". Allo stesso modo la citazione dell'Apocalisse di Ezra asseconda l'idea di una preconoscenza delle epoche storiche (che è cosa diversa dalla loro predeterminazione) e la possibilità di manifestare l'estrema malvagità della natura umana, in sintonia con l'insegnamento dei profeti: "(Dio) ha misurato con misura le ore e calcolato con numero i tempi. Non li turba né li risveglia finché non sia colma la misura preannunciata". 163 Non si può dire "quindi, che nell'apocalittica emerge sotto presupposti teologici completamente diversi una concezione dell'opera storica di Dio che si differenzia radicalmente da quella dei profeti", 164 cosicché se "questa concezione della storia debba essere intesa come un necessario contrappeso a quella profetica e come apertura verso nuovi orizzonti teologici oppure come eccessiva penetrazione di idee straniere nello jahvismo" non si presenta come "un problema destinato a restare a lungo insoluto". 165 Lo stesso Von Rad ha riconosciuto che la "riflessione del Siracide si estende anche al passaggio del dominio mondiale da un popolo all'altro"166; che il "codice sacerdotale presenta una periodizzazione schematica della storia che va ben oltre le altre fonti del Pentateuco, facendo uso in più di un complicato apparato cronologico" ed evidenziando la conoscenza di un compimento escatologico del mondo; che il "discorso sulla gloria divina che un giorno riempirà tutta la terra è interessante appunto perché non sembra troppo quadrare con le preoccupazioni specifiche del codice sacerdotale, pur sfiorando un'idea teologica non inconciliabile coi contenuti della fonte P"; che "anche il Tritoisaia, verso la fine del VI sec., ha parlato di una nuova creazione del cielo e della terra... idea... assai più vicina all'escatologia tipica dell'apocalittica che non alla visione di un futuro immanente alla storia ancora condivisa da Geremia e dal Deuteroisaia".167 L'idea che "Dio cambia le stagioni e le epoche storiche, che trasferisce i regni e li costituisce"168 fino all'avvento del Regno di Dio non riguarda soltanto la letteratura apocalittica in senso stretto e convenzionale. La medesima riflessione di Girolamo sul brano menzionato di Daniele potrebbe essere un brillante sommario sul libro di Habacuc: "Non dobbiamo dunque meravigliarci quando assistiamo a un alternarsi successivo di re e di regni: dipendono dalla libera volontà di Dio il loro governo, i loro mutamenti e la loro fine. Di ogni caso ne conosce i motivi colui che tutti li fa essere, e che permette sovente che salgano al potere re malvagi per far punire i cattivi dai cattivi. Ci fa intravedere nello stesso tempo - preparando in tal modo chi legge con questo colpo d'occhio universale - che il sogno avuto riguardava il mutarsi e il succedersi dei regni."169 Girolamo intuisce che nell'affermazione di Daniele v'è la nozione della sovranità di Dio sui governi mondiali di tutte le epoche, secondo un principio di ricambio e successione al potere che attraverso conflitti e guerre impedisce la realizzazione di una definitiva conquista per una terrena, unilaterale e falsa pacificazione ai danni degli interessi del Regno di Dio. Il libro di Habacuc si presenta come una serie di elementi del medesimo principio di successione nell'attesa escatologica del Regno di Dio, vissuta nella fede che le promesse divine si attueranno a suo tempo. I caratteri apocalittici non sono pienamente sviluppati in Habacuc come negli altri libri profetici, perché essi si estrinsecano dalla profezia, nella misura in cui il modello teocratico e messianico risulta distante, specialmente durante le deportazioni, le persecuzioni e l'isolamento del popolo di Dio (la contingenza storica ed esistenziale), senza soluzione di continuità dal profetismo e dalla sua visione della storia, benché l'elemento escatologico tenda, come è prevedibile, a divenire ipertrofico. I cinque elementi in relazione al principio di successione al potere menzionati da Habacuc riguardano perciò la successione delle potenze descritte nel sogno della statua dai piedi d'argilla e delle quattro bestie nel libro di Daniele. I cinque elementi corrispondo agli atteggiamenti peculiari delle potenze terrene, la cui sostanza non muta con le forme civiche, politiche e sociali caratteristiche di una particolare epoca e strategia di potere. Gli esempi di ravvedimento e di riforma della politica sociale nel senso della giustizia e della misericordia di Dio menzionati nel libro di Daniele, indicano che in seno alla tendenza generale dell'umanità in corsa verso la totale opposizione ai principi teocratici del Regno di Dio è possibile la distinzione e la predisposizione all'era messianica, senza rassegnare le dimissioni dall'impegno teocratico durante l'attesa. Le "parole ironiche e sprezzanti" che una nazione rivolge all'altra, indicano che gli equilibri del pianeta in attesa del Regno di Dio sono garantiti da una tensione costante tra gli uomini ed i loro sistemi di unilaterale pacificazione ed impropria coesistenza, fino a quando la storia non "attinga una soglia negativa" e "la misura del peccato" non sia "colma", evidenziando che "il male inesorabile alligna evidentemente nella natura dell'uomo e degli imperi da lui fondati, pur nella varietà delle sue manifestazioni".170 Le parole ironiche e sprezzanti sono inoltre l'usuale strumento di contestazione delle nazioni e degli uomini che, pur subendo gravi ingiustizie e crudeltà, non possono o non ritengono utile, opportuno e dignitoso reagire ricorrendo a metodi violenti. L'esistenza della satira e dell'ironia nelle relazioni tra uomini e nazioni è in molti casi un indizio della malvagità di uomini, popoli e sistemi di potere, i quali credono di restare impuniti per le proprie malefatte. Il messaggio profetico di Habacuc a tale riguardo è il medesimo dell'Apocalittica e della letteratura sapienziale, guardando al "giorno del Signore": "... non dimenticare che Dio ti chiederà conto di tutto... giudicherà tutto quel che facciamo di bene e di male".171


    1. Le cinque maledizioni di Habacuc

    Habacuc annunzia agli abitanti del regno di Giuda, che si interrogano ansiosi sul proprio futuro e sui disegni di Dio, la sovranità divina sul mondo e sulle nazioni, l'inevitabilità del giudizio sugli oppressori e la certezza della salvezza del suo popolo. Habacuc riconosce che Dio "ha scelto i babilonesi e li ha resi forti per eseguire" i suoi giudizi, ma non comprende perché Dio tolleri che i "babilonesi catturano la gente come pesci presi all'amo, la raccolgono nelle loro reti e ne hanno una gioia immensa... offrono sacrifici alle reti, bruciano profumi in loro onore, perché con esse si procurano un cibo abbondante e saporito... (... forse per questo tirano sempre fuori la spada e massacrano senza pietà i popoli?)" Precedentemente si era lamentato con Dio dell'oppressione degli assiri ("Fino a quando... dovrò chiederti aiuto senza che tu mi ascolti, denunziare la violenza senza che tu venga in aiuto? Perché mi fai vedere l'ingiustizia? Come puoi restare spettatore dell'oppressione? Davanti a me ci sono soltanto distruzione e violenza, dovunque processo e contese. Le leggi non sono più rispettate, la giustizia non è ben applicata. Il malvagio raggira il giusto e i giudizi sono falsati.") per ottenere in risposta l'annuncio dell'arrivo dei babilonesi ("popolo feroce ed impetuoso... tanto superbi che stabiliscono da soli quel che è giusto...") ed un ricambio di potere che non risolve i problemi dell'oppressione.172 Benché nella successiva risposta di Dio non vi siano rivelazioni escatologiche viene assicurato che "alla fine tutto si realizzerà, come previsto... l'uomo infedele a Dio morirà, ma il giusto vivrà per fede... il traditore che si vanta delle sue imprese e l'uomo orgoglioso sono sempre agitati... e come la morte non si saziano mai... ma i popoli conquistati diranno contro di loro parole ironiche e sprezzanti."173 Ciò che viene taciuto è fino a quando il processo di sostituzione e di tensione dei poteri si protrarrà ("Non è ancora giunto il momento che questa visione si avveri... attendila con fiducia e pazienza... arriverà sicuramente e non tarderà."), ma si dà per certo che alla fine sarà fatta giustizia. E' chiaro che, finché le cinque maledizioni di Habacuc sono attive, l'oppressione e l'ingiustizia saranno inevitabili, ma il "giusto" vivrà in attesa della realizzazione del giudizio: il malvagio morirà ed il giusto vivrà. In tutto ciò gli elementi apocalittici sono embrionali ma perfettamente in sintonia col profetismo. Anzi notiamo che è la stessa profezia, in circostanze di grave oppressione ad assumere carattere apocalittico (Zaccaria, Ezechiele, Sofonia), così come le profezie di Geremia assumevano una forte connotazione socio-politica, tale da poter ritenere gli scrittori apocalittici canonici quali autentici profeti. Le cinque maledizioni accompagnano le vicende umane e dunque la storia fino all'avvento del Regno di Dio, talché il sogno della statua dai piedi d'argilla e la successione delle quattro bestie nel libro di Daniele sono col libro di Habacuc in un rapporto di interazione. Sapendo che le seguenti maledizioni riguardano le potenze che si succedono al potere fino all'avvento dell'era messianica, l'aggancio storico del profetismo apocalittico è fin troppo concreto e globale:

    1. Rapina, spargimento di sangue e violenza.174
    2. Ricerca di sicurezza nei guadagni illeciti.175
    3. Un progresso fondato sull'omicidio e l'oppressione.176
    4. Umiliazione e massacro.177
    5. Idolatria.178

    Consigliando a Nebucadnetsar il ravvedimento e le opere di misericordia, Daniele dimostra di voler attenuare il peso delle cinque maledizioni sull'impero e sullo stesso monarca, e così sembra essere fino a quando la tendenza predominante non riprende il suo corso: "Nabuconosor, è vero, secondo il consiglio di Daniele compì opere di misericordia verso i poveri, e pertanto gli fu prorogata la decisione per dodici mesi; ma dato che in seguito, passeggiando nel palazzo reale di Babilonia si autoincensava con queste parole: Non è questa Babilonia la grande costruita da me come residenza reale grazie alla mia enorme potenza e alla maestà del mio nome?179 perde i benefici delle sue buone opere con un peccato di superbia.180 L'atteggiamento di superbia di Nebucadnetsar determinò la riattivazione del principio di ricambio di potere e dunque delle cinque maledizioni: "La sua boria arrogante viene immediatamente punita dal Signore. E pertanto la decisione non viene prorogata oltre per non dar l'idea che la misericordia verso i poveri gli abbia giovato anche solo minimamente; anzi, non appena si fu espresso con superbia perse il regno che le elemosine gli avrebbero potuto conservare."181 La riabilitazione del re sarebbe stata resa possibile solo quando la sovranità del regno di Dio fosse stata riconosciuta.182 L'aver compreso che nessun governo umano può sussistere al cospetto di Dio, aiuta a conservare la propria serenità quando si devono subirne gli abusi, anche quando si trattasse del Piccolo Corno, il quale come nessun altro darà l'impressione di una solidità e di una forza che alla fine si dimostreranno fallaci: "Aspetto in silenzio che il giorno dell'angoscia colpisca il popolo che ci assale... ma io trovo la mia gioia nel Signore, sono felice perché Dio è il mio salvatore..." E' insolito che un testo profetico venga destinato ad essere parte del repertorio del capocoro ed all'accompagnamento su strumenti a corda, secondo quanto avviene per alcuni salmi, il cui confronto col libro di Habacuc ci aiuta a comprenderne le ragioni: la sovranità di Dio sulle vicende umane e l'intervento salvifico in favore del suo popolo.183



    DISCUSSIONE


    3. Utilità e funzione della previsione sociologica

    Una previsione sociologica autentica risulta generalmente per lo storicista contemporaneo non una profezia che procede da un'entità sovrannaturale, bensì un prodotto dello studio delle leggi storiche mediate dal naturalismo e correlate alle scienze sociali ed umanistiche in genere. Proprio perché si mette in discussione il naturalismo e si indica alla scienza il contributo della rivelazione biblica alla ricerca, secondo categorie metafisiche che le siano affini, ed avvalendosi di quelle prerogative che il Popper ha ben consolidato, le previsioni del libro di Daniele potrebbero rivelarsi utili "specialmente per coloro i cui interessi vanno oltre il nostro tempo, per quei politici che hanno il senso del destino storico" e sanno servirsi dello studio sociologico quale "principale strumento della politica pratica".227 Popper ha fatto notare il valore delle implicazioni pratiche delle previsioni sociologiche, paragonabili alle previsioni meteorologiche e tecnologiche, i cui scopi pratici ai fini della protezione civile e della prevenzione sociale sono evidenti, ragion per cui, se le informazioni escatologiche del libro di Daniele fossero fondate, ogni previsione dovrebbe attuarsi con la maggiore cautela e ponderazione,228 onde sopravvivere ai mutamenti apportati dall'avvento del regno di Dio, e dalle gravi vicende che lo precedono, quali quelli descritti nel sesto capitolo dell'Apocalisse di Giovanni. Il quarto sigillo sembra annunciare una guerra di proporzioni mondiali alla vigilia della presa di Gerusalemme: idea che ricorda Dan. 11: 44 e 45. La Cina potrebbe provare a riorganizzare la speranza socialista solidarizzando con quei paesi dove i fondamentalismi si schierano formalmente a sinistra, e comunque la resa all'economia di mercato potrebbe in teoria determinare una fallimentare volontà di spostamento del centro del sistema capitalistico da Occidente ad Oriente, riproponendo la tentazione imperiale di vicini e potenti cugini.Se uno scontro diretto con l'Estremo Oriente, riarmato facendo ricorso ad una tecnologia che ha reso dipendente persino l'industria bellica americana, sembra escluso a motivo delle proporzioni distruttive di un tale conflitto e della presenza giapponese tra le potenze occidentali, non è detto che pezzi e brandelli di ideologie perdenti non procurino ai tradizionali e più strutturati oppositori dell'Occidente prodotti e conoscenze militari tali da incoraggiare e rendere possibile un conflitto bellico, il quale può essere previsto come distruttivo e fallimentare specialmente per gli stessi oppositori. Eventuali conflitti per quanto gravi non potranno però tradursi in un conflitto nucleare globale. Gli U.S.A. hanno sostenuto che il Giappone, ancor più che gli europei, conquisti i mercati proteggendo il proprio. Se ciò venisse appurato, gli Stati Uniti avrebbero il diritto di ricorrere alla pari fiscalizzazione, ossia alla penalizzazione dei prodotti forse non soltanto giapponesi, facendo ricorso ad un carico fiscale proporzionato agli atteggiamenti ostili, economici e sociali, che i prodotti statunitensi sopportano sui mercati internazionali. L'eliminazione delle barriere fiscali e la fine dei protezionismi nazionalistici saranno un sicuro indizio della compattezza del blocco occidentale di fronte a prevedibili resistenze del terzo mondo, del fondamentalismo islamico e del comunismo non del tutto debellato. I paesi potenzialmente capaci di resistere all'avanzata del Piccolo Corno sono dislocati nel Medio Oriente, nell'America Latina e nell'Asia, mentre nell'Europa è prevedibile un'aspro scontro ideologico, che alla fine potrebbe ritrovare perdente proprio quel modello cristiano-ecumenico che al momento opera da collante etico-sociale e controlla le forti tendenze allo smembramento ed al dissolvimento delle istituzioni. L'ascesa al potere del Piccolo Corno potrebbe solo inizialmente ed in parte dimostrarsi incruenta, e non è escluso che tale processo si concluda soltanto con la presa di Gerusalemme, secondo quanto l'undicesimo capitolo di Daniele (vv. 40-45) sembra suggerire. Le profezie contengono informazioni utili alla sopravvivenza durante l'ultima settimana di Daniele. Le forze determinate a limitare i costi umani durante un periodo così cruciale, ed a resistere fino alla fine, (Lc.24, 19: Pregate di non dover fuggire d'inverno oppure in giorno di sabato...) dovrebbero promuovere la riforma delle istituzioni politiche e dell'identità spirituale nel senso dei principi teocratici che presiedono agli atteggiamenti ed ai comportamenti che Daniele vivamente "consiglia" al re Nebucadnetsar, affinché vengano attenuate le conseguenze del castigo del Dio del cielo che domina su tutto ed è Signore, comunque ed in ogni tempo, di tutti i regni.229 La ragion di stato ribatte che la corresponsione degli aiuti sociali alle categorie meno abbienti, determina inflazione, ritarda il processo di sviluppo e riduce la competitività. Così molti poveri nelle nazioni sono sempre più poveri e molti ricchi sono sempre più ricchi, ed a questa situazione contribuisce il fisco stesso e le istituzioni, i quali sembrano impegnati nel far pagare due volte i servizi a coloro che pagano due volte le tasse, per garantire l'abuso ed il privilegio ad altre categorie privilegiate o difficilmente controllabili. In questa situazione il più debole tra i deboli è colui che rifiuta di adeguarsi alla regola della competizione ed all'uso della prevaricazione delle leggi, mentre il più forte è colui che promuove lo sviluppo economico riducendo l'etica ad un insieme di regole "civili" che regolino la competitività sociale.230 I nostri governanti si sono trovati a dover scegliere tra il sistema di sviluppo liberistico di marca occidentale e l'antiquata concezione solidaristica, per cui si è ritenuto di poter concludere "che solo in situazioni di sviluppo si possono risolvere i problemi: che la moltiplicazione della ricchezza dà le migliori possibilità di colmare gli squilibri sociali e di combattere a fondo e con successo il grande punto nero della disoccupazione; che nessuna condizione è peggiore di quella di uno stato o di un governo costretto a redistribuire le perdite tra le varie classi sociali, finendo inevitabilmente in quella spirale involutiva che fa corrispondere ad ogni atto di giustizia sociale una fase di ulteriore impoverimento della nazione"231 tacendo che la realizzazione di tale disegno implica lo "scaricamento" delle contraddizioni interne sulle nazioni più deboli, oltre che il grande tributo di vittime che la nazione avrà pagato prima di raggiungere l'ipotetica autonomia economica dei suoi componenti, la quale più verosimilmente potrà significare la concentrazione della ricchezza nella mani di pochi. Riconoscendo nell'atto sociale della solidarietà il carattere della giustizia, anche se dichiarandolo subito dopo motivo d'impoverimento della nazione, ma propugnando un modello di sviluppo che gli è avverso in nome della presunta bontà del risultato finale, corrisponde ad elevare un progresso economico, la cui globalità è sotto l'ipoteca del futuro ma le cui vittime sono contemporanee, a riferimento etico della condotta politica, pensando alla fine di realizzare quella giustizia che solo il primo atto sociale avrebbe potuto realizzare. Il "consiglio" del libro di Daniele a questo riguardo è inequivocabile: la ragion di stato e lo sviluppo economico devono procedere contemporaneamente al ravvedimento, alla giustizia ed alla misericordia verso i poveri.232 L'arte della politica deve consistere nel realizzare quei valori e quegli atteggiamenti che normalmente il politico scadente ed il monarca dispotico separano per dedicarsi al lusso del palazzo e dei suoi ministri, alla forza dei cavalli ed all'efficienza dei carri, dimenticando la destinazione del proprio mandato (la preservazione della vita e della dignità dei sudditi, dei poveri, dei forestieri accolti entro i confini dello stato, degli orfani e delle vedove), sfruttando ed in molti casi uccidendo gente innocente.233 L'idea della forza e del benessere a scapito della legge divina e dell'azione sociale conduce alla rovina: "Potranno andare e venire attraverso le porte di questo palazzo sui carri o a cavallo, insieme ai loro ministri e ai loro sudditi. Ma se non ubbidirete ai miei comandi, quant'è vero che io sono Dio, il Signore, giuro che questo palazzo diventerà un mucchio di rovine."234 Il carattere preventivo della sociologia contribuisce ad ampliare i compiti ed i termini della storiografia, esigendo che la ricerca storica non sia soltanto mero accumulo di dati, fonti, collazioni di documenti. Il Popper ha fatto notare che la sorta di storia con cui gli storicisti desiderano identificare la sociologia non volge lo sguardo solo al passato, bensì anche al futuro, trattandosi dello studio delle forze e delle leggi dello sviluppo sociale. Gli storici come i sociologi, facendo riferimento alle leggi del divenire storico hanno il compito di servirsi dei dati storici per ricavarne "un'idea generale delle grandi tendenze, secondo le quali le strutture sociali mutano", tentando così di comprendere le cause e la dinamica delle forze responsabili dei mutamenti stessi.235 La vocazione storicistica alla formulazione ed alla valutazione prudente di teorie e contributi per la previsione sociologica è espressa dal Popper come segue: "... dovrebbero (storicisti e sociologi) cercare di formulare ipotesi che spieghino le tendenze generali inerenti allo sviluppo storico, in modo che potremmo prepararci ai mutamenti imminenti, col trarre profezie da queste leggi".236 L'interpretazione della storia è alla base di ogni azione sociale meditata, e perciò dovrebbe divenire centro del pensiero storicista. La speranza di un futuro positivo per l'umanità esige, secondo il Popper, una visione ottimistica dello sviluppo sociale, giudicandolo razionale. Croce ha insistito sul concetto della storia come visione divina del mondo, esauriente, totale e nel suo complesso immediata,237 ma nello stesso tempo ha posto l'accento sulla libertà e la responsabilità individuale di fronte agli obblighi morali, risolvendone il contrasto nell'alterno operare del pensiero e dell'azione, della teoria e della prassi, di due categorie dello spirito e della realtà, che sono l'una per l'altra, e nel loro distinguersi o porsi si risolvono in quella sola unità concepibile che è l'eterno unificarsi.238 L'idea che il motore della storia non sia rappresentato dal progresso dell'uomo, "giacché il progresso può riguardare soltanto il nostro concetto delle categorie e non le categorie stesse",239 dall'opera impotente... ad ogni istante interrotta, dell'empirico e irreale individuo, bensì dall'opera "di quell'individuo veramente reale, che è lo spirito eternamente individuantesi",240 dovrebbe però recuperare "l'idea antiquata della filosofia" come studio dei "problemi universali ed eterni",241 e non ridurre la filosofia a semplice "metodologia della storiografia".242 Se la filosofia si riducesse a questo non potrebbe accedere alla conoscenza della forza motrice della realtà, (che la storia sia manifestazione dello spirito eternamente individuantesi e visione divina del mondo, o che sia il prodotto di forze intrinseche all'uomo la situazione non cambia) la quale, pur non essendo fuori della storia, risulta trascendere le possibilità della ricerca storica e scientifica condotta secondo i criteri del naturalismo, ragion per cui la storiografia non può che riproporsi come riflessione e ricerca dei fatti storici, ricostruibili o ipotizzabili sulla base dei modelli metafisici e non, che non siano stati precedentemente ed incontestabilmente confutati.243 Le indicazioni sociologiche che derivano dallo studio storiografico del libro di Daniele e della letteratura profetico-apocalittica in genere, condotto secondo questi ultimi criteri, esigono l'applicazione dei principi etici biblici alla condotta politica e dunque il riconoscimento della natura teocratica della spiritualità giudeocristiana, la cui negazione conduce la religione ad un atteggiamento pietistico che si traduce in sostanziale opposizione al regno di Dio e disgustoso strumento di pseudolegittimazione di quei sistemi economici avidi di un alibi propagandistico e di un'etica fittizia per realizzare i disegni del monopolio laico servendosi del confessionalismo religioso, ragion per cui gli esponenti della religione sono talvolta ai vertici del monopolio laico, e viceversa, assicurando il controllo e l'incolumità di ambedue le istituzioni. Giulio Andreotti ha dimostrato di possedere la lucida consapevolezza del rischio che il capitalismo laico fagociti l'etica sociale cristiana, il quale egli ha probabilmente ravvisato in seno al suo stesso partito, pur senza potere per il momento intervenire. La "teoria critica nei confronti dello sviluppo senza condizioni del capitale in Italia"244 consiste infatti nel delicato tentativo di Andreotti di opporsi ai grandi monopoli ricorrendo all'insegnamento etico-sociale del Cristianesimo, senza però compromettere l'idea di una sobria economia di tipo occidentale che corrisponda allo sviluppo dell'intera società. Andreotti denuncia la "caduta della tensione morale, del primato di valori non esclusivamente materiali", prestando attenzione "a non demonizzare il consumismo in termini generali".245 Alla domanda se ci sia contraddizione "fra la mancanza di regole del nuovo liberismo e gli interessi di tutta la società", Andreotti risponde: "La semplicizzazione che le persone colte chiamano deregulation è salutare anche per evitare che la complessità delle procedure amministrative non induca ad abituali violazioni. Viceversa trova ostacoli, palesi ed occulti, la normativa anti monopolio (nazionale e comunitaria). Va corretta la tendenza, affidando per il resto alla giustizia fiscale la conciliazione, la libertà economica e le esigenze generali. La Costituzione della Repubblica è molto precisa in materia di spazi da riservarsi - obbligatoriamente o per opportunità - alla mano pubblica."246 Il timore di una trasformazione delle democrazie occidentali in un regime totalitario è implicito nella seguente domanda posta ad Andreotti, e nella risposta lungimirante di quest'ultimo: "Ma di che cosa c'è d'aver paura? Fino a che punto cioè il potere economico può influenzare l'opinione pubblica? Le concentrazioni tendono ad estendere il potere dell'economico al politico (in senso largo) e questo urta contro il suffragio universale. Il profitto come tale è ineccepibile, salvo per alcuni servizi pubblici che devono tener conto di altri fattori. E' importante però che non si incassino gli utili e si scarichino le perdite sulla collettività - vedi una parte della cassa d'integrazione, ad esempio..."247 Andreotti considera necessaria una legge antitrust "a tutela dell'attuazione piena del Mec (1992)" e, quasi a voler prevenire la determinazione delle multinazionali a fare dell'Europa la piattaforma ideale per la scalata, tramite il controllo dei mercati internazionali, al potere politico, le cui conseguenze sociali sono prevedibili, dichiara: "... già il rispetto della normativa Cee offre garanzie idonee. L'iniziativa privata non è modificata da chiare regole antimonopolio. E' forse vero il contrario, se non si vuol fare l'elogio della legge della giungla."248 Il riferimento di un'attività economica libera ma moderata, privata e sociale nello stesso tempo è intravisto in una sociologia cristiana dalle chiare connotazioni giudaiche: "La sociologia cristiana condanna l'usura e condanna l'inerzia del capitale. Ricordiamo che il Vangelo definisce servo buono e fedele chi con sagaci investimenti ha arricchito il capitale affidatogli."249 Le concentrazioni editoriali sia nella stampa che nella televisione rientrano anch'esse nell'ambito delle entità potenzialmente lesive del sistema democratico e del tessuto sociale, e pertanto andrebbero limitate nell'ambito di una legge antitrust: "Esiste già una legge in tal senso per i giornali e credo che sia giusta anche una normativa per le televisioni; tenendo però conto che nella carta stampata non esiste un giornale di Stato, che fruisce di un canone obbligatorio."250 La relazione fra la crisi delle istituzioni politiche italiane ed il potere dei più forti gruppi economici non viene ritenuta necessaria, ma la forte influenza di quest'ultimi potrebbe tradursi in superpotere, ed in quanto tale non dovrebbe essere ammissibile.251 Andreotti, sorprendentemente, è un esempio d'impegno politico che si oppone a quelle componenti del potere laico che cercano di corrompere i fondamenti etico-messianici che animano l'apocalittica giudeocristiana ed affermare la tendenza al consolidamento di valori compatibili con l'ideologia e le strategie del Piccolo Corno.252 Se Giulio Andreotti ha "abbandonato la sua tradizionale prudenza" ed "ha lanciato un pesante siluro contro i concentramenti industrial-finanziari", in occasione di un Consiglio nazionale della Dc253, era per sollecitare "regole di trasparenza e norme per il contenimento delle concentrazioni, a tutela dei risparmiatori e della libertà di mercato... a tutela della libertà in generale".254 I personaggi a cui Andreotti fa riferimento quando denuncia l'esistenza di una "combattiva tendenza laicista ed antipopolare", sembrano essere, per il fatto che sono a capo di grandi gruppi monopolistici, Giovanni Agnelli, Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi e Raul Gardini.255 Il fatto che il primitivo trust sia cresciuto a dismisura e sia divenuto Impresa Globale "vale a dire una Cosa polivalente, onnicomprensiva, multinazionale, che fa di tutto",256 rende ancor più verosimile l'ipotesi di un regime autarchico del tipo indicato nel settimo capitolo del libro di Daniele. I grandi gruppi in cui possono ravvisarsi le connotazioni monopolistiche rappresentano il fenomeno economico contemporaneo più interessante da confrontarsi con i dati della previsione sociologica derivati dallo studio del libro di Daniele, tanto da suggerire l'ipotesi di un ruolo decisivo del sistema occidentale negli avvenimenti escatologici ed apocalittici. In Italia i gruppi monopolistici sono stati individuati nella Fiat-Agnelli, nella Montedison-Ferruzzi, nella Olivetti-De Benedetti, nell'Iri (più Eni), oltre che in altri gruppi minori che si danno da fare per diventare maggiori, o che si sono allineati e alleati coi maggiori, o anche che crescono in silenzio, fuori dalla mischia:

    1. Nella prima categoria metteremmo Silvio Berlusconi, indubbiamente il più importante imprenditore dei mezzi di comunicazione di massa, e Salvatore Ligresti, considerato a sua volta il più importante e "misterioso" immobiliarista del Paese. Il mistero, ed è ormai voce comune nel mondo degli affari, riguarda l'origine delle sue ricchezze.

    2. Nelle seconda categoria entrano i Pirelli, alleati degli Agnelli, e le Generali, una società assicurativa che certamente è più ricca di Berlusconi e dei Ligresti, ma se ne sta in un suo "enclave", anche geocrafico, a farsi gli affari suoi.

    Il carattere globale ed autarchico dei grandi gruppi è stato in verità già stato ammesso, a dimostrazione che siamo in una fase avanzata del processo che conduce, secondo la letteratura apocalittica biblica, alle vicende escatologiche, ed in prossimità dell'apice della funzione relativa alle corruzioni etiche del Piccolo Corno: "... quale è il potere o l'influenza che i Grandi Gruppi esplicano nel Paese, esercitano sul Governo e le pubbliche istituzioni? In una parola, in che senso e in che modo sono, o possono diventare, padroni della nostra vita? Padroni del mondo economico lo sono già, e in toto. Come si dice in gergo, fanno il mercato, e non solo in Borsa, dove dominano in modo incontrastato, ma anche nel campo industriale e finanziario... Si possono considerare anche padroni, almeno in parte, attraverso le varie lobbies e gli intrecci politica-affari, di un certo mondo politico che opera nelle pubbliche istituzioni, in Parlamento, al Governo. Il pericolo vero, già attuale, e che potrebbe in prospettiva compromettere le nostre libertà... è dato dalla progressiva, inarrestabile acquisizione o occupazione dei mezzi di comunicazione di massa - editoria, stampa, audiovisivi - da parte dei Grandi Gruppi... In questo campo, dove il grande Fratello Indarico, per dirla in termini orvelliani, può affacciarsi col suo occhio ipnotico, onnipresente, e condizionare tutta la nostra vita, si gioca, in certo senso, il nostro futuro." (257/a) Andreotti è indotto a prendere posizione contro i grandi gruppi monopolistici, al seguito, evidentemente, della dottrina sociale del magistero cattolico, dalla Rerum novarum di Leone XIII (15 maggio 1891) alla Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II, e dunque, almeno nell'essenza, (considerate le credenziali) di quella visione (anch'essa necessariamente conseguenza di quel delicato sistema etico ed antropologico che interagisce con l'intero complesso teologico giudeocristiano ed altera il suo equilibrio in presenza di ogni pur minimo elemento estraneo) dello sviluppo e del governo, deducibile dal libro di Daniele.

    Inserimenti:

    Al 14 Marzo, 1992

    La partecipazione italiana alla guerra nel Golfo è stata considerata troppo tiepida. I responsabili della tiepidezza sembrano essere stati individuati specialmente nelle forze cattoliche e democristiane, oltre che in alcune forze di sinistra. L'esito della guerra, il consolidamento delle concentrazioni economiche e finanziarie che Andreotti si riprometteva di ridimensionare ed i suoi più recenti suggerimenti riguardo all'attentato a Giovanni Paolo II, il crollo del sistema sovietico ed il conseguente rilancio della globalizzazione del potere occidentale nelle forme più congeniali, rappresentano per la DC ed il Cattolicesimo i segnali dell'imminenza di gravissime tensioni. Penso che le entità che si ripropongono un regime autarchico in Italia, operino in collaborazione con altri governi occidentali, i quali hanno deciso di fare a meno di tradizionali collaboratori (utili fino al crollo dell'U.R.S.S.) per allearsi ad entità che risultano ora più compatibili con i progetti in cantiere per il mondo nei prossimi anni. I fatti di sangue degli ultimi giorni potrebbero indicare la volontà di ostacolare la DC nel suo più tipico processo d'acquisizione delle preferenze elettorali, colpendo i suoi maggiori procacciatori regionali. Esiste però una spiegazione ipotetica che procede ben oltre la contingenza elettorale oppure l'eventuale ed ordinaria lotta tra cosche mafiose autoctone. La vera collusione con la criminalità organizzata potrebbe riguardare le forze interessate a creare un clima di tensione e confusione, in modo da procedere alla instaurazione di un regime totalitario. La DC può aver creato una fitta rete di relazioni clientelari, rendendo possibile una situazione di sfascio e vulnerabilità dello Stato nei confronti di poteri occulti che sono cresciuti a dismisura, ma non posso credere ch'essa sia giunta al punto di collusione strutturale con la Mafia, secondo quanto recentemente si è voluto far credere. Anche se fosse giunto il tempo di un ricambio di potere, la DC ha permesso (nel bene e nel male e nonostante la faziosità di certe sue posizioni) uno sviluppo agli italiani, forse disuguale e condizionale, ma tale da garantire un benessere più o meno diffuso e la collocazione della Nazione tra i maggiori partners europei. Chi mirasse alla salvaguardia della libertà e della democrazia e volesse prendere le distanze dai partiti che si vogliono responsabili di corruzioni, lottizzazioni, abusi fiscali, sfascio e disfunzioni dello Stato, dovrebbe assicurarsi che le nuove preferenze riguardino forze politiche che non siano più malate, nocive ed oscure di quelle che si vuole punire. Se per cambiare ciò che è perfettibile nella Costituzione, si deve rischiare di sfasciarla del tutto, forse sarebbe meglio consolidare e risanare le forze della conservazione. Il problema è che la conservazione centralista non sembra molto distante dal suo capolinea, nonostante la determinazione a realizzare, finalmente, qualche significativo mutamento. Le scelte laiche sono ideali nella misura in cui esse non rappresentano una minaccia per la socialità del progresso ed i principi teocratici. V'è certo laicismo che rappresenta un pericolo per la libertà ed attacca con ogni mezzo la dottrina sociale del magistero cattolico, così come attaccherebbe qualunque ideologia etico-sociale che tendesse a limitare gli eccessi del liberismo economico: non è questo il laicismo da difendere e promuovere, pensando in tal modo di risolvere le diatribe interconfessionali ed attenuare l'atmosfera di pregiudizio e di persecuzione psicologica e socio-culturale che caratterizza le minoranze più vulnerabili. E' prevedibile che siano i protestanti privi di categorie teologiche organiche, ed incapaci di formulazioni etico-messianiche, a risultare gradevoli all'oligarchia vestita provvisoriamente di laicismo: non mancheranno i premi e le promozioni, ed ai predicatori più accesi ed esemplificati non si farà mancare beni e benignità. Le varie contestazioni da avanzare nei confronti del potere democattolico dovrebbero ispirarsi ai valori della coesistenza e del rispetto delle regole di civiltà, anziché confondersi ai disegni oscuri di quelle entità che perseguono l'annichilimento di tutte le forze ideologiche e religiose impegnate nell'opera di ricostruzione etico-sociale della politica, della finanza e dell'economia. I protestanti dovrebbe chiedersi se nell'attuale situazione sia più saggio ed autentico schierarsi a fianco delle forze cattoliche, (risolvendo parallelamente i problemi di coesistenza) o se sia il caso di rafforzare il carattere laico della propria strategia politica, badando però a non combattere i contenuti etici della dottrina sociale del Magistero, ed a non compromettersi con quelle forze politiche, le quali pur partendo da taluni aspetti della teologia biblica, (a quanto pare i più versatili dal punto di vista propagandistico e retorico, e diplomaticamente efficaci e strategici) rischiano di costruire un impero su basi programmatiche che non riflettono le aspirazioni, gli interessi ed il pensiero teologico del messianismo giudeocristiano: si tratta di un dilemma che corrisponde ad un aut-aut, tale da poter pregiudicare il carattere messianico della fede cristiana, oppure la sua immagine etico-sociale. Il dilemma sembra derivare da un certo ritardo della parte sostanziale delle denominazioni protestanti nel proprio processo di teologizzazione biblica, realizzato sistematicamente ed organicamente, in maniera tale da condurre la Chiesa alla capacità d'interpretare e plasmare la realtà in sintonia con i principi etico-messianici del Regno di Dio. Il praticismo che induce specialmente il fondamentalismo protestante a concentrarsi su poche dottrine basilari (pensando in tal maniera di rendere giustizia alla semplicità evangelica), facilita l'accapigliarsi interdenominazionale su questioni periferiche della dottrina biblica che non rappresentano il punto focale della radicale confrontazione in atto tra la città di Dio e la città dell'uomo. Una delle polarità del Protestantesimo italiano è rappresentata dall'identità valdo-metodista e riformata in genere (anche rigorosamente fondamentalista). Dall'altra parte vi sono forze capaci di acuire il carattere pietista del fondamentalismo, radicando una spiritualità fortemente emozionale, esclusivista ed immediatamente edificazionale, ma si tratta di entità potenzialmente vulnerabili e soggette alle strumentalizzazioni degli strateghi dell'autarchia, i quali sono fortemente interessati alla possibilità di garantire un alibi storico-religioso alle proprie manovre, destinate al disinnesco, altrettanto retorico e propagandistico, delle operazioni etico-sociali della cristianità. Cosa ha a che fare tutto ciò con Andreotti? La risposta è che una buona parte della cristianità, l'Islam fondamentalista ed alcune componenti del Giudaismo, rappresentano per alcune importanti forze economico-finanziare dell'Occidente, un prolungamento spiritualistico dell'ideologia marxista. Tutti i leaders politici (laici o confessionali, giudei, cattolici, protestanti, sunniti o sciiti, non importa) che rappresentano formalmente un tale prolungamento, sono potenzialmente in pericolo, benché ciascuna delle confessioni religiose in questione disponga di un'identità esclusiva, tale da non poterla assimilare alle altre. Da qualche tempo Andreotti è sotto mira per quel che riguarda la Dc, ma non è escluso che personalità di altre forze politiche, assimilate sotto il profilo etico-sociale al precedente, non siano anch'esse sotto stretta sorveglianza in Europa. Su altri fronti che non siano strettamente laici non mancano forti aspirazioni etico-sociali, ma quel che non convince sono le strategie economiche ed internazionali, le quali risentono ancora di filtri che tuttora pregiudicano la comprensione delle dinamiche spirituali che hanno interagito con la cultura borghese dell'Occidente laico e liberistico, e che quasi certamente indurrebbero a schieramenti errati nel caso di conflitti bellici. Forse può esservi una soluzione che combini laicismo, socialità, riforme, democrazia e progresso, ma essa dovrebbe accompagnarsi ad una prudente riflessione circa l'ipotesi di una superpresidenza, il cui eventuale snaturamento comprometterebbe, alla pari di altre nefaste alternative politiche, ogni autentico valore civile per ritrovarci comunque sul terreno delle restaurazioni dei regimi a carattere totalitario. Alle elezioni di Aprile, gli italiani dovrebbero chiedersi se i candidati prescelti sarebbero disponibili a rinunciare agli incarichi politici nel caso in cui il loro mandato non venisse rinnovato. Le opposizioni alla democrazia in Italia tendono alla restaurazione della dittatura, e nella misura in cui se ne individueranno i protagonisti si comprenderà, in parte, l'origine delle opposizioni stesse. Penso che la comprensione sarebbe parziale perché vi sono altri motivi che si riferiscono allo scontro d'interessi tra paesi in competizione, pur facendo parte del sistema occidentale ed in linea con le nuove tendenze autarchiche. La tendenza dei paesi occidentali a spostarsi politicamente a destra, è dovuta anche all'imminenza di un crisi di leadership degli U.S.A., (il cui avvento non permetterà più il controllo della competizione per il dominio militare ed economico nel mondo) in parte a causa di un'ingiusta penalizzazione dei prodotti americani sul mercato giapponese ed europeo. Esiste il rischio che tra gli stessi paesi occidentali si verifichino gravi e reciproche interferenze, la cui gravità potrebbe giungere a tal punto da ritenere di dover essere affrontata da servizi segreti gestiti da governi nazionalisti e totalitari, ma formalmente tra loro alleati e facenti parte del medesimo sistema di mercato, fino al superamento della crisi da parte di una delle sue componenti, la quale si aggiudicherebbe il primato nel governo federale del pianeta. L'acuirsi del clima di sfascio in Italia contribuirebbe, da tale punto di vista, ad ostacolare l'avvento di un'Europa effettivamente federale, colpendo forse la maggiore tra le sue entità ispiratrici, la quale ha pure rappresentato il forziere di risorse e capitali per tutti quei faccendieri, lottizzatori e criminali che hanno sempre avuto tutto l'interesse di collaborare con i nemici interni ed esterni della democrazia italiana. Se una simile interpretazione degli eventi contemporanei è fondata, il recente assassinio dell'onorevole Lima in Sicilia riveste un significato che non si limiterebbe alla politica interna, nonostante la tendenza a spiegarlo in relazione ai nuovi provvedimenti contro la Mafia ed all'imminenza delle elezioni. Durante gli anni settanta si tendeva a spiegare il terrorismo in relazione alla politica interna. Sandro Pertini era convinto che i fatti italiani andavano spiegati in un contesto internazionale, così come si è potuto dimostrare all'indomani della caduta del muro di Berlino. E' indiscusso, intanto, che la Mafia sia un fenomeno internazionale e che in Occidente vi siano delle forze avverse alla democrazia italiana ed europea collegata al magistero cattolico ed ispirata alle encicliche sociali di Giovanni Paolo II, oppure di sinistra in genere, benché oggi si guardi con avversione più ai fondamentalismi religiosi che ai residui di marxismo. Forse colpendo nella maniera in cui si è fatto, si è voluto punire Andreotti per il suo protagonismo europeo, per certe sue affermazioni contrarie anche agli interessi di vecchi amici, per la sua adesione attiva alla dottrina etico-sociale del magistero cattolico, per la tiepidezza dell'adesione italiana alla guerra nel golfo, per il suo tentativo di facilitare l'obiezione di coscienza in vista di altri conflitti, e per il fatto ch'egli rappresenta, in definitiva, un grave ostacolo all'avanzata delle forze autarchiche, le quali invece sembrano oggi preferibili agli occhi di coloro che concepiscono la democrazia solo in quanto consenziente con i propri progetti di dominio. Se ciò è vero, le vicende e le sorprese non sono finite, perché, se i potentati occidentali, palesi ed occulti, sono agguerriti, determinati e sofisticati, non si pensi che il Cattolicesimo non sappia come affrontare coraggiosamente le sfide e le calamità della storia. E' stata prevista la caduta di tutti i fondamentalismi religiosi che esprimano un comportamento politico contrario ai progetti autarchici, ma la lotta sarà molto dura su tutti i fronti, perché è noto che per ambedue le forze è determinante vincere sia sul versante dei sistemi di produzione che nella battaglia dei mass media per assicurarsi il favore dell'opinione pubblica (si spiega la promulgazione di uno specifico documento del Magistero dedicato all'uso dei mass media). Quel che si teme infatti è l'eticizzazione dei processi logici dell'intelligenza europea, perché in tal caso si dovrebbe rinunciare sia all'autarchicizzazione dell'Europa che alla supremazia ed alla automaticità delle leggi di mercato del liberismo. Liberismo ed autarchia potrebbero allearsi strategicamente, per rimandare ad un secondo tempo le reciproche diffidenze, e tale alleanza determinerebbe prima la sconfitta dell'intera cristianità ed una nuova persecuzione d'Israele, ed in un secondo momento la traduzione in autarchia del liberismo, il quale cesserebbe di apparire come laico. Nel frattempo, l'europeismo di Andreotti potrebbe ottenere dei risultati e delle adesioni, (dovunque ed in particolare in Medio Oriente) che gli U.S.A. potrebbero non ottenere neppure con una seconda guerra nel golfo. Una recente dichiarazione della C.I.A., (il cui tempismo incuriosisce) ha fatto intendere la determinazione a difendere la supremazia degli U.S.A. su qualunque altra potenza mondiale e perfino sull'O.N.U. Certe dichiarazioni, dal carattere indubbiamente funesto ed inquietante, potrebbero però nascondere la paura di una crisi irreversibile, determinata dall'imminenza della federazione europea e dalla centralità dei paesi europei nell'area più strategica del mondo. Non si dovrebbe sottovalutare l'abilità andreottiana di combinare una risposta mista alle sfide subite, caratterizzata da simpatie e collaborazioni che vanno dall'Eufrate a Mosca, da Tripoli a Dublino, ed ancora oltre presso i vari continenti, procurando intese, progetti e distensioni tra popoli e culture che potrebbero favorire l'esportazione dell'europeismo, fino alla sua eventuale e futura riconversione in autarchia. La strategia cattolica per la caratterizzazione dell'Occidente ed il governo del mondo è estremamente sofisticata, utilizzando tutti gli strumenti diplomatici, strategici, culturali e religiosi di cui dispone. L'Europa è il campo di battaglia principale, perché è ormai chiaro che l'assetto del mondo e lo stesso destino degli U.S.A. dipendono dall'esito dei progetti di unità politica dei paesi europei e dal tipo di prevalenza ideologica che s'imporra sui relativi territori. Unità e cattolicità europea rappresentano il binomio fondamentale della strategia cattolica. Un simile capolavoro di diplomazia europea ridurrebbe gli U.S.A. ad una provincia ed edificherebbe il mercato più grande del mondo. Se certe previsioni sociologiche formulate sono attendibili, l'Europa federale non potrà essere fermata da nessuno. Al contrario essa dovrebbe poter unificare l'intero Occidente e produrre una leadership capace di governare sull'intero pianeta. Certi tentativi violenti di fermare un tale processo politico in Europa, non soltanto sono decodificabili e perseguiti secondo uno stile ed una tecnica inconfondibili, ma rischiano (questa volta) di ricadere sulle entità che li hanno promossi, versando altro sangue e rendendo più celere ed irreversibile la provincializzazione del potere ch'essi rappresentano. Per l'ennesima volta non si è trattato di una lezione di democrazia, bensì di un atto di notificazione dell'intenzione di fermare quei processi che, stranamente dispiacciono contemporaneamente sia a varie forze occulte e criminali che a taluni governatorati. Penso che Andreotti stia ricostruendo la dinamica dei fatti verificatisi recentemente, ai quali non mancherà di rispondere al momento opportuno, secondo moderazione ed efficacia: se si è voluto attaccare l'Europa, la risposta sarà sicuramente anche europea e non soltanto democristiana. L'assassinio di Lima è avvenuto a breve distanza dalla visita di Andreotti in Canada. Qual'è il significato di tale visita? Forse l'italianità all'estero rappresenta un cemento per disegni europeistici oltre che italiani? La coincidenza di tale visita con le campagne elettorali in Italia e negli U.S.A. può aver disturbato il sonno di qualcuno? Cosa implicherebbe la provincializzazione degli Stati Uniti e l'ascesa al potere di un Europa che nel frattempo sembra transitare dalla democrazia all'autarchia? Sarebbe eventualmente lecito, in gravi circostanze di crisi politica, coinvolgere i servizi segreti in tentativi brutali di conservazione del potere? Ammesso che l'Europa possa tradursi in un impero mostruoso e negativo, è lecito ed utile opporvisi? Andreotti forse potrà e vorrà rispondere soltanto ai primi tre interrogativi, su cui egli sta quasi certamente riflettendo, disponendo di maggiori dettagli, di impressioni e della conoscenza di circostanze, le quali nel contesto della sua esperienza, della sua prudenza e della sua sensibilità, spero possano condurre a risposte e soluzioni equilibrate. Forse i governi occidentali giungeranno alla conclusione che l'unica maniera per evitare contrapposizioni, consisterà nella creazione di una superfederazione di tipo occidentale che includa, oltre i paesi tradizionalmente occidentali, anche la Russia, i paesi europei facenti prima parte dell'U.R.S.S. il Giappone, Israele ed alcuni paesi arabi, adempiendo in tal modo quelle previsioni sociologiche che ho creduto di far scaturire dalle profezie apocalittiche, nelle quali non mi sembra di ravvisare la possibilità di una resistenza militare al Piccolo Corno: si tratterebbe di una situazione apparentemente ideale per la stipulazione di un patto di sicurezza e di pace con Israele. Penso che tutto ciò rappresenti un obiettivo di primaria importanza per Andreotti, il quale deve essere perfettamente consapevole delle necessità di coesistenza e pacificazione tra continenti ed in Medio Oriente, in particolare. In Medio Oriente vi sono materie prime, il cui controllo da parte di una potenza tecnologica significherebbe il dominio del mondo. L'europeismo è temuto anche per quest'ultima ragione, e ciò spiegherebbe la determinazione degli U.S.A. a penetrare stabilmente soprattutto nei paesi dell'area del golfo, in Libia, (dove l'Italia ritrova energia a buon mercato) in Israele, sul cui territorio potrebbe meglio pilotare il processo d'industrializzazione in Medio Oriente, ed in Egitto, dove altrettanto potrebbe essere fatto per l'Africa. Andreotti sicuramente conosce le conseguenze di un controllo statunitense del Medio Oriente, perciò egli opera da catalizzatore dell'unificazione politico-militare dell'Europa, e da attenuatore del coinvolgimento bellico nel golfo a fianco degli Stati Uniti, favorendo nello stesso tempo le relazioni diplomatiche specialmente con i paesi arabi della ragione, senza le quali non può verificarsi una penetrazione pacifica e proficua, ch'egli considera la più efficace, anche in vista di una soluzione della questione palestinese. Il diritto dell'Europa all'autodeterminazione va riconosciuto, ma anche i timori degli Stati Uniti e d'Israele dovrebbero essere compresi. Quel che ad Andreotti dovrebbe risultare utile, (così come ad altri uomini politici caratterizzati dalla conoscenza del testo biblico, quali ad esempio Valdo Spini) è la conoscenza di quegli aspetti teologici ed esegetici, i quali interagendo con l'apocalittica e l'escatologia, sono all'origine delle previsioni sociologiche e, dunque di quella tesi che sostiene il carattere profetico di un patto fallimentare di pace e sicurezza con Israele, (a partire da una possibile lettura esegetica di Dan. 9: 27) non necessariamente stipulato dal Piccolo Corno, ma da quest'ultimo eventualmente abrogato. Quest'ultima tesi dovrebbe prevedere la possibilità, a cavallo del patto, della transizione dell'Europa dal sistema democratico a quello autarchico. contemporaneamente ad estesi conflitti per il definitivo controllo internazionale. Se Andreotti può rappresentare la prima e positiva fase democratica dell'Europa federale, si deve anche comprendere che alcuni popoli nel mondo (maggiormente versati nelle discipline bibliche) temono lo snaturamento del vecchio continente nell'autarchia del Piccolo Corno, con gravissime conseguenze proprio per la cristianità (inclusa quella cattolica!), l'Islam ed Israele. Il diritto ad una reazione equilibrata da parte di Andreotti non può essere negato neppure dalle forze che non condividono appieno le sue strategie politiche, ma che nondimeno apprezzano i principi etico-sociali che sono alla base della sua vocazione politica, però la strategia europeistica che scaturisce dalle forze cattoliche e dalla relativa dottrina sociale, dovrebbe anche prendere atto del fatto che una sezione della teologia biblica, a cui essa ritiene di far riferimento, riguarda l'escatologia ed i pericoli derivati dall'avvento del Piccolo Corno. Per quanto riguarda l'esito delle elezioni del prossimo Aprile, penso che momentaneamente le destre dovranno accontentarsi di uno spostamento (sensibile ma non decisivo) dell'asse politico in loro favore, perché le forze centriste, della destra e della sinistra, moderate, risulteranno ancora necessarie al consolidamento dell'unità europea, dopodiché le tensioni politiche dovrebbero rendersi ancor più gravi, fino a segnare la fine della democrazia e l'avvento dell'autarchia. Le forze di estrema destra entreranno in iscena a pieno titolo soltanto quando l'Europa unita sara una realtà, in quanto oggi potrebbero contribuire a rallentarne il processo a causa del risorgere dei nazionalismi. Oggi gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed Israele (a torto od a ragione) sembrano preferire un'Europa divisa in nazionalismi litigiosi, ma quel che alla fine otterranno sarà una destra continentale e determinata a vincere ovunque e su chiunque, anziché semplicemente una destra francese o italiana che cerca di scompigliare le campagne elettorali, alleandosi a forze internazionali i cui metodi non promettono risposte molto eleganti. L'ipotesi di una balcanizzazione dell'Europa non ha alcuna speranza di realizzazione, perché gli europei vogliono l'impero anche nel caso in cui esso debba coesistere coi regionalismi delle leghe separatiste, ma comunque federaliste. Coloro che per ostacolare il processo di federalismo europeo e difendere così i propri interessi, sono convinti di dover sostenere le destre nazionalistiche, non fanno altro che approssimarne il suo avvento, nonché la transizione all'autarchia, perché l'obiettivo delle destre, in apparenza solo regionali o nazionali, è in realtà quello di ricostruire l'Impero. L'intero processo dovrebbe durare solo qualche anno, per coronarsi alla fine con il ridimensionamento e l'annichilimento (in alcuni casi) delle entità che ne avranno ostacolato la realizzazione. Il Vaticano potrebbe avere la vita difficile nei prossimi anni, perché è stato incluso tra i fondamentalismi politico-religiosi ostili. Quanto al Protestantesimo, i tempi della tranquillità stanno per finire, perché i primi fenomeni di oppressione stanno per iniziare laddove sono parte dei costumi e della cultura, a motivo di un risveglio politico-religioso (non senza divisioni e polarizzazioni interne) dovuto ad una maggiore percezione dei contenuti etico-messianici della propria tradizione, delle prime vere avvisaglie apocalittiche e degli indizi relativi all'ascesa al potere da parte del Piccolo Corno. Le cinque regole di Habacuc sembrano aver ottenuto molti riscontri negli ultimi tempi.

    Al 18 Marzo, 1992

    Le ipotesi relative all'indebolimento degli Stati Uniti, alle sue violente conseguenze politiche e sociali, alle tentazioni dittatoriali per evitarne la provincializzazione, ed al consolidamento di un'ordine mondiale fondato sull'economia del libero mercato, sembrano essere implicate negli articoli di Yedidya Atlas e di Paul Eidelberg, giuntimi stamattina da Gerusalemme. (257/b) Gli articoli s'ispirano soprattutto alla necessità di riflettere circa la posizione d'Israele ed il destino degli ebrei nel nuovo assetto del pianeta. L'Occidente viene incoraggiato all'elaborazione di una strategia comune di difesa ed all'adeguamento dei relativi piani in sintonia con Israele, ma si trascura il fatto che l'eventuale provincializzazione degli Stati Uniti determinerebbe una maggiore influenza europea in Medio Oriente, la quale si dimostrerebbe rigida e critica nei confronti sia degli arabi che degli israeliani fondamentalisti, i quali sono ritenuti responsabili ed ostili alla laicizzazione dell'intera regione. I rischi di attentato alla vita degli ebrei e l'ipotesi di una dittaura vengono confermati nell'articolo dell'Eidelberg, ma non condivido l'idea secondo cui l'eventuale collasso statunitense debba significare la frantumazione delle altre superpotenze.

    - Ore 15.41.

    Una nota dell'ANSA informa di un complotto contro uomini della DC, del PSI, del PDS e contro un eventuale presidente della Repubblica non gradito.Da qualche tempo Andreotti è sotto mira per quel che riguarda la Dc, ma non è escluso che personalità di altre forze politiche, assimilate sotto il profilo etico-sociale al precedente, non siano anch'esse sotto stretta sorveglianza in Europa: se tale affermazione potesse ritrovare dei riscontri, l'idea del coinvolgimento di servizi segreti di vari paesi in un progetto di destabilizzazione risulterebbe ancor più verosimile.


    22 Marzo, 1992

    Altra conferma dell'ipotesi (formulata su basi teoriche) relativa ad un piano di destabilizzazione su scala europea, è comparsa sui giornali odierni. Elio Ciolini, definito quale "pataccaro", il quale (a sentire il segretario del MSI Gianfranco Fini) avrebbe però fornito alla stesso Andreotti utili patacche a fini di potere. Fini ha reso noto una lettera che nel settembre dell'87 Elio Ciolini avrebbe inviato ad Andreotti, nella quale affermava di sé stesso quanto segue: "Un pataccaro, che però vi ha dato proprio quelle patacche di cui avevate bisogno, per frodare lo Stato, i beoti che vi danno voti e consensi, la pubblica opinione che, inutilmente, di tanti inutili e orribili delitti chiede di conoscere i colpevoli. Un pataccaro tanto poco pataccaro che voi lo pagate non già prima della consegna delle patacche, ma dopo che quelle patacche sono servite quanto meno a condurre in farsa una tragedia." Se le patacche servivano a frodare lo Stato ed i cittadini, oltre che a rendere inutile ogni richiesta di chiarezza sui delitti e sulle stragi, allora Ciolini doveva rappresentare un anello di congiunzione tra il potere in carica ed il potere occulto, la cui intesa sembra ora non funzionare, a causa della necessità di opporsi in maniera più decisa alle forze tradizionalmente illegali, benché collaborazioniste, ai fini della conservazione del potere od allo scopo di rendere più credibili le affermazioni di dipendenza nei riguardi della dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Non penso che le patacche ed i delitti siano una macchinazione delle stesse forze di governo, le quali, temendo una batosta elettorale, potrebbero essere interessate a spaventare gli elettori col rischio di una destabilizzazione, perché ciò significherebbe (specialmente per Andreotti) una notevole perdita di credibilità. Il messaggio della destra pataccara potrebbe voler suggerire che lo stesso sistema, il quale vorrebbe oggi eticizzarsi e riformarsi, deve riconfermare i tradizionali equilibri, per poter sopravvivere. Con la caduta dell'U.R.S.S. ciascuna delle componenti della sopradetta troica spera nell'alterazione degli equilibri a proprio vantaggio, a meno che non si riesca ad accordarsi circa un regime semidemocratico che accontenti momentaneamente tutte le parti in questione, giacché la sinistra europea, ed italiana in particolare, potrebbe rendere troppo salato il conto della spesa, la quale invece si vuole realizzare a buon mercato. Il motto di chi pataccaro ferisce di pataccaro perisce, vorrebbe essere didascalico, nel senso che si vuol render chiaro agli italiani che l'unica democrazia possibile è quella che progetta il governo con il consenso delle famiglie e degli amici tradizionali, piuttosto che quella affascinata da certi discorsi etico-sociali di una chiesa che lascia la via vecchia per una nuova e pericolosa. Il motto (ma non solo il motto) rappresenterebbe solo un consiglio amichevole agli italiani che non vogliono fare qualche sgarbatezza alle elezioni di Aprile: un semplice avvertimento di amici e patrioti che amano la pace e la tranquillità. Una decina d'anni or sono, Giulio Andreotti, di fronte alla prospettiva di riforme troppo rapide, paragonò la situazione italiana a quella di un mobile antico, pregiato ma tarlato, il quale può essere restaurato con accortezza, ma non rifatto. Giulio sembra voler respirare l'aria della dottrina sociale della chiesa, ma si ritrova a poggiare i piedi sul terreno di realtà umane che necessitano di equilibri macchiavellici, in assenza di una revisione profonda della sostanza antropologica dei sudditi come anche dei regnanti, la quale però sembra procedere oltre il punto in cui la spiritualità italiana e la dottrina sociale promulgata sembrano disposte a portarsi, giacché i fatti sembrano indicare che si vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Giulio può essere nel giusto nel credere che il governo va realizzato con il materiale umano di cui si può disporre, ma l'interrogativo da porsi consiste nel chiedersi quali siano le entità politiche e spirituali effettivamente determinate alla revisione della cultura antropologica, ancor prima di sovraccaricare i sudditi con formulazioni sociali che suonano alle loro orecchie come giaculatorie da recitarsi in chiesa, anziché quali condizioni per governare e coesistere. La DC ha governato con meriti e demeriti, assicurando, nello stesso tempo, sviluppo e corruzione politica, etica sociale ed asociale lottizzazione, ma ora si pone il problema di considerare altre ipotesi politiche, le quali presentino un maggior grado di risultati positivi, senza pregiudicare gli obiettivi autentici delle forze cattoliche, con le quali si può sempre coesistere (nella misura in cui le parti lo vogliono) e collaborare. L'ipotesi di un piano di destabilizzazione dell'Europa non è ancora stata posta chiaramente in relazione ad operazioni di servizi segreti di paesi soprattutto extraeuropei, ma il fatto che il quadro di riordinamento politico della destra europea e di accreditamento in Italia di un nuovo ordine generale sia stato deciso a Zagabria nel settembre del 1991, e che ciò sia stato rivelato da Ciolini, induce a porsi il medesimo interrogativo comparso oggi su Avvenire, a pagina 3: "Ma come faceva Ciolini a sapere della riunione di Zagabria? La risposta potrebbe trovarsi tra le carte del processo per la strage di Bologna. Parlando del depistatore i giudici lo definivano molto vicino a servizi segreti di paesi stranieri, francesi in particolare. E, guarda caso, sarebbero proprio personaggi della destra francese a tirare le fila della nuova internazionale nera in Europa." Quali siano i servizi segreti di paesi stranieri, e quali le ragioni dei piani di destabilizzazione, si può soltanto tentarne la previsione entro schemi teorici che rappresentino anche modelli e codici d'interpretazione della realtà contemporanea. Se i modelli e i codici utilizzati sono errati non si potrà neppure rispondere agli interrogativi che ci siamo posti. Quando però arrivano le conferme, codici e modelli s'impongono fino alla loro applicazione ordinaria. Nel nostro caso le previsioni tendono a costruirsi sulla base delle profezie messianiche ed apocalittiche, le quali c'informano dell'attitudine autarchica del Piccolo Corno e del carattere federale del suo potere.


    26 Marzo, 1992

    I telegiornali annunciano il disastro del bilancio dello Stato. Se la decisione dell'annuncio è destinata a convincere gli elettori che il rischio di sfascio può essere evitato soltanto assicurando i tradizionali equilibri di governo, potrebbe darsi che questa volta essa non dia i frutti sperati e che i responsabili della bancarotta non vengano rieletti. I politici della bancarotta godono però di sostegni elettorali solidi, in quanto si basano sulla logica della spartizione delle spoglie. Gli elettori che sostengono tali uomini dipendono da una logica diversa da quella del bene comune, perciò essi normalmente si chiedono non quanto ci rimetterà la Nazione in termini di spese fasulle, tasse capillari e fisco fazioso, bensì quanto ci ricaveranno in termini di collocazioni, appalti, posti, tangenti, contributi ed aiuti per lo sviluppo del Mezzogiorno, che è poi stato sviluppo della pancia e del proprio portafoglio, più che dei meridionali. Tra costoro v'è anche tanta retorica previdenziale ed adesioni strumentali alla dottrina sociale della Chiesa, (la qual cosa crea confusioni ed imbarazzo alle discipline etiche) giacché in tal maniera si può consolidare una strategia di potere che ha dimostrato una grande versatilità nel conciliare sviluppo, criminalità, speculazioni e conveniente funzionalità di un debito pubblico all'origine dell'arricchimento di molti e dell'impoverimento di tanti, il quale tra l'altro funziona anche come deterrente politico e si traduce in sintomo della possibilità di vedersi sottratti i beni culturali ed architettonici dello Stato da parte degli stessi che hanno già incamerato denari e territori che appartenevano alla Patria. Siccome si è trattato di un peccato contro l'altare della Patria e contro i principi etico-sociali della dottrina sociale della tradizione giudeocristiana, il contributo al rinnovamento della politica ed alle dimissioni dei politici mercantili, è un bene grato al Cielo, fatto a se stessi ed alla Nazione. I debiti dello Stato, è stato detto oggi dall'On. Fini, sono debiti dei partiti e non degli italiani. Francamente credo che ciò non sia distante dalla verità, perché, non dico tanto i partiti quanto piuttosto gli uomini politici corrotti, la cui professione principale è stata quella di trasferire denaro dalle casse dello Stato alla propria banca ed a quella degli amici, (spesso all'estero) con spese gonfiate o fasulle, sono stati ricorrenti. Ora l'annuncio suona come un ricatto, perché potrebbe voler dire che l'Italia può essere consegnata ad un nuovo governo in situazioni di sfascio. Si tratta dell'ennesima manovra sbagliata di chi crede di conoscere la psicologia degli elettori e la soglia della provocazione tollerabile, e che contribuisce a meglio conoscere la natura e la retorica del potere, il quale in Italia si pone per eccellenza come istituzione di spogliamento e di abuso, a conferma della consolidata opinione, secondo cui il governo dell'uomo contrista quando non umilia, trascura quando non annichilisce, consuma quando non opprime, adula o minaccia quando non uccide. Il governo dell'uomo è nondimeno necessario, e di tale necessità esso se ne fa conforto, almeno finché non si giunga all'avvento del Regno di Dio, quando le provocazioni ed i provocatori dei nostri giorni dovranno (purché righino dritto) perlomeno cambiare mestiere, e nel migliore dei casi imboscarsi nelle salumerie del palazzo, dove la loro avidità vi troverà l'atmosfera più congeniale od opportuna, per lasciare finalmente ad altri le faccende di governo.


    28 Marzo, 1992.

    L'intervento della stampa britannica nella campagna elettorale si è dimostrata un'ingerenza, perché l'invito di votare le opposizioni, più che apparire qualunquistico, ha riconfermato l'idea che certi alleati preferiscono lo sfascio italiano per garantirsi il controllo dei mercati, una competitività indiscussa, nonché l'affossamento dell'avanzato processo di unificazione del continente europeo. Specialmente l'ipotesi di una presidenza alla francese, interpretata da Craxi, da Andreotti, oppure da Spadolini, è temuta, perché significherebbe probabilmente un ultimo e definitivo passo per la realizzazione dell'Europa federale ed il suo consolidamento quale superpotenza industriale, già molto forte allo stato attuale delle cose. Si possono comprendere i timori degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, ma le manovre in atto non onorano la propria tradizione di chiarezza e democrazia, perché ad esse non si addice lo stile machiavellico tipicamente italiano. La stampa britannica dovrebbe piuttosto contribuire alla comprensione dei rischi e dei pericoli (oltre che dei vantaggi) dell'unificazione europea, perché gli italiani sono alquanto smaliziati in manovre di colonizzazione psicologica, avendo avuto a che fare per lungo tempo con politici esperti di questo e di altri settori. La ricchezza e la generosità delle doti britanniche è fatta per operazioni di gran lunga più elevate e complesse.


    30 Marzo, 1992.

    Non sono mancati gli appoggi della stampa statunitense alle menzionate ingerenze, sulla base della convinzione che all'italia gioverà un periodo d'instabilità. Non mancano in Italia forze e gruppi che perseguono la medesima strategia di divisione e sfascio della politica italiana. Bettino Craxi ha dimostrato, in occasione della odierna Tribuna Elettorale delle 22.15 sulla prima rete della Rai, di aver individuato l'origine dei gruppi interessati allo sfascio italiano. I chiarimenti di Carli al TG1 - Linea Notte delle 23.10, circa i recenti articoli dell'Economist (favorevoli all'avanzata della Lega Nord e del Partito Repubblicano e ad una situazione d'instabilità ai fini di un nuovo risorgimento) hanno reso espliciti i riferimenti al temuto processo di unificazione europea. Durante l'ultima presidenza italiana alla C.E.E., la quale portò ad un'ulteriore rafforzamento del processo di unificazione europea, l'Economist si dimostrò altrettanto ostile, e la Gran Bretagna volle scendere dall'autobus guidato dagli italiani. In tutto ciò vi è una conferma dell'idea di un coinvolgimento di forze occidentali nei fatti più recenti della politica italiana. Spero che certe forze protestanti non siano coinvolti nelle strategie di destabilizzazione della politica europea, perché l'Europa non è l'America Latina, dove impunemente si è preferito favorire le leggi di mercato piuttosto che la causa dei poveri e del Vangelo, (sovvenzionando e sostenendo regimi di violenza e crudeltà pur di riuscire nel proprio intento mascherato dal principio della libertà) e dove il sacrificio di Romero ha predicato più che l'ultimo milione di sermoni in circostanze di fasulli risvegli religiosi asserviti alla superbia dei potenti, sia a partire dall'ipertrofia dottrinaria di base per negare la sua destinazione etico-sociale, che viceversa: sia gli uni che gli altri della cristianità hanno solitamente interpretato i risvegli religiosi come occasioni di propaganda degli squilibri della propria tradizione ai fini di un potere, il quale, nonostante l'apparente diversità delle origini e dei moventi, sempre si somiglia e puntualmente mira dritto al dominio delle coscienze e delle menti. E' tempo che i maestri dell'Occidente capiscano che i discepoli sono divenuti più bravi nell'arte del comando. L'Europa darà prossimamente lezioni di edonismo reaganiano e non saranno le frustrazioni e gli infantilismi di certi maestri furbacchioni a cambiare il corso degli eventi. L'Europa unita si presenta quale adempimento delle profezie bibliche, e dunque quale impero destinato al controllo di una federazione occidentale, oltre che al dominio del pianeta. I maestri dell'apologia della violenza economica, all'origine di molte altre crudeltà quotidiane e della ricerca del potere ad ogni costo, dovranno prendere atto del fatto che le cinque maledizioni di Habacuc sono ancora attive. Se si vuole indicare agli europei i rischi di un'Europa forte ed unita, non si deve tentare di confondere la volontà di conservazione del presunto primato mondiale con le false premure risorgimentali nei riguardi dello Stato Italiano. L'Europa adempirà le profezie bibliche, ma i suoi alleati saranno stati i suoi maestri, perciò si presti attenzione a non farsi travolgere dai futuri ed irresistibili eventi. La visita in Russia del Presidente Cossiga deve aver chiarito l'impossibilità delle destre di accedere in breve al governo dell'Italia e dell'Europa. Se altri desiderano lo sfascio strumentalizzando le destre, il programma di quest'ultime concerne il governo dell'Europa e non semplicemente i potentati locali: si preferisce perciò che a sfasciarsi siano i catalizzatori dello sfascio europeo, a costo di un prolungamento di vita delle forze democratiche e di una partecipazione delle sinistre al governo, per riproporre più tardi il programma autarchico. Le destre europee non sono poi così ingenue ed asservibili come si è sperato. Sono le destre invece a servirsi dei catalizzatori dello sfascio, ai fini della rinascita imperiale dell'Europa e non della sua balcanizzazione. Oggi sembra confermata l'ipotesi di una partecipazione del PDS al governo. Le destre dovrebbero comunque registrare un'avanzata alle elezioni d'Aprile, ma esse dovranno ancora attendere per governare, perché la casa comune europea non è ancora pronta per trasformarsi in casa comune europea autarchica ed apocalittica.


    31 Marzo, 1992.

    Il leader del PDS ha spiegato alla Tribuna Elettorale odierna delle 22.15 sulla prima rete della Rai, l'irragionevolezza del debito pubblico accumulatosi, e spiegando quale sia stata la gestione clientelare dei più recenti 33.000 miliardi, è divenuto chiaro che l'Italia è il bel reame dei furbacchioni. Oggi il PDS rifiuta la possibilità di entrare a far parte del prossimo governo, però, così come il Presidente Cossiga si è convinto della saggezza di un'apertura a tale eventualità, ai fini del prolungamento della democrazia, è probabile che Achille Occhetto giungerà presto alle medesime conclusioni. Comunque vadano le cose, le destre dovrebbero (da un punto di vista teorico) crescere e le sinistre non saranno un problema quando i tempi dell'autarchia arriveranno, perché i nomi, i simboli e gli schieramenti (al centro, a destra ed a sinistra) dei partiti non avranno più senso, tanto sarà permeante ed unificante il nuovo ordine mondiale. Il nuovo ordine sarà apolitico e tecnico, senza destre e sinistre formali, ma pur sempre riconducibile alle precedenti esperienze autarchiche. Il nazional-socialismo dovrà tradursi in internazionale, ma questa volta il liberismo e le leggi di mercato dovrebbero svolgere una funzione decisiva per il suo sviluppo. Il fatto che il compromesso storico venga ora preso ufficialmente in considerazione, suggerisce che le stesse destre ed i loro mecenati si sono resi conto che non è ancora il momento per governare, benché siano prossimi i tempi dell'autarchia.


    2 Aprile, 1992.

    L'iniziativa di George Bush circa un minipiano Marshall per il CSI, a differenza di certe altre manovre sleali, rappresenta una vera risposta alle tendenze di eurocentrismo, benché gli americani non siano i soli a parteciparvi. Non credo che il progetto contribuirà all'egemonia anglosassone, perché gli europei continentali sono avvantaggiati sia politicamente che geograficamente. Similmente la politica della carota e del bastone, (a prescindere dalla possibilità della sua giustizia) in Medio Oriente contribuisce a collocare l'Europa in una posizione di maggiore forza e credibilità nei confronti dei paesi arabi.


    29 Maggio, 1992

    L'esito delle elezioni d'Aprile ed il tempismo di Francesco Cossiga nel dimettersi dal suo incarico presidenziale, hanno determinato una tensione politica che ha fatto sperare prima la destra, poi la sinistra, ed infine evidenziato (come previsto) un processo di divisione nella DC. Da Maurizio Costanzo a Michele Santoro, da Enzo Scotti a Claudio Martelli e Giuliano Ferrara, insieme a tanti altri, si è cercato di capire la dinamica dei recenti fatti politico-mafiosi. Un'affermazione ritenuta pesante, (e perciò da me cancellata dal testo della versione di Aprile, consegnata a Stefano Woods) si dimostra ora del tutto opportuna e contribuisce a suggerire che la dinamica all'origine dei fatti luttuosi degli ultimi giorni è politica e si riferisce relativamente al generico e sempre calibrato tentativo del governo di liquidare la Mafia, piuttosto che al sensibile spostamento a destra di tutti i partiti politici occidentali, il quale è pure contemporaneo all'irrigidimento del mondo produttivo su posizioni supercapitalistiche: "...oramai certi uomini di sinistra, tra gli altri di sempre, sono di una versatilità straordinaria nel collocarsi a piacimento tra Mussolini e Garibaldi, e caratterizzati dalla volubilità tipica di chi si concede ai potenti di turno per rimpiazzarli, facendo ricorso a qualunque mezzo ed alla prevaricazione delle regole democratiche e costituzionali di cui si fanno maestri ed ambasciatori." L'impossibilità dei numeri per l'elezione di un presidente di destra, l'eterogeneità delle sinistre e la polarizzazione della DC, ha indotto qualcuno ad approfittare della circostanza per assicurarsi qualche vantaggio, nella speranza di provocare (nel migliore dei casi) uno slittamento ulteriore verso destra, ed ottenere (nel peggiore dei casi) la paralisi del programma antimafia e del processo antitangente innescato da Di Pietro, grazie al quale si sta dimostrando fondata la tesi secondo cui il debito pubblico è almeno pari ai denari che la maggioranza dei politicanti e dei loro appaltatori hanno intascato e portato in buona parte all'estero. E' lecito diventare americani o svizzeri, ma non portando all'estero i denari dello Stato. Non è escluso che per pagare il debito pubblico si farà ricorso alle solite mistificazioni, e quando più o meno i soliti avranno versato per l'ennesima volta i denari per pagari i debiti dello Stato, si saranno probabilmente prodotti nel frattempo nuovi buchi a motivo dei milioni di ratti presenti nel Belpaese e si chiederà la svendita del patrimonio pubblico, la privatizzazione dei servizi ed infine la riforma costituzionale in un senso autarchico. E' scontato dove si vuole arrivare e quando ci si cimenterà di fatto a riformare la Costituzione mancherà un tempo limitato all'instaurazione di una dittatura supercapitalistica. Forse si otterranno alcuni successi contro la Mafia, ma le forze schierate in campo sembrano teoricamente destinate a creare molte altre vittime illustri specialmente in campo cattolico, ma anche tra i laici che si opporranno all'avanzata delle forze oscure dell'autarchia. Sommando onorevoli di Mafia e tangenti, il moribondo che non si riusciva a seppellire è stato rimesso in piedi, però zoppicante verso destra e trascinato dalla sinistra, nel timore che un radicale tentativo di seppellimento potesse poi significare più che uno zoppicamento a destra, col risultato di un'anticipazione di una breve fase della già prevista collaborazione con il PDS. L'uccisione dell'On. Lima ha probabilmente indicato che si è decisi a promuovere lo spostamento dell'asse politico italiano a destra, per cui sia la Mafia che la politica devono ridisegnarsi e rapportarsi l'una all'altra secondo nuovi schemi e tali da non contraddire il nuovo corso. Se quanto detto precedentemente a proposito dell'uccisione dell'On. Lima è stato correttamente interpretato, dovrebbe esser chiaro che non si è voluto, a pieno titolo, attribuire l'omicidio ai servizi segreti, anziché alla Mafia. Se si rileggono alcune parti degli inserimenti precedenti, si noterà che non si è trascurata l'evidenza di uno scontro tra poteri mafiosi in relazione alla tradizionale partecipazione delle famiglie alle elezioni, così come non è stata ignorata la relazione quarantennale del potere politico con poteri illegali, senza però concludere che non vi siano stati ripensamenti e pentimenti da parte d'importanti uomini politici, i quali, di fronte all'acuirsi dello scontro tra poteri illegali ed etica sociale e democratica, non hanno voluto e potuto aderire ad un'ulteriore aggravamento del livello di criminalità ed illegalità politico-mafiosa. E' possibile anche che di ripensamenti ve ne siano stati pochi e che invece le punizioni siano state provocate dai comportamenti poco grati alle forze alleate durante il conflitto nel Golfo Persico. Se si è pensato ad una partecipazione dei servizi segreti, è stato a motivo di certe circostanze internazionali, di precedenti precisi e del tutto affini, di ammonizioni e minacce in codice, comparse sulla stampa nazionale ed estera, di cui si deve tener conto, come del contesto che caratterizza lo sfondo degli eventi storici. Alla vigilia delle elezioni di Aprile si minacciò l'uccisione di un eventuale presidente della Repubblica, ingrato. Quando però si dovette prendere atto dell'impossibilità di un'immediato superamento delle tradizionali forze di governo, e dell'inevitabilità di una presidenza della Repubblica di stampo conservatore ed ancorata alla Costituzione, è probabile che si sia puntato tutto sulla stipula di un compromesso che (in cambio del benestare ad una presidenza di transizione) tendesse a congelare la cosiddetta Superprocura Antimafia e le indagini volte a ricostruire le connessioni tra Palermo, Milano e le banche svizzere, col risultato di uno scandalo finanziario non soltanto a Lugano ed in Europa, il quale avrebbe evidenziato i legami tra politica, criminalità, poteri e servizi occulti. La definizione di mafiosità andrebbe certamente estesa ben oltre la Sicilia, benché si possa parlare di più livelli prevalenti, a seconda della zona, dell'attività e della tipologia criminale. Quando l'obiettivo è la destabilizzazione di un governo, oppure l'eliminazione di un'entità che minaccia la propria volontà di dominio, la collaborazione con la criminalità non è un problema. Giovanni Falcone è stato ucciso dalla Mafia, ma non soltanto dalla Mafia. Giovanni Falcone non era un uomo in gamba, bensì un costruttore della Patria: per questa ragione era candidato ad essere immolato quale capro espiatorio. Si è voluto proporre l'ipotesi secondo cui i servizi segreti, non solo italiani, si sono resi permeabili a forze illegali, allo scopo di conservare o promuovere un potere che non è conforme né alla costituzione nazionale, né al diritto internazionale che regola le relazioni tra paesi occidentali alleati. La fine misteriosa di Enrico Mattei o l'assassinio di Aldo Moro non sembravano in relazione con la Mafia, né tanto meno coi servizi segreti. Il fondatore dell'Eni era però scomparso alla vigilia di grandi prospettive industriali per l'Italia: accordi con l'Algeria per il petrolio del Sahara entro quindici giorni; l'incontro imminente con Kennedy alla Casa Bianca ed un contratto con la Esso subìto dai paesi che allora detenevano il controllo energetico mondiale. Troppe coincidenze! E' più credibile la versione dell'ex agente Kgb Leonid Kosolov, secondo cui "il cartello delle Sette sorelle e la Cia" incaricarono "Cosa Nostra e la Mafia" di eseguire l'attentato. Se ciò è vero, è difficile credere che Kennedy fosse al corrente della decisione di eliminare Enrico Mattei. Evidentemente non si voleva il decollo economico e la partecipazione dell'Italia al potere internazionale. La maniera migliore per gli U.S.A. di prevenire un'eventuale minaccia economica da parte dell'Europa, è quella di adoperarsi per l'autentica democrazia, lo sviluppo e la civiltà dei popoli. Se non sarà così, allora le profezie relative al Piccolo Corno, che ci si aspetta per l'Europa, potrebbero benissimo adattarsi agli Stati Uniti, giacché in ambedue i casi il carattere occidentale della quarta bestia non verrebbe compromesso, benché lo scenario europeo si presenti più verosimile e compatibile con le profezie apocalittiche. Se gli americani desiderano il primato apocalittico in quanto fondamentalmente europei, non è impossibile che vengano esauditi, e forse George Bush potrebbe rischiare di dimostrarsi utile in tal senso, benché abbia iniziato il suo mandato presidenziale all'ombra di Billy Graham e dichiarandosi protettore dei poveri. Si è già discusso altrove del carattere occidentale del Piccolo Corno, ma ci si è pure provati ad escludere che la bestia dalle dieci corna rappresenti esclusivamente l'Europa riunificata, per il fatto che le categorie bibliche sembrano procedere in questo caso secondo criteri etnologici più che nazionali. In altre parole ci si dovrebbe attendere oltre alla riunificazione dell'Europa, anche una federazione occidentale. L'idea che il processo di unificazione europea ed occidentale debba conservarsi o dimostrarsi, in tutte le sue fasi, democratico, potrebbe rivelarsi una vana illusione, perché la sua destinazione autarchica dovrebbe pur potersi ravvisare nei suoi documenti programmatici e costituzionali. E sono proprio le forze autarchiche già operanti che hanno l'interesse ad indebolire la vita democratica e mettere fuori gioco quelle istituzioni che ancora perseguono fini di giustizia sociale incompatibili con quelle regole più sfrenate del Capitale, le quali sembrano esigere sempre più sproporzionati termini di profitto per le loro speculazioni, e che avversano il disegno di un'Europa sociale che non sia il paradiso dei banchieri più superbi. Sempre più per pochi, fare soldi a tutti i costi è un reato dei più gravi, perciò gente come Di Pietro rappresenta l'altra faccia della medaglia della medesima battaglia all'origine della morte di Falcone. L'F.B.I. sta collaborando alle indagini sulla strage dell'A 29, nella quale sono morti Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti di scorta. Si conoscono le famiglie dominanti della criminalità organizzata (Cosa Nostra, Camorra, 'ndrangheta), il numero degli affiliati (25.000), il giro d'affari (50.000 miliardi di lire) ed il numero dei voti direttamente controllati nel Mezzogiorno (almeno un milione, pari al 10% del corpo elettorale). Si conoscono le aree d'influenza ed i collegamenti internazionali. Cosa Nostra presenta un più accentuato carattere internazionale (Stati Uniti, Canada, Brasile, Venezuela, Colombia, Ungheria, Turchia), e rappresenta la componente mafiosa maggiormente indiziata quando si tratta d'ipotizzare connessioni con la politica e poteri interessati alla destabilizzazione dello Stato. La Mafia non si fa scrupolo di colpire gli uomini che rappresentano lo Stato, come e quando vuole. Le famiglie però, benché conosciute, godono di tutte le prerogative costituzionali, oltre a quelle che travalicano la legalità. Il codice di guerra in uso è alquanto strano, specialmente perché si riferisce a uomini d'onore: da una parte la legge dei magistrati e delle scorte indifese, dall'altra il tritolo. Tutto ciò è risaputo! Le indagini degli inquirenti dovrebbero procedere all'acquisizione dei dati e delle informazioni in possesso di Giovanni Falcone al momento della strage, nonché alla conoscenza dei legami tra Mafia, politica ed economia, il che significa, per l'appunto, operare nell'ambito di una struttura antimafia subordinata ad una superprocura, alla cui direzione forse è meglio nominare due o tre uomini affidabili ed affiatati, anziché uno solo, in maniera da evitare strumentalizzazioni, pressioni, perdita di dati e paralisi dell'intera struttura qualora si verificassero altre stragi, così come è purtroppo prevedibile. Si apre una fase di lotta serrata tra forze rivali e modelli alternativi di potere, il cui esito forse è meglio tacere: la lotta è necessaria, ma Falcone non è né il primo né l'ultimo della numerosa schiera dei martiri della Nazione. Non si vuole dire che istituzioni politiche e Mafia coincidano e che esista un accordo formale tra quest'ultima e taluni servizi segreti, ma l'uso strumentale che l'una entità fa delle altre, ritrovandosi consenzienti su comuni obiettivi è proprio quello che diverse circostanze inducono a pensare. Che la Mafia abbia un progetto politico è scontato, così come parti imponenti della politica che conta ha progetti mafiosi, col risultato che tangenti, spese pubbliche gonfiate, appalti falsati rappresentano una dimensione di vulnerabilità e disfacimento della vita democratica, parallela all'esigenza di reciclaggio del denaro sporco ammucchiato dai colleghi mafiosi: si parte così da esigenze apparentemente diverse per collocarsi allo stesso tavolo di trattive per il dominio della scena politica all'indomani della sconfitta della democrazia. Grandi uomini della politica, della finanza e dell'industria che non soggiacciono a tali manovre non mancano, ed il disfacimento non sembra ancora così scontato, ma temo che i pericoli per costoro cresceranno fino a passare dal tritolo ai magistrati all'eccidio diffuso di potenti intransigenti. Giovanni Spadolini sembra conoscere profondamente i motivi spirituali che caratterizzano la crisi politica internazionale in atto e che concernono direttamente lo scontro ideologico tra le ideologie dell'autarchia, l'Ebraismo ed i suoi autentici derivati. Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica, rappresenta il cattolicesimo più integro e determinato, capace di laicismo nonostante la sua palese e talvolta prorompente confessionalità. Forse si apre una fase di scontri che significherà perdite illustri, specialmente sul versante cattolico, prima che il nuovo corso della politica occidentale si consolidi su posizioni ben poco compatibili con gli ideali costituzionali ed i valori democratici ed etico-sociali. In un clima di conflittualità civile e politica, l'Europa e l'Italia in particolare, esigono una risposta compatta e coordinata della cristianità nel suo complesso, ma temo che anziché produrre compattezza e coordinazione, essa si ritroverà ad assistere alla migrazione del Cristianesimo dall'Europa. Nella riscoperta delle sue radici ebraiche e della sua affinità (se non identità) col Giudaismo, il Cristianesimo potrebbe trovare il giusto codice e la base ideale per ritornare ad una comune identità ecumenica, senza sacrificare la rivelazione biblica, la quale rischia costantemente l'addomesticamento, allo scopo di adeguarla ad interessi e strategie confessionali di supremazia, i quali in nome del pluralismo e del praticismo di una sedicente semplicità religiosa, promuovono un'unità fittizia che non risolve le fondamentali diversità teologiche. L'autentico ecumenismo non permetterà a nessuna delle chiese cristiane di riuscire in manovre propagandistiche, in retoriche pseudoecumeniche ed in strategie di primato. Il ritorno della cristianità alla chiesa primitiva di Gerusalemme implica la disponibilità ad abbandonare le proprie scatole dogmatiche per ritrovarsi a condividere l'unità della fede, i cui contenuti dogmatici non sono integralmente rappresentati da nessuna delle confessioni religiose oggi attestate sul pianeta. Il tempo in cui il Cristianesimo (inteso quale messianismo ebraico) abbandonerà le coste d'Europa potrebbe non essere così lontano. Quanto agli ebrei sparsi per il mondo, chiunque non voglia rischiare l'esclusione dalle profezie del ritorno in patria e ritrovarsi vittima di nuovi nazismi, farebbe bene a discernere i segni dei tempi, onde evitare avventure di ritorno fuori tempo in Israele.


    4. Il governo dell'uomo

    La determinazione del profetismo e dell'apocalittica a confermare la sovranità di Dio sullo Stato, così evidente nel libro di Daniele, tanto da indurre re famosi dell'Antico Oriente a riconoscere che "Dio regnerà per sempre, il suo dominio non avrà mai fine"258 è andata gradualmente affievolendosi nella misura in cui il potere laico ha saputo promuovere un modello culturale disancorato dai fondamenti etico-messianici, pur permettendo ed anzi favorendo quelle nozioni della religione che, disancorate dal loro originario contesto, non determinano l'adeguamento alle sollecitazioni teocratiche precorritrici di un'era messianica. Ogni tentativo di ricercare nei testi sacri gli argomenti che si prestano alla riduzione dell'influenza dei principi teocratici sulla vita politica ed economica non tiene conto della semplice ed ineluttabile evidenza della sovranità di Dio, intesa quale archetipo universale e funzione irriducibile della spiritualità monoteistica nel suo insieme e di quella biblica in particolare, benché l'Islamismo, al contrario del Giudaismo e del Cristianesimo, (i quali accusano i segni marcati dell'addomesticamento subiti da parte del potere laico a partire dalla riforma protestante) si dimostri più conservatore a questo riguardo. Fernando De Angelis ha ricordato che, almeno dieci delle tredici nazioni che oggi detengono il primato della ricchezza procapite, sono protestanti.259 La ricchezza procapite non dimostra in sé l'origine etica o la superiorità dei paesi protestanti. Si ammette che il laicismo dello Stato non è incompatibile con il carattere teocratico della Chiesa, il quale, anzi, favorisce la coesistenza delle ideologie, ma non se ne può parlarne come se rappresentasse l'ideale biblico e l'origine di una civiltà spirituale. Laicismo e democrazia hanno carattere strategico e provvisorio, e comunque non si dovrebbe abusarne fino a laicizzare quelle entità che sono invece confessionali e teocratiche per vocazione. Il rischio consiste nell'adeguare sistematicamente la comunità religiosa ai principi del liberismo laico, i quali valgono invece per lo Stato, con il risultato, sempre più ricorrente, di chiese trasformate in clubs di egoisti confederati. Se le scelte protestanti, indicate di seguito, dipendessero da moventi etico-messianici e fossero come tali spiegate e comprese, è probabile che si risparmierebbe al Protestantesimo la triste, controproducente e patetica immagine di religione aristocratica e superspecializzata in oppressione economica:

    1. Borghesia come classe sociale portante (al posto di clero e nobili).

    2. Parlamento come organo di governo principale (al posto della monarchia assoluta).

    3. Libertà e stimolo per la scienza (al posto dell'ingabbiamento di essa - vedi persecuzione di Galilei).

    4. Manifestazione nella vita pratica dell'impegno religioso e stima della prosperità onestamente raggiunta e goduta (al posto dell'esaltazione della povertà e della penitenza).

    5. Istruzione di tutto il popolo e uso generale della lingua volgare (al posto dell'uso del non più compreso latino).

    6. Maggiore importanza data alla sostanza e alla pratica (rispetto alla valorizzazione della forma e della teoria).

    7. Maggiore diffusione e accettazione del principio di libertà: di coscienza, di culto, di parola... (al posto del rigido controllo dell'Inquisizione).

    8. Netta separazione delle sfere d'influenza tra lo Stato e la Chiesa e grande stima delle autorità politiche (al posto della continua lotta e critica da parte delle autorità cattoliche nei confronti delle autorità civili).

    Nel tentativo di consolidare l'idea secondo la quale "sola fede, sola grazia, sola Bibbia = prosperità protestante", De Angelis ricorda che Benedetto Croce "ha definito la dottrina della salvezza per sola fede come un grande accrescimento, forse il più grande che si sia mai avuto nei secoli, della coscienza morale dell'umanità." Proviamo però a chiederci: sola fede, sola grazia, sola Bibbia, (entro il contesto etico e teocratico che è loro congeniale) = prosperità protestante = indiscriminato liberismo economico? La titubanza o la resistenza nel rispondere è un indizio che la medesima prosperità sia almeno in parte la conseguenza dell'uso improprio che il laicismo economico-politico ha spesso fatto della dottrina biblica della giustificazione per fede, favorendo una formazione culturale e religiosa inconsapevole od estranea nei riguardi della struttura etica e teocratica del messaggio biblico e facendo anche ricorso "alla maggiore importanza data alla sostanza e alla pratica... rispetto alla valorizzazione della... teoria", senza la quale però la conoscenza teologica non è capace di risalire dalle dottrine fondamentali ai suoi principi generali ed universali. Il praticismo contrapposto alla teoria riduce la ricerca scientifica a specialità che non coglie più l'organicità interdisciplinare e la sua origine dalla speculazione metafisica e filosofia. Un tale tipo di praticismo giunge oltre che alla "netta separazione delle sfere di influenza tra Stato e Chiesa", alla separazione tra scienza e fede, tra politica e religione: il pragmatismo che riduce la sostanza alla concretezza, la teoria alla pratica, per poi smarrire sia il senso della sostanza che quello della pratica nel coinvolgimento della presunta "liberazione dalle ideologie, dai loro deliri di onnipotenza, dai sensi di colpa che creano, dai rischi di violenza che sempre comportano", dall'abbandono dell'ideale "di un possibile punto di vista assoluto sul mondo e la storia"260 ed alla fine dalla stessa fede biblica e dei suoi contenuti etici e messianici che questa comporta. Non è forse l'eccessiva praticità evangelistica che dopo aver stabilito nuove chiese locali ne determina in molti casi, a distanza di decenni, l'estinzione per aver trascurato la conoscenza sistematica, teorica e storicizzata della teologia biblica? Non si può pretendere che tutti i cristiani siano dei teologi, ma è ormai chiaro che molte deformazioni e disfunzioni della chiesa e dei suoi ministeri dipendono dall'eccessivo ed emotivo praticismo e dall'incapacità di risalire alle grandi questioni teoriche della spiritualità biblica. Semplicità, spiritualità e conoscenza critica non sono tra loro in contrasto, ma finiscono spesso per essere pregiudicate in favore di una praticità religiosa, la quale è praticamente inadatta a comprendere e promuovere le vere questioni della religione. Il processo di corruzione sistematica dell'etica biblica è prevedibile nella misura in cui i principi teocratici e la sovranità di Dio non animano più la condotta politica e l'annuncio del Kerigma, nonostante quest'ultimo possa apparire integro nella riduzione soteriologica che il pietismo rischia costantemente di praticare, mettendo a repentaglio l'autenticità ed il ruolo che la fede biblica è chiamata a svolgere presso le nazioni: l'annuncio profetico della salvezza e delle istanze teocratiche che fanno seguito al riconoscimento della sovranità di Dio, mirando all'attenuazione delle già menzionate maledizioni di Habacuc, in attesa di un loro definitivo disinnesco con l'avvento dell'era messianica. Le Assemblee dei Fratelli in Italia, rappresentate dalla citata rivista che ha pubblicato l'articolo di Fernando De Angelis, hanno usufruito di alcuni contributi, ad opera specialmente di personalità riformate, utili ad illustrare alcune nefaste conseguenze per il pensiero teologico, dell'adesione al pietismo, i cui benefici per le dottrine fondamentali e la fede vengono comunque riconosciuti.261 Tra i contributi riformati rivolti al mondo evangelico in favore del recupero dell'etica messianica e teocratica derivata dalla nozione relativa alla sovranità di Dio, oltre quello già citato di Pietro Bolognesi, il quale ha operato specialmente in seno alle Assemblee dei Fratelli262, è l'appello di Henri Blocher all'Alleanza Evangelica Italiana: "L'appello che ci viene rivolto è di lasciarci dominare dalla realtà della signoria di Dio, che è Padrone di tutto. Dobbiamo vivere un Cristianesimo intero: credere cioè, molto di più di quanto non abbiamo fatto, al tutto è vostro detto dall'apostolo Paolo."263 Che le dichiarazioni di Blocher siano state concepite come opposizione all'idea pietistica della divisione dei regni, (secondo cui la chiesa non deve occuparsi del governo del mondo, esagerando il ruolo di dominio del Maligno sull'umanità fino a compromettere la nozione della sovranità divina) ed ai fini del consolidamento del pensiero teocratico e dell'annuncio profetico della dipendenza dello Stato dal governo di Dio, ("il quale è Signore di tutti i regni... stabilisce chi deve essere re e può innalzare anche il più povero degli uomini")264, risulta dalla determinazione ad essere all'offensiva in tutti i campi contro lo spirito che agisce al presente nei figliuoli della ribellione: "Significa rifiutare di lasciare a questo spirito il benché minimo spazio, perché tutti i campi appartengono a Dio... Ho detto in tutti i campi... Penso alla letteratura, alle scienze, alla filosofia e anche alla politica. Si dice che la politica è l'arte del male minore. Se è così essa ha certamente bisogno della luce della rivelazione biblica a riguardo dell'uomo, affinché all'uomo venga fatto il minor male possibile."265 La diffidenza del mondo evangelico nei confronti dei fedeli che si occupano di politica è forse il prodotto della semplicità (benché intruppata) della maggioranza degli evangelici, ma finisce per procurare disagio ed isolamento: "... Io conosco dei cristiani evangelici impegnati in questi campi, in particolare degli artisti, che, invece di sentirsi sostenuti e incoraggiati dalla propria chiesa, hanno piuttosto l'impressione di essere sospettati dai loro fratelli. Non dovrebbe essere così, perché quello al quale siamo chiamati è un Cristianesimo integrale in tutti i campi."266 La concezione teocratica di Blocher conduce, come è naturale e prevedibile, ad un atteggiamento apocalittico, escatologico ed etico-messianico: "Il nostro carattere distintivo alla fine del XX secolo deve essere dunque quello di avere il coraggio, nel nome di Dio, di fare il più ampio uso di tutte le risorse dell'eredità della nostra salvezza. So bene che questa impresa ci costerà più di quanto non costino le strategie... Gli sforzi fatti in questo mondo nel nome del Signore sembrano vani. Lo dice anche il servitore dell'Eterno nel cap. 49 di Isaia, vers. 4: Invano mi sono affaticato, invano ho esaurito le mie forze ma aggiunge tuttavia la mia opera è presso l'Eterno. Direi che non c'è nessuno che avendo abbandonato per amore di Gesù le facilità del conformismo nell'arte, nella letteratura, nelle scienze, nella filosofia, non possa ritrovare il centuplo in questo secolo - anche se con persecuzione - e nel secolo a venire vita eterna. Perché agendo in questo mondo, secondo il senso stesso del nostro Cristianesimo evangelico, Cristianesimo coerente e quindi integrale, noi affretteremo il giorno in cui la signoria di Cristo si manifesterà in tutti gli aspetti di questa vita. Il giorno invocato dal nostro testo dell'epistola di Pietro in cui la stella del mattino si leverà nel nostro cuore. Amen"267 Che il progetto teocratico di Blocher incontri le resistenze del mondo laico è probabile, ma quel che sorprende è che alcune entità, in teoria affini al messianismo della tradizione giudeocristiana, si dimostrino nella contingenza acerrimi nemici dei valori del regno per schierarsi a favore delle corruzioni dell'etica politica ed economica, e che, invece, imprevedibili componenti del mondo laico si dispongano prima al dialogo costruttivo ed alla condivisione degli strumenti necessari alla ricerca scientifica, senza pregiudizi confessionali, ed in un secondo momento al riconoscimento ed al sostegno di tutti quei valori animati dall'amore per l'uomo e per la verità. Quando Blocher invita a rifiutare lo spirito degli uomini ribelli, per non lasciargli spazio, ci si deve chiedere se il territorio di tale operazione non sia in molti casi la cristianità stessa, anziché indiscriminatamente il mondo. Tutto ciò induce a credere che gli schemi confessionali, nell'individuazione delle entità avverse al regno di Dio, possano risultare il molti casi inadatti, e che l'opposizione al messianismo teocratico ed apocalittico sia talvolta celato proprio laddove si presume che vi siano ortodossia ed aspirazione alla verità, magari servendosi della teocrazia per affermare interessi che nulla hanno a che spartire con il regno di Dio ed ostacolare quelle entità che non portano la propria etichetta.


    a. Alcuni fraintendimenti della teocrazia

    Si è sostenuto che l'idea messianica contenuta nella profezia ebraica non sia originale, essendo attestata fin dai tempi dell'Egitto feudale nelle predizioni del sacerdote Neferrohu e nelle affermazioni del saggio Ipuwer.268 Entrambe prospetterebbero l'avvento di un re-salvatore capace di eliminare l'ingiustizia ed instaurare un governo ideale. Nondimeno è stata riconosciuta la particolarità del contributo del Giudaismo al pensiero politico: "it conceives of the whole nation in its national organization as the religious unit and requires us to think not of the faith and obedience of individuals but of the faith and obedience of a nation as expressed in the functions of national life."269 Secondo la teoria giudaica, lo Stato esiste per rendere un servizio a Dio, ma quando si rifiuta di farlo esso viene sottoposto al giudizio divino.270 E' in questo senso che lo stato giudaico può dirsi totalitario, mirando ad una totale dedicazione al servizio di Dio.271 L'idea di un'autonomia dello Stato dalla volontà di Dio e dalla dedicazione al suo servizio, compromette perciò l'essenza teocratica della religione giudaica e pone l'esercizio del governo su una base contraria all'insegnamento biblico: "This thought has had great power and value in subsequent history, and it stands today in striking contrast with the idolatry of the State as its own supreme object and self-justification which marks the European reaction in the twentieth century."272/a Non si deve con ciò concludere che la teocrazia vada imposta con la forza contro le regole del pluralismo democratico, purché lo Stato riconosca come legittima l'aspirazione del Giudeocristianesimo ad un governo che rispecchi la volontà divina. Il contributo del Cristianesimo al coinvolgimento dell'umanità intera nella salvezza che prelude all'avvento del governo messianico, esige che si riconosca, nell'attesa della realizzazione escatologica, la presenza di più modelli ideologici e religiosi nella gestione dello Stato, traducendo le diversità in un'occasione di annuncio conforme a grazia dei principi teocratici, nell'auspicio che i propri rivali od interlocutori dimostrino concretamente tolleranza e pluralismo. Self-righteousness of the Hebrew... cruel and gloomy fanaticism?272/b La grazia prima che una componente evangelica, è un principio fondamentale dell'A.T., perciò un ebreo tenebroso si accompagna ad un cristiano crudele. Il termine Chesed è a pieno titolo l'equivalente della grazia nel N.T., come si può ad esempio osservare dal confronto di carin in Giac. 4: 7 e 1Pt. 5: 5 con Prov. 3: 34. Il Giudaismo è correlato alla grazia prima ancora del Cristianesimo, e si deve perciò credere che Israele possa adeguarsi a tale principio nel risolvere la questione palestinese. Israele non può continuare a trascurare la necessità di riconoscere al popolo palestinese una dignità che rispecchi i valori biblici, ma perché ciò avvenga è necessario che Israele venga riconosciuto dagli arabi senza ambiguità. L'O.L.P. ha riconosciuto Israele ed ha accettato le risoluzioni O.N.U. 242 e 338. E' però prevedibile che la questione palestinese non venga risolta, se non nella precarietà e provvisoriamente, a motivo degli atteggiamenti più radicali del Giudaismo e dell'Islam, nonostante il recente moderatismo di Arafat. E' improbabile che si potrà ottenere più di uno statuto di autonomia dei territori di Gaza e della Cisgiordania. Mentre il Cristianesimo rende possibile la "giudaizzazione" dei popoli, attraverso l'annuncio evangelico, e dunque una soluzione del problema palestinese, ricorrendo ad una redifinizione del concetto di ebraicità applicabile agli arabi (qualora questi lo vogliano), tale da renderne compatibile la loro integrazione in uno stato che risponda alle categorie teocratiche giudeocristiane, l'Islam ed il Giudaismo sembrano mirare entrambi ad un opposto radicalismo teocratico, secondo modalità che non incoraggiano la coesistenza, benché provvisoria ed in transizione verso il regno escatologico. Il Cristianesimo si presenta più disponibile alla coesistenza entro i termini ed i confini di uno stato laico, probabilmente a motivo della nozione di grazia, la quale dovrebbe in teoria indurre alla coesistenza con ogni popolo di qualsivoglia ideologia e religione che sia disponibile alla coesistenza ed al dialogo. La pretesa però di ebraicizzare i mussulmani, sia pure cristianamente, non è conforme a grazia, la quale piuttosto dovrebbe saper interpretare le aspirazione teocratiche di cristiani, giudei e mussulmani, nell'ambito di una nazione comune, libera e democratica (ma non credo che ciò rappresenti il programma delle parti in conflitto). E' probabile che il duplice radicalismo giudeo-islamico, responsabile della paralisi della questione palestinese, rappresenti uno dei motivi all'origine dell'intervento militare di tutte le nazioni contro Israele, il quale potrebbe essere strategicamente utilizzato dal Piccolo Corno quale pretesto per eliminare dalla scena il maggiore ostacolo ai suoi disegni di stravolgimento dei tempi e della legge, allo scopo di consolidare il proprio potere, le cui basi ideologiche si contrappongono ai principi etico-messianici del Giudeocristianesimo,273/a ma è ancor più probabile un accordo, la cui durata si dimostrerà limitata nel tempo, ma sufficiente a dislocare forze ed eserciti laddove il programma escatologico ha previsto. E' facile però trattare della grazia in termini teorici e trascurare la possibilità che la soluzione per il Medio Oriente venga pilotata in un modo tale da dimenticare che il problema non è solo l'acqua ed il territorio, bensì soprattutto l'inimicizia e la diversità degli spiriti. Grazia e prudenza e non solo grazia, nonostante un eventuale accordo, inevitabile per il principio della globalizzazione, possa non tener conto né dell'una né dell'altra e condurre ad una guerra entro pochi anni. Non solo prudenza ma grazia perché un popolo soffre e non può essere sacrificato per pagare le colpe di tutti, nonostante anch'esso abbia molte colpe.273/b L'ideale teocratico non deve opporsi al pluralismo democratico, alla dignità della persona umana, ed alla tolleranza, quando questa è possibile e realistica, così come il pluralismo democratico non può pretendere di mettere al bando l'ideale teocratico, operando in opposizione ai valori costituzionali ed ai fondamentali principi etici, normalmente comuni a tutte le fedi monoteistiche. L'ostacolo non è la teocrazia, bensì le forme radicali ed esasperate della religione, animate da rancori, razzismi ed interessi nazionali che nulla hanno da spartire con l'amore di Dio per l'umanità. La coesistenza entro i confini di uno stato laico è possibile, mentre i modelli di governo teocratico sembrano ancora irrealizzabili a motivo dell'apparente impossibilità del dialogo ecumenico generalizzato tra religioni, ed a causa delle inclinazioni, ancora troppo medioevali (nonostante la nuova retorica pseudopluralista) a prevaricare nei confronti della libertà e della coscienza altrui, in nome della propria verità e della sacralità del proprio scettro. L'idea di ricorrere alle armi per facilitare la concretizzazione del riconoscimento O.N.U. di uno stato palestinese deve tener in considerazione la qualità della forza militare israeliana, tale da rendere probabile un conflitto mondiale, secondo quanto suggerito da Shamir.274 A distanza di pochi giorni, la convinzione del Prof. Mario Nordio di ricorrere alla moderazione, al coinvolgimento delle Nazioni Uniti ("... non dimentichiamo che si è appena conclusa una vertenza che ha risolto il conflitto Iran-Iraq...") ed alla persuasione nel dialogo con Israele ("... la pace sarà possibile quando lo vorrà Israele ed il mondo...") si è dimostrata fondata nel riconoscimento dell'O.L.P. da parte dell'O.N.U.275/a Si deve inoltre dire chiaramente che il diritto biblico d'Israele non risulta compatibile con quello laico e secolare, se non facendo ricorso alla mediazione della grazia, senza la quale da un punto di vista giudeocristiano, non si può che identificarsi con le posizioni più radicali del Sionismo. La grazia inoltre è l'unico criterio per dimenticare i tentativi militari dei paesi arabi contro Israele, il cui obiettivo non era la spartizione del territorio ma la cacciata degli ebrei. Ogni altro criterio per la soluzione del conflitto arabo-israeliano rischia di dimostrarsi fallimentare sotto il profilo del diritto e tragico per il destino del popolo palestinese, giacché l'analisi dei precedenti storici, ideologici e militari sembra fornire dati che lasciano perplessi e creano un senso di pessimismo. I dati più importanti di tale analisi emergono dal confronto di un inserto speciale apparso su Panorama ed una raccolta di articoli a cura di Furio Colombo allegata all'Europeo.275/b Il pluralismo, da una prospettiva giudeocristiana, propenso al riconoscimento degli stati che s'ispirano alle più svariate religioni è destinato però a cessare nel momento in cui il Regno di Dio farà trionfare la verità e metterà fine al periodo di grazia concessa alle nazioni, ristabilendo appropriatamente il suo popolo sul territorio, il quale pur se nelle alterne vicende della storia, ineluttabilmente gli viene riconosciuto come proprio dalla tradizione biblica. Nel frattempo però ogni crudeltà nei confronti del popolo palestinese, a partire dall'assunto della destinazione della terra d'Israele alla teocrazia biblica, è da ripudiare, perché la grazia (chesed) è anche riconoscimento dei popoli e della loro identità, purché quest'ultima non rappresenti un'incontrollabile minaccia al principio di coesistenza. Nondimeno non saprei dire se tutte le crudeltà non siano una reazione alla minaccia del pluralismo e della coesistenza. A questo punto sembra esservi spazio per la propaganda e la retorica di ambedue le parti in conflitto. E dove propaganda e retorica abbondano (a scapito della pace) la grazia non sovrabbonda di certo.

    Inserimenti al 20 Febbraio, 1992

    Il superamento ecclesiale dei fraintendimenti relativi alla teocrazia e degli abusi che ne derivano, rappresenta una condizione fondamentale per il funzionamento di uno stato laico e moderno (giacché altri modelli di governo civile non risultano per il momento accessibili) che voglia ispirarsi all'insegnamento etico-sociale della tradizione biblica giudeocristiana. Un eventuale patteggiamento politico-religioso che possa essere interpretato come fornicazione spirituale con tutti i re della terra, conforme alla descrizione del XVIII capitolo dell'Apocalisse di Giovanni, si presenta come un interessantissimo soggetto di studio. Dubito però che sia lecito esprimersi con chiarezza estrema su tale questione. Che taluni atteggiamenti ufficiali della cattolicità lascino perplessi, a motivo di una propaganda ecumenica e di una diplomazia che si dimostrano in taluni casi faziose, mi sembra ormai chiaro, benché si debba pur sempre riconoscere al Cattolicesimo una certa moderazione nella parzialità e la volontà di dialogo e di coesistenza nella determinazione a prevalere. Un'ipotesi di come venga inteso il dialogo ecumenico ed un'idea del progetto che forse lo ispira, sono scaturiti nel corso del Sinodo dei vescovi cattolici europei, svoltosi in Vaticano dal 28 Novembre al 14 Dicembre del 1991. Un documento firmato dai cardinali Ratzinger e Cassidy (responsabili dei dicasteri vaticani per la dottrina della fede e per l'unità dei cristiani), costituisce la risposta del Vaticano al rapporto finale della commissione mista di anglicani e cattolici (ARCIC) dopo vent'anni di lavoro di quest'ultima: "Il documento vaticano afferma che nel rapporto vi sono affermazioni incompatibili con la dottrina cattolica, in particolare riguardo al primato e all'infallibilità del papa, all'ordinazione delle donne, all'eucarestia, ai dogmi mariani. Non è sufficiente il primato d'onore che gli anglicani sembrano disposti a riconoscere al pontefice romano, in quanto tale primato implica un'autorità sulle comunità cristiane. Il primato del vescovo di Roma - secondo la nota vaticana - appartiene alla struttura divina della chiesa. Il documento vaticano contesta l'affermazione dell'ARCIC secondo cui le ordinazioni delle donne fatte in alcune chiese anglicane negli ultimi anni non mettono in questione l'accordo dottrinale raggiunto sull'ordinazione. La Chiesa cattolica, inoltre, non può rinunciare all'infallibilità del papa, che per i cattolici è il possesso del dono dell'assistenza divina nel giudizio garantito al vescovo di Roma. Sull'eucarestia, il documento vaticano afferma che nel rapporto dell'ARCIC non vi è l'affermazione che nell'eucarestia Cristo è presente sostanzialmente sotto le specie del pane e del vino. Nonostante tutte queste obiezioni, il documento vaticano afferma di non voler rompere il dialogo con le chiese anglicane e riconosce che il rapporto dell'ARCIC rappresenta una pietra miliare sulla via dell'ecumenismo."275/c Se il primato d'onore, (benché si tratti di un primato da riconoscersi a vicenda tra interlocutori realmente alla pari) non basta, e si esige il riconoscimento dell'autorità ecclesiale, ciò significa che il primato del vescovo di Roma deve essere valido anche per le chiese non cattoliche, perché esso implicherebbe "l'autorità sulle comunità cristiane, che sono incorporate alla Chiesa universale attraverso la loro unione alla sede di Roma".275/d Allora il dialogo ecumenico dovrebbe essere quella cosa che serve a cattolicizzare le altre chiese, piuttosto che l'occasione per accordarsi circa un'identità comune, la quale non è escluso che possa non essere né cattolica, né protestante, né ortodossa. Se i cattolici non riescono ad accordarsi con gli anglicani, i quali sono la versione più cattolica del Protestantesimo, figuriamoci quale speranza di dialogo possa esserci con la sua componente fondamentalista e maggioritaria. E' anche risultato impossibile trovare una strategia comune a cattolici, protestanti ed ortodossi, mentre si è cercato di dare l'impressione che il Vaticano non ne sia perlomeno una concausa. Karol Wojtyla, "pur continuando a invocare il dialogo ecumenico, ha voluto insistere nel presentare la nuova evangelizzazione, sia per l'Est che per l'Ovest, come un'azione fondata sull'unità dell'episcopato cum Petro et sub Petro, cioè sotto l'autorità del papa... Una sottolineatura che vale certamente all'interno della Chiesa cattolica, ma che probabilmente sarà poco piaciuta ai delegati fraterni che lo stavano ad ascoltare."275/e L'ecumenismo non presenta le credenziali di un rapporto tra chiese alla pari, in quanto esso sembra dover sottostare agli esami finali ed alle tiratine d'orecchio della chiesa madre. Ci si lamenta delle divisioni, pur procurandole. Si vuole l'evangelizzazione ma soltanto cum Petro et sub Petro. Si vuole una sola chiesa, ma in sostanza quella in cui il papa di Roma può avere il primato, non solo d'onore, e decidere quali siano le dottrine ortodosse. In tutto ciò non vedo ecumenismo, piuttosto che i sintomi di un futuro europeo tutt'altro che facile. La via dell'ecumenismo è così lunga da percorrere che forse bisognerebbe sostituirla con la via della coesistenza. Una chiesa libera ed uno stato laico saranno ancora un riferimento per molti, perché i sacri imperi non sembrano promettere sufficienti garanzie di tutela della libertà civile e religiosa. Si potrebbe discutere se il laicismo possa essere democristiano, o se debba essere repubblicano, liberale o socialista, ma la sostanza non cambia: non vedo alcun modello teocratico che sia pronto per governare. Si potrebbe discutere circa la necessità di infondere nel laicismo la sensibilità etico-sociale e di evitare gli eccessi del liberismo, (i quali puntualmente tendono a snaturare la democrazia) ma la sostanza non cambia: lo stato laico è la conseguenza invitabile di un passato e di un presente di divisioni, ingiustizie ed oppressioni. Si può riconoscere che il Cattolicesimo moderno sia tra i migliori esempi di coesistenza condizionale e di diplomazia, tuttavia è preferibile attendere tempi migliori per la restaurazione teocratica (non solo cattolica) dello Stato. Ormai siamo al punto in cui si potrebbe seriamente pensare alla possibilità di riconoscere la fondatezza di quei criteri civico-religiosi tipicamente nordeuropei, benché traducendoli e consolidandoli organicamente nei termini etico-sociali e filosofici che sono familiari all'Europa latina, conservando però la speranza della coesistenza e di un autentico dialogo ecumenico che preveda l'analisi dei problemi teologici per la costruzione di un'identità comune all'intera cristianità, senza forzature, monopoli e scontati primati spirituali e temporali. Se è lecito eticizzare la causa degli oppressi, l'aspirazione alla socialità dello Stato ed i processi di sviluppo internazionale, altrettanto si può fare per quanto riguarda i motivi di alcune componenti eminenti dell'Occidente, le quali da sempre lamentano l'inaffidabilità (minuziosamente vissuta, subita e conosciuta) di pericolose componenti ideologiche e religiose ai fini della realizzazione di una civiltà, realmente equa e comune. L'idea è che il Protestantesimo debba fare i conti con la dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Va bene... facciamoli pure questi conti! Non si risparmino duri colpi e gravi autocritiche, però non si confondano le acque, trascurando il contesto dogmatico della dottrina etica e le attenuanti storiche sia del Protestantesimo che del Giudaismo, relative alle scelte di tipo laico-liberistico compiute. Penso che il Cattolicesimo dovrebbe verificare la disponibilità popolare a realizzare la dichiarata aspirazione del Magistero (nonostante le guerre religiose del passato e le strategie retoriche di oggi) alla coesistenza autentica e non semplicemente condizionale, al dialogo ecumenico ed alla traduzione sociale di progetti di giustizia che valgano per tutti. Se reale disponibilità vi fosse si dovrebbe procedere al concreto superamento di quegli ostacoli che tutti i santi giorni smentiscono le prediche programmatiche: dall'insegnamento della religione presso le scuole statali,275/f all'incidenza esistenziale delle troiche, di materiale a disposizione delle commissioni preecumeniche ve n'è in abbondanza. La religione che s'insegna in Italia dovrebbe tradursi in Storia delle Religioni, e gli insegnanti dovrebbero essere nominati esclusivamente dal Provveditorato agli Studi, sulla base delle loro qualifiche e non della loro confessionalità, in modo che ognuno si faccia la propria religione nella sua chiesa. Casomai l'insegnamento della storia delle religioni potrebbe prevedere, a turno, l'intervento degli esponenti di ogni religione attestata in Italia e delle tavole rotonde che non siano occasioni per spadroneggiare od accapigliarsi, piuttosto che per garantire la conoscenza critica delle religioni. Non capisco come si possa definire laico uno stato che permette la confessionalità della scuola: si tratta di un non senso che svuota l'idea stessa di laicismo, il quale d'altro canto, è compromesso in vari altri casi contemplati da pregiudizi sociali o criteri di potere, i quali ho definito altrove come troiche, fino a trasformare (nei casi più gravi) la collettività, in una forza organizzata allo scopo di emarginare, annichilire ed umiliare gli individui che si permettono la libertà di un pensiero critico e di una scelta religiosa che si ritiene più giusta e vera (nel qual caso si tratta di una vera e propria guerra, le cui catastrofiche conseguenze non riguardano soltanto l'esito dei presunti programmi ecumenici). L'interrogativo che ci si dovrebbe porre (al di là delle dichiarazioni etico-sociali delle encicliche) è il seguente: il Cattolicesimo ed i cattolici desiderano uno stato formalmente laico a fini confessionali, oppure uno stato autenticamente laico ed ispirato alla coesistenza ed all'uguaglianza dei suoi cittadini? Il Cattolicesimo è capace di laicismo e pluralismo, ma è la cattolicità nel concreto ad attenuare l'applicazioni delle affermazioni programmatiche. Nel Cattolicesimo intravedo allo stesso tempo forze ed attitudini positive e forze ostili, ma il giudizio personale è comunque positivo, a tal punto da suscitare in me una sincera disponibilità alla comprensione, alla pazienza ed al dialogo, fino alla disponibilità a subire, quale minoranza, qualche danno e limitazione, piuttosto che percorrere altre vie liberali che, in Italia almeno, verrebbero strumentalizzate da forze che tutto hanno in mente fuorché la tradizione liberale britannica, e che finirebbero per produrre grandi sofferenze specialmente agli stessi cattolici. L'eventuale progetto di un sacro romano impero in Europa, oltre a scontrarsi con forze confessionali paragonabili al Cattolicesimo, potrebbe semplicemente accelerare la crisi della cristianità nel suo insieme e restaurare sì un impero romano, ma di natura autarchica. Deve essere chiaro che non si può pretendere laicismo e democrazia a New York, sfidare la cristianità nel processo ecumenico, e seminare nello stesso tempo confessionalismo fazioso al parlamento italiano. Forse si potrà percorrere insieme il pezzo di strada più difficile per la storia della Chiesa, ma rimangono realisticamente delle difficoltà rilevanti da superare. Che non siano più convenienti anacronistiche dispute dottrinali e manovre diplomatico-religiose è evidente proprio nel rischio che la Chiesa Cattolica si ritrovi in un prossimo futuro indebolita e gravemente ridimensionata, alla pari delle altre confessioni cristiane, del Giudaismo e dell'Islam. Il Vaticano non si rassegnerà facilmente e darà perciò fondo a tutte le sue risorse spirituali e temporali, fino a stringere forse qualche legame di troppo con capi e monarchi. In Italia il rischio di uno scontro frontale con la criminalità politico-mafiosa, può determinare una grave vulnerabilità delle personalità cattoliche schierate in favore del programma etico-sociale del magistero cattolico. Fino a non molto tempo fa, l'Occidente era come un castello armato ed opulento, ma assediato da potenti nemici, capaci di diroccarlo. All'interno del castello i despoti potenziali non potevano permettersi una lotta su due fronti, così hanno dovuto coesistere con la democrazia cortigiana. I nemici all'esterno tuttora non mancano, ma la nuova e fondata speranza dell'ordine nuovo è che il despotismo autarchico possa finalmente operare su due fronti, perciò il Cattolicesimo subirà tentativi di riforma autarchica, ed il centro sinistra sopporterà gravissime perdite (umane e materiali) fino a convincersi dell'irreversibilità del processo politico innescato, il quale dimostrerà, quasi meccanicamente, quale sia (in assenza di determinanti fattori strategici ed ideologici di carattere internazionale) l'effettivo prodotto politico della sostanza antropologica naturale. A partire dal libro di Daniele la conclusione sarà la stessa, nonostante la ferrea volontà a contenere l'avanzata delle forze autarchiche, le quali pur di governare sono disposte a tutto ed a collaborare con chiunque: il primato durante l'ultima settimana di Daniele sarà del Piccolo Corno, risparmiando così ai cristiani altre inutili illusioni di potere confessionale, fondate su competizioni e relativi intrallazzi retorici. Sarà un tempo di rammarico per le lotte infantili, le occasioni di coesistenza e di reciproca comprensione mancate. Forse le nuove forme di oppressione faranno rimpiangere la coesistenza condizionale (vivibile ma non accettabile) e mentre ora si progettano soluzioni pseudoteocratiche sul versante sia cattolico che protestante, tra reciproci sospetti e timori che l'Europa si sbiadisca leggermente del proprio colore, più tardi ci si pentirà per le manovre compiute contro la coesistenza. Oggi ci si potrebbe chiedere se la Democrazia Cristiana possa essere laica; se i socialisti ed i repubblicani possano combinare equilibratamente liberismo, libertà ed etica sociale; se il PDS debba governare con socialisti e democristiani e se i repubblicani debbano ancora affiancarsi ai partiti di governo e delle riforme ai limiti della sicurezza dello Stato, ma nel prossimo futuro i politici semiconfessionali della religione dominante dovranno far fronte comune con forze parzialmente eterogenee per sopravvivere soltanto e non per governare. Finché è possibile, è meglio sostenere le forme laiche del potere, perché così facendo non ci si dovrà dolere con se stessi quando i tempi si faranno più difficili. La situazione della cristianità induce a rivedere attentamente la concezione luterana dei due regni, perché non è escluso ch'essa possa efficacemente contribuire alla soluzione della polarizzazione teorica di laicismo e teocrazia, rafforzando la sicurezza (quanto a lungo non saprei) sia della Chiesa che dello Stato. Siccome però lo scollamento tra la teoria costituzionale e la sua pratica popolare ad ogni livello, è ormai talmente palese da risultare una continua provocazione, e le tentazioni di annichilimento del laicismo sembrano annunciare alternative che spaziano dalla restaurazione della teocrazia confessionale all'autarchia imperiale, la concezione dello Stato di Lutero e quella di Calvino potrebbero dimostrarsi intercambiabili, nonostante tutto ciò possa significare la balcanizzazione del continente europeo ed il sopravvento dell'autarchia sull'intera cristianità, indebolita da retoriche faziose, ecumenismi d'opportunità e sogni esclusivi di primato universale. In altri termini, il fallimento del laicismo preluderebbe ad un processo di contrapposizione di modelli teocratici giudeocristiani ed al successivo prevalere su quest'ultimi del Piccolo Corno, con buona pace della dottrina sociale della Chiesa e della concezione riformata dello Stato. Meglio il laicismo oggi, anziché più teocrazie domani e l'autarchia dopodomani, ma la storia (come gli uomini) è gagliarda e procede fiera senza timore di motti e proverbi. Lo stato laico non è la meta della Chiesa, ma sembra rappresentare una tappa necessaria a motivo delle tensioni presenti tra le ideologie ed in seno alla stessa cristianità. Il governo teocratico della Chiesa può però influire positivamente sullo stato laico, in modo da evitare gli abusi ricorrenti del liberismo economico e salvaguardare i principali e comuni valori etico-sociali. Vari esponenti e talune entità del fondamentalismo evangelico hanno avvertito anch'essi la necessità di un recupero dei principi teocratici per la salvaguardia stessa della Chiesa e la salvezza dello Stato, specialmente in ambito riformato. Tempi di Restaurazione275/g rappresenta una sensibilità teocratica la quale è tanto più sorprendente in quanto procede da tipologie evangelico-fondamentaliste non riformate. Il punto della situazione relativo alle varie forme di autorità nella Chiesa mi sembra ben riuscito275/h ma alcune parti sistematiche della dottrina teocratica elaborata, inducono ad anticipare alcune delle considerazioni più necessarie ed urgenti tra quelle da farsi in un contesto più specificamente teologico-sistematico. Mi limiterò al commento di quei contributi relativi al governo ecclesiale che maggiormente interagiscono con il governo civile o secolare. A tale riguardo, intanto, è opportuno riproporre nel testo parte di quanto già scritto nelle note a proposito del pensiero di Bonhoffer circa il Regno di Dio:

    Le affermazioni di Bonhoffer si oppongono al tentativo di negare le prerogative teocratiche della sovranità di Dio sulla terra, servendosi della proiezione "cristiana" del Regno di Dio in un futuro rarefatto ed etereo, tradendo così l'attaccamento ai beni materiali della terra, oppure la servile omertà nei riguardi di chi ha tutto l'interesse che il regno sia il più etereo, rarefatto e futuro possibile. Se però il riconoscimento della sovranità divina implica l'idea di teocrazia, la nozione di grazia ne determina la sua moderazione ed il suo adeguamento in seno ad una società costituita da più componenti religiose ed ideologie politiche. Se la grazia è tolleranza e pazienza in attesa della realizzazione escatologica del regno, affinché molti ne entrino a far parte, allora ogni autentico progetto teocratico deve adeguarsi alle regole della democrazia e del pluralismo, conservando, anche nei casi di maggioranza, l'impostazione laica dello Stato. Il riconoscimento della sovranità di Dio non implica l'immediata realizzazione della teocrazia, perché, perlomeno a partire da premesse cristiane, la grazia ne determina i tempi d'attuazione e le condizioni. Il messaggio della grazia si dimostra, infatti, generalmente incompatibile con le azioni e le scelte operate dai governi teocratico-confessionali.

    Seguono le sezioni di T.R., X, n. 4, Dicembre 1991 in questione e relative considerazioni.

    1. - Emilio Ursomando, Democrazia... o Teocrazia?, a pag. 5:

    "Portare ogni cosa sotto Cristo! E' questo lo scopo finale di tutto quello che Dio fa. Questo è il fine dei ministeri e della chiamata all'ubbidienza della Chiesa, questo è anche lo scopo dei miracoli e delle opere potenti. Raccogliere tutto e tutti sotto Cristo... Ma c'è una cosa che dobbiamo sapere: il suo regno di giustizia verrà solo dopo che noi per primi ci saremo sottomessi a Lui, quando cesseranno le contese, quando cadranno le ambizioni, quando ci saremo piegati al Re, quando comprenderemo che nella chiesa vige la teocrazia, non la democrazia: tutti servi, ognuno con diverse funzioni, tutti sottomessi all'unico Re, Gesù. Allora il Regno irromperà intorno a noi e trasformerà le nostre città e questa nazione."

    Nella Chiesa dovrebbe vigere sì la teocrazia, perché è Dio che in essa dovrebbe governare. Il problema è che, nei rapporti tra i componenti della Chiesa, la teocrazia deve essere mediata inevitabilmente dalla democrazia, perché nessuno può imporre o proporre il governo assoluto di qualsivoglia apostolo, pastore, anziano, diacono, o profeta, a meno che non si voglia rientrare in una logica teologica che non è quella della tradizione protestante. La democrazia ecclesiale non significa però assenza di governo e di autorità. La teocrazia implica il carattere democratico degli organi di governo, del servizio e dell'esercizio dei carismi nella Chiesa, perché i vescovi od anziani, i dottori o teologi, i diaconi e gli evangelisti, non sono gli unici a poter interpretare le Sacre Scritture, evitando due estremi simiglianti per certi versi e ricorrenti: un ferreo regime pastorale od anche di specialisti (non soltanto teologi) da una parte, che finisce per sacrificare vocazioni autentiche, benché non plasmate dalle accademie; l'anarchia del più è semplice, purché dei semplici, meglio è, che finisce in troppi casi per collocare semplici contorti ai ministeri fondamentali a danno della versione autentica di quest'ultimi. Quando si tratta di danni arrecati ai ministeri si deve ricordare che il sacrificio determina sofferenze esistenziali e spirituali per ogni singolo membro di chiesa (locale, denominazionale o globale, nella misura in cui il danno è grave, significativo ed esteso), anche se può sembrare che sia soltanto l'esistenza, la spiritualità e la santificazione di chi viene a trovarsi isolato dalla chiesa a subirne le conseguenze. Laddove l'esistenza e la spiritualità di un solo individuo è stata ingiustamente pregiudicata, ricorrendo alle varie e note forme di boicottaggio ed alienazione, avremo chiese divise, credenti e ministri parimenti ed ancor più gravemente compromessi o svergognati. Se i giudei della sinagoga di Berea ricevettero la Parola annunciata dall'apostolo Paolo con ogni premura sì, ma esaminando tutti i giorni le Scritture per vedere se le cose stavano così, e se quand'anche noi, quand'anche un angelo dal cielo vi annunziasse un vangelo diverso da quello che v'abbiamo annunziato, sia egli anatema,275/i allora vuol dire che la Parola può essere interpretata da tutti, e che finanche l'autorità degli angeli e degli apostoli è soggetta all'indagine delle Scritture, la quale a sua volta implica l'interpretazione di colui che la esamina, potendola esaminare per mezzo dello Spirito che la rivela, e, qualora sia possibile, in relazione (ma non solo) al popolo di Dio ed ai suoi ministri. La Chiesa ed i relativi ministeri sono il prodotto di tale dinamica e non tanto la dinamica essa stessa e di per sé. Il riconoscimento e la sottomissione dovrebbe essere reciproca nella Chiesa, perché tutti, a prescindere dai ministeri, hanno ricevuto il medesimo spirito. I governatori ecclesiastici dovrebbero ricordare ch'essi hanno a che fare con coeredi nella grazia, spiritualmente riabilitati ed in grado di cooperare al governo sia della Chiesa che dello Stato. Perciò chi vuol fare l'ineffabile dittatore, lo faccia a casa propria (mattarello della moglie permettendo). Il governo ecclesiale deve essere autorevole e non autoritario, persuasivo e non pervasivo, altrimenti l'equilibrio e l'armonia, della Chiesa prima, e dello Stato poi, subiranno gravi danni. producendo religiosi e cittadini settari e voraci. Se l'autorevolezza e la persuasione non si dimostrassero possibili e le autorità fossero costrette ad un dominio ferreo, sia lo Stato che la Chiesa dovrebbero riesaminare attentamente i propri fondamenti. Lo Spirito continua a rendere possibile e necessaria l'indagine individuale delle Scritture, ma nella Chiesa vi sono anche i carismi ed i ministri che Dio concede per la crescita, il confronto critico ed il governo, e non per rimpiazzare il cervello spirituale dei credenti, la cui funzione è chiamata a radicarsi e svilupparsi, piuttosto che a ridursi ad emulazione acritica ed impersonale di un governo indiscutibile ed assoluto. La responsabilità è quella di riconoscere il governo ecclesiale e di esaminarne i contenuti, ma nello stesso tempo non esiste alcun principio od alcun insegnamento profetico ed apostolico che esiga dai fedeli l'accettazione di un insegnamento dottrinale che non si ritenga compatibile con l'interpretazione e la comprensione delle Sacre Scritture, le quali, per loro natura e definizione, non possono che radicarsi alle individuali attività cerebrali. L'Iddio d'Israele non sacrifica l'intelletto e non esige la sottomissione irragionevole ad un governo che si presenta dispotico ed insofferente nei confronti delle prerogative spirituali ed intellettuali dei sudditi. L'Iddio Sovrano chiama sì la Chiesa (prima che lo Stato) alla teocrazia, ma riconoscendo più autentiche prerogative di quante potremmo pensare di ottenere dalla democrazia dei governi umani. La vera teocrazia include gli atteggiamenti autentici del laicismo e della democrazia, perciò, se Emilio Ursomando vuole ad essa far riferimento, ben venga nella Chiesa prima e poi nelle nostre città e questa nazione. Se così non fosse è bene che la teocrazia si riduca ad un affare privato in seno ad una società democratica e laica, la quale per quanto umana ed imperfetta riconosce la libertà di guardarsi a vista dai predatori della mente e del cuore degli uomini. Se Dio non ha mai pensato alla chiesa come ad un gruppo d'elite, neppure ha pensato ai suoi ministri come a degli autarchi, i quali non siano tenuti a giustificare e verificare (intelligibilmente e senza far ricorso a mistiche, implicite ed indiscutibili vocazioni profetico-apostoliche) la propria autorità, oltre che il proprio insegnamento, al confronto con i componenti della Chiesa. Non penso, francamente, che i rischi di gravi abusi dell'autorità siano possibili quando s'interpreti la teocrazia nel contesto di un governo pluralistico della Chiesa, rappresentato da più anziani, anche se (auspicabilmente) sotto la guida di un presidente che sia però soggetto ad elezione da parte degli stessi anziani e soltanto nel loro ambito. Ernest D. Bretscher presenta due sistemi che ritengo combinati nel sistema che ritengo più conforme al modello ecclesiale del N.T.: un sinodo di vescovi, i quali siano a loro volta nominati dal collegio delle chiese locali, il cui governo sia perciò rappresentato "da più anziani sotto la guida di un presidente".275/l Lo staff di Tempi di Restaurazione forse è destinato a tradurre in quest'ultimi termini la propria concezione apostolica del governo ecclesiale, evitando il rischio di avventurarsi per sentieri i cui pericoli, sia per la Chiesa che per lo Stato, sono già stati diffusamente esperimentati durante il Medio Evo e che sembrano riemergere dopo una condizione di stasi controllata. Si potrebbe facilmente convenire sull'attendibilità di una presidenza pastorale che relativamente supplisca al ruolo apostolico, senza però confondere tra le due istituzioni della Chiesa primitiva. Ritengo che le Assemblee dei Fratelli siano molto vicine al modello di governo del N.T., perciò esse dovrebbero soltanto apportare quelle indispensabili modifiche che si sono dimostrate necessarie, in modo da non rischiare la belligeranza tra i ministeri, alcune forme di anarchia congregazionalista, e la decurtazione dei ruoli che sono correlati alla centralità della Parola, per consolidare collegi di patriarchi ed evangelisti più che di anziani, ed imporre di fatto regimi autoritari ch'essi negano però dottrinalmente. Forse i malanni delle Assemblee dei Fratelli potrebbero iniziare a risolversi soltanto qualora il convegno che si tiene annualmente ai primi di Maggio a Poggio Ubertini, nei paraggi di Firenze, si trasformasse in Sinodo dei Vescovi con poteri decisionali, trasformando il convegno attuale in Assemblea Presinodale, in seno alla quale, evangelisti, servitori a pieno tempo, colportori e rappresentanti vari delle chiese, (i quali siano assimilabili al diaconato) possano incontrare i membri del Sinodo, partecipare ai suoi lavori introduttivi e procedere parallelamente al suo svolgimento, fino alla sua conclusione. Una tale impostazione di tipo bicamerale degli organi interecclesiali, dovrebbe produrre una coesione ed un'osmosi creativa tra i vari ordini della Chiesa, assicurandone la partecipazione ed il contributo ed acquisendo più facilmente la conoscenza delle sue reali esigenze. L'individuazione degli elementi più adatti a far parte del Sinodo, in qualità di osservatori oppure anche di membri aggiuntivi a pieno titolo, (anche se nominati in fase presinodale, anziché dagli anziani della chiesa locale, secondo la prassi ordinaria) risulterebbe più facile ed immediata, ovviando così al fenomeno ricorrente dell'imbottigliamento dei carismi, i quali sono troppo spesso soggetti ad equilibri zonali di potere, sulla base dell'assunto che la chiesa locale è l'unica a poter disporre della prerogativa del riconoscimento e del destino dei carismi. Perché il Sinodo e l'Assemblea Presinodale sarebbero chiesa almeno tanto quanto la chiesa locale, sarebbe del tutta legittima una diretta relazione con i singoli membri delle chiese locali ed i relativi carismi. La soluzione bicamerale potrebbe anche condurre al riconoscimento interecclesiale, alla condivisione ed alla circolazione dei ministeri, così come avviene in seno alle chiese valdo-metodiste, fino alla creazione od al riconoscimento di un istituzione atta allo sviluppo dei ministeri, affinché la Chiesa possa disporre di contributi affinati, provati ed esercitati nel contesto di una comunione più ampia e rappresentativa del pensiero e della spiritualità, collettivi. Il problema è che le Assemblee dei Fratelli, in Italia, concepiscono la chiese come scevre di ogni apparato istituzionale e viventi nella piena libertà dello Spirito, in termini però che procedono oltre la moderazione del Rossetti e del Guicciardini, i quali credettero di doversi consolidare in posizioni meno estreme e più ireniche, di quelle di Darby e dei Plymouth Brethren.275/m In altri termini le assemblee italiane sono oggi più Old English fashioned di quanto non siano le contemporanee assemblee britanniche, e comunque diversamente dalle intenzioni dei fondatori, la cui britannicità non era superiore alla toscanità. Si pone la necessità di chiarire passo dopo passo che le istituzioni che si vogliono proporre non sono altro che rigorosi equivalenti e relative conseguenze strutturali delle realtà ecclesiologiche del Nuovo Testamento. Se la situazione descritta nel capitolo quindicesimo degli Atti degli Apostoli, (relativa a problemi dottrinali sollevati e discussi da vari ordini della Chiesa) non si vuole consacrarla nei termini suggeriti di Sinodo, e di Assemblea Sinodale e Presinodale, a motivo di una certa allergia nei confronti dei magisteri, si usino pure altri termini quali Convegno degli Anziani, Collegio dei Vescovi, purché riconoscendo quelle possibilità decisionali di cui non possono disporre per se stessi i rappresentanti dei tradizionali convegni primaverili, od i vescovi senza portafoglio, i quali rappresentano una proiezione di un eccessivo congregazionalismo mascherato di rigore dottrinale, che alla fine paralizza e problematicizza le funzioni ed i percorsi ecclesiologici, per consegnare insensibilmente ed indirettamente la Chiesa agli ennesimi autocrati dai quali si è creduto di salvarla, pregiudicando però i suoi propri ordini di governo e l'operatività dei suoi carismi. L'intenzione non è quella di trasformare le assemblee in chiese valdesi, perché essere valdesi non significa semplicemente avere un Sinodo ed una Tavola (un'amministrazione centrale), o formare pastori che governino secondo una struttura presbiteriana, e sappiano perseguire nella predicazione un obiettivo di formazione organica della Chiesa. Le Assemblee dei Fratelli sono le Assemblee, perciò quel che ci si aspetta è semplicemente la volontà di riflettere sulle altrui posizioni dottrinali, ma soprattutto di rendersi più disponibili e compositi sugli aspetti della fede che non siano fondamentali, di saper coesistere specialmente con le altre confessioni protestanti, e di procedere alla revisione di aspetti ecclesiologici che sembrano pregiudicare la formazione, la solidità e la funzione della Chiesa, la quale non è semplicemente quella di predicare la grazia all'osso, nuda e cruda.

    2. Giovanni Traettino, Il Governo della Chiesa. A pag. 17:

    "E' vitale per la Chiesa in ogni nazione recuperare il governo apostolico... Anche oggi, la fase di movimento è caratterizzata dalle figure dell'apostolo e del profeta. La fase di istituzionalizzazione è caratterizzata dalla figura del pastore o del vescovo e del dottore. Il rischio per l'apostolo è di rimanere assorbito ed imbrigliato dal ruolo pastorale. Il rischio per il pastore-dottore è quello di sostituirsi all'apostolo... Dalle cose dette risulta chiaro che nella chiesa primitiva erano gli apostoli i ministeri che esercitavano il governo e la guida a livello trans-locale. Erano essi quelli che direttamente designavano il collegio degli anziani in ciascuna chiesa (Atti 14: 23) oppure lo facevano per delega, come è il caso per Creta di Paolo con Tito (1: 5). Per questa ragione ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine nelle cose che rimangono da fare, e costituisca degli anziani in ogni città, secondo le mie istruzioni. Questi apostoli (Paolo non faceva parte dei 12!) si muovevano in squadra con gruppi di altri ministeri per aprire chiese, mettere ordine nelle loro cose, ordinare anziani, confermare le chiese, stabilire la dottrina, dare direzione ed esercitare la disciplina nelle stesse anche dopo che erano state costituite."

    Se l'apostolo fosse compatibile con la figura del presidente ed eleggibile dal collegio degli anziani di una più chiese, o se fosse né più né meno che il missionario o pioniere, annunciatore itinerante del Vangelo e fondatore di chiese locali, non si potrebbe che riconoscerne l'attualità, perché in fin dei conti non si tratterebbe che di un anziano tra gli anziani, più autorevole ed esperto, nello stesso tempo affine sia all'evangelista che al dottore della Parola. Il problema è che Giovanni Traettino sembra voler riferirsi all'istituzione apostolica del Nuovo Testamento, per dichiararla attuale. Quanto Giovanni scrive evidenzia la possibilità che il governo trans-locale possa essere esercitato da ministeri non apostolici. Non si può escludere la possibilità di vocazioni che si avvicinino molto all'apostolato profetico. Al contrario sembra che l'Apocalisse di Giovanni preveda la manifestazione di due profeti subito dopo la conquista escatologica di Gerusalemme. Tali vocazioni sono rarissime e riguardano le fasi decisive della storia della Chiesa, la quale riflette l'andamento della storia in generale, senza arrivare però neppure in tali casi a parlare di apostolato o profetismo in senso stretto: è il caso dei riformatori e dei grandi predicatori del Vangelo. Gli apostoli (propriamente detti) dovrebbero considerarsi una realtà esclusiva della Chiesa Primitiva, altrimenti sarebbe come riaprire il canone del N.T. Potrei ammettere la possibilità che taluni ministeri ed i riformatori abbiano un carattere profetico ed apostolico, nel senso che i contenuti della loro predicazione sono in forte sintonia con la vocazione apostolica e profetica, secondo la comprensione più profonda del Regno di Dio e delle sue implicazioni storiche ed ecclesiali, però mi guarderei bene dallo spingermi oltre. Ad ogni modo gli uomini rappresentati da Tempi di Restaurazione rispondono a precise esigenze delle chiese evangeliche dei nostri giorni, allo stesso modo di quel che si deve dire per le componenti riformate del fondamentalismo. Ciò non vuol dire che tutte le risposte a tali esigenze siano assolutamente fondate e calibrate. Prima di giungere a risposte finali è bene provare a confrontare le proprie convinzioni, evitando di farsi prendere dalla fretta di risistemare la Chiesa, perché il risultato finale potrebbe dimostrarsi peggiore della condizione precedente, coinvolgendo potenzialmente (più o meno a seconda dei casi) anche l'ordinamento dello Stato. Per il momento i progetti teocratici di Tempi di Restaurazione andrebbero esaminati specialmente in relazione alla Chiesa, perché nonostante tutto lo stato italiano e gli altri paesi dell'Europa di tipo occidentale sono tuttora formalmente laici. Quando non sarà più così, si deciderà il da farsi a livello intercontinentale e non solo nazionale ed europeo, giacché le reazioni dovranno essere rappresentative, proporzionate, opportune, efficaci ed adeguate al tipo di dinamiche schierate sul fronte opposto, badando a non cimentarsi in una fallimentare guerra apocalittica contro il Piccolo Corno. Persino nella Chiesa però il principio della teocrazia va calibrato nel senso di un'attitudine collettiva, caratterizzata dalla libertà costruttiva ed equilibrata che potremmo definire teocentrica, e dunque compatibile con il pluralismo e la vera democrazia che ne rappresentano gli effetti.275/n

    b. Gli albori della teocrazia cristiana

    L'aspirazione della Chiesa Cristiana ad associarsi, perlomeno quale partner privilegiato ed a pari dignità, ai reggenti secolari, si dimostrò palese durante il quarto ed il quinto secolo, quale "new fact... to alter the whole character of government."276 Quando però vennero riconosciuti alla Chiesa potere e prestigio, la corruzione diffusasi in seno alla cristianità indusse un gran numero di credenti a cercare rifugio nei monasteri. Fu un periodo travagliato e caratterizzato dalle recriminazioni dei pagani nei confronti dei cristiani, accusati di aver indotto gli imperatori romani ad abbandonare le divinità tradizionali che avevano procurato all'impero forza, vittoria e prosperità, per consegnarlo al Dio "usurpatore" della Bibbia. Si è sostenuto che i pagani sollevarono già in quel tempo una questione, la quale è tuttora lontano dall'essere risolta, ossia se un cristiano devoto possa essere un buon cittadino di uno stato terreno e se la sua coscienza possa permettergli di difendere la patria con le armi.277 Sant'Agostino sostenne che il Vangelo non è opposto alle guerre motivate e combattute con giustizia e misericordia, ma un gran numero di monaci ed asceti ritennero di opporsi alla pratica della guerra, facendo appello ad una epistola di San Paolino ai militari che erano animati dalla ricerca di una vita cristiana più elevata.278 Nella stessa epistola l'obbedienza cristiana veniva dichiarata incompatibile sia con i doveri della cittadinanza che con i legami della vita familiare; il servizio reso a Cristo ed a Cesare nello stesso tempo, ritenuto impossibile; i militari considerati spargitori di sangue e condannati all'inferno, e l'amore per padre, madre, moglie e figli, la brama di potere e ricchezza, considerati gravi ostacoli alla vita cristiana. Furono in migliaia a seguire San Girolamo fino a Betlemme, oppure a ritirarsi negli eremitaggi desertici dell'Egitto e della Siria, oltre che nei monasteri sulle isole del Tirreno. Mentre Rutilius Namatianus ironizzava sulla vita dei monaci cristiani, formulava i panegirici della Roma imperiale e delle sue antiche divinità279 e decantava le grida del circo e dell'arena280, Sant'Agostino era impegnato nella stesura del De Civitate Dei. Il vescovo di Hippo come anche San Girolamo nel suo ritiro di Betlemme, erano relativamente al sicuro quando si verificò il sacco di Roma, il quale deve aver causato un'impressione tale da indurre alla riscoperta della realtà dello schieramento apocalittico del bene e del male, dei demoni e degli angeli, "at once romantic and mystical, superstitious and materialistic"281, e dunque delle implicazioni teocratiche derivate dall'attualità del libro di Daniele e della prospettiva etico-messianica della letteratura apocalittica in genere. Sant'Agostino doveva però essere ben consapevole che le "forze del male" non erano necessariamente ed indistintamente schierate dalla parte di coloro che formalmente si proponevano come pagani critici nei confronti della cristianità, se credette di doversi spingere fino a riconoscere in Porfirio un "filosofo nobile... il più colto dei filosofi, per quanto acerrimo nemico dei Cristiani"282, favorendo così l'apertura nei confronti di quegli intellettuali pagani contrariati più dal disimpegno etico-politico dei cristiani che dal Cristianesimo. Ai nostri giorni come allora v'è chi radicalizza i termini del confronto con le scuole di pensiero che si oppongono al conservatorismo confessionale degli studi biblici, e pur compromettendo i termini teocratici derivati dalla fede, preferiscono adottare o ricambiare il linguaggio tagliente dell'offesa. Nel 407 Girolamo eseguì il commento al libro di Daniele, con l'intento di "esporre semplicemente ai cristiani ciò che i profeti hanno detto"283, "ma in effetti la tendenza razionalistica del filosofo pagano gli è presente passo passo e lo punge sul vivo, sì che il commento risulta quasi uno scritto polemico dove non mancano neppure espressioni stizzose."284 Girolamo carica il tono contro Porfirio, esasperato dal tentativo di "scalzare il profeta Daniele",285 esasperando a sua volta i suoi rivali, mentre S. Agostino sembra voler favorire un confronto più sereno su ogni fronte della cultura pagana, avvertendone i timori, i sentimenti, ed i valori tradizionali, per farsi suo sincero interlocutore, prima di ritornare nuovamente sui problemi cruciali dell'esegesi biblica. L'intuizione di Agostino sembra consistere nella necessità di proporre i contenuti e la fede biblica entro le categorie del pensiero filosofico, in modo da ritornare sulla letteratura apocalittica e sul messaggio centrale del libro di Daniele, ridimensionando la disputa sul particolare esegetico e puntando, con il De civitate Dei, all'essenza teocratica dell'etica messianica. La stesura di un commentario sul libro di Daniele rischia di perdersi nella polemica, nei calcoli escatologici e nella semplice tensione tra opposte cronologie, trascurando l'individuazione e lo studio delle tematiche etico-messianiche. Mentre l'esegesi cristiana si cimentava nello studio dei particolari del libro di Daniele (che pure hanno una loro precisa funzione), Agostino ne traduceva la sua vocazione teocratica in principi politici programmatici: "he went on to develop his ideas of the Christian alternative, and in so doing provided the foundation literature of the next phase of world history".286 Il De civitate Dei "was written deliberately to provide the alternative to the pagan sistem which, according to its argument, had brought catastrophe in this world, and implied in it was the idea that the adoption of this alternative would bring peace in this world and happiness in the world to come."287 Gli interrogativi che agitano la cristianità contemporanea erano i medesimi di Agostino, il quale però non intese risolverli mirando alla prosperità ed alla netta separazione tra lo stato e la chiesa, piuttosto che agli ideali teocratici: "... what was this city of God which was thus to be brought down to earth, and who were its citizens? Was it to be a great totalitarian State, as moderns would call it, requiring all its citizens to be of one faith and follow one way of life, and merging the secular and spiritual in a government trascending both? Or was it the ecclesiastical organization known as the Church with a government of priests and bishops?"288 E' verosimile che l'acquisizione della coscienza teocratica abbia richiesto ad Agostino un lungo processo di riflessione, tale da condurlo oltre le posizioni dottrinali di una cristianità ferma allo stadio della prevalenza degli elementi soteriologici su quelli teocratici nella definizione del kerigma. La transizione da una fase pietistica ad una riformata di tipo teocratico, risulta essere un archetipo non solo del Cristianesimo, rappresentando il livello di massima sensibilità alla vocazione al governo dell'uomo da parte delle religioni monoteistiche. Che la Chiesa possa indicare e promuovere i valori della città di Dio, non significa che i cristiani siano in grado di garantirla, poiché anch'essi sono caratterizzati da quelle espressioni negative dell'uomo, di cui essi si liberano solo nella misura in cui il messaggio evangelico viene assimilato nel profondo dell'essere. L'analisi che Agostino ha fatto della politica è stata intesa come dettata da una prospettiva antropologica negativa: "Sant'Agostino fece una perfetta analisi della politica, qualche secolo prima di Machiavelli, come libido dominandi.Oggi si capisce bene. Non è vero che gli uomini combattano per ragioni economiche o di classe... La verità è che gli uomini combattono per la libido dominandi, ossia per il desiderio del potere. Inutile che i comunisti ci promettano una umanità priva di lotte e di guerre."289 Il pessimismo di Agostino è anche realismo e determinazione alla resistenza nei riguardi delle forze che si oppongono ai principi del Regno di Dio, (l'impossibilità della perfetta applicazione delle leggi della città di Dio, a causa della natura umana degli stessi cristiani, non esclude il rinnovamento interiore dell'umanità): "Infatti... la fama di sant'Agostino era soprattutto filosofica o teologica. Pochi avevano notato l'importanza, in questo pilastro del pensiero cristiano, di un disegno realistico e pessimistico. Forse il primo che mise sulla strada di queste ricerche fu il Meinecke, quando fece notare la concordanza di alcuni interrogativi di sant'Agostino con certe affermazioni del Machiavelli. Infatti sant'Agostino aveva domandato ai suoi lettori: Che cosa sono i grandi imperi se non associazioni di ladri? E che cosa sono le associazioni dei ladri se non degli incipienti piccoli imperi? Mai nel pensiero aristotelico e tomistico (e quindi dantesco) si sarebbe dubitato in questo modo brutale della divina istituzione dello Stato. Per capire questa coincidenza bisogna ricordare che fra i pensatori cristiani colui che più fortemente insisté sul dogma del peccato originale e che più radicalmente contrappose la Città di Dio alla città del Mondo, fu sant'Agostino. La maggioranza degli uomini - per lui - è condannata al peccato; soltanto una minoranza di eletti può salvarsi; quest'ultima passerà in mezzo alla grande maggioranza come un gruppo di viaggiatori (viatores), formando la vera Chiesa, ed arriverà a conoscere il Regno dei Cieli. Ora Dio nella sua eterna saggezza per quella maggioranza ha predisposto dei modi di vita e di organizzazione politica che accettano... la cattiveria e l'egoismo fondamentale degli uomini come un dato di fatto per il quale esistono dei rimedi temporali, imperfetti, ma utili per render l'esistenza meno penosa e insopportabile."290 L'interpretazione che il Prezzolini fa di sant'Agostino giunge a ritenere che "tutta la politica appartiene alla città terrestre, che è organizzata da dei dannati per il loro temporaneo benefizio...", per ammettere subito dopo che è solo "l'azione politica senza l'intervento della grazia di Dio" ad essere "confinata entro i limiti posti per essa da Machiavelli", dal punto di vista del pensiero "genuino" del Cristianesimo originario.291 L'idea di Prezzolini secondo la quale è "vano cercare nella dottrina cristiana un concetto di Stato" in modo da sostenere che " ... quando la Chiesa si mette nella politica entra in un dominio non suo e per il quale non è adatta e deve abbandonare i principi suoi, superiori alla politica", appare animata dall'intento di vanificare la dottrina sociale della Chiesa e di conseguenza la vocazione profetica che essa è chiamata ad esercitare, ammonendo i governanti ed indirizzandoli al riconoscimento della sovranità di Dio sullo Stato ed all'osservanza della sua volontà nella condotta politica: "Un commentatore cattolico è rimasto sconcertato dalla mia opinione, espressa in un colloquio con un altissimo prelato, che la Chiesa, se si occuperà di programmi sociali, finirà per trovarsi sempre superata nella vendita all'incanto delle promesse politiche; e che la funzione della Chiesa è di consolare e assolvere i pentiti, non di animare i rivoltosi e di sognare la pace universale in terra."292 Il frequente uso che Prezzolini fa dell'affermazione di Cristo ("Il mio regno non è di questo mondo") non sembra in linea con l'altra affermazione, la quale chiarisce sia la precedente che l'intenzione del De civitate Dei: "Sia fatta la tua volontà in terra come è fatta nel cielo..."293 Pregare per l'avvento del Regno di Dio e subito dopo assumere il cielo quale criterio di vita della terra, esige l'impegno alla realizzazione della volontà di Dio in ogni sfera dell'esistenza terrena, e dunque anche politica.294 Il desiderio di relegare l'impegno della Chiesa alla consolazione dei pentiti, lasciando il governo del mondo ai macchiavellici della politica, esprime evidentemente gli interessi delle entità interessate a monopolizzare il mondo, senza dover subire le ingerenze o la sovranità di un'entità superiore. Sant'Agostino non ha certo voluto rassegnare le dimissione per consegnarsi ai monopoli, anziché ricordare che gli affari della terra vanno condotti secondo le leggi del cielo. Il De civitate Dei non predica il disimpegno politico, la rinuncia alla dottrina sociale e la capitolazione della vocazione alla teocrazia. L'intenzione di Agostino è quella di evidenziare la natura delle forze schierate sul campo di battaglia della storia umana. Due città sono in lotta e "non si dividono mai nettamente il loro campo d'azione nella storia".295 Le due città non "s'identificano mai con i particolari elementi da cui la storia degli uomini è costruita, giacché dipendono soltanto da ciò che ogni singolo uomo decide di essere."296 La chiesa visibile non è necessariamente costituita da individui che sono cittadini della città di Dio, così come gli individui ritenuti ordinariamente cittadini della città terrena non sono necessariamente tali. Il criterio per l'individuazione delle due categorie non è quello anagrafico, bensì, in sintonia con il fondamento dell'etica giudeocristiana, il seguente: "L'amore di sé portato fino al disprezzo di Dio genera la città terrena; l'amore di Dio portato fino al disprezzo di sé genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al disopra di tutto la gloria di Dio. I cittadini della città terrena sono dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l'uno all'altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale."297 L'atteggiamento che genera la città terrena è proprio del Piccolo Corno, il quale lo fa radicalmente suo fino alla pretesa di sostituirsi a Dio. La contrapposizione tra le due città corrisponde alla tensione tra due diversi sistemi di pensiero e modelli etici, lungo il corso della storia umana, fino all'avvento del Piccolo Corno ed al suo superamento nel Regno di Dio.298 Il collegamento del De civitate Dei al libro di Daniele è concettuale e fa riferimento alla vocazione teocratica ed alla sensibilità etico-messianica di entrambi. E' verosimile che il programma sociale della Chiesa cattolica non tenga in dovuto conto il realismo antropologico di Agostino, il quale credeva fermamente nel peccato originale e riteneva che l'umanità tutta, in massa, sia incline al male e che possa redimersi da esso soltanto per la grazia di Dio.299 In altri termini, l'idea teocratica del De civitate Dei si colloca nel contesto della teologia di Agostino, in opposizione all'ottimismo antropologico di Pelagio, il quale negava che la colpa di Adamo avesse indebolita radicalmente la libertà originaria dell'uomo e quindi la sua capacità di fare il bene.300 Nonostante l'ottimismo antropologico della teologia cattolica, la sua dottrina sociale risulta conforme all'etica messianica derivata dalla letteratura profetica ed apocalittica, mentre una parte consistente del Protestantesimo contemporaneo, al seguito della teologia agostiniana, non sembra aver formulato un'etica sociale che non sia ascritta entro i termini della subordinazione ai potenti di turno. Il dibattito relativo alle conseguenze politiche da desumersi dalla teologia agostiniana, ha visto come protagonisti principali, Lutero e Calvino. Le esperienze teocratiche riformate ed il pietismo anabattista sono conseguenze estreme e polarizzate della medesima matrice agostiniana. La questione relativa al governo dell'uomo si lega, nel pensiero dei due grandi riformatori, al problema del rapporto tra Chiesa e Stato.


    c. Affinità etico-messianiche della dottrina
    sociale del magistero cattolico

    La stesura del De civitate Dei richiese 13 anni, duranti i quali Agostino ne rendeva note le sezioni man mano che si rendevano disponibili. Non si vuol suggerire che l'idea iniziale di Agostino abbia subito una modificazione radicale lungo il percorso del De civitate Dei, bensì che l'intuizione teocratica abbia potuto evolversi a partire dall'esigenza di guardare alle vicende del proprio tempo dal punto di vista della fede nel Cristo, Dio sovrano e salvatore del mondo, piuttosto che dalla precomprensione logica ed organica dei principi teocratici, suggerendo in tal modo che all'origine dell'intero movimento è la semplice fede che medita su se stessa: "To expect a poet and a mystic writing in this way to maintain the logical consistency which would be required from an engineer or an economist presenting what moderns call a plan would be an absurdity. His moods vary; he approaches his theme from many points of view and with many repetitions and variations. At one moment he is on the heights; at another in the depths - or so it seems to a modern..."301 La relazione della città di Dio di Agostino con lo stato terreno ha suggerito "an analogy with Plato's idea of the relation of his Republic to the pratical constitution propounded in his Laws."302 La città di Dio e la Repubblica si propongono entrambi come riferimenti ideali, i cui valori assoluti determinano la dipendenza delle istituzioni e delle leggi umane, benché sia scontata la tensione tra le due città, dovuta "to the hardness of human hearts", e previsto che "it is only in the heavenly city that absolute righteousness can be realized".303 Secondo Harnack, Agostino "roused the conviction that the empirical Catholic Church sans phrase was the kingdom of God, and the independent State that of the devil."304 Il fatto che la "Chiesa dell'Iddio vivente" venga detta "casa di Dio" e che essa sia destinata a costituire la Gerusalemme celeste305, non indica che le autorità ecclesiali debbano governare direttamente lo Stato, piuttosto che influire su di esso affinché vengano assicurati, quando ciò è possibile, reggenti, leggi ed istituzioni compatibili con il pensiero e l'etica biblica. Formalmente lo Stato può essere diviso dalla Chiesa, ma ambedue non possono che dipendere dai medesimi principi teocratici e spirituali ai quali il De Civitate Dei fa riferimento. Quando tali aspirazioni vengono disattese dal governo in carica, la Chiesa è chiamata a svolgere il suo ruolo profetico e ad informare le autorità secolari della tendenza a radicalizzarsi dell'incidenza delle cinque maledizioni di Habacuc e dunque della prossimità del giudizio divino, il quale "stabilisce chi deve essere re e può innalzare anche il più povero degli uomini."306 E' dunque inevitabile che le autorità ecclesiali, nonostante non siano chiamate ad occuparsi direttamente dell'amministrazione dello Stato, ne rappresentino collegialmente l'autorità morale e spirituale, responsabile dei principi adottati nell'esercizio del governo. La collegialità, caratteristica degli antichi giudici, prima dell'avvento della monarchia ebraica, e dei vescovi durante il periodo del N.T., dovette ridimensionarsi, probabilmente anche a motivo della necessità di un riferimento autorevole e preciso, e tradursi nel sistema teocratico cattolico, il quale colloca il collegio dei vescovi alle dipendenze del Pontefice. Indubbiamente l'aspirazione alla teocrazia è alla base dell'evoluta dottrina sociale della Chiesa Cattolica, ed a prescindere dal dibattito dottrinale, si può riconoscere che il suo magistero è la maggiore autorità morale in seno alla cristianità, capace di tenace resistenza, senso critico e profetico nei riguardi delle manovre culturali e delle strategie economiche contemporanee, nei confronti delle quali, rilevanti componenti del Protestantesimo, nonostante l'ortodossia dottrinale, si sono rese vittime ed in molti casi complici. Dal confronto con le istanze teocratiche derivate dal libro di Daniele, il pensiero sociale della Chiesa Cattolica risulta estremamente autorevole e coerente, oltre che capace di tradurre i termini dei tempi e della legge in principi etici che si riferiscono a molti campi dell'attività umana, ed in particolare a quel sistema di forze e di discipline che presiedono al governo ed allo sviluppo dell'uomo. Una delle prime encicliche, la Vix pervenit di Benedetto XIV nel 1745, mentre la rivoluzione industriale iniziava il suo fatale corso al seguito, nel bene e nel male, della nascente borghesia nordeuropea, prende "in esame il problema dell'usura e stabilisce dettagliate disposizioni circa il giusto prestito ad interesse, sottolineando che la giustizia innalza la gente e il peccato rende miseri i popoli" e dunque opponendosi, sul nascere, a quella visione economico-politica responsabile del progresso indiscriminato ed unilaterale del mondo moderno, oltre che di una recrudescenza degli egoismi dell'individuo, quale condizione per la coesistenza e l'integrazione sociale.307 La preoccupazione dell'insegnamento pastorale e sociale della Chiesa è l'uomo inteso in senso storico e concreto, e la difesa della dignità dell'uomo. Oggetto delle encicliche sociali è l'uomo nei suoi rapporti economico-sociali: i diritti e i doveri della proprietà, del lavoro, dei soggetti che gestiscono sia l'una che l'altra, ossia i proprietari e i lavoratori, intesi tanto in senso individuale quanto in senso collettivo (associazioni professionali e di categoria, corporazioni, sindacati); le condizioni e i limiti degli utili provenienti sia dalla proprietà che dal lavoro, della lotta sociale per il conseguimento dei frutti economici; le condizioni e i limiti di eventuali interventi da parte dello Stato, inteso come arbitro al di sopra delle parti.308 Il pensiero sociale del Magistero appare animato dalla visione profetica ed escatologica sul presente degli uomini, alla luce dei segni dei tempi e del Vangelo; dalla volontà di "rinnovare, meglio che può, il messaggio di Cristo, adattandolo alle sempre diverse situazioni storiche; e "dall'amore di Cristo" quale "testimonianza di amore per l'uomo."309 Leone XIII dedica la prima enciclica sociale, la Rerum novarum del 15 maggio 1891, alla questione operaia: "Alle ideologie liberista e socialista, il papa oppone la filosofia cristiana".310 Pio XI riprende ed aggiorna il messaggio di Leone XIII con la Quadrigesimo anno del 15 maggio 1931, dopo mezzo secolo di "capitalismo selvaggio", a partire dall'Excelsior andato in scena alla Scala di Milano l'11 gennaio del 1881, quale manifesto entusiastico del capitalismo, liberista ed individualista in politica interna e protezionista in politica estera. La "filosofia cristiana" di Leone XIII e Pio XI, la quale si ispira alla collaborazione di classe e propone una terza via di fronte al fallimento degli opposti sistemi del capitalismo e del comunismo, rappresenta il riferimento culturale di generazioni di seminaristi, i quali divenuti sacerdoti porteranno, così come il citato Don Rocco di Palazzo San Gervasio, il fermento sociale e la visione etica giudeocristiana nelle proprie parrocchie, in modo da richiedere ai propri fedeli una chiara presa di posizione di fronte alle implicazioni morali, economiche e complessivamente culturali del Vangelo, oppure ammettere il proprio paganesimo e collocarsi al di fuori della comunità ecclesiale senza disgustose ambiguità. Il significato dell'opera di Don Rocco, la sua stessa risentita rigidità e quasi sdegnata intransigenza, resterebbero velate e ridotte all'esigenza della tradizione popolare di nuovi misteri di santità senza quelle riforme che la religione esige. I prelati della generazione di Don Rocco hanno vissuto un'ulteriore ampliamento del pensiero sociale cattolico al sopraggiungere della seconda guerra mondiale. Pio XII colloca la questione sui fondamenti più ampi del diritto internazionale, sulla base della convinzione (ripresa più tardi nella Sollicitudo Rei Socialis da Giovanni Paolo II) che la pace sia frutto della giustizia, e che la giustizia sociale può emergere solo dalla pace. La Mater et Magistra di Giovanni XXIII commemora, il 15 maggio del 1961, il settantesimo dell'enciclica leoniana, introducendo il tema della giustizia sociale alle dimensioni dei complessi equilibri internazionali, alla quale fa seguito, l'11 aprile 1963, la Pacem in Terris, a completamento del documento precedente: "ora l'insegnamento sociale della Chiesa si fa più attento ai segni dei tempi, diventa più storico e meno filosofico, riconosce la necessità del pluralismo rinunciando a progetti unidirezionali, sollecita tutta la Chiesa e particolarmente i laici ad assumersi le proprie responsabilità evangeliche." Il discorso sulla pace e la giustizia rientra così nelle pagine della costituzione pastorale Gaudium et Spes (7 dicembre 1965) in seno al Concilio Vaticano II, poi ripreso da Paolo VI nella Populorum Progressio (26 marzo 1967) e nella Octogesima Adveniens (4 maggio 1971). Alle soglie del terzo millennio, mentre "di fronte ad una nuova era tecnologica che avanza da Occidente ed Oriente, ogni individuo, ogni società sembrano rimessi in discussione", Giovanni Paolo II rivolge all'uomo contemporaneo il pensiero sociale del Magistero, dalla Laborem Exercens (14 settembre 1981) alla Sollicitudo Rei Socialis (30 dicembre 1987). Da Leone XIII fino a Giovanni Paolo II, il magistero cattolico ha confermato la legittimità e la responsabilità di riferirsi alla tradizione biblica per attingervi i principi dell'etica sociale e di uno sviluppo equilibrato e globale dell'umanità. L'insegnamento sociale del magistero cattolico risulta dunque ancorato all'etica giudeocristiana e giunge alla elaborazione di un pluralismo cristiano che tollera le ideologie e riconosce tutte le entità nazionali. Le riserve riguardano piuttosto il modello antropologico che soggiace alla dottrina sociale. Il rischio consiste nell'affidare i buoni propositi etici ad un mondo che s'identifica sempre di più con i modelli della citta terrena, nonostante la sua veste religiosa, ragion per cui l'insegnamento sociale deve procedere di pari passo con l'annuncio delle fondamentali verità evangeliche relative alla rigenerazione del cuore dell'uomo, nonostante l'antropologia cristiana riconosca la possibilità di corrette ed ordinarie attitudini umane animate dall'opera dello Spirito Santo. L'impressione è che le lacerazioni nella cristianità corrispondano ad un'alterazione degli equilibri antropologici e dell'integrità del modello etico e teocratico giudeocristiano, all'origine dello smarrimento di porzioni del sistema e dei contenuti teologici, interdipendenti. Se la pace è legata alla giustizia, l'etica è compromessa dove la verità è resa frammentaria. E dove l'etica è compromessa, l'avventura individualistica è destinata a tradursi prima o poi nell'avvento del Piccolo Corno e della città terrena.


    i. Il progresso secondo la Sollicitudo Rei Socialis

    L'enciclica di Giovanni Paolo II, edita in occasione del XX anniversario della Populorum Progressio, ossia la Sollicitudo Rei Socialis, risulta animata dalla volontà di praticare la giustizia e la misericordia verso i poveri, nello spirito del ravvedimento e della rinunzia all'iniquità, e come tale in sintonia coi principi etico-messianici del libro di Daniele: "... in linea generale... non si può negare che la presente situazione del mondo, sotto questo aspetto dello sviluppo, offra un'impressione piuttosto negativa. Per questo desidero richiamare l'attenzione su alcuni indici generici, senza escluderne altri specifici. Tralasciando l'analisi di cifre e statistiche, è sufficiente guardare la realtà di una moltitudine innumerevole di uomini e donne, bambini, adulti e anziani, vale a dire di concrete ed irripetibili persone umane, che soffrono sotto il peso intollerabile della miseria. Sono molti milioni coloro che sono privi di speranza per il fatto che, in molte parti della terra, la loro situazione si è sensibilmente aggravata. Di fronte a questi drammi di totale indigenza e bisogno, in cui vivono tanti nostri fratelli e sorelle, è lo stesso Signore Gesù che viene a interpellarci - cfr. Mt. 25, 31-46 - ."311 Gli atti di misericordia verso i poveri non sono autentici e duraturi se non sono animati da una visione globale dello sviluppo dell'uomo e da modelli culturali che non conducano a giustificare la sopraffazione dell'uomo sul suo simile e di un'area del mondo su un'altra, al seguito di risorse e possibilità accentuate dal ricorso sfrenato a prerogative individualistiche, spesso erroneamente interpretate quale oggettiva superiorità (la superiorità di chi pensa alla propria sopravvivenza è qualitativamente diversa, anche se talvolta più efficiente, da quella di chi non intende porre se stesso in competizione con la i propri simili) e naturale liceità di una preminenza economica che contrasta con un disagio diffuso e che può significare in molti casi la morte prematura di milioni di esseri umani: "Nord sviluppato e... Sud in via di sviluppo. Questa terminologia geografica è soltanto indicativa, perché non si può ignorare che le frontiere della ricchezza e della povertà attraversano al loro interno le stesse società sia sviluppate che in via di sviluppo. Difatti, come esistono diseguaglianze sociali fino a livello di miseria nei paesi ricchi, così parallelamente, nei paesi meno sviluppati si vedono non di rado manifestazioni di egoismo e ostentazioni di ricchezza, tanto sconcertanti quanto scandalose. All'abbondanza di beni e servizi... nel Nord sviluppato, corrisponde nel Sud un inammissibile ritardo, ed è proprio in questa fascia geo-politica che vive la maggior parte del genere umano."312 Il ricorso sfrenato ad iniziative individualistiche assume forme ancora più perverse quando si colloca in seno alle istituzioni pubbliche, determinando quei mali della burocrazia all'origine delle corruzioni, delle diseguaglianze e delle oppressioni, in contrasto con le aspirazioni costituzionali delle nazioni democratiche: "Al posto dell'iniziativa creativa nasce la passività, la dipendenza e la sottomissione all'apparato burocratico che, come unico organo disponente e decisionale - se non addirittura possessore - della totalità dei beni e mezzi di produzione, mette tutti in una posizione di dipendenza quasi assoluta che è simile alla tradizionale dipendenza dell'operaio-proletario dal capitalismo. Ciò provoca un senso di frustrazione o disperazione e predispone al disimpegno dalla vita nazionale, spingendo molti all'emigrazione e favorendo, altresì, una forma di emigrazione psicologica."313 L'autentico sviluppo non può essere conseguito individualisticamente, senza mirare alla collaborazione ed al bene comune, nonostante l'individuo e le minoranze siano stati esasperati ed indotti al ripudio di quest'ultimo principio, per cimentarsi in una pericolosa avventura, all'origine del mondo moderno, ma che rischia di trasformarsi nel dominio di un laicismo votato al potere economico contro l'uomo ed i valori cristiani, benché si faccia a questi ultimi ricorso quando si tratta di ottenere consensi e legittimazioni.314 Il Magistero ha dichiarato la volontà, (almeno formalmente) di operare e coesistere, guardando allo sviluppo, con le minoranze protestanti, (ad esempio nella Sollicitudo) e dimostrando (almeno nelle grandi occasioni e nelle dichiarazioni programmatiche) anche la disponibilità al dialogo ed al superamento delle differenze teologiche (in assenza della quale alcune minoranze non ritengono neppure lecito ed opportuno la collaborazione in altri campi, a loro avviso soggetti alla propaganda di falsi costruttori sociali, per assicurarsi un'egemonia già in passato schierata contro la verità evangelica) : "L'obbligo di impegnarsi per lo sviluppo dei popoli... è un imperativo per tutti e per ciascuno degli uomini e delle donne, per le società e le Nazioni, in particolare per la Chiesa cattolica e per le altre Chiese e Comunità ecclesiali con le quali siamo pienamente disposti a collaborare in questo campo. In tal senso, come noi cattolici invitiamo i fratelli cristiani a partecipare alle nostre iniziative, così ci dichiariamo pronti a collaborare alle loro, accogliendo gli inviti che ci sono rivolti."315 Certamente "nemmeno la necessità dello sviluppo può essere assunta come pretesto per imporre agli altri il proprio modo di vivere e la propria fede religiosa", purché questi "altri" non tentino di servirsi dello sviluppo per combattere e negare nei fatti il sistema democratico che ne rappresenta la condizione, probabilmente a causa del timore che l'apertura nei confronti della cultura occidentale determini la crisi dei costumi, della fede tradizionale, e forse degli ingiusti privilegi e degli orgogli nazionali.316 E' nella natura della verità non temere il confronto dialettico, estendersi e radicarsi nelle coscienze. Il rifiuto delle libertà democratiche è un sintomo di falsità ideologica e corruzione, a cui può verosimilmente far seguito la crisi economica, e, nei casi più gravi, la perdita della propria autonomia, anche in seguito ad operazioni belliche di carattere colonialistico. Che l'Occidente possa scaturire nel dominio del Piccolo Corno non significa che vi sia il consenso della tradizione giudeocristiana a combattere il sistema democratico, il quale rappresenta piuttosto la condizione più economica e conveniente per la transizione al Regno di Dio, evitando sacrifici umani inutili e prematuri, ancora prima del tentativo del Piccolo Corno d'insultare il Dio Altissimo, di opprimere il popolo santo, di modificare i tempi e la legge.317 Se gli ultimi chiarimenti non venissero presi in considerazione non si potrebbe affermare che non "sarebbe veramente degno dell'uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli", al punto che alcuni atteggiamenti economici e politici propri della Casa Bianca e del fondamentalismo protestante assumerebbero un'indiscutibile coerenza, e pregiudicherebbero il carattere globale della Sollicitudo Rei Socialis, nonostante il suo disegno esprima un'indubbia affinità con le implicazioni sociali dell'aspirazione messianica della letteratura profetica ed apocalittica, la cui realizzazione viene però subordinata alla riconciliazione cristiana e rimandata nella sua pienezza e globalità all'avvento del Regno di Dio, ossia alla glorificazione della Chiesa quale compimento della storia318 e condizione per il governo secondo un'ottica nuova: "La fede in Cristo Redentore, mentre illumina dal di dentro la natura dello sviluppo, guida anche nel compito della collaborazione. Nella Lettera di san Paolo ai Colossesi leggiamo che Cristo è il primogenito di tutta la creazione e che tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui.319 Infatti, ogni cosa ha consistenza in lui, perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose.320 In questo piano divino, che comincia dall'eternità in Cristo, immagine perfetta del Padre, e che culmina in lui, primogenito di coloro che risuscitano dai morti,321 s'inserisce la nostra storia, segnata dal nostro sforzo personale e collettivo di elevare la condizione umana, superare gli ostacoli sempre risorgenti lungo il nostro cammino, disponendoci così a partecipare alla pienezza che risiede nel Signore e che egli comunica al suo corpo, che è la Chiesa,322 mentre il peccato, che sempre ci insidia e compromette le nostre realizzazioni umane, è vinto e riscattato dalla riconciliazione operata da Cristo.323 Qui le prospettive si allargano. Il sogno di un progresso indefinito si ritrova trasformato radicalmente dall'ottica nuova aperta dalla fede cristiana, assicurandoci che tale progresso è possibile solo perché Dio Padre ha deciso fin da principio di rendere l'uomo partecipe della sua gloria in Gesù Cristo risorto, nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati,324 e in lui ha voluto vincere il peccato e farlo servire per il nostro bene più grande, che supera infinitamente quanto il progresso potrebbe realizzare."325 Ed ecco come la problematica dello sviluppo si risolve nell'attesa messianica, riconoscendo implicitamente che l'etica sociale può soltanto limitare il "peccato che sempre compromette le realizzazioni umane", ma non estirparlo del tutto, fino all'avvento del Regno escatologico: "Possiamo dire allora - mentre ci dibattiamo in mezzo alle oscurità e alle carenze del sottosviluppo e del supersviluppo - che un giorno questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità,326 quando il Signore consegnerà il Regno a Dio Padre327 e tutte le opere e azioni, degne dell'uomo, saranno riscattate."328 L'impegno per lo sviluppo va comunque realizzato dalla Chiesa, perché è un dovere del suo ministero pastorale, trattandosi di una conseguenza dell'etica cristiana derivata dal riconoscimento della sovranità di Dio e dalla funzione ordinatrice che la Chiesa è chiamata ad esercitare: "Il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di usare e abusare, o di disporre delle cose come meglio aggrada... Col suo impegno (la Chiesa) essa desidera, da una parte, mettersi al servizio del piano divino inteso a ordinare tutte le cose alla pienezza che abita in Cristo,329 e che egli comunicò al suo corpo, e dall'altra, rispondere alla sua vocazione fondamentale... di segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano."330 La negazione della sovranità di Dio corrisponde all'affermazione della volontà di potenza e di affermazione di sé contro la giustizia e la misericordia di Dio, interferendo "nel processo dello sviluppo dei popoli, il cui ritardo o la cui lentezza deve essere giudicata anche sotto tale luce." Gli atteggiamenti più caratteristici del supersviluppo, per i quali quest'ultimo può attuarsi e riprodurre a sua volta i medesimi atteggiamenti, (ad esempio proponendo la carriera in cambio della rinuncia alla tessera del sindacato) sono contrari alla disponibilità ad annichilirsi nei mille modi che l'esistenza non manca di procurare, dall'anonimato alla frugalità, dall'impopolarità alla precarietà, nel senso evangelico di "perdersi a favore dell'altro invece di sfruttarlo, e... servirlo invece di opprimerlo per il proprio tornaconto" : "... tra le azioni e gli atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo e le strutture che essi inducono, i più caratteristici sembrano oggi soprattutto due: da una parte, la brama esclusiva del profitto e dall'altra, la sete del potere col proposito di imporre agli altri la propria volontà. A ciascuno di questi atteggiamenti si può aggiungere, per caratterizzarli meglio, l'espressione: a qualsiasi prezzo... Ovviamente, a cader vittime di questo duplice atteggiamento di peccato non sono solo gli individui; possono essere anche le Nazioni e i blocchi... Se certe forme di imperialismo moderno si considerassero alla luce di questi criteri morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo dall'economia o dalla politica, si nascondono vere forme di idolatria: del denaro, dell'ideologia, della classe, della tecnologia."331 Tali atteggiamenti, ormai prossimi al definitivo e globale riconoscimento, suggeriscono che si tratta della struttura più radicale e diffusa che sia stata mai concepita contro l'etica giudeocristiana, e per questa ragione l'ipotesi che si tratta di fondati indizi dell'imminenza del Piccolo Corno si propone con forza. Gli stessi atteggiamenti sono all'origine dell'allargamento del fossato tra l'area del cosiddetto Nord sviluppato e quella del Sud in via di sviluppo, e tale tendenza non accenna ad attenuarsi fino a quando i popoli che la subiscono non si decidono a farli propri, oppure fino a quando i paesi più avanzati non si decidono a ridimensionarli.332 Le aree occidentali meno sviluppate, oltre a fruire di un reddito procapite e di un tasso di sviluppo, in alcuni casi da terzo mondo, devono, a differenza di altri popoli arretrati ma lontani, far fronte al confronto immediato entro gli stessi confini nazionali, godendo in teoria della beffa degli stessi diritti costituzionali, e vedere umiliata la propria dignità etnica ed individuale nelle forme subdole ed ambigue di chi ritiene di misurare la civiltà di un popolo dalla quantità di tecnologia che è in grado di produrre, ignorando che un ben diverso ed efficace criterio di estimo viene nel frattempo adottato nei loro riguardi.333 La dossologia a conclusione della Sollicitudo Rei Socialis può essere condivisa appieno soltanto dai fedeli cattolici, nondimeno la preghiera per lo sviluppo e la solidarietà fra i popoli ed il ricordo della sovranità di Dio sugli uomini nella lode di Maria, risulta edificante ai credenti di ogni confessione, così come di monito a chi detiene il potere, oltre che di consolazione a chi lo subisce: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote"334 E' noto che Maria pronunciò la sua lode in occasione dell'annuncio della nascita del Messia, e ciò riporta nuovamente la questione dello sviluppo dell'uomo in seno al tema messianico ed apocalittico.


    ii. Sviluppo internazionale ed emigrazione

    Il tentativo di comprendere il complesso dei motivi che determina l'emigrazione di vasti gruppi umani verso l'Occidente, induce in primo luogo ad una classificazione dei paesi interessati dal fenomeno migratorio, a partire da caratteristiche economiche. I paesi con reddito pro capite da 200 a 5000 dollari sono pesantemente influenzati dall'emigrazione in occidente. L'ordinaria assenza in Italia di immigrati da paesi con reddito inferiore ai 200 dollari suggerisce che anche l'operazione migratoria esige costi e preparazioni ai quali si può accedere solo quando si dispone di un qualche reddito nel paese d'origine. E' raro che si incontrino immigrati provenienti dal Bangladesh, dal Mali, dal Bhutan, dalla Birmania, dal Ciad, dal Nepal, ma non altrettanto si può dire di vietnamiti, zairesi ed etiopici, ad indicare che l'emigrazione può essere favorita, a parità di condizioni economiche, dalle minori distanze e dallo status di rifugiati politici. Il debito finanziario dei paesi maggiormente soggetti all'emigrazione dimostra che, in un modo o nell'altro, i paesi più avanzati devono affrontare le problematiche internazionali. Mentre negli ultimi anni l'occidente ha conosciuto una crescita del prodotto lordo dal 2 al 4 % annuo e della domanda interna di beni nei sette principali paesi industrializzati, il complesso delle nazioni in via di sviluppo è in fase di arretramento. La crescita di quest'ultimi, già calata del 4% nel 1986, ha subito un ulteriore ridimensionamento del 3,3% nel 1987. L'America Latina è coperta di debiti con il sistema finanziario internazionale, mentre i paesi produttori di petrolio non riescono a riprendere la marcia, perché il greggio non basta più, come negli anni della crisi occidentale, a garantire l'autonomia. Specialmente in paesi come l'Italia, dove il carico fiscale e la burocrazia godono di un elevato prestigio, il costo dei prodotti petroliferi esprime in buona parte la percentuale incamerata dallo Stato. Gli aiuti destinati alle grandi aree del sottosviluppo, a motivo dei sorprendenti avvenimenti storici dello scorso anno, i quali hanno ridisegnato la mappa della cooperazione internazionale, vengono ora convogliati specialmente in direzione dei paesi dell'Est. L'Italia ha incluso nel programma di cooperazione 1990-92 la Iugoslavia, la Polonia, e l'Ungheria tra i paesi di prima priorità. L'Albania è stata riconosciuta come questione speciale nel contesto dell'area adriatica. Etiopia, Somalia, Mozambico e Tanzania nell'Africa subsahariana e Algeria, Egitto, Tunisia e Malta nel bacino del Mediterraneo, rimangono comunque tra i paesi di prima priorità. Si nota dunque che L'Italia ha selezionato in tal modo alcuni dei paesi più rappresentativi di ogni fascia di reddito pro capite, ma emerge con chiarezza la volontà di contribuire allo sviluppo dei paesi dell'Est in modo del tutto speciale, probabilmente a partire da motivi di affinità e strategie continentali. Tale esigenza forse spiega almeno in parte la necessità di regolamentare l'afflusso degli extracomunitari, i quali come è noto ottengono vantaggi con la Legge Martelli, ma anche i limiti derivati dal numero chiuso e dall'immigrazione programmata. Individuate le tre fasce economico-finanziario da cui derivano gli immigrati consideriamo brevemente le caratteristiche di un campione rappresentativo di ogni fascia.


    - Etiopia

    Il 50% del bilancio statale viene assorbito dalle forze armate etiopiche (330.000 uomini), ora guidate da ufficiali privi di esperienza. L'incalzare della guerriglia del Fronte Popolare di Liberazioni dell'Eritrea (Fple) e dell'omonimo fronte del Tigré (Fplt) isola sempre più Menghistu sia sul piano interno che su quello internazionale. Una via d'uscita dalla crisi potrebbe consistere in una federazione con ampie autonomie regionali ed una nuova leadership ad Addis Abeba. E' però difficile che lo stato etiopico rinunci all'integrità nazionale, secondo quanto vorrebbero i secessionisti eritrei. L'autonomia accontenterebbe i ribelli del Tigré, i quali sembrano ispirarsi al Marxismo più radicale ed esasperato. La guerra e l'esercito, dunque, esauriscono le risorse nazionali, per cui i paesi interessati dal conflitto dovrebbero essere aiutati a realizzare la pacificazione più di quanto è stato già fatto. Il clima ed il territorio non hanno dimostrato di essere favorevoli negli ultimi anni. Dopo la tremenda carestia del 1984-85 che causò 800.000 vittime, nelle regioni settentrionali sembra ritornarne lo spettro. La siccità ha rovinato i raccolti in Eritrea e nel Tigré orientale, dove occorrono almeno 200.000 tonnellate di cereali per sostenere in vita 1,7 milioni di persone (tra residenti e profughi a causa della guerra). La comunità internazionale, per adeguarsi alle direttive del Programma Alimentare Mondiale (Pam) dell'O.N.U. dovrebbe poter contare sull'impegno del governo di Menghistu e delle parti coinvolte dal conflitto in atto. Al contrario, le violazioni dei diritti umani da parte del regime etiopico e le timide riforme dell'economia sembrano non incoraggiare i buoni propositi della comunità internazionale.


    - Egitto

    Le piaghe dell'Egitto sono più di sette: da un incremento demografico del 2,5% annuo, il quale porterà l'attuale popolazione di 53 milioni di abitanti ai 95 milioni del 2025, a una superficie coltivabile di soli 35.000 chilometri quadrati. Le spese belliche sono onerosissime a causa di conflitti irrisolti nell'area mediorientale (è di oltre 5,6 miliardi di dollari il budget militare nel 1989, pari a circa l'8% del prodotto nazionale lordo e al 25% del bilancio governativo. L'esperienza bellica vissuta nello scontro con Israele deve aver determinato una tenace volontà di professionalità e preparazione militare che però non sembra tenere in dovuto conto che lo sviluppo più duraturo implica l'istruzione, l'alimentazione, la ricerca scientifica e tecnologica, e specialmente la laicizzazione e democraticizzazione dello Stato, la cui prevaricazione determina a lungo andare (gli esempi mediorientali non mancano) il dissesto finanziario, l'abbrutimento sociale e la guerra civile. La disoccupazione corrisponde ad un tasso ufficiale del 22% ma in realtà è all'incirca doppio. Il debito estero che nel 1989 ha raggiunto i 50 miliardi di dollari, divorando poco meno di 5 miliardi per il suo servizio (pagamento degli interessi + le quote di capitale). Il Fondo Monetario ha richiesto per l'ennesima volta che il deficit della bilancia dei pagamenti dal 17% del Pnl si riduca al 13%. E' improbabile che il deficit di bilancio venga ridotto dagli attuali 7 a 4 miliardi di dollari, senza provocare le puntuali rivolte popolari. Il sistema occidentale avrà sì le sue mostruosità, alle quali fanno riferimento le accuse dei movimenti fondamentalisti islamici presenti anche in Egitto, ma è improbabile che vi sia una via d'uscita dal sottosviluppo che non passi attraverso il pluralismo democratico, risolvendo così quelle tensioni storiche plurisecolari che hanno sempre più approfondito il divario tra cultura europea ed islamica. Il problema dei paesi islamici che versano in difficoltà economiche consiste proprio in quelle tentazioni di fondamentalismo teocratico che interpretano l'occidente laico a prescindere dalle cause storiche o confessionali che lo hanno determinato, prima ancora di rendersi strutturale nell'adozione degli automatismi delle regole di mercato. E' improbabile che il fondamentalismo islamico possa da solo ribaltare l'Occidente, ma promuovendo la coesistenza ed il pluralismo democratico è possibile che, insieme ad altre fedi religiose, possa riformarne alcuni aspetti negativi e disumani, sulla base di comuni e basilari valori etico-sociali. E' difficile ed impopolare presentare ad una popolazione islamica, (quale quella egiziana) attanagliata da gravi disagi esistenziali, una ricetta dalle apparenze inevitabilmente teoriche, per cui, quando il relativo governo è costretto ad intaccare il sistema dei prezzi politici di molti beni di prima necessità (2,35 miliardi di dollari il costo per il 1989 delle sovvenzioni ai soli prodotti energetici), la rivolta popolare e l'acuirsi dello spirito fondamentalista islamico è prevedibile che si combinino nella miscela più esplosiva di cui l'Islam possa oggi disporre allo scopo di realizzare l'unificazione dei paesi islamici per coalizzarli contro l'Occidente ed abbatterlo. Non si tratta di compiere, dunque, esclusive operazioni di carattere politico, bensì di eticizzare e moderare il sistema economico-finanziario occidentale. La cristianità può mediare la difficile relazione tra Islam ed Occidente, riconoscendo la necessità di una riforma etico-sociale ed il superamento delle secolari divisioni confessionali che hanno plasmato all'origine lo spirito della borghesia imprenditoriale, ma nello stesso tempo l'Islam dovrebbe cercare delle forme di dialogo più proficue con le varie componenti ideologiche e religiose dell'Occidente. Mentre si discute, Hosni Mubarak deve confrontarsi con le regole severe dell'economia e con il malcontento aizzato dagli estremisti islamici verso le sue scelte inevitabilmente occidentalizzanti. Nell'Agosto scorso la polizia egiziana ha sventato, arrestando 41 persone, il complotto di un'organizzazione clandestina sciita che, secondo il Procuratore Generale della Repubblica Gamal Chouman, voleva "abbattere il regime egiziano e instaurare una repubblica islamica come in Iran". Quando esaminiamo i problemi dei paesi in via di sviluppo, compresi quelli islamici, sciiti o sunniti, fondamentalisti e non, la tendenza è quella di dare per scontato il carattere oggettivo di una ricerca a partire da una presunta superiorità civile, religiosa ed economica, mentre invece dovremmo permettere che la coscienza venga interpellata e stimolata dalla cultura, dai motivi etici e dalla sofferenza altrui.


    - Iugoslavia

    La Iugoslavia si trova a dover affrontare la più grave crisi della sua storia. I livelli dell'inflazione sono a livelli sudamericani (intorno al 1000%), per cui ogni soluzione proponibile non può che determinare gravi rischi di conflitti interni e sacrifici della popolazione oltre qualunque umana misura. Il già difficile rapporto tra diverse nazionalità è stato reso più acuto dalla recente crisi economica. L'invito a considerare il mancato funzionamento del sistema tradizionale, ostinatamente ripetuto dagli Sloveni, non è stato colto dai vertici delle repubbliche orientali che continuano a far riferimento alla sacralità delle categorie titoiste, relative all'autogestione ed alla democrazia socialista. S'invoca una riforma economica ed un processo di liberalizzazione, ma l'iperinflazione, il dissesto finanziario e la forte disoccupazione esigono, se si vuole salvare la Iugoslavia dal precipizio del terzo mondo, un'intervento determinato e concertato da parte dei paesi più industrializzati. La situazione della Iugoslavia chiarisce i termini del problema dello sviluppo internazionale in relazione ai paesi occidentali. Se le multinazionali non comprenderanno la necessità di riconoscere la vocazione etico-sociale dell'attività produttiva, si dovrà rassegnarsi alla definitiva divisione delle nazioni in almeno due grandi blocchi: da una parte i paesi che riusciranno a collegarsi ad un futuro di prosperità, dall'altra l'inferno della distruzione raggiunta dopo un tragico percorso di miseria, violenza, fame, malattia, dolore e superpopolazione.


    UPDATING (24 Maggio, 1994)

    Sono accadute molte cose dall'agosto del 1990, ma non è mia intenzione cimentarmi in lunghe considerazioni circa la guerra nella Iugoslavia ormai divisa. Altre guerre civili in Africa, Europa, America Latina, oltre che i tafferugli di Los Angeles (i quali hanno dimostrato l'opportunità di una scheda dedicata a Jeffries ed ai rischi previsti di gravi tensioni civili negli U.S.A.) indicano che la menzionata tesi di una relazione tra il sistema economico occidentale e gli stermini, i genocidi e le sofferenze planetarie, non è così assurda.
    L'Occidente vive esso stesso i medesimi problemi in maniera però meno visibile, perché il liberismo economico provoca gravi disastri specialmente nei casi in cui non si è socialmente preparati ed economicamente assimilabili. Ciò indica che i governi troppo liberisti possono sperare di ottenere il riconoscimento dell'eticità del proprio successo soltanto perché una parte dei cittadini occidentali non ne pagano immediatamente, direttamente o tragicamente le conseguenze. La retorica degli statisti iperliberisti (i quali in realtà non aspettano altro che di impossessarsi dei beni comuni, privatizzandoli) si rende infatti forte del fatto che mentre il comunismo si ritiene decaduto, il capitalismo, avendo prodotto benessere e felicità, avrebbe meritato a pieno titolo l'elevazione a sistema unico mondiale. Perciò le regole del mercato tendono ad essere riconosciute sacre più che le leggi di Mosè, e quali criterio etico in sé per la restaurazione politica degli stati.
    I progressisti italiani compiono spesso l'errore di giudicare il governo Berlusconi su basi puramente economiche, mentre l'unico criterio di giudizio che rimane per valutare la seconda repubblica, così come gli altri governi, è una dottrina sociale che sia compatibile con quella del Magistero della Chiesa Cattolica, perché soltanto così si può riuscire ad evidenziare l'iniquità, i rischi di dittatura della combinazione di liberismo economico, dominio dei mass media e forze autarchiche. E' vero che fino a quando le cause antropologiche dello sfascio sociale non verranno risolte, qualunque sistema politico continuerà a tendere alla dittatura, però la ricetta iperliberista contribuisce ad acuire tale tendenza, perché (in Italia perlomeno e nazioni similari) di liberismo veramente liberale, democratico, costituzionale e sociale fino ad oggi se n'è visto poco, e quel che ha in testa Berlusconi (non l'ha capito solo il presidente Scalfaro) e tutt'altro che questo. Molti credono in Italia di essersi liberati della corruzione e delle rapine della politica, ma quel che si cerca ora di fare è di rubare per un'ultima volta e per sempre, privatizzando i beni della nazione e scaricando sui fessi il debito pubblico già pagato dai cittadini varie volte, e che purtroppo serve adesso quale alibi per fregarsi tutto. La scuola di pensiero di Berlusconi non è un mistero, così come non è difficile prevedere quanto dura sarà la reazione dell'intelligence cattolica (non soltanto centrista e progressista) al tentativo di trasferire in economia e politica la tesi della sopravvivenza del più forte e della selezione naturale della specie. Ogni reazione è destinata però a risultare inefficace se, piuttosto che trattare la questione in termini etici, spirituali ed antropologici, si cede alla stessa logica che si vuole combattere. Senza cambiamenti profondi nella spiritualità della Nazione, i giudici di Mani Pulite potranno continuare ad emettere avvisi di garanzia fino a dover sbattere dentro diversi milioni d'italiani, sia della prima che della seconda repubblica. Dal punto di vista profetico, il potere bestiale dominerà sull'intero pianeta (anche se per un periodo limitato), ma oggi chi vuole vincere secondo il criterio selettivo della natura delle bestie è naturale che debba affrontare una lotta bestiale e che non abbia tutto facilmente, servendosi di chiacchiere e retorica da quattro soldi. La liquidazione della prima repubblica non è la liquidazione della cultura etico-sociale ed umanistica, perciò la strada da percorrere per candidarsi alla guida dell'impero è lunga ed impervia. In Italia tra gli oppositori dell'autarchia vi sono la gran parte degli autentici intellettuali, i quali non si spaventano alla vista di quei pochi esemplari di retorica (molto dotata ma esasperata) al servizio di Silla. Il governo Berlusconi, come in genere altri governi liberisti, si presenta credibile e conveniente, perché la ricetta della competitività economica (purché si riducano le corruzioni e vi sia una sufficiente accordo sociale, il quale non necessariamente significa giustizia) attira capitali, anima la borsa, rilancia il mercato e favorisce l'occupazione, purché producendo meglio ed a costi inferiori a quelli di altri paesi competitivi. Il nocciolo della questione è da ricercarsi in quest'ultimi aspetti, se si volesse rendere sociale il sistema occidentale ed adeguarlo ai bisogni dei paesi più poveri, prevenendo gli stermini ed i genocidi e favorendo lo sviluppo. Un singolo paese occidentale non può da solo restare in Occidente, praticando una politica sociale (sia interna che internazionale), e restare allo stesso tempo competitivo, garantendo l'occupazione. E' necessario che l'Occidente nel suo complesso decida di stabilire dei limiti nella pratica del liberismo economico: limiti che permettano allo stesso tempo di affrontare le necessità sociali interne a ciascun paese ed i bisogni di sviluppo internazionale. L'alibi dei governi nella pratica del liberismo nei confronti dei cittadini e delle forze sociali (partiti, istituzioni umanitarie e religiose, sindacati) consiste proprio nel poter dire: il Giappone, la Germania, l'Inghilterra, la Francia, la Corea, il Taiwan o gli Stati Uniti, producono meglio ed a bassi costi, per cui... Il governo Berlusconi s'ispira al liberismo dei primi della classe, perciò, dopo la socialità e le notevoli donazioni umanitarie tra corruzioni ed interessi di leaders politici, partiti, privati e corporazioni, l'Italia risponde all'Occidente con la sua stessa logica. In ciò v'è una giustizia (benché relativa), perché gli altri paesi avanzati non hanno risposto a suo tempo, in maniera adeguata, ai messaggi di socialità e moderazione da parte dell'Italia della prima repubblica, benché corrotta ed opportunista nel servirsi della dottrina etico-sociale. Si tratta di una giustizia relativa, perché l'adozione del liberismo contro le norme che prevengono le concentrazioni di potere ed il monopolio dei mass media, oltre che le privatizzazioni senza tutela dei cittadini, tradiscono una sostanziale diversità nei confronti delle grandi democrazie evocate, di cui in realtà si vuole emulare solo ciò che favorisce le proprie brame di potere dispotico. Il rischio è che uno o più trusts emergenti sugli altri e ben rappresentati politicamente, possano (per ragioni strategiche e propagandistiche) apparire sociali in economia, ma solo nei confronti dell'opinione pubblica che conta, per adescarla e magari farci i conti più tardi. Tale rischio implicherebbe (qualora si volesse comprendere la natura del nuovo potere in carica) un riesame storico della sua ascesa, perché riordinarsi fittiziamente nella sfera etico-sociale, dopo aver usufruito dei benefici del biasimato statalismo e delle munifiche protezioni di leaders politici (anch'essi in fase di preparativi liberistici, svendendo i beni pubblici), aver trafficato con tangentopoli, progredendo nel frattempo nella pratica di un liberismo selvaggio, equivale, in senso inverso, all'uso strumentale che la maggioranza dei politici della prima repubblica ha fatto dei valori sociali. Il consolidamento dell'autarchia vale, agli occhi di chi la rappresenta, (purché sia possibile) qualunque costo di socializzazione, fino a sconfinare in una forma di socialismo, calibrato alla particolare importanza od incidenza dei fruitori, ed alla loro capacità di rendere un qualche servigio all'imperatore. In altri termini: a chi non conta, niente socialismo. La ragione di una tale strategica e limitata riconversione sociale è da ricercarsi nel fatto che sudditi, governatori e reame sarebbero di proprietà dell'autarchia, benché le elargizioni verrebbero ad essere motivate solo dal peso e dal prestigio del fruitore (Montanelli avrebbe potuto ottenere dal nuovo governo, nonostante l'età avanzata, qualunque ministero o direzione televisiva). Il governo Berlusconi è stato in buona misura meritato dai paesi occidentali alleati. Quando gli Stati Uniti (evangelici in prima linea) nominavano Ronald Reagan, non ci si poneva il problema della socialità del liberismo e delle conseguenze per gli alleati. E' una vita che il Giappone tiene tutti sul filo della competizione e della produttività, (non che i giapponesi non abbiano il diritto ad essere efficienti) puntualmente rappresentando l'alibi più sottile di quegli imprenditori ruspanti, i quali da una vita non aspettano altro che comprare la Nazione, privatizzandola, per poi far passare uomini, famiglie, assistenza, occupazione, pensioni, giovani, futuro, ambiente, cultura, religione, nel tritatutto della selezione naturale travestita da regole di mercato. Esiste ed è esistito un liberismo autenticamente liberale e sociale, perciò il giudizio a tal riguardo non può essere netto. Non sembra essere però il caso di nazioni quali l'Italia, antropologicamente più esposte alla caratterizzazione illiberale non solo delle destre. Non è un mistero che la gran parte dei paesi occidentali nordeuropei ed anglosassoni abbiano saputo solitamente conciliare liberismo con democrazia sociale e previdenziale. Da sempre i giovani italiani disoccupati non sanno cosa sia uno stipendio sociale: in compenso lo hanno saputo gli australiani, gli olandesi, gli svedesi, i tedeschi, i canadesi, ecc. In compenso i giovani italiani hanno usufruito di belle prediche circa lo stato sociale, la Costituzione, la democrazia, da una parte, e di belle promesse attinenti alle grandi possibilità del liberismo e del libero mercato, dall'altra. L'aspetto spregevole di tale retorica pluridecennale, è che la gran parte delle prediche sono state rivolte e strumentalizzate da coloro che (dell'una e dell'altra parte) hanno rubato e messo da parte grandi risorse per divenire padroni di un reame che non sarà né sociale, né liberale. Il costo effettivo di tale rapina corrisponde perlomeno al debito pubblico totale, il quale ha pure la funzione propagandistica di promuovere la transizione verso destra e dichiarare la bancarotta ed il fallimento della cultura sociale, col risultato di un'ulteriore spremitura fiscale e finanziaria, la quale ha per obiettivo la rapina definitiva, dopo le rapine parziali: la privatizzazione di tutto. Sappiamo di che si tratta: è la plurimillenaria medesima minestra, i cui ingredienti sono la viltà, l'arroganza, la falsità, la cattiveria, la presunzione, la frustrazione della pusillanimità, la brama di potere e la volgarità dell'illusione di possedere il mondo intero a scapito degli altri. E' la minestra che dall'antichità gli uomini devono ingoiare fino alle fecce e subirla come si è fatto per la peste, il tifo, il colera, la morte, il terremoto, i fulmini e le tempeste. Sono gli ingredienti della Città dell'Uomo che come una croce dobbiamo portarci dietro fino all'avvento della Città di Dio. Anzi, le profezie bibliche c'informano che l'ultima minestra sarà più condita del solito e che avremo a che fare con un campione d'ingredienti, particolarmente speziato, il quale culminerà nell'ascesa al potere del Piccolo Corno. I candidati di talento non mancano (l'uno più filabustiere dell'altro): la pazienza verrà messa sempre più a dura prova, per cui è utile cimentarsi fin d'ora alla sopportazione, facendo esercizio con i vili filabustieri a portata di mano. I termini etici dell'aspra confrontazione in atto non possono risultare chiari a quelle entità che sono prive di codici ermeneutici antropologici e metastorici: a ciò è dovuta la difficoltà di valutare e concepire eticamente i nuovi fenomeni di governo. In questa situazione, i modelli politici ed economici contrapposti trovano difficoltà a motivare eticamente la propria legittimità di fronte all'avversario. Se non si risale ai termini fondamentali dello scontro culturale e spirituale tra Città dell'Uomo e Città di Dio, non è neppure possibile decidere se sia bene (ed in quale misura) o male il liberismo, la proprietà privata, la competizione, il mercato, oppure il socialismo, lo statalismo, lo stato sociale. La mia opinione è che la tradizione monoteistica (compresa quella islamica), in particolare giudeo-cristiana, è in grado di produrre categorie spirituali e culturali, tali da poter valutare analiticamente ed organicamente la realtà umana contemporanea e dunque sia i fenomeni economico-politici recenti che prossimi venturi. La tendenza del liberismo contemporaneo all'affinità con le destre autarchiche poteva essere intravisto, ma si è continuato nella tesi secondo cui quest'ultime entità sono tra loro inconciliabili. Berlusconi oltre che uomo abile e tenace, è dotato di doti intuitive che gli permettono di prefigurare gli scenari e le opportunità di un imminente mondo integrato. Probabilmente egli saprà dare un'immagine sociale al suo originale liberismo, (se almeno in questo non riuscisse, le sinistre potrebbero ritardare il processo autarchico, senza comunque disinnescarlo) ma i disegni ultimi e reali del suo progetto sono noti solo a se stesso ed a pochi altri, congeniali per finalità od altrettanto dotati per intuizione. Berlusconi gode di varie attenuanti: il bilancio allo sfascio, a causa dei subiti interessi dei privati (appalti fasulli, spese gonfiate, mazzette e tangenti, favori ed omertà - regole quotidiane per milioni d'italiani filabustieri ed infami) e dei partiti, nell'aver gestito strumentalmente i valori dello stato sociale; i partners occidentali che hanno continuato nella logica della competizione economica; la necessità di rilanciare l'occupazione secondo (volenti o nolenti) la logica delle regole di mercato. Berlusconi è un Ronald Reagan che gode di un alibi in qualche misura credibile e di varie attenuanti, anche dal punto di vista formalmente etico. Alibi per l'appunto, perché la crisi della democrazia e la caduta dell'U.R.S.S., sembrano rappresentare l'occasione propizia per condurre il liberismo all'autarchia. Gli uomini che sono in grado di farlo, devono (prima che sia troppo tardi) poter dire chiaramente a Berlusconi ed ai suoi collaboratori, che vi sono ragioni storiche, etiche, filosofiche e spirituali, per le quali:

    1. La Nazione non può essere venduta.
    2. I valori costituzionali non possono essere stravolti e vanno concretamente applicati.
    3. Il potere di un uomo non può soverchiare i suoi simili.
    4. Arricchimento e privatizzazioni non devono significare la compromissione di una dignitosa esistenza dei cittadini e dunque dei fondamentali diritti dell'uomo.
    5. L'informazione deve essere caratterizzata dal pluralismo e dalla partecipazione di tutte le forze culturali, sociali e politiche al controllo ed alla proprietà dei mass media.
    6. Il limite del liberismo e delle leggi di mercato è rappresentato dalle prerogative umane riconosciute da vari documenti internazionali, oltre che dalla stessa Costituzione Italiana, in sintonia con le più autorevoli tradizioni etiche, filosofiche e spirituali all'origine di un mondo moderno che meriti di essere definito civile.
    7. Ogni atto o comportamento politico, economico e culturale teso alla realizzazione di un potere autarchico, rappresenta una dichiarazione di guerra alla civiltà, la quale ha il diritto di reagire nei modi e nei tempi che le sue componenti (enti privati ed istituzionali) riterranno più opportuni.

    Ciò premesso, vanno fatti gli auguri a Berlusconi, per un buon governo nell'interesse della Nazione, ma anche suo personale (ancora e molto prima che della Fininvest).
    Per uno statista occidentale che adotta liberismo e competizione economica come sacri ed indiscutibili postulati, l'alibi non può essere assoluto. Una cosa è adottare a malincuore una misura di liberismo adeguata ad una provvisoria realtà antropologica da riformare (gli esseri umani sembrano produrre meglio se motivati da forti interessi privati); altro è abusare degli inconvenienti antropologici per adottare il liberismo economico quale ideale che serve in realtà a mascherare la brama di un potere quanto più è possibile assoluto. Si tratta di una condizione antropologica che genera una confusione ideale per chi aspira ad un potere, i cui riferimenti non sono così cristiani, come si vorrebbe far credere: ogni motivo retorico, qualunque procedimento politico (democratico finché v'è democrazia) sono utili alla soperchieria, vestita di patriottismo e progresso.
    Purtroppo i popoli maggiormente soggetti agli squilibri antropologici sono anche i maggiormente soggetti alle propagande estremistiche, per cui non c'è da meravigliarsi che dopo gli abusi della democrazia si passi ad abusi e squilibri di altra marca (spesso i protagonisti dell'una sono anche gli investitori dell'altra).
    Solo a condizione di una costante disponibilità a socializzare l'economia in sintonia con tutte le potenze economiche, in risposta alle esigenze internazionali e non soltanto a quelle dei paesi occidentali, può eticamente giustificarsi il ricorso calibrato (più o meno liberistico e competitivo a seconda della necessità, della propensione o della scarsa disponibilità degli altri partners economici a socializzare il mercato e la produzione, in relazione a precisi interventi di politica interna) al liberismo ed alla competizione economica. Un messaggio in tale direzione dovrebbe costantemente essere rivolto da un leader di un paese ai suoi colleghi occidentali.
    In occasione del summit dei G7 (ormai G8 con la Russia) a Napoli emergerà certamente la necessità di una socializzazione dell'economia, ma ciò non significherà che la tesi di un'avvento dell'autarchia sia una favola. La socializzazione in parte potrebbe anche verificarsi, ma solo nella misura in cui i destinatari pesano ed influiscono. E' possibile anche che l'influenza di grandi coscienze induca i G8 ad intervenire con determinazione in situazioni tragiche, quali quella del Rwanda, attraverso l'O.N.U., ma l'impostazione economica stenterà a garantire un minimo di umanità alla maggioranza dei paesi che non saranno comodamente collocati nel nuovo ordine internazionale. Anche nel caso in cui in Occidente tutti i cittadini acquisissero una fetta di potere, investissero in borsa, andando in vacanza sei mesi all'anno, ciò non significherebbe la socializzazione e l'eticità della propria economia.
    L'autarchia nutre a suo modo sentimenti patriottici e solidaristici, ma quel che ad essa preme è la gestione di un potere assoluto. La concezione sociale delle sinistre è un grande ideale, il quale somiglia in effetti a quello cristiano, con la differenza che il primo trascura le interferenze antropologiche che all'altro sono più familiari, benché nel concreto neppure sufficientemente risolte. La cristianità coincide raramente col Cristianesimo, e per ragioni teologiche relative alla formazione dell'identità e del carattere spirituale, forgiati per l'uomo nuovo, la quasi totalità dei cristiani è incapace ed inadatta a realizzare un governo autenticamente sociale, perché la competizione, l'omertà con i potentati di turno (specialmente in Occidente), la brama di potere e di soldi e l'invidia, sono una zavorra che pesa anche sugli affari interni delle chiese, (ancor prima di parlare di Stato) e che puntualmente contribuisce all'indebolimento di quelle forze che propugnano una predicazione evangelica che mira alla formazione della Città di Dio nello Stato. La manifestazione dei figli di Dio sarà possibile con la fine del processo di formazione della Chiesa, all'avvento del regno escatologico, ma non per questo ci si deve rassegnare all'idea che nulla debba essere fatto, scritto o detto per limitare gli abusi nel governo delle nazioni. Molti cristiani sanno abbastanza d'antropologia biblica, ma quei pochi tra loro che provano a farne una traduzione non soltanto teologica, prendono così tante legnate, che rischiano essi stessi di non sopravvivere, se non per il rotto della cuffia.
    Se fosse possibile dire: il socialismo è morale, il capitalismo immorale; la questione sarebbe risolta: purtroppo l'etica sociale deve navigare in acque tanto torbide, da non saper facilmente che pesci pigliare. Quel che è chiaro è che le motivazioni e l'indole interiore contano più del sistema economico che si adotta, e che una misura di liberismo economico sembra inevitabile fino all'avvento del regno escatologico, così come non sono del tutto evitabili gli abusi di quei vili e volgari licantropi che, approfittando della complessità delle ragioni etiche dell'economia occidentale, colgono ogni minima occasione per garantirsi un potere che tende ed aspira all'autarchia, all'insaputa della quasi totalità dei cittadini che credono di poter fare reversibilmente la prova di più sistemi politici per trovare la ricetta giusta, ma che non avendo compreso quanto l'essenza antropologica pesi nei destini di una nazione, si avventurano sempre più per sentieri che si allontanano dalla democrazia e dalla libertà.
    Anche nel ridimensionare le attitudini capitalistiche si deve tener conto di problematiche relative alla sicurezza internazionale ed alla conservazione delle libertà, perché è chiaro che le forze ostili si celano a sinistra oltre che a destra, sia in seno alle ideologie socializzanti della politica che a quelle di alcune confessioni religiose, le quali pur parlando di pace ed ecumenismo, perseguono sogni di predominio costruiti sulla menzogna pseudoteologica. Questa è la ragione per cui il carattere laico ed in qualche misura liberista degli stati, rappresenta una condizione fondamentale per i processi di coesistenza e di socialità, almeno fino a quando l'avvento del Regno di Dio non ristabilirà le autentiche condizioni spirituali per un socialismo teocratico. A tali condizioni, credo si possa parlare di eticità e riforma dell'economia occidentale.
    L'etica sociale è dunque soggetta a non poche complicazioni di ordine teorico, e l'uso che se ne può fare oggi può essere ancora più propagandistico e strumentale di quanto non sia accaduto durante la Prima Repubblica in Italia, la quale ha permesso a molti di arricchirsi dei denari destinati a tutti, in modo da esser pronti al momento opportuno ad investire nel privato, per lasciare tutti gli altri nella penuria ed ancora una volta sottoposti alla pressione del debito pubblico (le corruzioni di Tangentopoli hanno riguardato centinaia di migliaia di cittadini - indizio della credibilità di una spiegazione antropologica dello sfascio sociale - e sono perlomeno pari al debito accumulato dallo Stato e neppure di una lira inferiori).
    Pochi in Israele sono a conoscenza della tesi esegetico-biblica, secondo cui un eminente capo israeliano che sale dalla terra si accorderà con un altro che sale dal mare, per realizzare insieme la pacificazione del mondo: tentativo che costerà un nuovo olocausto. La previsione di un regime autarchico deve liberarsi dei vecchi schemi nazifascisti, perché l'operazione diplomatica e retorica (in fase di elaborazione) che si compierà in favore dell'autarchia sarà un capolavoro di abilità e persuasione, oltre gli schemi dei vecchi schieramenti. Non è possibile indicare i candidati a protagonisti di tale capolavoro, ma le forze in campo indicano che le mie stesse previsioni di un'avanzata delle destre e di una polarizzazione della politica, sono state abbondantemente e celermente superate dagli avvenimenti, benché un breve ruolo del centro e della sinistra non sia ancora da escludere. La nuova autarchia dovrebbe però ridurre le differenze tra centro, destra e sinistra a ben poca cosa, e comunque ricondurle nell'ambito della propria strategia.
    Se comunque un potere d'ispirazione autarchica procedesse ad un'apparente socializzazione del governo, in emulazione della dottrina sociale cattolica, sarebbe estremamente arduo fare chiarezza sulla natura del nuovo potere politico, il quale approfitterebbe strategicamente dei vantaggi acquisiti per candidarsi all'autarchia, sconfinando così (dopo aver sconfinato nella politica provenendo dal mercato) nella religione. Temo che è proprio ciò che accadrà, con perdite teorico-filosofiche e teologiche incommensurabili sul versante del monoteismo biblico, alle soglie delle profezie escatologiche: una globale confusione teoretica dall'apparente ordine, dal quale i pochi potranno districarsi, senza però fare testo, penando nelle intricate maglie di un'esistenza aliena. Si tratta di un'operazione diabolica, perché servirsi della dottrina sociale delle Sacre Scritture per realizzare l'autarchia è in linea con l'antica attitudine di Sua Eminenza Lucifero a spodestare il Padre Eterno, servendosi della propaganda politica per garantirsi il voto delle schiere angeliche.
    I segni di un politica sociale fasulla saranno evidenti, ma solo per chi vorrà e sarà in grado di vederli. Un autentico dialogo ecumenico che risolva realmente i problemi teologici è essenziale per evitare un tale rischio. Protestanti e cattolici avrebbero molte cose in comune da condividere e da cui partire per realizzare un'autentica comunione, ma i segni indicano che finora si ricerca soltanto un'unità fittizia che risponde ai timori di perdita di egemonia su ambedue i versanti. L'ecumenismo viene visto con sospetto in seno agli ambienti fondamentalisti sia evangelici che cattolici. In effetti vi sono grossi problemi da superare, ma non si dovrebbe per questo rifiutare a priori un dialogo acumenico che non significhi la confusione tra brandelli di dottrine comuni ed autentica comunione spirituale, in nome dell'unità fraterna ad ogni costo.
    Dal mio punto di vista le fondamentali dottrine evangeliche non vanno compromesse in alcun punto ed in nessuna misura, mentre sul resto si può aprire la discussione. Sul versante cattolico è specialmente la dottrina sociale a dover essere salvaguardata. Non soltanto il Protestantesimo però ha intessuto rapporti di complicità con le componenti più liberistiche delle ideologie economiche occidentali, caricandosi di molte responsabilità sociali nei confronti dell'umanità intera, all'origine di varie guerre e di un diffuso sfruttamento. Temo però che sia l'ecumenismo babilonese del Piccolo Corno e della Bestia che sale dalla terra a riuscire nell'impresa di unificazione delle religioni, rinnovando i miracoli di globalizzazione già compiuti in economia e politica.


    - Sommario

    L'emigrazione non può essere spiegata semplicemente criminalizzando il sistema occidentale. Senza dubbio il mondo dell'economia e della finanza, oltre che della politica dovrebbe passare attraverso una revisione etica, ma l'ideale democratico ed il laicismo che normalmente caratterizzano gli statuti costituzionali dei paesi ad intensa attività economica presentano il pregio teorico di un progresso che non si limita alle maggioranze religiose ed ideologiche. Se il laicismo democratico è anche un segno della disponibilità della maggior parte delle forze confessionali presenti in Occidente, una risposta costruttiva per i paesi in via di sviluppo consisterebbe innanzitutto in un atteggiamento culturale caratterizzato dal pluralismo e dalla libertà di pensiero. E' soltanto in un secondo momento che un popolo può comprendere ed accettare l'importanza di adeguarsi criticamente alle regole occidentali. Quando si tratta d'emigrazione e sottosviluppo si deve ricordare che il terzo mondo inizia in casa propria. Reddito e produzione pro capite in Basilicata, Molise e Calabria, oltre che le sacche di povertà diffuse nel Mezzogiorno non rappresentano un invidiabile riferimento per molti paesi in via di sviluppo. Affermare che il terzo mondo inizia già presso alcune aree dell'Europa meridionale può non riscontrare il comune consenso, ma il giudizio più competente va riconosciuto a chi nella terza Europa ci vive. In io speriamo che me la cavo, a cura di Marcello D'Orta (Mondadori) la medesima idea è espressa con la semplicità disarmante ed inconfutabile dei piccoli: "Ci sono popoli ricchissimi, che non sanno neanche dove sta di casa la fame, ma c'è l'india, l'Africa e la Basilicata che lo sanno dove sta di casa, la fame! Il mondo fa schifo. La terra fa schifo. L'essere umano fa schifo. Il mondo si comporta come il ricco Epulone, e Lazzaro sarebbe l'Africa, e anche un po' di Perù. Una volta il Perù era ricchissimo, ora gli fa male la pancia tanto dalla fame. Il mondo fa schifo, io non ho paura a dirlo, perché sono il capoclasse, e certe cose posso dirle."


    Inserimenti al 9 Dicembre , 1991.

    L'Iraq, facendo parte dei paesi a rischio, è tuttora un pericolo per l'Occidente. Se la Cina, l'ex Unione Sovietica, Cuba, l'Iran ed i principali stati arabi fossero intervenuti al fianco di Saddam Hussein, avrebbero costretto l'Occidente a ridimensionarsi, oppure a cimentarsi in una guerra atomica senza speranza di reale vittoria per nessuno. Siccome ciò non è accaduto, l'esito della guerra nel golfo è risultato nel consolidamento del progetto di globalizzazione, il quale ora sembra avere un nome e degli illustri protagonisti, i quali segretamente lo sostengono da decenni: New Age. La prossima occasione per ribaltare l'Occidente si dimostrerà ancor più fallace, perché ormai si è compreso la necessità di intervenire celermente, professionalmente e massicciamente nelle future immancabili crisi internazionali. L'Occidente non si accinge ad affrontare alcuna riforma economica, perciò guerra e sofferenza continueranno a coinvolgere i paesi che non sono in grado di collegarsi allo sviluppo di stile capitalistico. Solo una parte degli stati derivati dall'estinzione dell'U.R.S.S. sembrano candidati ad ancorarsi alla federazione europea, mentre per il resto l'influenza verrebbe esercitata dal blocco islamico-asiatico e dalla Cina. L'Europa dovrebbe presto acquisire il ruolo guida dell'Occidente, però secondo livelli differenziati di federalismo. La Iugoslavia dovrebbe gradualmente adeguarsi nella sua totalità al nuovo ordine. Per il momento quel che accade conferma puntualmente le previsioni. Presto l'Europa occidentale disporrà di un mercato di straordinarie proporzioni e si ritroverà impegnata nella ricostruzione e nello sviluppo di quei paesi che avranno soldi da spendere, risorse o territori da cedere. Con la frantumazione dell'U.R.S.S. inizia l'accerchiamento e l'isolamento della Cina, la quale sembra possa condurre a nuovi e più distruttivi tentativi di opposizione all'Occidente, anche servendosi di un panarabismo di matrice fondamentalista. Il comunismo è un'ideologia economico-politica più che filosofica, la quale in vari casi si è dimostrata capace di abbandonare gli originali riferimenti positivistici, perciò è possibile una riconversione pilotata della Cina in termini occidentali, ma non si può escludere che prima vi siano altri scontri con l'Occidente. Quel che preoccupa è l'utilizzo ch'essa potrebbe fare dei fondamentalismi più marcatamente religiosi, la cui cosmogonia è tutt'altro che disponibile all'integrazione del villaggio globale di natura autarchica. L'Occidente è alla vigilia di un aspro confronto continentale e mediterraneo con fondamentalismi religiosi ed ideologici non ancora del tutto disinnescati. Anche in questo caso, così come a suo tempo per l'Iraq, (secondo quanto già cripticamente suggerito) la scelta migliore è la resa, ma ciò sarà, ancora una volta, chiaro dopo le distruzioni. Per il fondamentalismo islamico e cattolico dovrebbe essere chiaro che non v'è altra ipotesi formulabile se non quella messianica. Per il fondamentalismo protestante i tempi delle illusioni liberistiche e delle grandi intese col capitalismo stanno per finire, ma una parte di esso si riciclerà in New Age, nella misura in cui si dimostrerà impossibile ed illegittima la sintesi tra Dio e Mammona.

  2. #2
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    Ci vorrà un po' per leggerlo, ma si prospetta interessante... Grazie...

  3. #3
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    Predefinito Grazie

    Originally posted by Tomás de Torquemada
    Ci vorrà un po' per leggerlo, ma si prospetta interessante... Grazie...
    Sono io ad esserti grato per la buona volontà di leggere l'MD Code.

    Come da
    http://www.politicaonline.net/forum/...threadid=64335

    Grazie per l'ospitalità e l'eccezionale opportunità di condividere le idee nella comunione del Pensiero.

    L'MD Code (estratti) è correlato a "Global Governance e Democrazia" in
    http://www.politicaonline.net/forum/...bal+governance
    il quale ne rappresenta una riflessione aggiornata.

    L'MD Code è di vecchia data e precedente ai governi Berlusconi.
    Le "previsioni sociologiche" che all'epoca riguardavano l'attuale Premier sono state lasciate - insieme a tutto il resto - intatte, tra le quali essendo alcune già citate per esteso in "Global Governance e Democrazia" vengono in questi estratti tralasciate.

    Saluti

  4. #4
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    Predefinito Il codice unificante di Baget Bozzo

    In Origine Postato da david777

    http://www.politicaonline.net/forum/...threadid=64335

    L'MD Code (estratti) è correlato a "Global Governance e Democrazia" in
    http://www.politicaonline.net/forum/...bal+governance
    il quale ne rappresenta una riflessione aggiornata.

    L'MD Code è di vecchia data e precedente ai governi Berlusconi.
    Le "previsioni sociologiche" che all'epoca riguardavano l'attuale Premier sono state lasciate - insieme a tutto il resto - intatte, tra le quali essendo alcune già citate per esteso in "Global Governance e Democrazia" vengono in questi estratti tralasciate.
    Saluti
    Teorizzare l'unificazione del codice economico, politico e religioso nei suddetti documenti quale chiave d'interpretazione degli imminenti eventi apocalittici, e poi vedere i chiari ed inconfutabili segni di tale previsione negli eventi recenti, non può che accrescere la mia curiosità ed il mio interesse per l'Apocalittica.


    http://www.unita.it/index.asp?SEZION...TOPIC_ID=32580

    02.02.2004
    "Baget Bozzo favorisce l'idolatria"

    ROMA Silvio Berlusconi «santificato», in «missione divina» contro i comunisti. È l’ultima carta mediatica del premier e del suo «cappellano» don Gianni Baget Bozzo. Il segretario della Cei, mons Giuseppe Betori, invita alla cautela, mette in guardia dall’utilizzare in politica figure sacre: è un’ambiguità pericolosa. E il mondo cattolico? Come reagisce all’investitura divina del premier? «È una farsa. Sono immagini idolatriche che rievocano un triste passato, quelle del Duce che aveva sempre ragione. Ma sono anche pericolose. Vi è una platea di fedeli disposta ad applaudire. Segno di insufficienze sulle quali il mondo cattolico dovrebbe riflettere» risponde Domenico Rosati, già presidente delle Acli e parlamentare indipendente della Dc, esponente autorevole dell’associazionismo cattolico.
    Che effetto le fa sentire che lo Spirito Santo è sceso sul premier?
    «Berlusconi è ricorso ad un artificio, quello di servirsi del testo di un chierico per dire quello che pensa di se stesso e il modo in cui vorrebbe essere visto. È un'operazione di idolatria. Ed io che da quando è caduto il fascismo e mi hanno spiegato che non è vero che c'è “uno che ha sempre ragione”, posso solo ridere di fronte a questo. Queste cose, però, hanno un impatto oggettivo sulla credulità popolare che è amplificato dal mezzo mediatico. La sobria ma significativa dichiarazione di mons. Betori fa capire che la cosa è stata avvertita anche dalla Chiesa. Quello che va ricordato a noi stessi è che "uno solo è il Signore". Innalzare altri idoli non solo è contro il principio del monoteismo, ma anche contro quello della laicità. Nessun Cesare può pretendere di sostituirsi a Dio. Lo dico con l'ironia necessaria, perché siamo alla farsa. E mi rincuora il fatto che la stessa platea di Forza Italia rideva quando Berlusconi diceva queste cose. Non so se per la trovata del "capo" o per il senso del ridicolo che li travolgeva. Quelle ripetute professioni di fede richieste dal capo alla platea mi ricordavano tanto i dialoghi di Mussolini con le folle...».
    Sono immagini che invitano il mondo cattolico a riflettere?
    «Sì e in modo non strumentale. Ci vorrebbe un Lazzati che ci riportasse ai termini autentici del discorso sulla laicità e quindi sul rifiuto di ogni idolatria, a quella dignità dello Stato che porta a rifiutare ogni contaminazione esterna. È una cosa che finisce per nuocere anche a chi la pratica».
    Ma nel 2004 è possibile "santificare" l'anticomunismo?
    «È l'invenzione retroattiva di un nemico. Si continua a preparare un vaccino per una malattia che non c'è più. Forse, però, i sondaggi dicono a Berlusconi che l'anticomunismo è ancora una merce che tira, e quindi la usa spregiudicatamente, fino al punto di ignorare tutta l’evoluzione legata al processo storico. Nessuna ideologia a contatto con la storia rimane mai la stessa. È la dottrina di papa Giovanni XXIII. Sono insegnamenti che il mondo cattolico dovrebbe considerare con attenzione. Allora che senza ha dire "non c'è più il comunismo, ma ci sono i comunisti"? Diciamo, invece, se è il caso, che ci sono delle persone indegne o scellerate, incapaci di capire i problemi o in malafede. Ma il comunismo non c'entra più. Rievocarlo è solo strumentale. In realtà per Berlusconi il comunismo è la Costituzione della nostra Repubblica».
    Di quali valori è portatore Berlusconi?
    «La sua sfiducia smodata nel mercato e nelle sue leggi, che poi sono assecondate da un'attenuazione delle regole per tutti e da un loro adattamento ad uso privato, nega ogni criterio di giustizia orientato all'uguaglianza. Non solo, finisce per aprire uno spazio per la questione morale. "Non lasciate solo ai giudici il compito di regolare la questione morale" scrisse dieci anni fa il Papa nella sua lettera ai vescovi italiani. Allora fu letta contro i giudici, in realtà era una chiamata di responsabilità della classe politica perché la questione morale c'era ed era grave e il pontefice non voleva che si scaricasse soltanto sui giudici. Oggi la questione morale, con i casi Parmalat e dintorni, è riesplosa. Questo vuole dire che non è stata approntata una cura adeguata in termini politici, istituzionali e di prevenzione. Che si è affermato un modello di valori di cui Berlusconi è solo il punto terminale. Sono contrario a demonizzare la persona. È l'espressione di una cultura che si è affermata, anche se in questo caso Berlusconi ha contribuito a produrla. Allora bisogna domandarsi perché non hanno reagito i necessari anticorpi nella società e nel quadro politico. Sono lacune che interpellano anche la coscienza cristiana. Nella provocazione di Berlusconi e nell'accoppiata con Baget Bozzo vedo un'occasione straordinaria per una riflessione su quella che chiamerei la "transizione cattolica". Su come si è sviluppata e a quali approdi tende. È solo un problema di tregua stabilizzata sul fronte politico e quindi di rapporto di intesa con il potere, comunque espresso, o vi è un residuo di profezia che va esplicitato chiamando in causa i valori a discapito di qualche interesse?».
    È un appunto alla gerarchia ecclesiastica?
    «Non credo. È un punto di debolezza dei laici cristiani. Se fossero più robusti, incisivi e in grado di assumersi le responsabilità anche i vescovi sarebbero meno “prudenti”. Mostrerebbero più sicurezza nell'esercizio di orientamento sui valori e nelle relative indicazioni».
    Colpa del mondo cattolico, allora?
    «Si sta indebolendo quella energia costruttiva dell'associazionismo cattolico che in passato c'era e ha alimentato un importante dibattito interno. Ora o si sta in un area mediana, dove l'acqua è bassa, oppure non c'è spazio. Non ci si espone. Il clericalismo non è mai quello dei chierici. Sono i laici che fanno i clericali quando non hanno il coraggio di segnalare, come dice il Concilio, i problemi alla Chiesa alla quale appartengono».
    E cosa segnala Domenico Rosati?
    «Che c'è da riprendere una responsabilità sulla pace senza lasciare il Papa solo. Che del lavoro non si può avere una visione residuale, rassegnata. Ricordiamo la lezione di La Pira. Non bisogna fermarsi a ciò che si crede possibile, bisogna correggere e incidere dove è necessario. Questo significa applicare la Costituzione. Poi vi è un terzo punto: affermiamo una democrazia che non smarrisca il suo senso etico, che non consenta prevaricazioni di poteri e di individui, che rispetti la questione morale anche in politica. Vi è un conflitto di interessi non risolto sul quale si è lasciato correre. Sono problemi di principio su cui se si transige tutto viene di conseguenza».
    E sul tentativo di sacralizzare Forza Italia e il suo leader cosa può chiedere un cattolico alla Chiesa?
    «L’ultimo Pio XI condannò il paganesimo di Mussolini. Paganesimo erano le formule di culto della personalità, l'esaltazione e l'infallibilità del capo. Ma non ci sarebbe alcuna “deificazione profana” se non ci fossero i fedeli in adorazione. È questa la cosa più pericolosa. Danno una credibilità di piazza al "venditore". Il problema è l'intreccio tra sacralizzazione profana e mediazione televisiva. Su questo dovrebbero riflettere anche gli alleati politici di Berlusconi. È un brutto affare confrontarsi con un soggetto che non ammette replica e non accetta contraddittorio».

  5. #5
    Christianity Under Fire
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    Predefinito Articolo Di Carlo Sgorlon

    Interessante articolo di Carlo Sgorlon sul Gazzettino da confrontarsi con la teoria metafisica dell'MD Code nel capitolo dedicato alla metodologia della ricerca.

    http://www.gazzettino.it/VisualizzaA...3-10&Pagina=12
    Mercoledì, 10 Marzo 2004

    Dopo due secoli di materialismo - e nell’assenza di spiegazioni plausibili ai misteri dell’universo - torna d’attualità la metafisica
    La scienza che riscopre Dio
    La questione irrisolta della materia: è eterna o creata? L’astrofisica si è arresa

    di CARLO SGORLON
    La mia impressione è che oggi, timidamente, dopo due secoli di materialismo, si stia tornando a filosofie spiritualistiche e persino ai problemi metafisici. Kant aveva ammonito, in un trattatello famoso ("Ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza") che di metafisica si poteva ancora parlare, ma non in termini scientifici, e meno che mai dogmatici. Giusto. Ma oggi le inquietudini metafisiche, mai scomparse del tutto, stanno tornando in primo piano anche nel panorama culturale; ed è singolare che, per lo più, traggano alimento proprio dalle scoperte della fisica e della astrofisica. Oggi ipotesi metafisiche e religiose possono nascere dalle scoperte della scienza. Sono possibili teologie "scientifiche" e "algebriche". Mi sia concesso di proporne una.Il materialismo più totale e consapevole comincia nel Settecento, con von Holbach, Helvetius e La Mettrie. Per costoro può esistere soltanto ciò che ha "massa" (e "peso", se parliamo in termini gravitazionali) ed estensione nello spazio. Quello che appartiene alla dimensione di ciò che Cartesio definiva "res extensa". La filosofia "dualistica" di Cartesio, che divideva la realtà, appunto, in "res cogitans" (il pensiero) e "res extensa" (la materia) durò circa due secoli, finché la cultura cominciò ad essere dominata dai materialisti settecenteschi. Il materialismo attraversò anche tutto l'Ottocento, con Feuerbach, Marx, Moleschott e molti altri. Per i materialisti Dio, inteso dai Neoplatonici, gli Gnostici e i Cristiani come "puro spirito", non può esistere perché, come ho detto, solo ciò che è materiale può avere sostanza di realtà.Dopo le ricerche e le scoperte della fisica e dell'astrofisica moderne però, specie da Einstein in poi, anche il materialismo settecentesco e ottocentesco sono entrati in crisi. Questa crisi non è ancora percepita dalla cultura di massa, né da quella egemone e progressista, che la rifiuta, ma appartiene ancora a zone elitarie di una concezione alternativa. Il problema di Dio oggi può essere impostato soltanto sulla base della scienza. Infatti i dogmi, sillogismi scolastici, prove ontologiche di tipo medioevale non hanno più alcuna presa sulla mente e la cultura dei moderni.

    Vediamone un esempio. Se non esiste una Forza Cosmica che ha creato la materia, questa non può essere eterna. Ma, se c'è da sempre, dovrebbe avere il medesimo livello termico, ossia la medesima temperatura, in tutto l'universo. Infatti in un tempo infinito, per effetto del secondo principio della termodinamica, questa dovrebbe essere la sua situazione finale. Quel principio fisico universale insegna infatti che gli oggetti, vicini o lontani che siano, tendono ad avere lo stesso calore. Il più caldo cede la propria temperatura al più freddo, fino al raggiungimento di un livellamento termico assoluto, che tra l'altro significherebbe la fine di ogni forma di vita. Nel sistema solare il sole dovrebbe avere dunque la stessa temperatura di tutti i pianeti, i satelliti, gli asteroidi, le comete, e così via.

    Per effetto dello stesso principio fisico, questa condizione termica dovrebbe riguardare tutti i corpi celesti della nostra galassia, e tutti i miliardi di galassie esistenti. Si tratterebbe di un processo termico molto lento, d'accordo. Ma se la materia è eterna, se esiste da sempre, ha avuto a disposizione un tempo infinito per realizzarsi. Invece questa situazione non si è ancora affatto verificata. Nel centro del sole vi sono venti milioni di gradi di calore; sulla terra la temperatura oscilla più o meno dai sessanta gradi sopra lo zero ai sessanta sotto. Nel centro della terra, nel magma, che in sostanza è pietra allo stato liquido, i gradi sono alcune migliaia. Poiché dunque gli astri hanno temperature molto differenti tra loro, si deve trarne la conclusione che la materia non è eterna. Allora è stata creata?

    Dato che l'ipotesi non piace alla maggioranza dei fisici, si è cercata un'altra soluzione. Nella materia dell'universo, quando era tutta unita, e quindi possedeva un massimo di concentrazione, di calore e di pressione, avvenne il famoso "Big Bang", ossia la grande esplosione che produsse la struttura attuale del cosmo. Si formarono le galassie, che attualmente per il principio d'inerzia, si allontanano tra loro a grande velocità. L'universo dunque è in fase di espansione. Ma un giorno, suppongono alcuni astrofisici, l'espansione cesserà. Gli astri saranno prima rallentati, (dai "neutrini", figurarsi!), poi fermati del tutto. In seguito comincerà un movimento centripeto dei corpi celesti, dovuto alla gravità (che diminuisce in rapporto al quadrato della distanza!). In miliardi di anni tutta la materia dell'universo dovrebbe riunirsi di nuovo nel cosiddetto "Big Crunch", ossia un macinamento sterminato, che dovrebbe provocare un nuovo massimo di calore, di pressione, di concentrazione, e quindi di nuovo Big Bang. E così in eterno.Ma questa teoria, tirata per i capelli, convince ben pochi. Non può realizzarsi se nello spazio non v'è materia sufficiente; se cioè il rapporto tra pieni e vuoti non è al di sopra di un certo indice. Ma, per l'appunto, esso è al di sotto. Si è pensato anche, perciò, alla ipotetica esistenza di una materia invisibile, che riempirebbe i vuoti dell'universo. Si è pensato ogni cosa pensabile, per evitare l'ipotesi di una creazione. Ma essa resta in piedi, e ad ogni mente normale pare la più accettabile. Anche i maggiori astrofisici, come Margherita Hack o Stephen Hawking, non sanno più che pesci pigliare, come risolvere il problema. E, in sostanza, hanno gettato la spugna, e non sono più né creazionisti né anticreazionisti. Sono agnostici, e ammettono il Mistero.

  6. #6
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    Predefinito I Tre Corni

    I Tre Corni



    Io dormivo ma il mio cuore vegliava... Sento la voce...


    Dall'MD Code -

    E siccome ad un sistema etico (i tempi e la legge), oltre che con l’oppressione si può rispondere con la propaganda di un sistema alternativo, si annuncia ricca di conseguenze la pista relativa all’approfondimento del menzionato v. 25. Emerge dalle riflessioni delle pagine precedenti l’importanza di ulteriori riflessioni circa la relazione e l’interdipendenza tra l’etica a cui fa riferimento il libro di Daniele (i tempi e la legge) e la disciplina antropologica. Quest’ultime rappresentano due piste da seguire lungo l’intero percorso del presente scritto, intese come esigenze teoriche derivate dalla sommaria esegesi del settimo capitolo di Daniele, al fine della sua comprensione. Quanto all’atmosfera che permea i vv. 19 e 20 sui quali ci stiamo soffermando, essa non appare dissimile da quella che si sta diffondendo in seno al mondo contemporaneo e da quella descritta nell’Apocalisse di Giovanni. Il fatto che un piccolo corno spunti tra le dieci corna indica che verso la fine si assiste ad una novità: si organizza o si riorganizza, con grande successo, un’entità nazionale che vincerà su tre componenti in seno alla stessa quarta bestia. I tre corni che cedono di fronte al Piccolo Corno potrebbero essere i soli capaci di veto o d’intervento alla vigilia di tale evento. Se si trattasse della nascita di una federazione europea, i tre capaci d’intervento potrebbero risultare gli U.S.A., il Giappone e la Russia, ma si tratta di una congettura, benché verosimile se paragonata al graduale consenso che questi ultimi si ritrovano a riconoscere, volenti o nolenti, alla riorganizzazione unitaria della vecchia Europa. A rigore però i tre corni che cedono al controllo del Piccolo Corno dovrebbero rappresentare tre ceppi etnologici e relativi territori, perciò dovrebbe trattarsi di tre maggiori entità d’ispirazione od acquisizione, occidentali, unificate da una quarta che s’imporrebbe come prevalente. Si tratta di vedere come s’imporranno gli U.S.A., il Giappone e l’Europa unita nel prossimo futuro. Una soluzione è che la questione si risolva entro i termini dei ceppi slavo, latino, britannico e germanico. Se così è la belligeranza agli inizi formativi del regno del Piccolo Corno si attuerebbe incruentemente ed in termini culturali, economici e politici. Nel libro di Daniele esistono gli indizi del potere autarchico della quarta bestia ed i generici effetti di oppressione globale al livello socio-economico. ma è l’Apocalisse di Giovanni a rendere vivido il clima di violenza, idolatria e condizionamento che caratterizza il mondo durante il governo del Piccolo Corno. Se in Daniele la menzione dell’oppressione globale è sintetica ed essenziale, Giovanni l’apostolo riferisce la situazione del mondo alla vigilia dell’avvento del Piccolo Corno, quale crescendo, senza soluzione di continuità, di violenze, oppressioni, guerre, pestilenze, carestie e dissesti geologici.251 La visione introduttiva al Piccolo Corno è catastrofica sotto ogni profilo (sociale, economico, politico, ecologico, geologico, etico-religioso), a dimostrazione dell’incapacità dell’uomo a garantire il governo del mondo, nonché la tendenza di quest’ultimo all’oppressione, all’iniquità ed all’ingiustizia, il cui epilogo è la ricostituzione di un’autarchia bestiale, sicuramente propagandata quale legittima ed inevitabile soluzione al disordine ed ai conflitti, in seno ai quali vanno ricercate, anche in Italia, quelle forze risolutrici che sono alibi a se stesse. L’avvento del Piccolo Corno è la sostanza della restaurazione autarchica: un sistema economico impropriamente liberistico ed apparentemente laico è l’ipotetica dinamica di acquisizione graduale del potere; l’idea dell’inglobamento di partiti politici e confessioni religiose in seno all’ideologia autarchica, realizzata con l’arte della propaganda e dell’affascinamento; l’apparente riferimento al laicismo, affinché, reso laico il tutto, tutti siano pronti a riconoscere nel Piccolo Corno il primato del laicismo, per poi tradurre, insensibilmente, il laicismo in autarchia, specialmente quando giungerà il momento in cui l’indebitamento dei paesi del terzo mondo sarà irreversibile ed il tracollo delle banche verrà premeditatamente risolto con una neocolonizzazione militarizzata. L’apertura del secondo sigillo indica il fallimento dell’anagrafico ideale della coesistenza e della pacificazione.252 L’apertura dei restanti sigilli indicano inflazione monetaria, l’uccisione e la mortalità di una quarta parte degli uomini, dissesti geologici, scoramento e timore, diffuso tra i potenti, che il castigo di Dio sia imminente, a dimostrazione dello scoramento di fronte al disordine ed ai cataclismi. Il giudizio divino sembra iniziare prima ancora dell’avvento del Piccolo Corno, e quindi l’idea che quest’ultimo sia una soluzione è in realtà parte dello stesso giudizio. Seguono altri giudizi, innescati dalle preghiere del popolo di Dio, il quale anela al superamento della crisi globale ed all’avvento del Regno di Dio.253 Seguono le sei trombe: tempesta di grandine e fuoco ed un terzo della terra, degli alberi e della vegetazione, arsi; una massa ardente precipita nel mare; un terzo del mare diventa sangue, un terzo delle creature che vivono in esso periscono ed un terzo delle navi vanno distrutte; un terzo delle acque s’avvelena; un terzo del giorno e della notte rimane privo di luce; dal mondo sotterraneo fuoriesce un fumo che oscura il sole e l’aria, accompagnato da nuvole di locuste che tormentano gli uomini, ad eccezione del popolo di Dio; i quattro angeli incatenati presso il fiume Eufrate vengono liberati per uccidere un terzo degli uomini, servendosi di una cavalleria di duecento milioni di soldati, dotati di mezzi assimilabili a carri armati.
    http://www.evangelici.net/cgi/forum

    Generale / Gli «ultimi tempi» / Re: L'ultima guerra? 05/03/03 alle ore 00:266
    Iniziato da Abramo | Post by David777

    La data di Pasqua 2005 l'ho suggeirita l'anno scorso in un e-mail ad un servitore a pieno tempo delle ASF. Quanto a siria ed altre due entità sotto scacco da parte del PC l'ho scritto in questo Forum all'inizio della II Guerra del Golfo. Penso che bisogna procedere per ipotesi compatibili con l'esegesi e scartare quelle che non sostengono il test di falsificabilità nei fatti e negli eventi a confronto con la Scrittura. Per me, L'illuminazione è ordinariamente nell'interpretare organicamente le Scritture, almeno finché Dio non voglia dare rivelazioni dirette (i 2 testimoni?).
    Quando considero le qualificazioni del PC a dir il vero non ci vedo Bush ma qualcun'altro "in circolazione" sì.
    Una domanda fondamentale prima di ogni altra riguarda il carattere fuorilegge del PC. Chi rifiuta oggi leggi, costituzioni, istituzioni e tribunali internazionali? Chi ha deciso che il Mercato è Etica e Legge a se stesso? Chi ha deciso che Magistrati, Corte Suprema, Nazioni, enti, presidenti, ONU, Corruption Reports, in disaccordo con il carattere fuorilegge, sono tutti "il nemico comunista"? Chi ha deciso che la nuova autarchia si basa sulla legge evoluzionistica del più forte e "capace"? Chi sostiene il Darwinismo Sociale? Il fatto che Israele e la Chiesa rischino di sostenere proprio il PC non mi sorprende e non è in contraddizione con le Scritture. D'altra parte il nostro Premier e Mr. Bush Senior vanno d'amore e d'accordo: chissà se i due non rappresentino l'anello mancante USA-EU?

    ***

    Generale / Gli «ultimi tempi» / Re: Wilkerson e L'unione Europea 12/07/03 alle ore 14:175
    Iniziato da misunnenbun | Post by David777

    David W. riflette gli orientamenti dell'escatologia americana, che come tutte le teologie può prendere alcune "cantonate". Infatti la sorpresa dell'America sarà nello scoprire che il Piccolo Corno sarà andato al potere proprio col suo supporto, in "salsa comune" con l'Europa e gli alleati occidentali. Quanto allo scetticismo di Keith circa la strategia ed i motivi della guerra in Irak, consiglierei di fare una ricerca nel WEB cercando il termine "PNAC". Di lì si capisce quanto il Piccolo Corno riguardi non solo l'EU, ma anche gli USA. Infatti la semplice domanda è: come si può dominare il mondo ed attribuire le profezie del Piccolo Corno solo all'Europa?
    Alla vigilia della querra in Irak, in questo forum le voci che consigliavano di limitarsi al "petrolio" e circondare a vasto raggio Bagdad non sono mancate. Adesso purtroppo il "lavoro" va terminato nel miglior modo possibile senza creare pericolosi vuoti di potere.
    Tra le opzioni a rischio l'Iran e lo stesso Saddam.
    Tra le opzioni costose (in vite umane) un governo ONU.
    Tra le opzioni apocalittiche un governo occidentale.

    Anziché gironzolare intorno al problema delle armi di distruzioni di massa quale alibi, è meglio dire chiaramente - come stà facendo Berlusconi - che l'Occidente non può più permettersi di tollerare governi e paesi a rischio per la propria sicurezza.
    Quando però si cita il Diritto e la Democrazia internazionali, la controparte menziona tra i diritti umani i problemi che riguardano lo sfruttamento e le ingiustizie dei sistemi economici. Tutti questi motivi inducono il nuovo potere a far piazza pulita del Diritto Internazionale, "modificandolo"...

    Il Premier italiano penso stia tessendo la sua tela in MO - perché la soluzione richiede un capolavoro di diplomazia e persuasione alla mediorientale... - la persuasione non esclude però un più deciso uso della forza per imporre la "democrazia" a scapito del Diritto Internazionale, il quale andrebbe perciò modificato per rendere per l'appunto la plutocrazia legale.
    http://www.repubblica.it/2003/l/sezi...mi/noarmi.html
    http://www.unita.it/index.asp?SEZION..._TIPO=&TOPIC_I D=3112

    Ecco il girotondo che stà sotto il PNAC*, il quale in questa nuova ottica di "scontro di civiltà"** sembra inevitabile e necessario - i credenti d'ora in poi devono stare bene attenti nel dove mettono il naso.
    Un accordo sottobanco con Israele lo ha già fatto e si tratta ora di convincere gli arabi "moderati".
    Tutto questo movimento porterà alla dislocazione di truppe di garanzia in MO ed il Cavaliere acquisirà gran credito per la sua mediazione.
    I pericoli per Israele non si sono presentati mai sotto i panni della stessa ideologia.
    Chissà il liberismo moderato della tradizionale democrazia americana che fine farebbe in una sua versione plutocratica?
    Il Cavaliere vuole provarci e sembra che ne abbia tutto l'entusiasmo, come per un adoloscente che gioca a Monopoli od a Napoleone: beato lui...!?
    A parte i rischi profetici, io tutta quella pazienza non ce l'avrei. Mi sembra così inutile e scontato quel che stà accadendo, specialmente sapendo che un governo globale umano non potrà mai sostituire l'Onnipotente Signore dell'Universo.
    Sembra che sia la vigilia della Plutocrazia con la buona pace di chi mette l'Europa nel mirino delle profezie e non guarda sotto il naso cosa si stà preparando.

    Ciao a tutti

    *http://www.newamericancentury.org/
    http://pnac.info/
    http://www.crisispapers.org/Editorials/PNAC-Primer.htm
    ** Ecco a cosa sembra far allusione il Premier Italiano. Non è come pensa la Sx una fantasia casuale ed irresponsabile del Cavaliere: http://www.kelebekler.com/occ/pnac.htm

    Naturalmente riporto questi siti a titolo d'informazione e non significa che condivida tutte le critiche mosse al "neoconservatorismo"...
    Il punto è: come si può in una tale situazione di premeditazione del potere globale indicare l'Europa come l'esclusivo quartier generale dell'Anticristo?

    Ecco perché in questo stesso thread ho suggerito che gli USA, l'EU e l'Occidente sono destinati a confederarsi sotto uno stesso comando...

    ***

    Generale / Gli «ultimi tempi» / Re: L'ultima guerra? 05/01/03 alle ore 15:09:28
    Iniziato da Abramo | Post by David777

    Caro Abramo,
    il re del Nord ed il re del sud sono due regni originati dalla frantumanzione del regno di Alessandro Magno.
    Siccome però Antioco IV (Dan.11 e 12) diventa tipo del Piccolo Corno, è significativo che gli USA diventano "re del Nord" acquisendo la parte sostanziale del regno che era stato di Antioco. Se i tentativi lasciati in sospeso di quest'ultimo si avverassero con gli USA, Siria, Israele ed Egitto (oltre ad altre zone limitrofe) potrebbero cadere in mano americana. Tal cosa ricorderebbe le tre corna che cadono e rimpiazzate dal Piccolo Corno... La conseguenza di tale interpretazione è che gli USA si ritroverebbero a capo della IV bestia, mentre tutti si aspettano che sia la EU a compiere tale profezia. Pericolo per Israele? Intanto non c'è da sorprendersi che un unto ebreo possa fare un alleanza col re del nord. Vigilia di un patto con molti? Sospetto che il "patto" che segna l'inizio dell'ultima settimana di Daniele verrà firmato a Pasqua del 2005 (il libro di Neemia e certi fenomeni del Bible Code mi sembrano sulla stessa linea). In prossimità della scadenza dei tre anni e mezzo successivi, si attuano i fatti di Apoc.11. Il "primato" escatologico tra USA e EU è ancora comunque da decidersi. Non credo che Babilonia sia "Babilonia" - basta fare una lista delle sue caratteristiche (in Apoc.) per rendersi conto che è "la donna che siede sulla bestia e che impera sui re della terra... in cui fu trovato il sangue dei santi...". La cosa che mi dispiace nel frattempo è che i "fondamentalisti" sembrano promuovere e sostenere un potere che sfugge a regole legali internazionali. Penso che alla resa dei conti saranno i semplici credenti a pagare per i "furbacchioni" del Libero Mercato senza Legge. Non andava bene il "Liberismo" in accordo con Leggi e Costituzioni? NO, troppo poco: fondamentalisti (siamo noi) e World Bank vogliono l'iperliberismo della Global Corporate Governance: che sia proprio la Pax Americana? Non vorrei scoraggiare Israele citando la percentuale che scamperà ("riguarderanno a Colui che hanno trafitto"), ma se potessi (tra le altre cose - e.g. come vanno affrontati 2005-2012) incoraggerei il governo ebraico alla costruzione di... nel deserto della Giudea (Ap.12).


    L'ipotesi dei tre corni occidentali che si fondono nel Piccolo Corno (detto l'VIII dai 10 iniziali) sembra lasciar spazio all'ipotesi mediorientale.

    Se la cosa ha fondamento vedrei tra ora e la Pasqua dell'anno prossimo (2005) una guerra in MO e prossimamente l'inizio di una seconda fase PNAC di annessione della Siria e dell'Egitto unitamente ad altri stati satellitari od aggregati.

    Ecco alcune conseguenze della premessa:

    Il sogno di Antioco Epifane si coronerebbe ed Israele verrebbe a trovarsi nella stessa rete pensando in tal modo di conservare la propria incolumità e sovranità.

    In segreto si è già deciso di rifiutare l'ultimatum di Zapatero alla fine di Giugno ed i movimenti strategici per l'inizio delle ostilità su vasta scala sono già cominciati.

    Si proverà ad indurre gli arabi a fare il primo passo nella regione ed a spostare la questione palestinese in prima linea di guerra.

    Il MO verrebbe così a trovarsi in mano israelo-americana ed un accordo di pace si profilerebbe per la Pasqua 2005.

    Bin Laden cercherà di tenere l'Europa fuori con offerte diplomatiche interessanti, fino a parlare il linguaggio dei califfi berberi della Spagna Medievale.

    L'Europa Federale si farà in un clima tormentato e di divisione, ma nondimeno essa sarà capace d'influire sugli USA sia prima che dopo l'attuazione di una superfederazione occidentale: alcuni suoi pezzi saranno "Piccolo Corno" a tutti gli effetti e la stessa identità personale di quest'ultimo sarà a cavallo tra l'Atlantico...

    L'accordo di Pasqua 2005 seguirà tragici eventi non solo in MO che vedranno dalla fine della II GM per la prima volta far ricorso a...

    Il Patto Pasquale durerà poche decine di mesi, ed alla fine del XLII Gerusalemme verrà circondata e presa.

    Questo è l'inizio della seconda settimana della LXX di Daniele.

    Tempi Terribili che vedranno Israele cadere nell'errore e molti individui e relativi popoli a rischio della vita.

    La "donna" uscirà allo scoperto per tenere a freno il Piccolo Corno. In Israele un unto sarà socio dei due e gli ebrei lo accoglieranno fino alla presa... Interessante sito:
    http://evangelici.altervista.org/apocbest.html


    Ramallah, Gaza, Haifa, Damasco ed Amman più a rischio degli altri...

    Gran confusione perché quella in arrivo non è una crociata contro gli arabi ed il vero cristianesimo centra ben poco ed indirettamente. La Croce di Cristo viene usata come pretesto per coprire interessi che vanno molto oltre la religione. E' comunque naturale che nell'esasperazione i vecchi conflitti assopiti si risveglino e che tra le cause economiche facciano capolino le sostanze spirituali.

    E' l'iperliberismo in fase plutocratica a voler accellerare i tempi in previsione di pasticci ancor più grandi con i Re dell'Oriente.

    Tutti sintomi del vero Re dei Re in arrivo, il quale chiuderà a suo modo la partita con le potenze mondiali.





    Oggi è il 16 Aprile 2004


    David777

  7. #7
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    Predefinito Re: I Tre Corni

    In Origine Postato da david777 -



    Io dormivo ma il mio cuore vegliava... Sento la voce...

    L'ipotesi dei tre corni occidentali che si fondono nel Piccolo Corno (detto l'VIII dai 10 iniziali) sembra lasciar spazio all'ipotesi mediorientale...
    E' l'iperliberismo in fase plutocratica a voler accellerare i tempi in previsione di pasticci ancor più grandi con i Re dell'Oriente.

    L'ipotesi MO dei 3 corni potrebbe non accreditarsi al confronto con la soluzione occidentale, ovvero prolungarne i tempi di adempimento, se l'ONU ottenesse il passaggio integrale dei poteri in Irak.

    http://www.repubblica.it/2004/d/sezi.../scalzapa.html

    Berlusconi... avrebbe oggi una grande chance: quella di utilizzare lo sganciamento dall'avventura irachena come leva per ottenere da Bush un radicale mutamento di strategia. Non la soluzione dell'Onu "vivandiera" e portatrice d'acqua, ma il passaggio integrale dei poteri all'Onu...

    Il dogma dell'alleanza con la destra americana lo impedisce.

    ... Il tempo è scaduto, ogni giorno che passa è perduto. Perciò muovetevi prima che sia tardi.


    (25 aprile 2004)

    Zapatera lo sà e noi lo sappiamo: non vi muoverete e Berlusconi perderà una grande chance... perché egli crede di averne una migliore. La Dx americana lo impedisce? La stampa internazionale ha denunciato la forte presenza conservatrice dietro la politica di Mr. Bush e della White House.



    Il Cavaliere ritiene di seguire la stessa linea per le ragioni dichiarate in un'intervista al New York Times (5/12/03)

    http://www.liberazione.it/notizia.asp?id=1721

    e poi smentite nel tentativo malriuscito di riaddolcirle -

    http://www.wallstreetitalia.com/arti...?ART_ID=191126

    Il mito dello statista conservatore alla "Bible Belt" sembra ormai all'ultima moda, ma c'è da chiedersi se la gestione e l'esasperazione dell'attuale crisi nazionale ed internazionale rifletta veramente i valori evangelici della Bible Belt - sarebbe da provarci in un prossimo post, il cui titolo potrebbe essere: "Le caratteristiche di un Bible Belt President."

    I questo modo credo sarà più facile distinguere i veri conservatori dai plutocrati e dimostrare che quella che è in atto non è una vera crociata, bensì una "mammonata".

  8. #8
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    Predefinito

    http://www.politicaonline.net/forum/...ad.php?t=68703
    Citazione Originariamente Scritto da david777 Visualizza Messaggio


    Quella dei dipartimenti antropologici “passatempo” mi è piaciuta: ormai siamo al punto che il WWF deve occuparsi degli esseri umani a rischio d’estinzione – sono creature anche loro! Ad ogni modo il treno è ripartito, ma non ho visto il capotreno né scendere, né uscire dalla “Ritirata”.
    Sotto una galleria, ed ecco dall’oblò è pieno giorno di nuovo con Pneumalandia laggiù che scorre immensa sotto le ali: un paio d’ore e siamo a destinazione. Nuovo territorio, nuovi presunti padroni! Veniamo infatti all’altra eresia, causa di peregrinazioni: proprietà e governo.
    Durante i miei lunghi soggiorni a Gerusalemme sentivo pressoché quotidianamente discutere circa il diritto di proprietà e di governo della terra d’Israele. Per gli arabi la “Palestina” con capitale Gerusalemme è di loro proprietà e diritto, così come per gli ebrei Israele è l’eterna eredità di Dio ai discendenti di Abramo nella progenie d’Isacco, con Sion capitale. Allo stesso modo il problema della definizione di Proprietà e Diritto semina discordie, divisione e conflitto d’ogni tipo tra le nazioni ed i popoli, fino ad indurre alla ordinaria risoluzione per via del potere e della conquista. E’ tuttora così, anche se la maniera occidentale e democratica per farlo è diventata quella “inbelle” ed economica: investimenti, profitto, competizione e deregulation in cambio di conflitti e problemi sociali di ogni tipo, ma anche arricchimento e benessere per chi s’imbarca dalla parte vincente e non disdegna i burattinai. Il trasferimento di potere economico a prescindere dalle vie e dall’etica in cui si attua, determina spostamenti e consolidamenti di proprietà che noi diciamo “privata”.
    A Gerusalemme si è per forza di cose a chiedersi: “di chi è la terra d’Israele o la Palestina e chi ha il diritto od il compito di governarla?” A chi appartiene il mondo, quel che contiene e l’Universo intero ed ha il diritto e la responsabilità di governarli?”
    Come si vede il ricorrente interrogativo circa il Governo è correlato al concetto di “Proprietà”.
    Prima viene la Proprietà e poi il Governo.
    Chi sono i legittimi proprietari d’Israele, e chi del mondo e dell’Universo intero?
    La logica comune illude gli uomini di poter conquistare e possedere con la forza, la guerra, le strategie economiche. Non è tanto la modesta proprietà di chi guadagna con la fatica del proprio lavoro, bensì i grandi disegni di acquisizione di domini e grandi proprietà, nazioni, stati e territori ad essere nel mirino.
    Quel che serve quì non è un notaio ed un’indagine filosofica a tappeto, bensì un’autorità od un principio che chiarisca l’ineluttabile carattere “ontologico e metafisico” della “Proprietà”, essendo che la definizione della sua stabilità non può che risiedere nella sua sostanza. Ogni bene che può essere perduto, rubato, smarrito ed eroso non è “proprietà” ma bene transitorio che può tutt’al più definirsi come bene in amministrazione per l’uso privato. Tra questi vi sono beni che sembrano stabili – quali la terra, gli immobili, l’azienda, i capitali – ma che in effetti sono anch’essi transitori ed instabili.
    La loro transitorietà può dipendere sia dal carattere effimero dei beni terreni, sia dall’alterna fortuna delle vicende umane, ma soprattutto dalla transitorietà dell’esistenza umana.
    Anche nel caso in cui l’uomo fosse immortale, la proprietà non sarebbe assoluta ma solo bene amministrato, per il semplice principio che ciò che non è causa prima di un qualcosa non può neppure disporre della sua sostanza in assoluto.
    Gli angeli ad esempio sono immortali ma non possono ritenersi padroni di nulla se non semplici amministratori delle cose e dei compiti che Dio ha loro affidato. Gli angeli sono immortali ma non eterni, mentre l’uomo nella sua condizione naturale non è sia mortale che per nulla eterno: egli non è causa di sostanze se non nel senso della loro trasformazione e manipolazione allo scopo di un determinato uso – l’uomo può "possedere" la casa ma non la materia di cui è composta, il terreno ma non la terra, e solo nel senso dell’uso temporaneo che ne può fare.
    Infatti la proprietà non può essere stabile e reale nell’essenza se il suo proprietario non è egli stesso stabile e reale e permanente nell’essenza.
    Per questo l’Ecclesiaste si tormentava: “Ho odiato ogni fatica che ho sostenuta sotto il sole, e di cui debbo lasciare il godimento a colui che verrà dopo di me. Chissà sa se egli sarà saggio o stolto? Eppure sarà padrone di tutto il lavoro che io ho compiuto con fatica e con saggezza sotto il sole... che profitto trae l’uomo da tutto il suo lavoro, dalle preoccupazioni del suo cuore, da tutto ciò che gli è costato tanta fatica sotto il sole?” (Ecclesiaste 2)



    Dunque anche se l’uomo possiede e governa una nazione ed un popolo intieri, se non vive la sua presunta proprietà nella dimensione ontologica della sua essenza stabile ed eterna (ammesso che ne abbia una), “tutti i suoi giorni non sono che dolore, la sua occupazione non è che fastidio; perfino la notte il suo cuore non ha posa.”
    L’ecclesiaste – si presume si tratti del Re Salomone – decide così che tanta provvisorietà ed instabilità “ontologica” della proprietà merita una risposta adeguata ed alla portata di ciò che l’uomo può ingerire “ontologicamente” nella sua pancia: “Non c’è nulla di meglio per l’uomo del mangiare, del bere e del godersi il benessere in mezzo alla fatica che egli sostiene; ma anche questo ho visto che viene dalla mano di Dio.”
    Infatti lo stomaco potrebbe essere ammalato, la fortuna alterna, ed il resto del corpo incapace di godersi i piaceri transitori della vita terrena: “Infatti chi senza di lui (Dio) può mangiare o godere?”



    Senza il favore ed il dono della natura ontologica di Dio non si è padroni neppure di un cocomero se non del suo fenomeno passeggero, benché talvolta così pregnante da produrre l'illusione della proprietà.



    Alla fine l’avarizia, la crudeltà, la guerra, il conflitto d’interesse, la deregulation, le regole di mercato, il liberismo esasperato, le riforme costituzionali, la campagna dell’articolo XVIII, e le loro relative scatenate conseguenze, quali terrorismo, altra competizione e deregulation, altra avarizia e meschinità, giungeranno ad un medesimo risultato: ossia lasciare tutto a coloro che possiedono ontologicamente e metafisicamente tutto per definizione e sostanza della propria essenza eterna. Salomone si rende conto che Dio dà all’uomo ch’egli gradisce, saggezza, intelligenza e gioia, ma al peccatore è riservato un compito speciale: quello di affaticarsi con l’eccesso della sua avarizia e di “raccogliere, di accumulare, per lasciare poi tutto a colui che è gradito agli occhi di Dio.”
    Dunque raccogliere in eccesso per sé è vanità, a meno che non vi sia un motivo nobile in favore di altri e capace di trasformare l’eccesso in virtuosa impresa in favore della vita comune.
    La parabola dei cattivi vignaiuoli di Matteo 21 è in realta la storia di come la vigna (la proprietà di Dio) è tenuta in amministrazione da chi ritiene di averne acquisito il possesso, ma poi viene il tempo per farne ritorno a chi ne detiene la legittima ed ontologica proprietà. Nel frattempo linciaggi ed ammazzamenti provano ad assicurarsene il possesso, ma è tutto inutile. Alla fine il Regno verrà data al popolo di Dio. (Dan.7:27)

    Non prendiamola quì alla lunga ed andiamo dritto al centro della questione: l’essenza ontologica della proprietà e del proprietario, che di conseguenza ha pure il diritto ed il compito di partecipare del governo di ciò che possiede.
    A seconda del punto di vista filosofico o religioso, la definizione di “essenza ontologica” cambia. Per il Naturalismo la questione è “naturalmente” solo di ordine materiale, biologico, storico, economico, e via dicendo, perciò finito (morto) il proprietario muore per lui anche la proprietà, ritornando alla medesima vanità salomonica. Anzi, prima o poi muore oggettivamente anche la proprietà, così come muoiono le stelle, le galassie ed i pianeti, diventando buchi neri (l’antiproprietà): non è questa la mia filosofia e la mia fede, anche se il Naturalismo ed i suoi derivati possono essere scientificamente utili nelle cose sperimentali.
    L’obiettivo è concreto e mira a risolvere aspetti di base dell’esistenza umana, sia in ambito civile che ecclesiale. La filosofia è utile e benvenuta ma come al solito ha suoi limiti quando si tratta di fonti autorevoli dal valore giuridico assoluto. Così arriviamo al monoteismo biblico in poche battute, perché le prospettive di tutte le altre ideologie e religioni portano ad un punto morto circa la definizione di proprietà: dal ritorno al Sè Universale del Cosmo, alla reincarnazione, al passaggio ad un destino eterno ignoto, all’idea che tutto si svolge quaggiù - sembra che più che possedere si venga posseduti da un’altra forza, un inferno, un corpo, un governo, un regime, un autarca, un imprenditore, in cicli senza posa nè stabile proprietà che non sia la morte, la fine o l’aldilà, senza eredità, senza un padre, senza una vera e stabile dimora paterna, senza una patria eterna che non sia quella transitoria, limitata e sempre contraddittoria degli uomini.
    La filosofia mi porta fino ad esser certo che senza l’attributo dell’eternità (né inizio né fine) e dunque dell’essere causa prima, la “proprietà” di un qualcosa è solo illusione e fenomeno del suo uso temporaneo. Oltre il contributo di questa categoria filosofica serve una fonte autorevole per ordinare il mondo e sistemare sia i concetti che i valori.
    Durante una mia visità a Mosè ad Empoli, si parlò a lungo di questo problema, arrostendo salsicce sulla brace del focolare, e sorseggiando del buon Chianti (compagni di merende), finché non ci si pose la domanda: allora cos’è la proprietà ed il proprietario nella sua essenza stabile ed eterna ed in cosa consiste il loro governo?



    Alcuni versi biblici furono particolare oggetto di attenzione e capaci di presentarsi come fonte, tra le altre idee filosofiche che alla fin fine fornivano sì categorie di pensiero, ma senza “cavarci un ragno dal buco” nella soluzione del problema: 1Corinzi 2:6-16; 3: 21,22; Giovanni 1:12,13; Romani 8: 32; 2Pietro 1,4).
    Si giunse a conclusioni tali che si pensò che era meglio tenere tutto in silenzio e quale oggetto di meditazione per un lungo periodo di quarantena. Così non fù, perché dopo un certo tempo Mosè cominciò inavvertitamente a far filtrare l’accaduto, il quale venne fraintesa al punto che l’accusa di eresia piombò su entrambi.
    Una lettera di ammonizione cristiana da parte di Eduardo informava della serietà dell’eresia (dal tono si direbbe la peggiore che la teologia cristiana abbia mai conosciuto).



    Eppure ero convinto che senza il coraggio di difenderne il contenuto ci si privava di uno strumento essenziale per rispondere alla confusione del potere civile e religioso circa la definizione di proprietà e governo, la quale così tanto interferisce con le lotte di potere politico, spirituale ed economico. E’ comprensibile che sui cieli di Pneumalandia mi preme capire quale identità e quali priorità o motivi porta con se l’uomo demolito ed in scatola di montaggio in procinto di sbarcare nel nuovo mondo.
    Una risposta al Dottor Eduardo è necessaria, altrimenti che senso ha causare un putiferio dottrinale senza arrivare alla soluzione dei problemi teorici che si vogliono risolvere. La questione del “Governo” dovrà aspettare, ma una cosa è certa: essa è collegata alla risposta ad Eduardo.

    Caro Mosè, grazie per la tua lettera del 19 novembre e per la copia dello scritto che il fratello e Dottor Eduardo Skill ti ha spedito il 4 maggio della scorso anno. Il forte ed inalterabile affetto è da sempre ricambiato, anche se negli ultimi anni siamo distanti.


    L’ERESIA

    Anche tu, vedo, ti ritrovi con l’accusa d’eresia: evidentemente mentre guardi le salsicce pensi anche tu a Picasso. Lo scritto di Eduardo è però una bella lettera, dettata dall’affetto e dalla premura per la verità che si suppone intrecciata alla dogmatica tradizionale, e non da strategie culturali. Eduardo rappresenta la premura, la dottrina, la buona intenzione della Cristianità, non solo evangelica. Quindi siamo grati che egli perlomeno ti abbia scritto e mostrato il suo affetto. Allo stesso modo la mia risposta alla tua lettera è anche un segno del nostro affetto per lui, il quale consideriamo non un eretico, ma un figlio di Dio coerede con Cristo, all’evidenza in buona pace con la Cristianità.
    Mi sembra evidente che le chiese facciano riferimento alla fede che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre (Gd.3), al modello delle sane parole ed al buon deposito (2Tim. i,13,14) in relazione ed identificazione sì con La Scrittura, ma nella sostanza alla sua interpretazione, mediata dalla particolare tradizione di ciascuna, finendo per identificarsi con la Dogmatica ed in essa staticizzarsi, con formule e definizioni che diventano rigide ed inadatte a ricevere ulteriore luce scritturale circa verità dottrinali intrappolate dalla tradizione in versioni limitate se non talvolta discutibili ed erronee.
    A mio vedere, la Riforma non è uno stato ma un divenire: quando si ritiene di aver definitivamento riformato o di essere stati riformati una volta per sempre e di tenere in pugno il deposito, allora si finisce per essere sì la chiesa di Lutero, di Darby o di Calvino, ma refrattari alla stessa dinamica riformata che per sua essenza è destinara a concludersi soltanto quando vedremo faccia a faccia e conosceremo appieno come siamo stati appieno conosciuti (cfr. 1Cor.xiii,12) e saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è (1Gv.iii,3).
    Ricordo che discutendo dell’Eresia per la quale Eduardo ti dichiara eretico, in una sera d’inverno di una ventina d’anni orsono a Pontorme – dinanzi al fuoco del camino ed arrostendo qualche salsiccia piccante (in memoria di Picasso!) – pensavamo che non era certo il caso di parlarne con la Chiesa, sapendo quali monumenti di cristallo andavamo a disturbare. Mi sembra di non averne parlato con nessuno in questi anni se non in maniera generica ed allusiva, perché per capirsi una lista di altre cose viene prima e che si riferisce alle categorie della teologia classica e riformata.
    Ho l’impressione che la Riforma - nella sua versione evangelica fondamentalista in particolare - abbia spesso rinnegato, ignorato o finto d’ignorare l’origine rinascimentale, senza che ve ne fosse una reale necessità se non quella fasulla di doversi liberare di qualunque riminiscenza di romanità, di cui non si potesse far perdere la traccia in un nuovo mondo antilatino. Naturalmente vi sono eccezioni a tale fenomeno, ma prevalentemente entro i confini liberali, per cui i relativi benefici sono rimasti parziali, perché a mio avviso è dalla simbiosi di fede nelle Sacre Scritture quale ispirata Parola di Dio, e Rinascimento e le sue conseguenze che si ottengono i risultati migliori sia per la teologia che per la cultura.
    Penso che il soggetto dottrinale che ti ha esposto come eretico sia allo stesso tempo correlato ai temi centrali della Riforma, del Rinascimento e delle Sacre Scritture, riguardando la natura o l’essenza stessa della Rinascita.
    Quando si legge in 1Gv.iii,2: “Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è”; i riferimenti – cfr. la Nuova Diotati – rimandano a Ga.iii,26 e iv,6: “Siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù... Ora perché voi siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori che grida: Abba, Padre.” Il Dottor Skill ricorda che in Gal.iv,5 l’apostolo Paolo afferma che i cristiani hanno ricevuto “l’adozione di figliuoli”, un’espressione che traduce esattamente una sola parola greca, “huiothesìa”. Dice bene Eduardo che i Cristiani, quindi, saranno sempre “figli adottivi”, anche se, a differenza dei figli adottivi umani, c’è, nel loro caso, come si diceva, una partecipazione alla vita divina. Il limite è che per Eduardo questa partecipazione alla vita divina non giunge mai a condividere la stessa natura (essenza) divina: “... una partecipazione alla vita divina, senza però per questo divenire della stessa natura divina del Padre e del Figlio, che con lo Spirito Santo costituiscono l’unico Dio – l’unico veramente tale di cui ci parla la Scrittura. Che non si tratti di comune adozione è evidente nel contesto in cui huiothesìa compare, perché lo Spirito di Cristo, Suo Figlio, nei cuori dei nuovi figli che grida, Abba Padre (v.6), compie la grande differenza a confronto con l’adozione umana, la quale si traduce in rigenerazione e non semplicemente ricreazione, benché essa sia anche una ricreazione ed un’adozione.
    Il Dottor Eduardo in realtà ci propone un’adozione semiumana (in quanto il figlio adottato non avrà mai i geni del padre adottivo) ed allo stesso tempo semidivina, essendo che pur non condividendo la stessa natura divina del Padre e del Figlio, c’è però una partecipazione alla vita divina, essendoci un rapporto con il Padre, distinto dal rapporto di Cristo con il Padre: “Gesù fece sempre una chiara distinzione tra il Suo rapporto con Dio Padre ed il rapporto dei Suoi discepoli con lo stesso Dio Padre. Non fece mai riferimento a Dio come Padre nostro, se si esclude la famosa preghiera, che però i Suoi discepoli dovevano usare, non Lui. Gesù parlò infatti sempre del Padre mio e del Padre vostro, come per fare appunto una chiara distinzione tra il Suo rapporto con Dio Padre ed il rapporto dei Suoi discepoli con lo stesso Dio Padre.” Gesù è il primogenito di molti fratelli in Rom.viii, 29, ma gli altri fratelli parteciperebbero alla “figliuolanza” senza divenire come lui quanto a natura divina.
    Fratelli sì, ma non completamente, e dunque fratellastri. Edoardo dice che “non conosciamo l’esatta entità di tale partecipazione, trattandosi di un fatto soprannaturale, ma è certo che tale partecipazione non è identità...” Il timore di Eduardo nel distinguere partecipazione da identità è evidente nel tentativo di difendere la divinità da intrusioni che mettano in dubbio la sua esclusività: “...Dio sarà sempre il Re dei re e Signore dei signori, il Solo che possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha visto né può vedere... (1Tim.vi,15,16)” Il timore s’intravede nella fretta di tirare le conclusioni di quest’ultimo testo: “Qui ci si riferisce all’essenza stessa dell’unico Dio (Padre, Figlio e Spirito Santo), che è e sarà inaccessibile, anche ai Suoi figli adottivi.” Inoltre ponendo la distinzione in termini di partecipazione ed identità, si tradisce il ben noto e diffuso fraitendimento di categorie tra le nozioni di divinità/essenza/natura e personalità/identità/persona, in quanto la partecipazione del tipo che implica l’essenza divina non implica identità di persone, bensì medesima essenza, che può dirsi identità di sostanza ma in rapporto a qualità divina e non ad identificazione di persona: un padre pur essendo della stessa essenza genetica del figlio, non è la persona del figlio nonostante la medesima sostanza. Un solo Dio è perciò l’equivalente di una sola sostanza, così come lo è di una sola Umanità, con la differenza che le persone della divinità sono per loro essenza e qualità capaci di una immedesimazione affine alla identificazione pur nella distinzione: realtà che l’umanità può iniziare a sperimentare in se stessa soltanto quando, attraverso la Chiesa, essa diventa unico Corpo: “ V’è un corpo unico ed unico Spirito”; ma ciò che è potenzialità e condizione per l’unità umana lo è anche a mio vedere per quella tra umanità e divinità – un antropoteismo attraverso la rigenerazione. Ma andiamo per gradi.
    Eduardo prevede una partecipazione alla vita divina e non alla natura divina: ne comprendiamo le preoccupazioni, ma se vogliamo rispondere alle sue obiezioni ed accuse di eresia non possiamo evitare di disturbare la buona pace, sua e della cristianità, circa tale questione e le sue implicazioni dottrinali.
    In quanto ne è familiare il testo ma non l’ampiezza delle conseguenze teologiche, non è subito traumatico riconoscere che l’apostolo Pietro considera la partecipazione alla vita divina una partecipazione di natura: “... ci sono state elargite le sue preziose e grandissime promesse perché per mezzo di esse voi diventaste partecipi della natura divina...” (2Pt.I, 4) "Phusis" è reso benessimo da natura, per cui non c’è tanto da affaticarsi per dedurne le conseguenze: “The believers shares in the divine nature via new birth.” (1)
    In questo caso i teologi si sono sì esposti a parlare di divinità di natura, rigenerazione, filiazione, ma quando si è trattato ti tirare le somme hanno fatto inconsapevolmente un passo indietro come San Tommaso d’Aquino, il quale dopo aver sviscerato i concetti di paternità e generazione per difendere la divinità di Cristo, ha finito per relegare la Chiesa nel dominio di certa partecipazione alla vita e non alla natura divina. Che Eduardo utilizzi definizioni, procedimenti ed allo stesso tempo limitazioni tomistici è evidente.


    http://www.forma-mentis.net/Filosofia/Tommaso.html

    L’idea di una certa partecipazione della bontà divina – come si dice anche dei santi – suggerita da Fotino per ridimensionare la divinità di Cristo, finisce per stigmatizzare l’adozione della Chiesa e ridurne la sua filiazione per effettiva generazione, nonostante Tommaso sfiorasse continuamente la radicale verità della rigenerazione divina dei cristiani nelle sue enunciazioni logiche. Infatti quando si tratta di difendere la divinità di Cristo, egli sfrutta all’osso le proprietà di filiazione, mentre la natura della Chiesa rimane in un sublivello indefinito per l’evidente paura del rischio di blasfemo ed idolatria.
    Quel che vogliamo dire infatti è che non si può essere veri figli e non possedere la natura o sostanza del padre, pur restando persone distinte. E come non ha senso affermare che umanamente il figlio in quanto figlio è inferiore a suo padre nella sua umanità, allo stesso modo e divinamente non ha senso affermare che il figlio in quanto figlio è inferiore al Padre nella sua divinità - dove umanità e divinità sono in relazione di natura o proprietà, in quanto uomo e dio non esprimono immediatamente un’identità bensì una proprietà di natura o sostanza dell’entità o persona a cui si riferiscono. Infatti l’uomo sta per l’umanità, così come Dio sta per Divinità – Elohim (plurale astratto di eccellenza), ossia integrità e totalità della divinità, per cui la loro proprietà ed astrazione linguistica coincidono.
    La proprietà od essenza è dunque anche una ed integrale, pur riferendosi a una o più entità o identità, le quali la possiedono tutti in egual misura. A dimostrazione che a San Tommaso sono familiari tali categorie, è la facilità con cui egli può rispondere a Fotino e Sabelio circa l’unità di Dio: “Ascolta, Israele, il Signore Dio tuo è l’unico Dio... Vedete che io sono solo e non c’è altro Dio all’infuori di me, non contraddicono l’insegnamento della fede cattolica, la quale, come abbiamo visto confessa che Padre e Figlio non sono due déi, ma un unico Dio. Parimenti, le affermazioni di Cristo: Il Padre che è in me, è lui che compie le opere... Io sono nel Padre e il Padre è in me non dimostrano l’unità di persona come voleva Sabellio, ma l’unità di essenza, che sarà invece negata da Ario.” (2) In precedenti proposizioni l’unità di essenza si era da sé annunciata:

    1. “Il termine figlio con proprietà e verità deriva dalla generazione dei viventi, nei quali il generato procede dalla sostanza del generante” (3)
    2. “Se Cristo è vero Figlio, necessariamente ne segue che è vero Dio. Ciò che infatti è generato da un altro non si può dire suo vero figlio, anche se nato dalla sua sostanza, se non è della medesima specie del generante: il figlio di un uomo, insomma, deve essere uomo. Perciò se Cristo è vero Figlio di Dio, bisogna che sia vero Dio. Dunque non è qualcosa di creato.” (4)
    3. “Tutto quello che Dio ha in se stesso fa parte della sua essenza, come abbiamo dimostrato nel Primo Libro [cc. 21 ss]. Ora, tutte le cose che il Padre ha, sono del Figlio; poiché il Figlio stesso afferma: Tutto ciò che il Padre ha, è mio (Gv.,XVI, 15); e parlando al Padre aggiunge: Tutto ciò che è mio è tuo, e ciò che è tuo è mio (Gv., XVII, 10). Dunque è identica l’essenza del Padre e del Figlio. Quindi il Figlio non è una creatura.” (5)
    4. I concetti di filiazione, generazione e paternità che San Tommaso evoca sono in linea coi motivi per i quali gli ebrei, interpretando l’affermazione di Cristo circa la sua filiazione divina, altro non concludevano se non ch’Egli intendesse dichiararsi Dio. “Niente di creato può essere uguale a Dio. Ora il Figlio è uguale al Padre. Infatti nel Vangelo si legge: I giudei cercavano di ucciderlo, non solo perché trasgrediva il sabato, ma perché affermava che Dio era suo Padre, facendosi uguale a Dio (Gv. V, 18).
    5. Per San Tommaso “soltanto la fede della Chiesa Cattolica riconosce una vera generazione in Dio, affermando che la generazione del Figlio è dovuta al fatto che il Figlio ha ricevuto dal Padre la natura divina.”(6)

    Ora in considerazione dei seguenti testi, proviamo a sostituire ai punti 1-5 la Chiesa a Cristo e chiediamoci se vi sia qualche dottrina o ragione che si opponga a tale esercizio, senza però tirare alcuna conclusione per il momento: Gv. I, 12; 1Cor. III, 21; Rom. VIII, 32; 1Cor. II, 12

    Altre proposizioni circa la coessenzialità di Cristo e del Padre sembrano non poter riguardare la Chiesa. Ad esempio San Tommaso afferma che “non si può conoscere la quiddità di Dio mediante nessuna creatura”, non potendo nessuna sostanza creata rappresentare Dio nella sua essenza; che “invece il Figlio rappresenta il Padre: poiché di lui l’apostolo afferma che è l’immagine di Dio invisibile (Col., I, 15).
    Cristo soltanto infatti è immagine perfetta, la quale rappresenta l’essenza stessa di Dio, “essendo lo splendore della gloria e l’impronta della sua essenza...” (Eb., I, 3)
    Se si procedesse andando a cercare tutti i punti in cui è evidente ciò che Cristo è e la Chiesa sembra non poter essere, sarebbe più arduo sviscerare il vero carattere e la natura di quest’ultima, non perché non vi sarebbero argomenti, bensì perché il metodo ed i procedimenti a tal fine partono altrove. Infatti quando ci riferiamo alla Chiesa si pone la domanda del dove e quando. Al momento infatti, la Chiesa è l’insieme dei figliuoli di Dio, e non è manifesto quel che sarà, però “Se Cristo è vero Figlio, necessariamente ne segue che è vero Dio” e dunque se la Chiesa è “vero figlio” è prevedibile quel che sarà manifestato. Non è tutto manifesto, ma una parte lo è, perché sappiamo che quand’egli sarà manifestato la Chiesa sarà simile a lui, perché lo vedrà com’egli è. (7) In altre parole l’essenza della Chiesa si ritrova oltre la sua storicità e nell’eternità del beneplacito della Sua volontà, avanti la fondazione del mondo, e della piena redenzione, ricchezza della gloria, eredità ed immensità della Sua potenza nei santi. (8)
    Perciò consideriamo intanto se “il termine figlio con proprietà e verità” derivato “dalla generazione dei viventi, nei quali il generato procede dalla sostanza del generante” sia da applicare o meno ai figli di Dio facenti parte della Chiesa.
    San Tommaso dice che il termine figlio di Dio spetta a motivo della creazione a molti esseri, ossia a tutti gli angeli e a tutti i santi, e che essendo Cristo dichiarato Unigenito significa ch’egli non è denominato Figlio di Dio a motivo della creazione. (9) I santi risultano quì figli di Dio per la creazione.
    Precedentemente invece Cristo “e chiamato Figlio di Dio e Dio, non semplicemente come un puro uomo per la grazia dell’adozione, ma per la sua natura divina.” (10) Implicitamente, quì i santi risultano figli di Dio come puri uomini per la grazia dell’adozione e non per natura divina. Dunque la Chiesa sarebbe filiata in virtù della creazione e - come pura umanità – per la grazia dell’adozione e non per natura divina.
    Ebbene questa non è la chiesa descritta come la Sposa di Gesù Cristo e moglie dell’Agnello nel libro dell’Apocalisse (11), perché essendo di natura diversa da Cristo non può unirsi in matrimonio con Cristo e neppure può essergli corpo e divenire una sola cosa con Lui. (12) Se questa è la sposa, il mistero del matrimonio tra Cristo e la Chiesa e meno grande di quel che in realtà è, poiché il vero mistero è che la Chiesa si unisce a Cristo in una unità spirituale, coessenziale e connaturale, per governare con Lui e condividere la Sua gloria ed immensa potenza e vocazione, al di sopra di ogni principato e autorità e potestà e signoria, e d’ogni altro nome che si nomina non solo in questo mondo, ma anche in quello a venire, benché come sposa sottomessa a Cristo – come Cristo è sottoposto al Padre – ma non meno divina dello sposo, come anche si può dire di Cristo nei confronti del Padre a cui è nondimeno sottosposto, come la Chiesa lo è ad entrambi, essendo il Padre padre generante di Cristo, ma anche della Chiesa attraverso la rigenerazione per quanto riguarda la sua natura divina, benché proveniente da una creazione per quanto riguarda la sua origine umana.
    E come Cristo che era Unigenito diviene Primogenito, la Chiesa che era creatura diviene Rigenita, della stessa natura di Cristo, per mezzo dello Spirito Santo e l’opera di redenzione di Cristo, il quale “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, affin di santificarla, dopo averla purificata col lavacro dell’acqua mediante la Parola, affin di far egli stesso comparire dinanzi a sé questa Chiesa, gloriosa, senza macchia, senza ruga o cosa alcuna simile, ma santa ed irrerprensibile.” (13) La citazione di Genesi II, 24 in prossimità del mistero di quest’ultima sezione degli Efesini, indica l’unità di Cristo e della Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo e chi ama sua moglie ama se stesso. L’invito ad essere ripieni di tutta la pienezza di Dio può essere rivolto alla Chiesa, perché essa è destinata a diventare la Sposa di Cristo. (14) La Chiesa è fidanzata a Cristo, ma le nozze verranno celebrate all’epoca in cui la Chiesa sarà simile a lui, perché lo vedrà com’egli è. (15) L’attribuzione di prerogative divine, quali il compito di giudicare il mondo e le potestà angeliche insieme a Cristo (16), verrano pienamente elargite a partire dalla celebrazione delle nozze, essendo la correggenza di nuovi e nuova terra soltanto una porzione della dote delle nozze (17). Infatti la vocazione alla regalità ed al sacerdozio (18) avrà una piena realizzazione alla celebrazione delle nozze (19), benchè essa sia già in parte operativa, e gradualmente attraverso il Millenio fino a nuovi cieli e nuova terra. (20) V’è una ragione per tale gradualità fino alla nuova creazione (la Chiesa non può essere oggetto di culto ed adorazione), ma nel frattempo la rivelazione della natura divina della Chiesa e del suo carattere regale e sacerdotale permettono di capire meglio l’ecclesiologia ed il governo della Chiesa. Gli stessi principi gettano nuova luce sui 5 ministeri ed i 2 uffici ecclesiali. Siccome però la dottrina della sostanza divina per via della rigenerazione risolve anche la questione dell’attribuzione della proprietà ontologica dell’universo, traducendosi così in potenziale conseguenza politica e di potere reale, non rimane che ammettere le conseguenze dell’archetipo del governo ecclesiale nella sfera di quello civile.
    Da questo punto di vista, sembra non vi siano dubbi circa la proprietà d'Israele o della Palestina, così come del mondo e dell'universo intero. I titolari delle sostanze eterne non hanno la necessità di appropriarsi con la violenza dei beni a cui hanno diritto. Inoltre la Grazia vuole che le nazioni degli uomini abitino su tutta la faccia della terra, "avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché Egli non sia lontano da ciascuno di noi." (Atti 17:26,27)
    La Grazia interpreta la "Proprietà" quale responsabilità di governo e salvezza: essa non uccide, opprime e domina l'uomo che si prefigge di condurre alla totale liberazione; essa non brama i suoi territori per sfruttarli e renderne schaivi gli abitanti.
    Il medesimo principio regola la Salvezza, la Proprietà ed il Governo secondo la Grazia per ogni uomo, popolo e nazione: "Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il Suo Unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca ma abbia vita eterna." Tutti i tesori della conoscenza e la vita stessa sono nascosti in Cristo.
    Per le Sacre Scritture, Proprietà e Governo vanno dunque insieme nella loro essenza eterna, e coloro che per grazia ne sono stati assorbiti lasceranno che il tempo della Grazia faccia il suo corso. Di conseguenza nel conflitto israelo-palestinese, come in tutti gli altri conflitti, si deve promuovere la sicurezza, la coesistenza, la compassione, affinché tutti gli uomini usufruiscano dei doni di Dio: la vita, la creazione, la salvezza. La promessa di Dio ad Abramo implica il diritto d'Israele ad abitare la Terra Promessa, ma ciò non esclude la prerogativa dei palestinesi a fare altrettanto. L'apparente incongruenza si risolve su due basi: non necessariamente solo e tutto Israele è "progenie d'Abramo"; la Grazia implica la disponibilità del presunto "popolo di Dio" (prescindiamo ora dalla sua identità) a condividere il proprio diritto con chi storicamente si trova già entro gli stessi confini, o anche nella misura in cui è possibile assistere ed ospitare i forestieri nel bisogno. L'assenza di prospettiva della grazia è però proprio ciò che manca nella relazione israelo-palestinese: di conseguenza il conflitto deve essere risolto (se fosse possibile) sul piano diplomatico e della convenienza, oppure su quello bellico - infatti entrambi anticamera all'Apocalisse. Non credo a coloro (fondamentalisti di ogni ordine e grado e non) che in nome della grazia, della religione, o della libertà, impongono alle nazioni ed i loro popoli, guerre, conflitti, competizioni economiche, sfruttamento - in nome del libero mercato - e pretesi superiori privelegi - in nome del diritto alla speciale ed immediata benedizione di Dio. Il vero "Prosperity Gospel" si compie ereditando la natura di Dio e lasciando alla Grazia l'avvento del Regno di Dio. Chi veramente ha ricevuto in proprietà il diritto della progenie divina, possiede l'intero universo e Dio stesso, senza però dimenticare che il Logos si è incarnato per condividere la sofferenza e la povertà degli uomini. Non ha senso che gli stessi "predicatori" della Grazia alle nazioni siano poi gli stessi che le sfruttano e umiliano.
    A Natale e Capodanno queste sono le cose da ricordare.
    E' Capodanno, l’aereo tocca terra ed io sono finalmente giunto a sezionarmi in scatola di montaggio atterrando a Pneumaland!





    1. ECB, 1173.
    2. SCG, libro IV, ix, 4.
    3. Ibid, vii, 3.
    4. Ibid, vii, 6.
    5. Ibid, vii, 9.
    6. Ibid, vii, 18.
    7. Cfr. 1Gv., III, 2.
    8. Cfr. Ef., I.
    9. SCG, libro IV, vii, 2.
    10. Ibid, iv, 5.
    11. Ap. XXI, 9, 10.
    12. Ef. I, 23; V, 22, 23.
    13. Ibid, V, 26, 27.
    14. Ibid, III, 19.
    15. 2Cor., XI, 2.
    16. 1Cor., VI, 2, 3; Ap. 19: 4.
    17. Ap., XXII, 5.
    18. 1Pt. II, 5, 9, 10.
    19. Ap. I, 6; V, 10; XX, 6.
    20. Ibid, XXI, 1.

    Abbreviazioni

    ECB. Evangelical Commentary on the Bible, Baker Book House.
    SCG. San Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili.
    Ho ritrovato questo post che credo stia bene in questo thread.
    Tra le molte cose accadute e che non ho tempo di riportare in Laverton Kafkaesque, e' la mia inevitabile conclusione che i tentativi di superare la "predestinazione" calvinista con menzionate terze posizioni teologiche non sono logicamente e scritturalmente sostenibili. In progetto dunque per il futuro - a quando avro' qualche requie dall'attuale situazione in cui mi sono cacciato - e' una lettera a Pietro Bolognesi in cui non soltanto diro' della mia ritrattazione ma anche del mio rammarico per gli ostacoli procuratigli al tempo dei diverbi teologici...

  9. #9
    Christianity Under Fire
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    2Pe 1:4: Whereby are given unto us exceeding great and precious promises: that by these ye might be partakers of the divine nature, having escaped the corruption that is in the world through lust.

  10. #10
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    x David 777:

    1) da quale libro sono stati tratti quegli stralci, e chi è l'autore del MD Code?

    2) ma come hai fatto a postare un messaggio così lungo??? è da guinness dei primati!

    (in un altro forum che frequentavo non erano ammessi messaggi con più di un numero limitato di parole...)

    3) sei calvinista, evangelista, qualcosa del genere?

    4) c'è qualche commentario biblico valido e gratuito da scaricare da internet?
    (a questa ultima domanda possono rispondere anche altri forumisti, se ne hanno tempo e voglia)

 

 
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