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    Predefinito Dall'ateismo a Dio. La conversione di Vittorio Messori

    "Dopo 40 anni vi racconto l’incontro soprannaturale che mi fece convertire"

    di Michele Brambilla






    Da oggi è in libreria Perché credo, la lunga intervista che Andrea Tornielli ha fatto a Vittorio Messori. I due autori del volume sono noti anzi arcinoti. Tornielli è il nostro vaticanista e ha pubblicato un’infinità di libri (una mole di lavoro che ha ormai convinto tutti noi, qui in redazione, dell’esistenza di più Tornielli, creati in serie con una sorta di clonazione ante litteram) di libri, dicevo, che in alcuni casi hanno riaperto il dibattito sulla storia della Chiesa. Tanto per fare un esempio: nei giorni scorsi nientemeno che Benedetto XVI, e nientemeno che durante una messa, ha citato un libro di Andrea su Pio XII.

    Quanto a Vittorio Messori, per lui parlano le milioni di copie vendute in tutto il mondo, a partire da Ipotesi su Gesù, uscito alla metà degli anni Settanta. Messori, se stabilisce un record, s’incarica poi anche di batterlo: fino a tre anni fa era l’unico giornalista della storia ad aver scritto un libro-intervista con un Papa (Wojtyla); poi nel 2005 è diventato Papa Ratzinger, e siccome Messori aveva fatto un libro-intervista anche con lui una ventina di anni prima, è diventato di colpo l’unico ad aver scritto due libri-intervista con due papi. Un primato che probabilmente resisterà fino alla fine dei tempi.

    Da un binomio del genere, Tornielli-Messori, non poteva che uscire un grande libro, quale in effetti Perché credo è. Sono più di quattrocento pagine nelle quali Messori offre una specie di summa degli studi e dell’esperienza di tutta una vita, la sua: una vita spesa a rendere «ragione della fede», come è scritto nel sottotitolo. Questa è stata la principale grandezza di Messori: far capire a un mondo ormai dominato dal razionalismo che credere nel Vangelo è tutt’altro che irragionevole, anzi.

    Mi rendo conto di aver scritto «è stata» come se Messori non ci fosse più. Per fortuna è ancora fra noi, in salute e con tante altre cose da dire. Se ne ho parlato al passato è perché sono condizionato da quanto lui stesso mi ha detto presentandomi questo libro: «È una sorta di testamento. Ho tirato le somme». E forse proprio perché la considera «definitiva», Messori ha inserito in quest’opera la rivelazione di un suo segreto. Anzi, del suo segreto.
    C’è uno scoop, dunque, in queste pagine. Arrivato a 67 anni, Messori racconta per la prima volta che cosa c’è all’origine della sua conversione, avvenuta quando di anni ne aveva ventitrè. Non un ragionamento, non una convinzione intellettuale, non la somma di studi e neppure un atto di generosità. C’è stata, invece, un’esperienza mistica. Non so quanti conoscano il libro Dio esiste, io l’ho incontrato di André Frossard (credo parecchi, almeno fra i cattolici): ecco, si tratta di una cosa molto simile.

    Frossard (1915-1999) era figlio del segretario del Partito comunista francese. Famiglia ultra-atea. E non solo ateo, ma anche del tutto spensierato era il giovane André, nel cui orizzonte trovavano spazio solo il giornalismo e le ragazze. L’8 luglio del 1935 il ventenne Frossard aveva un appuntamento con un amico a Parigi. Questi tardava. Per ingannare il tempo, Frossard entrò nell’unico locale nei paraggi: una minuscola cappella. Quel che accadde è difficilmente descrivibile a parole perché trascende i nostri sensi. Sta di fatto che da quella cappella in cui era entrato ateo, Frossard uscì, pochi minuti dopo, con una fede d’acciaio, che non lo avrebbe mai più abbandonato, neanche nei momenti della prova più dura: «Per due volte», raccontò ormai anziano, «ho dovuto accompagnare un figlio al cimitero. Ma non avrei potuto ribellarmi, sapendo che non avrei potuto dubitare». Solo passata la sessantina, Frossard svelò il mistero di quell’Incontro: ormai era affermato e famoso, non aveva bisogno di pubblicità; e aveva accumulato sufficienti anni di vita «normale» per non passar per matto.

    Messori ha fatto lo stesso. Ha aspettato di essere il più famoso scrittore cattolico italiano (e forse del mondo) e di essere ormai al sicuro da sospetti di follia o più semplicemente di creduloneria. Quindi ha raccontato quel che gli accadde l’estate del 1964, a Torino, al tempo in cui era, di giorno, studente universitario e, di notte, centralinista alla Stipel. Anni intensi di studio e lavoro, ma anche e soprattutto anni beati, di spensieratezza, di libertinaggio, di grandi progetti per il futuro.

    Figlio di genitori atei o perlomeno anti-clericali, il giovane Messori non aveva mai sentito parlare, in casa, di parrocchie di Madonne e di santi. Men che meno ne aveva sentito parlare dai suoi laicissimi professori universitari, i Bobbio, i Galante Garrone. «Gramsci-Gobetti», questo era il suo Pantheon.

    Fu quindi per un puro, imprevedibile caso che un giorno d’estate di quel 1964 prese in mano un Vangelo. E fu in quel momento che il mistero gli si manifestò come si era manifestato a Frossard: la stessa sensazione, anzi la stessa certezza, che Dio c’è, e che c’è un altro mondo, retto da un ordine supremo, un mondo reale, così reale che il nostro al confronto appare per quello che è, un’ombra destinata a dissolversi.

    Anche qui le parole non bastano, e poi non voglio togliere al lettore il gusto della scoperta. La rivelazione del segreto di Messori è diluita nel libro in più punti, ogni tanto ritorna, riappare, ricrea stupore e speranza in chi legge. Tutta l’opera di questo scrittore si rivela ai suoi fedeli lettori in un’ottica diversa: Messori non è colui che avevamo sempre pensato, cioè uno che crede grazie alla ragione. No, Messori è uno che non ha bisogno né di ragionare né di credere: è uno che sa. La ragione gli è servita per approfondire, per conoscere tutto il contorno di quel mistero: e per comunicare agli altri, in via ordinaria, la Notizia che ha ricevuto in via straordinaria.

    Come sempre in questi casi, si può credere o non credere. Per quel che vale la mia testimonianza dico questo: quando ho un dubbio di fede, e ne ho tanti anzi tantissimi, mi attacco a lui. Non ho mai avuto l’impressione che recitasse, fosse pure per il nobile scopo di rasserenare il prossimo. Mi ha sempre detto: «Se mi ordinassero di abiurare puntandomi una pistola alla tempia, non abiurerei. Ma non per eroismo. Semplicemente perché non posso abiurare. Sono inchiodato dall’evidenza».

    Dieci anni fa andai a trovarlo prima di un intervento chirurgico nel corso del quale avrebbe potuto lasciare la pelle. Era tranquillo, anzi beato come un bimbo svezzato in braccio a sua madre: «So che se dovessi morire, un istante dopo avrei a che fare con un certo Gesù di Nazareth. Non temo la morte, semmai temo il giudizio». Gli ho risposto: Vittorio, se temi l’inferno tu che da una vita difendi la Causa, non oso immaginare dove finiremo tutti noi. «Ma io non sono un santo e non ho vissuto da santo», mi ha detto. «Della mia fede non ho alcun merito. Mi è stata data una grazia speciale. E a chi tanto ha ricevuto, tanto sarà richiesto. Per questo temo il giudizio. Se Dio ci giudica secondo le nostre opere, siamo fregati caro mio. Dobbiamo confidare nella Sua ingiustizia».

    Fonte: Il Giornale, 21.10.2008

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    Predefinito Uno stralcio del libro

    «Ero agnostico e indifferente. Poi fui abbagliato dalla Luce»

    di Redazione

    Proprio negli anni in cui studiavi e lavoravi come telefonista notturno avvenne la tua privata “rivoluzione”... Vogliamo, finalmente, parlarne? Che cosa ti ha trasformato nel Messori che conosciamo?


    «Tutto questo è legato, nel ricordo indelebile, a una Torino semivuota sotto la cappa estiva, alla luce implacabile di un sole senza nubi, alle tenebre del lavoro in notti torride, alla solitudine umana e, al contempo, alla compagnia straripante di un Incontro misterioso. Un incontro – e uno scontro – con il Protagonista del Vangelo che mi sembrò uscire dalle pagine per divenire presente. Nel senso fisico, vero: tanto reale era la certezza di quella Presenza. Da carta che era, per me il Verbo si fece davvero carne, dandomi gioia e inquietudine, esultanza e timore, soddisfazione per il dovere compiuto e rimorso per le infedeltà. Ciò che posso testimoniare è almeno questo: ho provato su me stesso che la fede, per il cristiano, è imbattersi in una Persona al contempo misericordiosa e severa, umana e divina, subendo la necessità incoercibile di seguirLa e di obbedirLe. In una mescolanza di slancio e di affetto; ma anche di reverente soggezione, non esente da un enigmatico spavento. Non a caso, le prime pagine generate da quell’esperienza – anche se ci misi dodici anni per ruminarle, per decidermi a pubblicarle, pur vedendone la radicale insufficienza: ma quale discorso umano non lo è, qui? – quelle pagine, dunque, vanno dritte al Protagonista, senza mediazioni, in un corpo a corpo con il Gesù della storia per mostrare che coincide con il Cristo della fede. “Ipotesi” per la ragione, in quel libro: ma, sullo sfondo, una certezza incancellabile, nata da un incontro nella solitudine di un’estate metropolitana».

    Potresti dirmi com’è avvenuto questo «incontro»?

    «Se dovessi sforzarmi di fare il cronista di me stesso, in poche righe, questo fu ciò che avvenne. C’era una volta, dunque, questo giovane di poco più di 23 anni, studente nella Torino che, in pieno boom economico e demografico, superava di slancio il milione di abitanti e aveva nella Fiat la maggiore fabbrica d’Europa. Un giovane agnostico per cultura e anticlericale per tradizione familiare, laureando non con docenti “qualunque”, bensì con i venerati maestri della scuola più prestigiosa del laicismo puro e duro...».

    Eppure proprio questo ventitreenne laico a un certo punto incontra la fede.

    «Questo giovane – in modo del tutto imprevisto e nemmeno cercato – è come abbagliato da una luce che lo spinge irresistibilmente a varcare una soglia, al di là della quale c’è un mondo “altro”. Un mondo dove l’invisibile si fa visibile, e sul quale regna Colui che è adorato come Salvatore e Rivelatore da quei cristiani, da quei cattolici verso i quali quel giovanotto nutriva sino ad allora estraneità e diffidenza. Nel caso più benevolo, curiosità, come superstiti credenti in un complesso di miti anacronistici. È deludente – eppure inevitabile, data la natura di simili eventi – che proprio a me, il cui mestiere sono le parole, le parole manchino per esprimere ciò in cui mi trovai immerso, per dare almeno il sentore di un clima di cui percepisco ancora tutto il sapore. Consolante e al contempo, te lo dicevo, inquietante. Con tutta l’esitazione e l’umiltà doverose, potrei applicare a quei giorni le parole di Matteo alla morte in croce di Gesù e che dicono, in metafora, i frutti della redenzione e della rivelazione: “Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo”. Uno squarcio, attraverso il quale fui sospinto a entrare nel “tempio”, cioè in un mondo sotto il segno del Sacro che credevo antitetico al mio ma che presto, pur in mezzo allo sconcerto, scoprii familiare e ospitale... Un terremoto, seguito da una sorta di tsunami investì la mia vita: silenziosamente, interiormente, senza che alcuno, al di fuori di me, se ne avvedesse».

    Quali furono, in concreto, le conseguenze immediate, le tue reazioni?

    «Per chi mi avesse osservato dall’esterno, nulla cambiò. Continuò il buio del lavoro notturno alla centrale telefonica, seppure illuminato dalla Luce che si era accesa; continuò la solitudine che contrassegnava la mia vita, ma era ormai solo apparente, riempita dalla nuova Presenza; continuò l’afa di quell’estate interminabile, ma spazzata via, per me, dall’imprevisto e improvviso refrigerio. Proprio io, così allergico al romanticismo delle favole, io che amavo affrontare il sapore aspro della realtà, mi trovai immerso in un’atmosfera che, per mancanza di termini migliori, dovrei dire incantata, magica, in ogni caso del tutto sconosciuta rispetto a ciò che conoscevo. Quell’atmosfera non mi trasportò però tra le nuvole, ma si accompagnò a una lucida concretezza e a una volontà ferrea. Capii con grande chiarezza che cosa dovevo fare nell’immediato e lo feci, subito, con un’energia che non mi conoscevo e che dunque – dovetti riconoscerlo, ancora una volta – non poteva essere soltanto mia».

    Dunque, quella fede che sino ad allora non aveva occupato alcun posto nella tua prospettiva, divenne il cuore della tua vita.

    «Constatai la forza di quella irruzione di grazia anche in questo strapparmi dai miei schemi libreschi. Per dirla con Pascal: “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. Nei mesi iniziali sentii invece che capire, constatai invece che razionalizzare. L’evidenza della verità del Vangelo, in quei primissimi tempi, fu davvero del cuore più che della mente; la quale, peraltro, non protestava, intuendo che ragione e sentimento coincidevano con la realtà... Mi fu dato quello che gli autori di spiritualità chiamano “il dono dello stupore”. Ero abituato a guardare a quella vecchia “cosa” chiamata Chiesa come a una bottega o a un’accolita di retrogradi mentali e culturali o di ipocriti, di avidi, di trafficoni magari anche un po’ sporcaccioni, secondo l’anticlericalismo di famiglia; o come a un’istituzione antagonista dello Stato, da temere, dunque da sorvegliare e da tenere al suo posto, secondo il laicismo e la deformazione politica dei miei maestri. E invece, di colpo, la Chiesa mi apparve nella sua realtà vera, che sino ad allora mi era stata celata, scorgendone solo l’involucro e non il tesoro che celava».

    Fonte: Il Giornale, 21.10.2008

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    La folle normalità dei mistici quando la visione di Dio spalanca le porte della Verità

    di Matteo Sacchi


    La percezione del divino senza mediazioni, improvvisa e sconvolgente. La percezione del divino, come dono dall’alto che non ammette replica, che spesso fa paura a chi la riceve.
    Nel cristianesimo sono tante le storie, ma verrebbe da dire avventure, caratterizzate dall’improvviso esplodere nella realtà sensibile di quell’«altro», ineffabile eppure vero. Quell’«altro» così impossibile da descrivere a parole che fa dire a Dante, all’inizio del Paradiso: «Trasumanar significar per verba non si poria...». E il mistico, colui che è toccato da questa esperienza diversa, fatica a raccontarla, a essere capito o accettato. Chi ragiona di fede, chi dice di avere delle convinzioni, delle speranze è sempre accettabile. Chi dice di aver sentito o toccato il trascendente, soprattutto se dopo una vita laica, spaventa. Non è un soggetto mediabile, impone all’attenzione qualcosa di non è riconducibile ai canoni della fisica. È qualcuno che contesta apertamente la solitudine (triste) della materia. Così tra gli estremi clamorosi, tra i santi: Francesco d’Assisi, uomo non riducibile al suo tempo. Lo erano la carità, il diventare frate, persino il dar via i propri averi. Ma dire di sentire la voce di Dio, di sentirla davvero - «Francesco, va’ e ripara la mia casa...» - era qualcosa che scioccava, allora come oggi, che spingeva e spinge a dire, quasi per autodifesa: «Perché proprio tu? Non è vero».
    Come nella vita di Paolo di Tarso, il punto di rottura è un’apparizione. Paolo non cambia idea sul perseguitare i cristiani, non legge un libro, non viene convinto da una discussione. Viene fermato dalla voce di Cristo. C’è un momento della sua vita che è “altro” dalla normalità, da qualunque conversione fatta di dialettica. Ma il mistico non è per forza il santo, il Padre della chiesa. Ci sono mistici contemporanei la cui vita è vita “normale” ma animata da una consapevolezza diversa: la consapevolezza di chi non ha dubbi perché sostiene di aver «materialmente» (parola sbagliata che rende l’idea) incontrato qualcuno che non è di questa terra. Come l’André Frossard citato in questa pagina da Michele Brambilla. Quel Frossard che si ricorda travolto da qualcosa che «era una luce spirituale... era quasi la verità allo stato incandescente». Ma i nomi potrebbero essere tanti: il trappista americano Thomas Merton o il discusso gesuita Pierre Teilhard de Chardin... Il mistico, ancora di più nella sua attualità diventa pietra di paragone. La sua «santa follia» costringe a riflettere credenti e non credenti. Perché chi sente di aver messo un piede in questa realtà vera, di norma non contesta i materialisti, li lascia fare, gli sembra che parlino d’ombre. Ma è proprio su questo che si misura anche la laicità, perché chi è laico davvero non ha paura che esista qualcosa d’altro. Quell’altro non lo vede, ma se lo vedesse l’avvicinerebbe con un sorriso.

    Fonte: Il Giornale, 21.10.2008

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    Vittorio Messori: la storia di una conversione

    Una vita per rendere ragione della fede

    di Antonio Gaspari


    ROMA, martedì, 25 novembre 2008 (ZENIT.org).- Storia singolare quella dello scrittore Vittorio Messori. Autore di best seller venduti in milioni di copie in tutto il mondo. Unico ad aver pubblicato un libro-intervista con il Pontefice Giovanni Paolo II (“Varcare le soglie della speranza”) e aver intervistato il Cardinale Joseph Ratzinger (“Rapporto sulla Fede”), divenuto in seguito Papa.

    Solamente “Varcare le soglie della speranza” ha venduto più di 20 milioni di copie ed è stato tradotto in 53 lingue.

    Eppure fino a 23 anni Messori non era affatto cattolico. La famiglia agnostica se non anticlericale, cresciuto ed educato con una cultura razionalista indifferente verso il mistero religioso e ostile alla sola idea che possa esistere Dio. Studente universitario seguace dei maestri del laicismo come Norberto Bobbio e Galante Garrone. Giornalista de “la Stampa”.

    Era l’estate del 1964, a Torino, quando già si intravedevano i primi fuochi dell’imminente ‘68, con gli studenti universitari che si nutrivano di Sigmund Freud, Karl Marx, Wilhelm Reich, e il mondo cattolico si dibatteva nei problemi del dopo Concilio Vaticano II, fu in questo contesto che Messori incontrò quel Cristo che gli ha cambiato la vita.

    La storia del figlio di un falegname di Nazareth che diceva di essere il figlio di Dio e che innocente morì sulla Croce, è entrata così profondamente nella vita di quello studente universitario, che il primo libro che pubblicò “Ipotesi su Gesù” è diventato un best seller internazionale.

    A raccontare la conversione, le vicende, le esperienze, i pensieri di un cattolico senza fronzoli, apologetico con ragione, solido e realista, è stato il vaticanista Andrea Tornielli, che è riuscito nell’impresa di intervistare Vittorio Messori nel libro “Perché Credo. Una vita per rendere ragione della fede”, appena pubblicato da Piemme.

    In questo dialogo asciutto ed essenziale, Messori racconta che nessuno credeva nel successo del libro “Ipotesi su Gesù”. In molti cercarono di convincerlo a fare altro. Gli anticlericali lo osteggiavano, ma anche i cattolici erano scettici.

    I religiosi della ‘Sei’, i suoi primi editori, erano certi che il libro sarebbe stato un flop editoriale, e per questo lo tennero in un cassetto per più di un anno e nella prima edizione lo stamparono in tremila copie.

    Oggi quel libro ha superato un milione di copie vendute, è stato tradotto in trenta - quaranta lingue, e nonostante sia stato scritto a metà degli anni Settanta vende ancora 20-30.000 copie all’anno.

    Messori spiega però che il merito non è suo, è la vicenda del Cristo che interroga ancora l’umanità.

    Un Cristo che continua a far discutere come dimostra il recente divieto in Spagna di esporre i crocefissi nelle aule scolastiche.

    "Non mi scandalizzo né mi straccio le vesti per ciò che è accaduto in Spagna – ha commentato a ZENIT Vittorio Messori –, perché sono convinto che un po’ di difficoltà e di ostilità fa bene al cristianesimo, fa risvegliare, fa prendere coscienza della propria identità”.

    “La storia lo insegna: le persecuzioni sono state occasioni perché i cristiani si moltiplicassero", ha poi spiegato.

    Nell’introduzione al volume Tornielli precisa che Messori “ha scritto il libro che non trovava”.

    Messori non cercava “analisi sulla società, sulla povertà materiale e sulle sue cause, sull’impegno politico e sociale dei cattolici, sull’applicazione delle scienze umane al cristianesimo”.

    Lo scrittore convertito cercava risposte alle domande: “Che cosa c’è di vero in questa storia, in questo racconto, che da duemila anni riecheggia nel mondo? Gesù Cristo è davvero il figlio di Dio? È davvero lui il Messia atteso da Israele, annunciato dalle profezie? E, soprattutto, è davvero risorto?”.

    Ma soprattutto, Messori cercava delle certezze sulla storicità di quell’uomo venuto al mondo in un villaggio sperduto dell’Impero romano che ha cambiato la storia dell’umanità con la rivoluzione dell’amore caritatevole.

    Nel libro Messori racconta la sua conversione che era stata preceduta, da un fatto straordinario, una telefonata di uno zio materno morto giovane per un ictus cerebrale. Lo scrittore è persona razionale ed è certo di non aver sognato né di aver sofferto di allucinazioni.

    Poi nel luglio e agosto del 1964, mentre lavorava come centralinista all’allora compagnia telefonica Stipel, trovò per caso una copia del Vangelo. Leggendolo avidamente accadde un fenomeno che Messori descrive come una "Luce esplosa all'improvviso", un “incontro misterioso” quasi fisico con Gesù.

    Il noto scrittore si descrive come un “emiliano terragno” con nessuna vocazione alla vita mistica e ascetica, eppure narra che in quei due mesi visse immerso “in una esperienza mistica” che non avrebbe mai immaginato, né conosciuto. Una situazione di luce piena “con la chiarezza di aver visto la Verità, con tutta la sua forza ed evidenza”. Verità che “mi è stata mostrata senza che lo aspettassi o che lo meritassi”.

    Nell’introduzione Tornielli sostiene che Vittorio Messori “è una figura atipica nel panorama ecclesiale e culturale di oggi. Non ha peli sulla lingua, né parla l’ ‘ecclesialese’, cioè quel tipico linguaggio autoreferenziale, spesso stereotipato e tanto più ripetitivo quanto meno agganciato alla reale esperienza umana. E non lo si può facilmente arruolare o collocare in questo o quello schieramento. Non è un tradizionalista, non è un moralista né un teocon”.

    Tornielli racconta che Messori ha un solo, grande rammarico: “constatare ogni giorno che la ‘conversione della mente’ – che fu, ed è, totale – troppo spesso non si sia accompagnata alla ‘conversione del cuore’. E che, dunque, debba unirsi al lamento del ‘suo’ Blaise Pascal: ‘Quanta distanza c’è, in me cristiano, tra il pensiero e la vita!’”.

    Fonte: Zenit, 25.11.2008

 

 

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