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Discussione: La vocazione religiosa

  1. #1
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    Predefinito La vocazione religiosa

    Domenica 29 aprile si celebrerà la XLIV Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni.
    Questa circostanza vuole essere uno spunto di rilfessione su questo importantissimo tema sul quale apro questo thread.

    Aug.

  2. #2
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    Predefinito Per cominciare, ecco un saggio su questo tema con utili spunti di riflessione

    La Sacra Vocazione

    di don Curzio Nitoglia (06-03-2004)

    La vocazione sacra (1) è un consiglio, non un precetto


    Il fatto che la chiamata divina alla castità perfetta e perpetua, allo spirito di povertà e di obbedienza, nel servizio sacerdotale sia solo un consiglio e non un precetto è ammesso comunemente. Ma ci si domanda il consiglio “Se vuoi essere perfetto vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri” obbliga “per se” ossia direttamente, oppure “per accidens” vale a dire indirettamente?

    Vi sono due scuole: quella obbligatorista (per la quale la vocazione obbliga per se sotto pena di peccato mortale) e quella benignista o “liberista” (secondo la quale la vocazione essendo un consiglio non obbliga per se sotto pena di peccato, altrimenti sarebbe un precetto). La tesi “liberista” mi sembra più conforme alla sana dottrina e cercherò di spiegarne il perché.

    In sintesi il rifiuto della vocazione sacra significa abbandonare una via più nobile, ma non è per se un peccato , che immancabilmente ci porterà all’inferno.

    Qualora vi fosse il disprezzo del consiglio divino vi sarebbe la colpa. Ma il semplice non accettare il consiglio o l’invito non significa disprezzarlo.

    Occorre vedere i motivi per cui si declina l’invito. Il disprezzo dell’invito di Dio, sarebbe un’ingratitudine nei confronti del Signore e così sarebbe un peccato che attira il castigo divino. Tuttavia occorre distinguere se il sentimento di disprezzo dell’invito di Dio perduri nel tempo; allora la catena di grazie, che il vocato poteva aspettarsi nel nuovo stato che ha scelto, potrebbe essere definitivamente compromessa.

    Occorre perciò notare che il peccato consiste nel disprezzare il consiglio (per accidens) e non nel non seguirlo (per se).

    Per esempio, non seguire il consiglio della verginità per sposarsi non è peccato per se; ma se si stima più nobile il matrimonio (come spigheremo meglio dopo) allora vi è peccato per accidens o ratione alterius.

    Precetti e consigli

    Il precetto obbliga ad esse simpliciter; mentre il consiglio ad melius esse. Perciò non osservare il precetto è peccato per se, mentre non osservare il consiglio è un’imperfezione o un atto di carità remissus o meno perfetto di quanto avrebbe dovuto e potuto essere. È l’uso della creatura non contra legem e neanche praeter legem, ma secundum legem sed non ferventiori modo, quindi non può e non deve essere oggetto di assoluzione sacramentale, come vogliono gli obbligatoristi, non essendo peccato.

    La volontà di Dio o la “vocatio divina”

    Non lascia completamente liberi, non esclude qualsiasi obbligo e non autorizza qualsiasi risposta , secondo le proprie preferenze.

    Se non vi è peccato formale per se, ciò non vuol dire che non vi sia l’obbligo di rispondere quanto al danno che tale negazione comporta , ossia una diminuzione del meglio e non del necessario, nel bene spirituale. Tale diminuzione del bene spirituale non è un peccato ma solo un atto di carità meno perfetto. Il consiglio non obbliga per se sotto pena di peccato; ma la conseguenza sarà una diminuzione di grazia e di gloria. È il piano del minor amore e non della offesa positiva, non è un atto contro Dio o la sua legge, ma è il non fare il meglio per Dio. Ora non seguire un consiglio è un atto secundum legem sed non ferventiori modo actuato.

    Il pericolo di dannazione

    Tale pericolo sussiste non per se o in quanto non si è obbedito al consiglio, ma per accidens o ratione alterius, ossia la ragione o il perché del pericolo di dannazione si trova in fattori estrinseci al consiglio in sé considerato , ad esempio i motivi disordinati, come reputare il matrimonio più perfetto dello stato consacrato.

    Tuttavia tale pericolo può cessare se cessano gli errati atteggiamenti spirituali che hanno determinato il rifiuto, chi non segue la vocazione per motivi disordinati, farebbe peccato per questi motivi disordinati e non per non aver seguito la vocazione, ossia per accidens e non per se. Ma può riparare il male fatto, correggendosi da tali inclinazioni, poiché “ad ogni peccato, di cui ci si pente, misericordia”!

    L’obbligatorismo in tema di vocazione

    La scuola teologica obbligatorista, che asserisce che la vocazione obbliga per se, e quindi si pecca per se se non la si segue, può creare nella decisione di seguire la chiamata divina, una psicologia ansiosa e coatta, tormentosa e tormentante e può deformare il giudizio prudenziale sulla vocazione del candidato. Producendo delle vere e proprie catastrofi spirituali, come fu il caso della “vocazione” di Lutero, vista dal soggetto non sub specie aeternitatis, ma sub specie damnationis.

    Vocazione dubbia, vocazione nulla

    L’insegnamento del Magistero (2) è esplicito e chiaro su tale punto; ogni dubbio serio sulla vocazione deve portare alla negazione della chiamata. La tesi benignista secondo cui la vocazione obbliga per accidens, infonde una gran serenità e sicurezza nel seguire la vocazione e spinge a seguire la chiamata per amore e non per timore di dannazione, a differenza di Lutero.

    L’Obbligatorismo

    Insegna l’obbligo della confessione e della riparazione per il giovane che non avendo seguito la vocazione ha peccato per se. Tale tesi può determinare in chi ha deciso di cambiare strada dei turbamenti pericolosi, dei rimorsi e varie agitazioni di spirito.

    Pericoli di irriverenza

    Se nel respingere la chiamata o il desiderio (e non il comando o l’ordine) di Dio, il rifiuto è fatto con disprezzo irriverente del desiderio o consiglio di Dio (e di Dio stesso che chiama e consiglia), allora vi è peccato, ma siamo sempre nel peccato per accidens, infatti vi è peccato in quanto è disprezzato il desiderio di Dio e non in quanto il candidato non se la sente di seguire una vocazione più nobile ma più impegnativa. Insomma se riconosco che seguire il consiglio di Dio sarebbe bello e più bello di ciò che scelgo (il matrimonio) , ma non lo seguo per timore dei sacrifici che la strada più perfetta comporta, allora il rifiuto non è disprezzo della volontà di Dio. È soltanto il rifiuto di un sacrificio consigliatomi da Dio, e non imperato sotto pena di peccato per se . Si tratta di un consiglio che non viene seguito a causa del sacrificio che comporta e in virtù della libertà concessa da Dio all’uomo.

    Il giovane valuta ragionevolmente la vocazione in sé, i sacrifici che comporta, la libertà che Dio lascia nell’accettarla o no, senza peccato, poiché è un consiglio, che aiuta ad osservare meglio i 10 comandamenti e ad arrivare alla perfezione, quindi sceglie, senza peccare, di dire no alla chiamata, senza disprezzarla, anzi ritenendola troppo alta rispetto alle proprie forze. Gli obbligatoristi partono dal presupposto, tutto da dimostrare, che ogni volta vi sia certamente vocatio divina , che non è ben distinta da costoro dalla vocatio canonica. (Lutero ebbe la seconda, ma non la prima) . Ogni aspirante al sacerdozio non ha necessariamente la vocatio divina, ma si pone il problema se abbia o no la vocazione; il problema va risolto con la massima libertà, da parte di chi può accettare o meno un consiglio che forse Dio gli sta dando, ma di cui non v’è sempre la certezza; e anche difronte a una certezza morale il giovane può rifiutare l’invito, senza necessariamente disprezzarlo, poiché gli pare troppo arduo, e non deve esser posto dall’obbligatorismo in uno stato di terror di Dio, che falserebbe la sua risposta, (come capitò allo sventurato Martin Lutero).

    È lecito rifiutare il meglio per paura del sacrificio?

    Tale ripugnanza è un’imperfezione, non è un atto cattivo, contro Dio e la sua legge, ma è un atto buono, pur se meno buono di quanto avrebbe potuto essere. Ciò che obbliga per se sotto pena di peccato grave è il sacrificio e il rinnegamento necessari ad osservare i 10 comandamenti; mentre il sacrificio per osservare i consigli non obbliga sotto pena di peccato, altrimenti i consigli sarebbero non più consigli ma comandamenti.

    Facciamo l’esempio di, chi non se la sente di accettare il celibato ecclesiastico, non per motivi viziosi, ma per timore, non accidioso, del sacrificio di rinunziare ad un onesto matrimonio; siccome rifiuta un sacrificio consigliato non pecca di per sé. Il motivo della scelta è ragionevole e onesto, in quanto si sceglie uno stato naturalmente più facile, anche se meno perfetto, e quindi lecitamente elegibile, per raggiungere il fine ultimo. Se il giovane respinge de facto, in tale scelta, le grazie del “Meglio” o del più perfetto (celibato), riceve tuttavia quelle del “Bene” (matrimonio). Se un giovane rifiuta la grazia della vocazione e la catena delle grazie che ne seguirebbero, per un motivo ragionevole di timore sia del grave sforzo, sia di non farcela,sia perché non è sicuro di avere la vocazione, riceve una nuova serie di grazie proporzionate allo stato buono , anche se meno perfetto, che ha scelto. Tali grazie sono sufficienti a condurlo in paradiso, anche se con un grado inferiore di grazia e di gloria rispetto al più perfetto. La prospettiva obbligatorista del “pesce fuor d’acqua”, o della “strada senza pompe di benzina”, cioè priva di grazie nel cammino che deve percorrere, è infondata e spiritualmente pericolosa.

    Se invece nel rifiuto vi è una psicologia rinunciataria e proclive al vizio, naturalmente vi è peccaminosità e pericolo di dannazione. Ma questo è un peccato per accidens, ossia a causa dei motivi cattivi che spingono al rifiuto, e non vi è peccato per se, ossia per il rifiuto stesso. La mancanza di maggior fervore è un’imperfezione, non è un peccato di accidia. Per gli obbligatoristi il rifiuto del meglio è in sé un peccato; invece non è così. Vi sarà accidia solo qualora manchi il fervore obbligatorio per osservare i 10 comandamenti. Non vi è accidia quando si rifiuta il meglio per scegliere il bene, per timore di non farcela a conseguire il più perfetto: “l’ottimo è nemico del buono” diceva don Bosco. L’obbligatorismo rischia di spingere il giovane a vedere il problema della divina chiamata in una prospettiva di ansia terrorizzante, di perfezionismo paralizzante; mentre si può lasciare il seminario per la povertà in cui si vive, o per timore di gravi persecuzioni di cui i sacerdoti del luogo possono essere oggetto, o per le difficoltà del celibato che il giovane seminarista trova troppo aspre per sé e lo fanno dubitare di essere realmente chiamato da Dio in tale stato. In realtà se Dio dà una vocazione ad una persona gli dà anche i mezzi per portarla a termine e viverla serenamente, mentre il non avere i mezzi o avere una difficoltà di mezzi per cogliere il fine è segno di vocazione dubbia, e “vocazione dubbia è vocazione nulla”. In materia di vocazione la Chiesa segue il tuziorismo, ossia vi è vocazione solo quando se ne ha la certezza morale, a partire dalle qualità che il chiamato deve possedere. Per esempio, un monco certamente non è chiamato a fare il pugile, poiché non ha le qualità richieste; così un giovane che non riuscisse a liberarsi da qualche vizio, o che non avesse la salute psico-fisica sufficiente o l’intelligenza per fare gli studi sacri non ha la sacra vocazione, tranne i casi straordinari (p. Pio, il curato di Ars, S. Giuseppe da Copertino), che sono le eccezioni che confermano la regola.

    Resistenza al volere divino e pericolo di dannazione

    Ogni peccato mortale è stato preparato da molti peccati veniali anteriori (nemo repente fit pessimus). Quindi per evitare il peccato mortale occorre evitare i peccati veniali. Però è moralmente impossibile che l’anima lotti efficacemente contro il peccato veniale, se non ha una certa delicatezza di coscienza, spirito di abnegazione e un certo dinamismo spirituale che superi il piano dell’obbligo stretto (i precetti) e tenga conto dellospirito dei consigli. Tendere a adempiere solo i divini precetti, significherebbe esprimere a Dio il proprio amore solo con la volontà di non offenderlo, il che è contrario al vero amore, che non solo non offende, ma va incontro ai desideri dell’amato. Se l’anima si contentasse solo di non offendere Dio, conserverebbe lo stato di grazia, ma le mancherebbe la facilità e la gioia nel fare la volontà di Dio. Siccome, pur non volendo peccare, non compie il desiderio o il consiglio di Dio, praticamente, si occuperà di ottenere sempre il massimo accontentamento di sé, piuttosto che il proprio rinnegamento, tendenza che finirà per travolgerlo facendolo indulgere al peccato veniale, per arrivare sino al mortale.

    Infine solo chi si esercita nelle rinuncie libere del meglio, si sottrae alle occasioni pericolose e acquista dominio stabile sulle proprie passioni.

    Senza la buona volontà di compiere i desiderii (consigli) di Dio, manca il dinamismo del vero amore soprannaturale, che ci infonde l’odio al peccato e ci impedisce di far pace con le imperfezioni volontarie. In questo senso, cioè quando c’è mancanza volontaria di fervore e stato di tiepidezza il non seguire la volontà di Dio è la strada moralmente certa di dannazione. Il fervore comporta che ogni atto deve essere più perfetto di quello anteriore, per poter progredire nella vita spirituale. Senza fervore non si avanza. Ora in via Dei non progredi regredi est, quindi senza fervore si cade nella tiepidezza e vi è pericolo di dannazione.

    Tuttavia resta sempre la possibilità di una riparazione trionfatrice. La generosità e il fervore sono indispensabili per perseverare in grazia di Dio. Se resistere al consiglio, per se, non è peccato, tuttavia per accidens, lo stato abituale di ingenerosità, ossia far pace con le imperfezioni volontarie, porta alla tiepidezza o alla indifferenza alle cose spirituali (accidia) e al peccato mortale.

    Tuttavia resta fermo il principio, contro l’obbligatorismo, che resistere a un consiglio non è per se peccato né veniale né mortale. Ma può scaturirne, per accidens, il pericolo di dannazione, che nasce quando vi è un orientamento stabile e sistematico di opposizione ai consigli di Dio, che porta all’accidia o disgusto delle cose spirituali. Tale stato di tiepidezza è più pericoloso di un solo peccato mortale preso isolatamente, dal quale ci si rialza più umili, ferventi e pii ( vedi S. Pietro o David) . Lo stato di tiepidezza non è il rifiuto del meglio (consiglio) per timore di non farcela, ma è il meglio (consigli) disprezzato praticamente per accidia, che porta alla sistematica esclusione dei desideri di Dio, che implica non tener conto né dei suoi comandamenti né dei suoi precetti.

    Il rifiuto della vocazione può essere disgiunto dalla tiepidezza

    Se il rifiuto fosse determinato dalla paura di non farcela, potrebbe essere riparato con l’accettazione fervorosa dei precetti di Dio e con lo spirito dei consigli; se fosse determinato da un motivo peccaminoso attuale, potrebbe essere riparato, poi, nello stato matrimoniale vissuto santamente secondo le leggi di Dio.

    Invece se il rifiuto nasce da uno stato abituale, e non da un atto, di accidia e tiepidezza, allora tale rifiuto potrebbe essere la strada che conduce alla dannazione, ma sempre riparabile, con la grazia di Dio che non è rifiutata a nessuno, uscendo dalla tiepidezza abituale, con la buona volontà di servire il Signore nello stato in cui ci si trova.

    Libertà della sacra vocazione

    La vocazione è libera perché sovrumana, essa corrisponde non ad un precetto, ma a un cosiglio di Dio. La vocazione sacra impone delle rinunce a tendenze naturalmente fondamentali, e soprannaturalmente lecite (matrimonio) che ogni uomo ha il diritto di poter soddisfare. Ora l’imposizione di tali rinunce non è un precetto di Dio, non è un’esigenza della natura, anzi è il contrario, è una scelta libera del meglio, di corrispondere all’invito di Dio a uno stato più perfetto, ma più difficile.

    Se la tesi obbligatorista fosse vera, Dio direbbe al chiamato: sei libero di accettare la vocazione (Si vis) , ma se rifiuti ti nego la grazia sufficente per la salvezza. Così il consiglio diverrebbe ben più di un singolo precetto: diverrebbe il peccato contro lo Spirito Santo o l’impenitenza finale.

    Stato consacrato e stato matrimoniale

    Nello stato consacrato si ricevono grazie maggiori, proporzionate all’altezza dello stato in cui ci si trova. Ma vi sono anche maggiori difficoltà e responsabilità nell’ordine spirituale. Nello stato matrimoniale vi sono minor grazie, ma anche minori responsabilità nell’ordine spirituale. Nello stato sacerdotale si ricevono maggiori grazie, corrispondendo alle quali si giunge a maggior santità. Ma la corrispondenza non è sempre facile, e siccome solo la corrispondenza alla grazia ci dà le virtù acquisite che danno la facilità e la prontezza nell’agire bene, ci vuole perciò lo sforzo di corrispondere. Se manca tale sforzo si può fallire anche nella vocazione.

    Inoltre non bisogna cadere nel falso concetto del miracolismo della grazia di stato, che potrebbe spingere verso il quietismo o far abbracciare lo stato consacrato quando non si hanno le qualità umane e naturali prerichieste (salute psico-fisica, intelligenza, moralità stabile e ben fondata e la purezza d’intenzione) in quanto “la grazia presuppone la natura, non la distrugge ma la perfeziona (S. Tommaso). Qualora manchi una di queste qualità la vocazione divina è dubbia e “vocazione dubbia, è vocazione nulla”; in tema di vocazione l’insegnamento del Magistero(2) è simile a quello che riguarda i sacramenti, ove se la materia o la forma sono dubbie o non certamente valide, il sacramento è da ritenersi invalido e non probabilmente valido; così è per la vocazione. Qualora una carenza di qualità facesse sorgere il dubbio, si deve dire che la vocazione non sussiste, e sarebbe scellerato dire che è probabilmente sussistente e inviare al “macello” un uomo che non ha le capacità per reggere il peso del sacerdozio. Il benignismo in materia di vocazione lascia, in caso di dubbio, il giovane in perfetta serenità di poter dire che non se la sente; mentre l’obbligatorismo che asserisce: se non corrispondi alla chiamata (che peraltro alcune volte è dubbia) sei dannato, metterà il candidato in un grande stato di agitazione: egli non potrà scegliere serenamente e liberamente se corrispondere o meno, essendo è minacciato dalla più grande delle paure, quella della dannazione eterna.

    Vita religiosa e vita sacerdotale

    La vita sacerdotale è la più nobile perché conferisce il potere sul corpo fisico di N. S. Gesù Cristo; la vita religiosa, differisce dalla precedente a causa dei tre voti. Essa pone il chiamato in uno stato che tende alla perfezione; essa consiste principalmente nell’osservare i dieci comandamenti e soltanto secondariamente e strumentalmente nell’osservare i consigli come “removens prohibens” ossia come ciò che aiuta a togliere gli ostacoli che impedirebbero la vita cristiana e al tempo stesso ci conducono all’unione con Dio o alla perfezione.

    La differenza sostanziale tra queste due vite (religiosa e sacerdotale) è che lo stato religioso ci mette nel cammino della perfezione verso la quale si può tendere durante tutta la vita religiosa, lo stato sacerdotale invece presuppone già la seconda via della vita cristiana, che è quella dei “proficienti” o la mistica iniziale (lo stato episcopale la terza via dei “perfetti” o mistica compiuta). Per di più la vita religiosa difende i chiamati dal mondo, grazie alla Regola e alla vita in comune; mentre la vita sacerdotale comporta la rinuncia alle comodità del mondo, ma lascia il prete isolato, in continuo contatto col mondo, verso il quale deve svolgere un ministero delicatissimo e pericoloso. Nello stato religioso vi sono meno pericoli, meno responsabilità e più difese; il sacerdote invece accetta l’ordine sacro per la salvezza delle anime, e quindi accetta il rischio di dover andare “come gli agnelli in mezzo ai lupi”, con la sperata cooperazione alla divina chiamata e la eventuale più ricca ricompensa spirituale.

    Conclusione

    Padre Roothan aveva predicato un turno di esercizi ad una comunità religiosa; alla fine degli esercizi - racconta S. Alfonso - monta a cavallo e se ne parte, ma lungo la strada si ricorda di aver omesso di predicare la cosa più importante nella vita spirituale; allora fa marcia indietro, ritorna al convento, fa suonare la campana e dice ai religiosi accorsi: ho dimenticato di ricordarvi la cosa più importante: qualunque cosa accada, non disperate mai!

    Mater mea, fiducia mea!

    NOTE:

    1) Vocazione in senso stretto è solo quella sacra, per cui non è corretto parlare di “vocazione al matrimonio”, essa è una tendenza naturale e non una vocazione.

    Per la stesura di questo articolo mi sono basato su il libro La sacra vocazione di monsignor Pier Carlo Landucci.

    2) Istruz. S. C. dei Sacramenti, 27 dicembre 1930.

    Istruz. S. C. dei Religiosi, 1 dicembre 1931.

    Istruz. S. C. dei Seminari e delle Università degli studi, in O. R. 23 ottobre 1952.

    Conc. Lat. IV, cap XXVII.

    Benedetto XIV, Encicl. Ubi primum, 31 dicembre 1740.

    S. Pio X, Encicl. Pieni l’animo, 28 luglio 1906.

    Pio XI, discorso ai Vescovi, 25 luglio 1929 (pellegrinaggio nazionale dei Seminari).

    Istruz. S. C. dei Sacramenti, 1930.

    Pio XI, Ad catholici sacerdotii , 1935.

    FONTE. Lo stesso contributo è anche QUI

  3. #3

  4. #4
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    Molto interessante il saggio di don Curzio Nitoglia.

  5. #5
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    Caro Agostino,
    l'articolo sulla vocazione mi pare davvero molto bello, ed assai condivisibile. Per essere documentato, mi sembra ormai due anni or sono, andai a cinema per vedere il film su Lutero fatto dai Luterani stessi. Paradossalmente, dal film risulta ampiamente che Lutero non aveva alcuna vocazione e che - appunto così inzia il film - la sua scelta era legata ad uno scampato pericolo (di fulmini), per il quale si sentiva in debito con Dio.

    Non potrei essere in maggiore disaccordo, invece, sulla questione della vita religiosa, che per altro, ovviamente, non esclude necessariamente il sacerdozio. Il clero si divide in due: regolari ed irregolari, o secolari, e i primi sono, appunto, solo ed sclusivamente i religiosi. La scelta di vita religiosa è la più difficile e la più alta, perché e integralmente contemplativa. Altrimenti, per essere conseguenti, bisognerebbe affermare che è il matrimonio la scelta più difficile ed elevata, in quanto ti obbliga a lavorare e svolgere una serie di attività del tutto mondane pur rimanendo cristiano. Insomma: quella dei "don", ovveosia del clero irregolare è una via mediana che, come tale, non può essere ritenuta apicale. Anzi, proprio l'assenza di un monachesimo sufficientemente forte mi pare il punto debole della spiritualità occidentale, che poi è legato con la nostra tendenza più attiva che contemplativa.
    Si spiega prorpiro così, nel medioevo, la nascita degli ordini mendicanti che non sono composti da monachi, ma da frati, che, se pur religiosi, hanno anche un ruolo attivo (mendicare e, specie nel medioevo, insegnare all'Università).
    Mi rendo conto che possa non sembrare una deviazione, ma in realtà è proprio questo: ed oggi possiamo vederlo assai facilmente confrontando un monaco Benedettino moderno, che è praticamente uguale ad uno medievale, con un domenicano o un francescano moderno, che normalmente, ad es., non inodossa l'abito.
    A questo proposito, un film davvero bello è stato "Il grande silenzio" (mi pare che fossero monaci clunacensi).
    Per quanto riguarda S. Tommaso d'Aquino, per quanto potrà sembrare strano ai più, io continuo a pensare che fosse, a modo suo, un modernista. Infatti, questa voglia di dimostrare che la filosofia - ovvero quella che, all'epoca, era ritenuta la massima espressione della razionalità umana - non contraddice la raligione, mi pare, mutatis mutandis, come quella dei nostri contemporanei di dimostrare che la scienza non nega la religione. Io, personalemtne, avrei lasciato aristotele ad Averroe e ai mussulmani.
    D'altronde, mi pare altresì assai significativo che S. Tommaso d'Aquino, inizialmente oblato di S. Benedetto, abbia deciso di cambiare ordine.
    La morale? E' sempre meglio pregare N.S. Gesù Cristo, che insegnare all'Università.
    Un saluto dalla Vecchia Foresta.

  6. #6
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    Caravaggio (attrib.), La vocazione dei SS. Pietro e Andrea, 1600 circa, Royal Gallery, Hampton Court

  7. #7
    vetera sed semper nova
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    Molto interessante e dovizioso di riflessioni lo scritto di don Curzio Nitoglia

  8. #8
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    S. Alfonso Maria de Liguori
    CIRCA LA CASTITÀ DEL SACERDOTE


    (Selva di materie predicabili - Parte II, Istruz. III)




    Omnis autem ponderatio non est digna continentis animae [1]. Tutte le ricchezze della terra, tutte le signorie e dignità sono vili a rispetto d'un'anima casta. Da s. Efrem è chiamata la castità vita spiritus, da s. Pier Damiani regina virtutum, e da s. Cipriano acquisitio triumphorum. Chi vince il vizio opposto alla castità, facilmente vince tutti gli altri vizj. All'incontro chi si lascia dominare dal vizio impuro facilmente cade in molti altri vizj, di odio, d'ingiustizia, di sacrilegio ec. La castità, dicea s. Efrem, fa che l'uomo diventi angelo: Efficit angelum de homine. E s. Ambrogio: Qui castitatem servaverit angelus est; qui perdidit diabolus [2]. Con ragione i casti sono assomigliati agli angeli, che vivono lontani da ogni piacere carnale: Et erunt sicut angeli Dei [3]. Gli angeli son puri per natura, ma i casti son puri per virtù: Huius virtutis merito homines angelis aequantur [4]. E s. Bernardo dice che l'uomo casto differisce dall'angelo solo nella felicità, non già nella virtù: Differunt quidem inter se homo pudicus et angelus, sed felicitate, non virtute; sed etsi illius castitas sit felicior, huius tamen fortior concluditur [5]. Aggiunge s. Basilio che la castità rende l'uomo simile anche a Dio, il quale è spirito puro: Pudicitia hominem Deo simillimum facit [6].
    La castità poi quanto è pregiabile tanto è necessaria a tutti per conseguir la salute. Ma maggiormente è necessaria a' sacerdoti. Il Signore ordinò per li sacerdoti dell'antica legge tante vesti ed ornamenti bianchi e tante lavande esterne, tutti simboli della purità del corpo; perché doveano essi solamente toccare i vasi sacri e perché eran figura de' sacerdoti della nuova legge, i quali dovean poi toccare e sacrificare le sacrosante carni del Verbo umanato. Onde scrisse s. Ambrogio: Si in figura tanta observantia, quanta in veritate [7]? All'incontro ordinò Iddio che fossero discacciati dall'altare i sacerdoti che si trovassero abitualmente infetti di scabbia, simbolo del vizio impuro: Nec accedet ad ministerium... si albuginem habens in oculo, si iugem scabiem etc. [8]. Spiega s. Girolamo: Iugem habet scabiem qui carnis petulantia dominatur [9].
    Anche i gentili, come scrive Plutarco, esigevano la purità da' sacerdoti de' lor falsi dei, dicendo che ogni cosa che riguarda l'onor divino dee esser monda: Diis omnia munda. E de' sacerdoti ateniesi riferisce Platone che, per meglio conservar la pudizia, abitavano in luoghi separati dagli altri: Ne contagione aliqua eorum castitas labefactetur [10]. Onde s. Agostino esclama: O grandis christianorum miseria! ecce pagani doctores fidelium facti sunt. Parlando poi de' sacerdoti del vero Dio, dice Clemente alessandrino che solamente quei che menano vita casta sono e debbon dirsi veri sacerdoti: Soli qui puram agunt vitam sunt Dei sacerdotes [11]. E s. Tomaso da Villanova disse: Sit humilis sacerdos, sit devotus, si non est castus nihil est. A tutti è necessaria la castità, ma principalmente a' sacerdoti: Omnibus castitas pernecessaria est, sed maxime ministris altaris [12]. I sacerdoti debbon trattar sull'altare coll'agnello immacolato di Dio, che chiamasi giglio, lilium convallium [13], e che non si pasce se non tra' gigli, qui pascitur inter lilia [14]. Che perciò Gesù Cristo non volle altra madre che una vergine, non altro nutritore (qual fu s. Giuseppe) né altro precursore, se non vergine. E dice s. Girolamo: Prae caeteris discipulis diligebat Iesus Ioannem, propter praerogativam castitatis. E per questo pregio di purità Gesù consegnò a s. Gio. la sua madre, siccome al sacerdote consegna la chiesa e se stesso. Onde disse Origene: Ante omnia sacerdos, qui divinis assistit altaribus, castitate debet accingi. E s. Gio. Grisostomo scrisse che il sacerdote dee esser così puro che meriti di stare in mezzo agli angeli: Necesse est sacerdotem sic esse purum ut, si in ipsis coelis esset collocatus, inter coelestes illas virtutes medius staret [15]. Dunque chi non è vergine non può esser sacerdote? Risponde s. Bernardo: Longa castitas pro virginitate reputatur [16].
    Perciò la s. chiesa niuna cosa custodisce con tanta gelosia quanto la
    purità de' sacerdoti. Quanti concilj, quanti canoni parlano di ciò! Innocenzo III. [17] dice: Nemo ad sacrum ordinem permittatur accedere, nisi aut virgo aut probatae castitatis existat. E di più ivi stesso prescrive, eos qui in sacris ordinibus sunt positi, si caste non vixerint, excludendos ab omni graduum dignitate. Inoltre s. Gregorio [18] disse: Nullus debet ad ministerium altaris accedere, nisi cuius castitas ante susceptum ministerium fuerit approbata. La ragione del celibato prescritto a' ministri dell'altare la adduce s. Paolo dicendo: Qui sine uxore est, sollicitus est quae Domini sunt, quomodo placeat Deo. Qui autem cum uxore est, sollicitus est quae sunt mundi, quomodo placeat uxori, et divisus est [19]. Chi è sciolto da' legami coniugali è tutto di Dio, poiché non ha da pensare ad altro che a piacere a Dio: ma chi è legato col matrimonio ha da pensare a piacere alla moglie, a' figli ed al mondo; e con ciò il suo cuore ha da restar diviso e non può esser tutto di Dio. Ebbe ragione dunque s. Atanagio di chiamar la castità casa dello Spirito santo, vita d'angeli e corona de' santi: O pudicitia, domicilium Spiritus sancti, angelorum vita, sanctorum corona [20]! E s. Girolamo di chiamarla l'onore della chiesa e la gloria de' sacerdoti: Ornamentum ecclesiae Dei, corona illustrior sacerdotum. Sì, perché il sacerdote, come scrisse s. Ignazio martire, dee conservarsi puro, come casa di Dio, tempio di Gesù Cristo ed organo dello Spirito santo; giacché per suo mezzo si santificano le anime: Teipsum castum custodi, ut domum Dei, templum Christi, organum Spiritus sancti [21].
    Gran pregio dunque è la castità; ma troppo terribile è la guerra che fa la carne all'uomo per fargliela perdere. E questa è l'arme più forte che ha il demonio per renderlo suo schiavo: Fortitudo eius in lumbis eius [22]. Ond'è che rari son coloro che n'escono vincitori. S. Agostino: Inter omnia certamina sola sunt dura castitatis praelia, ubi quotidiana pugna, ubi rara victoria [23]. Quanti miseri, pianse s. Lorenzo Giustiniani, dopo molti anni di solitudine in un deserto, d'orazioni, digiuni e penitenze, per la licenza del senso hanno lasciati i deserti ed han perduta la castità e Dio! Post frequentes orationes, diutissimam eremi habitationem, cibi potusque parcitatem, ducti spiritu fornicationis, deserta reliquerunt [24]! Pertanto i sacerdoti che sono obbligati ad una perpetua castità bisogna che usino grande attenzione per conservarla. Non sarai mai casto, disse s. Carlo Borromeo ad un ecclesiastico, se non attendi con tutta la diligenza a custodirti; poiché la castità facilmente si perde da' negligenti: Mirum est quam facile ab iis deperdatur qui ad eius conservationem non invigilant. Tutta questa attenzione consiste nel prendere i mezzi a conservarla. Ed i mezzi consistono altri in fuggire alcuni incentivi dell'impudicizia, altri in adoperare alcuni rimedj contro le tentazioni.
    Il primo mezzo è fuggire l'occasione. Scrisse s. Girolamo: Primum huius vitii remedium est longe fieri ab eis quorum praesentia alliciat ad malum. Dicea s. Filippo Neri che in questa guerra vincono i poltroni, cioè quei che fuggono l'occasione: Nunquam luxuria facilius vincitur quam fugiendo [25]. È un gran tesoro la grazia di Dio, ma questo tesoro l'abbiamo in noi che siamo vasi così fragili e facili a perderlo: Habemus thesaurum istum in vasis fictilibus [26]. La virtù della castità non può ottenersi dall'uomo, se non gli è data da Dio: Scivi quoniam aliter non possem esse continens, nisi Deus det, disse Salomone [27]. Noi non abbiamo forza di osservare niuna virtù, ma specialmente questa; mentre abbiamo una forte inclinazione naturale al vizio opposto. L'aiuto divino può fare che l'uomo si conservi casto; ma questo aiuto Dio non lo concede a chi volontariamente si mette o si trattiene nell'occasione di peccare: Qui amat periculum peribit in illo [28].
    Quindi esortava s. Agostino: Contra libidinis impetum apprehende fugam, si vis obtinere victoriam [29]. Oh quanti infelici, avvertì s. Girolamo a' suoi discepoli mentre stava moribondo (come scrive Eusebio nella sua epistola a Damaso papa), son caduti in questo putrido fango per la presunzione di tenersi sicuri di non cadere! Plurimi sanctissimi ceciderunt hoc vitio propter suam securitatem. Nullus in hoc confidat. Niuno dunque, seguiva ad inculcare il santo, dee tenersi sicuro di non cadere in questo vizio. Ancorché tu fossi santo, dicea, stai nulladimeno sempre soggetto a cadere: Si sanctus es, nec tamen securus es. Non è possibile, disse il Savio, camminar sulle brace e non bruciarsi: Nunquid potest homo ambulare super prunas, ut non comburantur plantae eius [30]? A tal proposito dice s. Gio. Grisostomo: Num tu saxum es, num ferrum? Homo es, communi naturae imbecillitati obnoxius. Ignem capis, nec ureris? Qui fieri id potest? Lucernam in foeno pone, ac tu aude negare quod foenum uratur. Quod foenum est, hoc natura nostra est. E così non è possibile esporsi ultroneamente all'occasione e non precipitare. Il peccato dee fuggirsi come la faccia del serpente: Quasi a facie colubri fuge peccata [31]. De' serpi non solo si fugge il morso, ma ancora il tatto ed anche la vicinanza. Dove vi son persone che possono esserci occasione di cadere bisogna che fuggiamo anche la loro presenza ed i loro discorsi. Riflette s. Ambrogio che il casto Giuseppe non volle neppure udire quel che gli avea cominciato a dire la moglie di Putifarre e subito si fuggì, stimando gran pericolo anche il fermarsi ad ascoltarla: Ne ipsa quidem verba diu passus est; contagium enim iudicavit si diutius moraretur [32]. Ma dirà taluno: io so quel che mi sta bene. Ma senta costui quel che dicea s. Francesco d'Assisi: «Io so ciò che dovrei fare, ma non so, stando nell'occasione, quel che farei».
    E prima di tutto bisogna fuggire il guardare oggetti pericolosi in questa materia: Ascendit mors per fenestras [33]. Per fenestras, cioè per gli occhi, come spiegano s. Girolamo, s. Gregorio ed altri; perché siccome per difendere una piazza non basta serrar le porte, se si lascia a' nemici l'entrata per le finestre, così non ci gioveranno tutti gli altri mezzi a conservar la castità, se non istiamo cautelati a chiudere gli occhi. Narra Tertulliano che un certo filosofo gentile volontariamente si tolse gli occhi per mantenersi casto. Ciò non è lecito a noi cristiani, ma è necessario, se vogliamo osservar la castità, l'astenerci dal guardare le donne e specialmente dal riguardarle. Non tanto nuoce, avvertiva s. Francesco di Sales, il guardare, quanto il riguardare quegli oggetti che possono tentarci. E non solo, aggiunge s. Gian Grisostomo, bisogna voltare gli occhi dalle donne immodeste, ma anche dalle modeste: Animus feritur et commovetur non impudicae tantum intuitu, sed etiam pudicae [34]. Perciò il s. Giobbe fe' patto cogli occhi di non guardare alcuna femmina, ancorché onesta vergine, sapendo che dagli sguardi nascono poi i mali pensieri: Pepigi foedus cum oculis meis ut ne cogitarem quidem de virgine [35]. E lo stesso avvertì l'ecclesiastico: Virginem ne conspicias, ne forte scandalizeris in decore illius [36]. Dice s. Agostino: Visum sequitur cogitatio, cogitationem delectatio, delectationem consensus. Dal guardare sorge il mal pensiero; dal pensiero sorge una certa dilettazione nella carne, benché involontaria; a questa dilettazione indeliberata spesso succede poi il consenso della volontà: ed ecco che l'anima è perduta. Riflette Ugon cardinale che perciò l'apostolo impose che le donne stessero velate in chiesa, propter angelos [37], idest, commenta Ugone, propter sacerdotes, ne, in earum faciem inspicientes, moverentur ad libidinem. S. Girolamo, anche mentre stava nella grotta di Betlemme orando continuamente e macerandosi colle penitenze, era molto tormentato dalla memoria delle dame tanto tempo prima vedute in Roma; onde il santo scrisse poi al suo Nepoziano che non solo si astenesse dal mirar le donne, ma ancora di far parola delle loro fattezze: Officii tui est non solum oculos castos custodire, sed et linguam, nunquam de formis mulierum disputes [38]. Davide per un'occhiata curiosa in guardar Betsabea cadde miseramente in tanti peccati di adulterio, di omicidio e di scandalo. Nostris tantum initiis (diabolus) opus habet, dicea lo stesso s. Girolamo. Il demonio ha bisogno solamente che noi cominciamo ad aprirgli la porta, perché esso poi finirà d'aprirsela. Uno sguardo avvertito e fissato in volto ad una giovane sarà una scintilla d'inferno che manderà in rovina l'anima E parlando specialmente s. Girolamo de' sacerdoti, dicea che non solo essi debbon fuggire ogni atto impuro, ma anche ogni girata d'occhi: Pudicitia sacerdotalis non solum ab opere immundo se abstineat, sed etiam a iactu oculi [39].
    Se poi per conservar la castità è necessario l'astenersi dal guardare le donne, molto più è necessario il fuggir la loro conversazione: In medio mulierum noli commorari, dice lo Spirito santo [40]. E ne soggiunge la ragione, dicendo che siccome dal panno nasce la tignuola, così dalla conversazione colle donne ha origine la malvagità degli uomini: De vestimentis enim procedit tinea, et a muliere iniquitas viri [41]. E siccome, commenta Cornelio a Lapide, la tignuola nasce contro voglia del padrone dalla veste, così dal trattar colle femmine sorge senza volerlo il cattivo desiderio: Sicut tibi nihil tale volenti nascitur tinea, ita tibi nihil tale volenti nascitur a foemina desiderium. E soggiunge che siccome insensibilmente la tignuola si genera nella veste e la rode, così insensibilmente, conversando gli uomini colle donne, si muove in essi la concupiscenza, ancorché sieno spirituali: Insensibiliter tinea in veste nascitur et eam rodit, sic insensibiliter ex conversatione cum muliere oritur libido, etiam inter religiosos. S. Agostino dà per certo il presto precipizio in questa materia di taluno che non vuole astenersi dalle familiarità con oggetti pericolosi: Sine ulla dubitatione, qui familiaritatem non vult vitare suspectam cito labitur in ruinam [42]. Narra s. Gregorio [43], di Orsino prete, che essendosi separato dalla moglie e fatto sacerdote col di lei consenso, dopo quarant'anni di separazione, stando per morire, la moglie accostò l'orecchio alla di lui bocca per iscorgere se ancor respirava: ma allora Orsino gridò: Recede, mulier: adhuc igniculus vivit; tolle paleam. Scostati, donna, disse, e togli la paglia; perché ancor vive in me un picciol fuoco di vita, che può ambedue consumarci.
    Basti a far tremare ognuno l'infelice esempio di Salomone, che, essendo stato prima così caro e familiare a Dio, fatto per dir così penna dello Spirito santo, dopo, per la conversazione colle donne gentili, fatto vecchio, giunse sino ad adorare gl`idoli: Cumque... esset senex, depravatum est cor eius per mulieres ut sequeretur Deos alienos [44]. Ma che maraviglia, dice s. Cipriano, se è impossibile star in mezzo alle fiamme e non bruciare? Impossibile est flammis circumdari et non ardere. E s. Bernardo scrisse che vi bisogna minor virtù a risuscitare un morto, che frequentando la familiarità con una donna, a mantenersi casto: Cum foemina frequenter esse et foeminam non tangere nonne plus est quam mortuum suscitare [45]? Dunque, se vuoi star sicuro, dice lo Spirito santo, longe fac ab ea viam tuum [46]. Procura presso la casa di colei verso cui il demonio ti tenta, neppur di passarvi; passa da lontano; e quando fosse veramente necessario a taluno il parlare con qualche donna, dice s. Agostino, dee parlarle con poche parole ed austere: Cum foeminis sermo brevis et rigidus [47]. Lo stesso scrive s. Cipriano, dicendo che il trattar colle donne bisogna che sia di passaggio, senza fermarvisi e come fuggendo: Transeunter foeminis exhibenda est accessio quodammodo fugitiva. Ma quella è brutta, dice taluno: Dio me ne guardi. Ma ti risponde s. Cipriano che il demonio è pittore, e, quando è mossa la concupiscenza, un viso deforme lo fa comparire bello: Diabolus, pingens, speciosum efficit quidquid horridum fuerit. Ma quella m'è parente. A ciò ti risponde s. Girolamo: Prohibe tecum commorari etiam quae de tuo genere sunt. La parentela alle volte serve per togliere la soggezione e per moltiplicare i peccati, aggiungendo all'impudicizia ed al sacrilegio anche l'incesto. Scrisse s. Cipriano: Magis illicito delinquitur ubi sine suspicione securum potest esse delictum. S. Carlo Borromeo fe' decreto che i suoi preti non potessero senza sua licenza coabitare con donne, neppure loro strette consanguinee.
    Ma quella è mia penitente ed è santa: non ci è paura. Non c'è paura? Ma no, dice s. Agostino; quanto più la tua penitente è santa, tanto più dei temerne e fuggirne la familiarità; perché le donne quando sono più divote e spirituali, allora maggiormente allettano: Sermo brevis et rigidus cum his mulieribus habendus est: nec tamen quia sanctiores sunt, ideo minus cavendae: quo enim sanctiores fuerint, eo magis alliciunt [48]. Diceva il ven. p. Sertorio Caputo, come si legge nella sua vita, che il demonio prima fa prendere affetto alla virtù e così procura di assicurare che non ci sia pericolo; indi fa entrar l'affetto alla persona e poi tenta; e così fa ruine. E prima lo disse s. Tomaso: Licet carnalis affectio sit omnibus periculosa, ipsis tamen magis perniciosa quando conversantur cum persona quae spiritualis videtur: nam quamvis principium videatur purum, tamen frequens familiaritas domesticum est periculum; quae quidem familiaritas quanto plus crescit, infirmatur principale motivum et puritas maculatur. E soggiunge che il demonio sa ben nascondere un tal pericolo; poiché al principio non manda saette che si conoscano avvelenate, ma solamente di quelle che fan picciole ferite ed accendono l'affetto: ma in breve poi avviene che tali persone non trattino più fra loro come angeli, siccome han principiato, ma come vestite di carne: gli sguardi non sono immodesti, ma sono spessi a vicenda: le parole sembrano essere spirituali, ma son troppo affettive. Quindi l'uno comincia a desiderare spesso la presenza dell'altro: Sicque, conclude il santo spiritualis devotio convertitur in carnalem. S. Bonaventura dà cinque segni per conoscere quando l'amore da spirituale si è fatto carnale. 1. Quando vi sono discorsi lunghi ed inutili; e quando sono lunghi, sempre sono inutili. 2. Quando vi sono sguardi e lodi a vicenda. 3. Quando l'uno scusa i difetti dell'altro. 4. Quando si affacciano certe piccole gelosie. 5. Quando si sente nella lontananza una certa inquietezza.
    Tremiamo: siamo di carne. Il b. Giordano riprese fortemente una volta un suo religioso per aver data la mano ad una donna, benché senza malizia. Rispose il religioso che quella era santa. Ma il beato, «Senti, gli disse: la pioggia è buona e la terra anche è buona; ma mischiate insieme pioggia e terra fanno loto». Quegli è santo e quella ancora è santa, ma perché si mettono nell'occasione, si perdono tutti e due: Fortis impegit in fortem, et ambo pariter conciderunt [49]. È celebre quel caso funesto che si legge nella storia ecclesiastica di quella donna santa che usava la carità di prendere i corpi dei santi martiri e seppellirli. Costui un giorno ne trovò uno creduto già morto, ma che non era ancora spirato, lo condusse in sua casa, lo fe' curare; e quegli ricuperò la santità. Ma che avvenne? questi due santi, col conversare insieme, perderono la castità e la grazia di Dio. E questo caso non è avvenuto una o poche volte: quanti sacerdoti prima santi, per simili attacchi principiati collo spirito, han perduto in fine lo spirito e Dio? Attesta s. Agostino aver conosciuti alcuni gran prelati della chiesa, stimati da lui non meno che un s. Girolamo e un s. Ambrogio, esser poi precipitati per tali occasioni: Magnos praelatos ecclesiae sub hac specie corruisse reperi, de quorum casu non magis praesumebam quam Hieronymi et Ambrosii [50]. Pertanto scrisse s. Girolamo a Nepoziano: Ne in praeterita castitate confidas, solus cum sola absque teste non sedeas. Non sedeas viene a dire non fermarsi. E s. Isidoro pelusiota scrisse: Si cum ipsis conversari necessitas te obstringat, oculos humi eiectos habe: cumque pauca locutus fueris, statim avola [51]. Diceva il p. Pietro Consolini dell'Oratorio che colle donne anche sante si dee praticar la carità come colle anime del purgatorio, da lontano e senza guardarle. Diceva ancora questo buon padre che giova a' sacerdoti, quando sono tentati contro la castità, il considerare la loro dignità: e narrava a questo proposito che un certo cardinale, allorché era molestato da' pensieri, si volgeva a guardar la sua berretta, considerando la sua dignità cardinalizia, dicendo: «Berretta mia, mi ti raccomando;» e così resisteva alla tentazione.
    Inoltre bisogna fuggire i mali compagni. Dice s. Girolamo che tale diventa l'uomo, quali sono i compagni con cui conversa: Talis efficitur homo, quali conversatione utitur. Noi camminiamo per una via oscura e sdrucciola; tal è la vita presente, lubricum in tenebris: se v'è un mal compagno che ci spinga al precipizio, siam perduti. Narra s. Bernardino da Siena [52], aver conosciuta egli una persona che per trentotto anni avea conservata la sua verginità e poi, per aver intesa nominare da un'altra persona una certa impudicizia, precipitò in una vita così laida che se il demonio, diceva il santo, avesse avuta carne, non avrebbe potuto commettere simili sordidezze.
    Inoltre, per mantenerci casti, bisogna che fuggiamo l'ozio. Dice lo Spirito santo che l'ozio insegna a commettere molti peccati: Multam... malitiam docuit otiositas [53]. Ed Ezechiele dice che l'ozio fu la causa delle scelleraggini de' cittadini di Sodoma e finalmente della loro totale ruina: Haec fuit iniquitas Sodomae... otium ipsius [54]. E questa medesima fu la causa, come riflette s. Bernardo, della caduta di Salomone. Il fomite della carne colla fatica si reprime: Cedet libido operibus [55]. Quindi s. Girolamo esortava Rustico a farsi trovar sempre occupato per quando veniva il demonio a tentarlo: Facito ut te semper diabolus inveniat occupatum [56]. Scrisse s. Bonaventura che colui il quale sta applicato sarà tentato da un solo demonio, ma l'ozioso sarà spesso assalito da molti: Occupatus ab uno daemone, otiosus ab innumeris vastatur.
    Abbiamo vedute dunque le cose che si han da fuggire per conservar la castità, cioè l'occasione e l'ozio. Vediamo ora le cose che si han da praticare. Per. 1. si ha da esercitar la mortificazione de' sensi. S'inganna, dice s. Girolamo, chi vuol vivere tra' piaceri e vuole star libero dai vizj de' piaceri: Si quis existimat posse se versare in deliciis, et deliciarum vitiis non teneri, seipsum decipit [57]. L'apostolo, quando era molestato dagli stimoli della carne, così si aiutava, colle mortificazioni del corpo: Castigo corpus meum et in servitutem redigo [58]. Quando la carne non è mortificata, difficilmente ubbidisce allo spirito. Sicut lilium inter spinas, sic amica mea inter sponsas [59]. Siccome il giglio si conserva tra le spine, così la castità si custodisce tra le mortificazioni. E principalmente chi vuol mantenersi casto bisogna che si astenga dalle intemperanze della gola, così nel bere, come nel mangiare. Noli regibus dare vinum [60]. Chi prende vino più di quel che bisogna sarà certamente molestato da molti moti di senso, in modo che difficilmente potrà poi reggere la sua carne e far ch'ella conservi la castità: Venter enim mero aestuans despumat in libidinem, scrisse s. Girolamo; poiché il vino, come disse il profeta, fa perdere all'uomo la ragione e lo fa divenir bruto: Ebrietas et vinum auferunt cor [61]. Del Battista fu predetto: Vinum et siceram non bibet, et Spiritu sancto replebitur [62]. Taluno adduce la necessità del vino a cagion della debolezza del suo stomaco. Bene; ma per rimedio dello stomaco poco vino è bastante, secondo scrisse l'apostolo a Timoteo: Modico vino utere propter stomachum tuum et frequentes tuas infirmitates [63]. Così anche bisogna astenersi dalla superfluità del cibo. Dicea s. Girolamo che la sazietà del ventre è causa dell'impudicizia. E s. Bonaventura: Luxuria nutritur a ventris ingluvie [64]. All'incontro, come ne insegna la s. chiesa, il digiuno reprime i vizj e produce le virtù: Deus, qui corporali ieiunio vitia comprimis, mentem elevas, virtutes largiris et praemia. Scrisse s. Tomaso che quando il demonio tenta una persona di gola e resta vinta, lascia di tentarla d'impurità: Diabolus victus de gula non tentat de libidine.
    Per 2. bisogna esercitar l'umiltà. Dice Cassiano che chi non è umile non può esser casto: Castitatem apprehendi non posse, nisi humilitatis fundamenta in corde fuerint collocata. Non rare volte accade che Dio castiga i superbi col permettere che cadano in qualche laidezza. Questa fu la cagione della caduta di Davide, siccome egli stesso confessò: Priusquam humiliarer, ego deliqui [65]. L'umiltà è quella che ci ottiene la castità. Ut castitas detur, humilitas meretur, scrisse s. Bernardo [66]. E s. Agostino: Custos virginitatis caritas, locus custodis humilitas [67]. L'amor divino è il custode della purità, ma l'umiltà è quella casa poi nella quale abita un tal custode. Dicea s. Giovanni Climaco che chi nel combattere colla carne vuol vincere colla sola continenza è come chi sta in mare e vuol salvarsi nuotando con una sola mano: perciò bisogna che alla continenza unisca ancor l'umiltà: Qui sola continentia bellum hoc superare nititur similis est ei qui una manu natans pelago liberari contendit: sit ergo humilitas continentiae coniuncta [68].
    Ma sovra tutto per ottener la virtù della castità è necessaria l'orazione; bisogna pregare e continuamente pregare. Già di sopra si è detto che la castità non può ottenersi né conservarsi, se Iddio non concede il suo aiuto per conservarla: ma questo aiuto il Signore non lo concede se non a chi glielo domanda. Dicono i ss. padri che l'orazione di petizione, cioè la preghiera, agli adulti è necessaria di necessità di mezzo, secondo parlano le scritture: Oportet semper orare et non deficere [69]. Petite et dabitur vobis [70].
    Onde poi scrisse l'angelico: Post baptismum necessaria est homini iugis oratio [71]. E se per esercitare qualunque virtù vi bisogna l'aiuto divino, per conservar la castità vi bisogna un aiuto maggiore, per ragion della gran tendenza che ha l'uomo al vizio opposto. È impossibile all'uomo, scrisse Cassiano, colle sue forze mantenersi casto, senza la divina assistenza: e perciò in questo combattimento bisogna domandarla al Signore con tutti gli affetti del cuore: Impossibile est hominem suis pennis ad huiusmodi virtutis praemium evolare, nisi eum gratia evexerit: idcirco adeundus est Dominus et ex totis praecordiis deprecandus. Onde scrisse s. Cipriano che il primo mezzo per ottenere la castità è il domandare a Dio il di lui aiuto: Inter haec media ad obtinendam castitatem, imo et ante haec omnia de divinis castris auxilium petendum est [72]. E prima lo disse Salomone: Et ut scivi quoniam aliter non possem esse continens, nisi Deus det, et hoc ipsum erat sapientiae scire cuius esset hoc donum; adii Dominum et deprecatus sum illum et dixi ex totis praecordiis meis [73].
    Subito dunque, ci avverte s. Cipriano, ai primi solletichi sensuali con cui ci assalta il demonio dobbiamo resistere e non permettere che la serpe, cioè la tentazione, da picciola si faccia grande: Primis diabolis titillationibus obviandum est, nec coluber foveri debet donec in serpentem formetur [74]. Lo stesso avverte s. Girolamo: Nolo sinas cogitationes crescere; dum parvus est hostis interfice [75]. È facile uccidere il leone quando è picciolo; ma è difficile quando è grande. Guardiamoci pertanto in questa materia dal metterci a discorrere colla tentazione: subito senza discorrere procuriamo di scacciarla. E come dicono i maestri di spirito, il miglior modo per discacciar tali tentazioni di senso non è già di combattere direttamente da faccia a faccia col mal pensiero, facendo atti contrarj di volontà, ma di sviarlo indirettamente con fare atti d'amore a Dio o di contrizione, od almeno con divertire la mente a pensare ad altre cose. Ma il mezzo in cui più allora dobbiam fidarci è il pregare e raccomandarci a Dio: subito allora, ai primi moti d'impurità, giova rinnovare il proposito di voler prima soffrir la morte che peccare; e immediatamente dopo bisogna ricorrere alle piaghe di Gesù Cristo per aiuto. Così han fatto i santi, che ancora eran di carne ed eran tentati, e così han vinto. Cum me pulsat, dicea s. Agostino, aliqua turpis cogitatio, recurro ad vulnera Christi: tuta requies in vulneribus Salvatoris [76]. Così anche s. Tomaso d'Aquino superò l'assalto di quella donna impudica, dicendo: Ne sinas, Domine Iesu, et sanctissima Virgo Maria.
    Giova molto anche allora il segnarsi col segno della croce sul petto. Giova ricorrere all'angelo custode ed al santo avvocato. Ma sopra tutto giova ricorrere a Gesù Cristo e alla divina Madre, invocando subito allora e più volte i loro santissimi nomi, finché non si senta abbattuta la tentazione. Oh che forza hanno i nomi di Gesù e di Maria contro gl'insulti disonesti! Tra le altre divozioni per conservar la castità è utilissima la divozione verso la s. Vergine, la quale vien chiamata mater pulcrae dilectionis et custos virginitatis. Singolarmente è giovevolissima la divozione di recitare nel levarsi la mattina e nell'andare a letto la sera tre Ave alla purità di Maria. Narra il p. Segneri che un giorno andò a confessarsi dal p. Nicola Zucchi della compagnia di Gesù un peccatore tutto infangato d'impurità: questo padre gli diè per rimedio che in ogni mattina e sera non avesse lasciato mai di raccomandarsi alla purità di Maria colle suddette tre Ave. In capo a più anni quel peccatore, dopo aver girato il mondo, ritornò a piedi del nominato padre e, confessandosi di nuovo, dimostrò d'essersi in tutto emendato. Gli dimandò il padre come avea fatta sì bella mutazione: rispose d'avere ottenuta la grazia per mezzo di quella piccola divozione delle tre Ave. Il p. Zucchi, colla licenza del penitente, disse un giorno dal pulpito questo fatto. L'intese un certo soldato che tenea attualmente una mala pratica: cominciò a dire ogni giorno le tre Ave Maria; ed ecco che presto coll'aiuto della divina Madre lasciò la pratica. Ma un giorno, spinto da falso zelo, volle andare a trovar quella donna col pensiero di convertirla; ma quando fu per entrare alla di lei casa si sentì dare una grande spinta e si ritrovò trasportato in altro luogo, molto da quella casa lontano. Allora egli conobbe, e ne ringraziò la sua benefattrice, che l'essere stato impedito di andare a parlar colla donna era stata una special grazia impetratagli da Maria, perché, se si fosse posto di nuovo all'occasione, facilmente sarebbe ricaduto.

    NOTE

    [1] Eccli. 26. 20.
    [2] Lib. 1. de virgin.
    [3] Matth. 22. 30.
    [4] Cassian. lib. 6. Instit.
    [5] Ep. 22.
    [6] Lib. de virgin.
    [7] L. 1. de offic. c. 5.
    [8] Lev. 18. 20.
    [9] Pastor. part. 1. c. ult.
    [10] Appr. mons Sperell. part. 1. rag. 17.
    [11] L. 3. Stromat.
    [12] S. Aug. serm. 249. de temp.
    [13] Cant. 2. 1.
    [14] Cant. 2. 16.
    [15] De sacerd. lib. 3. cap. 4.
    [16] De modo bene vivendi. cap. 22.
    [17] In. c. A multis, de aetate et qual. ord.
    [18] L. 1. ep. 42.
    [19] 1. Cor. 7. 32. et. 33.
    [20] L. de virginit.
    [21] Epist. 10. ad Herod.
    [22] Iob. 40. 11.
    [23] Tract. de honor. mulier.
    [24] De spirit. an.
    [25] Petr. Blessens. in ps. 40. v. 1.
    [26] 2. Cor. 4. 7.
    [27] Sap. 8. 21
    [28] Eccli. 3. 27.
    [29] Serm. 350. de temp.
    [30] Prov. 6. 27. et 28.
    [31] Eccli. 21. 2.
    [32] De s. Ios.
    [33] Ier. 9. 21.
    [34] L. 6. de sacerd. c. 5.
    [35] Iob. 31. 1.
    [36] Eccli. 9. 5.
    [37] 1. Cor. 11. 10.
    [38] Epist. ad Nepot.
    [39] In. c. 1. epist. ad Tit.
    [40] Eccl. 42. 12.
    [41] Ib. v. 13.
    [42] Serm. 2. in dom. 29.
    [43] Dial. l. 4. c. 2.
    [44] 3. Reg. 11. 4.
    [45] Serm. 26. in Cant.
    [46] Prov. 5. 8.
    [47] In ps. 50.
    [48] Tom 8. in ps. 50.
    [49] Ier. 46. 12.
    [50] Apud s. Thom. opusc. de modo confit. a. 2.
    [51] L. 1. ep. 320.
    [52] c. 4. serm. 10.
    [53] Eccl. 23. 29.
    [54] 16. 49.
    [55] S. Isidor. de contemptu mundi.
    [56] Epist. 4. ad Rust.
    [57] L. contra Iovin.
    [58] 1. Cor 9. 27.
    [59] Cant. 2. 2.
    [60] Prov. 31. 4.
    [61] Oseae 4. 11.
    [62] Luc. 1. 15.
    [63] 1. Tim. 5. 23.
    [64] De prof. relig, l. 2. c. 52.
    [65] Ps. 118. 67.
    [66] Epist. 42. c. 15.
    [67] De s. virgin. c. 51.
    [68] De castit. gradu 15.
    [69] Luc. 18. 1.
    [70] Matth. 7. 7.
    [71] 3. p. q. 39. art. 5.
    [72] De bono pudic.
    [73] Sap. 8. 21.
    [74] De ieiun.
    [75] Epist. 22.
    [76] Medit. c. 22.

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    Predefinito Una storia edificante

    Il sangue e la Fede

    Domenico Savino


    18/01/2006

    Il Servo di Dio Rolando Rivi per la cui causa di beatificazione la Congregazione per le cause dei santi ha dato il nulla osta il 30 settembre 2005

    Sabato 7 gennaio scorso si è aperto nella chiesa di Sant’ Agostino a Modena il processo informativo diocesano del servo di Dio Rolando Rivi per dare inizio con i giuramenti del vescovo e del Tribunale ecclesiastico al processo canonico di beatificazione e canonizzazione.
    La grande chiesa barocca era stracolma di gente, ammassata fin sugli altari laterali, presenti autorità civili e militari.
    La storia di Rolando è una delle più tragiche della guerra civile e si accompagna a quella dei 130 sacerdoti che tra il 1944 ed il 1947 vennero uccisi dai partigiani comunisti per odio alla fede cattolica.
    Rolando Rivi nacque il 7 gennaio 1931 nella casa detta del Poggiolo a San Valentino, un piccolo borgo vicino a Castellarano in provincia di Reggio Emilia, da Roberto e Albertina Canovi.
    Quel giorno era a Reggio Emilia - e lo è oggi in tutta Italia - la festa del tricolore, vessillo che venne adottato per la prima volta nel 1797 proprio nel capoluogo emiliano quale stendardo della Repubblica Cispadana.
    Quel bambino avrebbe onorato la sua terra e la patria che adottò quella bandiera, ma il vessillo sotto il quale avrebbe militato non sarebbe stato il massonico tricolore, ma quello di Cristo re e sacerdote.
    Il giorno dopo la nascita i genitori lo battezzarono con il nome di Rolando.
    Prima di uscire dalla chiesa, lo portarono all’altare della Madonna e gli diedero anche il nome di Lei, sicchè il piccolo si chiamò Rolando Maria Rivi.

    Il padre e la madre erano originari di Levizzano, località del comune di Baiso e si erano trasferiti all’inizio del ‘900 a San Valentino.
    La famiglia del ramo materno era nota nella zona per l’onestà, la laboriosità e soprattutto per la forte fede cattolica ed era soprannominata «i Pater», in riferimento al «Pater noster», che essi recitavano spesso con la corona del rosario tra le mani.
    Il padre di Rolando, Roberto, militante dell’allora gloriosa Azione Cattolica, era anch’egli molto religioso, assiduo alla santa Messa, che frequentava con devozione particolare secondo l’invito
    del santo Pontefice Pio X.
    Rolando era un bambino sano ed esuberante.
    Proprio questa sua vivacità metteva talvolta in ansia i genitori e la nonna, che meglio di altri ne aveva intuito il temperamento, ed era solita dire: «Rolando, o diventerà un mascalzone o un santo! Non può percorrere una via di mezzo...».
    Nel gennaio 1934 morì il parroco di san Valentino don Iemmi e nel maggio dello stesso anno giunse come nuovo parroco, don Olinto Marzocchini, che aveva allora 46 anni.
    Sacerdote zelante nel suo ministero, divenne per il piccolo Rolando un fondamentale punto di riferimento.
    Quando assisteva alla Messa, il piccolo non perdeva un gesto del sacerdote e seppure molto piccolo cominciò a fare il chierichetto.
    Don Olinto era un prete vero: passava lunghe ore in preghiera davanti al Santissimo, curava meticolosamente il catechismo dei fanciulli, istruiva i chierichetti per il servizio all’altare e aveva messo su un coro per dare solennità alla liturgia.
    Fu anche attraverso di lui che Rolando imparò ad amare Gesù e a scoprire che abitava, vivo, nel tabernacolo.

    Nell'ottobre 1937 Rolando iniziò le scuole elementari.
    La sua maestra, Clotilde Selmi, donna molto devota anch’essa, parlava spesso di Gesù ai bambini
    e sempre li invitava all’adorazione eucaristica.
    In parrocchia la catechista di Rolando era Antonietta Maffei, delegata dei fanciulli di Azione Cattolica che preparava con scrupolo le «adunanze settimanali» (come si chiamavano allora).
    Anche grazie a loro Rolando fu ammesso a ricevere l’Eucaristia subito, a giugno, perché era tra i fanciulli che si erano preparati meglio e più in fretta.
    Ne provò una grande gioia e il 16 giugno 1938, festa del Corpus Domini, ricevette per la prima volta Gesù.
    Le testimonianze concordano sul fatto che dopo la prima Comunione Rolando era cambiato.
    Pur rimanendo un ragazzo vivace, i familiari notarono in lui una maturazione profonda, che si accentuò dopo aver ricevuto la Cresima, il 24 giugno 1940.
    Era solito accostarsi tutte le settimane alla Confessione e alzarsi prestissimo la mattina per servire la messa e ricevere la Comunione, invitando anche i compagni a fare altrettanto: «vieni - diceva loro - Gesù ci aspetta. Gesù lo vuole!».
    Riferiva che il sacerdote sull’altare, quando consacrava il pane e il vino, gli appariva grande da toccare il cielo.
    Fu così che la chiamata al sacerdozio si fece via via più intensa, accompagnandolo per tutto il ciclo delle scuole elementari, fino a quando a 11 anni lo disse in casa: «voglio farmi prete, per salvare tante persone. Poi partirò missionario per far conoscere Gesù lontano, lontano».

    Entrò nel Seminario di Marola nell'autunno del 1942 e come si usava a quei tempi vestì subito l’abito talare.
    Ne era fiero e fu anche questo amore per l’abito talare a segnare la sua fine...
    Nel periodo trascorso in seminario il ragazzo si distinse per diligenza, mantenendo sempre ferma la decisione di diventare sacerdote.
    Quando tornava a casa, aiutava i genitori nei lavori in campagna e in chiesa suonava l’armonium, accompagnando il coro parrocchiale nel quale cantava anche suo padre.
    Intanto la guerra si faceva via via più aspra, anche perché proprio in quelle zone massiccia era la presenza di formazioni partigiane, formatesi dopo la caduta del fascismo e la tragica esperienza dell’8 settembre del 1943, che aveva portato all’occupazione da parte tedesca della penisola.
    A parte gruppi minoritari di cattolici democratici, le fila partigiane erano composte da comunisti, socialisti, azionisti, tutti accomunati da una forte ideologia anticattolica.
    La frangia più estrema, quella comunista, non si limitava a combattere i tedeschi.
    Vedeva nel clero un pericoloso argine al proprio progetto rivoluzionario.
    L’anticlericalismo diventò violento e si fece via via più minaccioso.
    Quando nel 1944 i tedeschi occupano il seminario di Marola, tutti i ragazzi dovettero rientrare alle loro case, portando con sé i libri per poter continuare a studiare.
    Rolando continuò a sentirsi seminarista: oltre a studiare, frequentava quotidianamente la Messa e la Comunione, recitava il rosario, pregava, faceva visita al Santissimo Sacramento.
    Nonostante fosse stato consigliato diversamente, non smise mai di portare il suo abito religioso: i genitori, infatti, gli dicevano: «togliti la veste nera. Non portarla per ora ...».
    Ma Rolando rispondeva: «ma perché? Che male faccio a portarla? Non ho motivo di togliermela». Gli fecero notare che forse era conveniente farlo in quei momenti, così insicuri.
    Replicò Rolando: «io studio da prete e la veste è il segno che io sono di Gesù».
    Un atto d’amore che pagherà con la vita.

    A San Valentino dapprima fu preso di mira il parroco don Marzocchini.
    Una mattina si venne a sapere che durante la notte precedente, alcuni partigiani l’avevano aggredito e umiliato.
    Poiché già altri sacerdoti (don Luigi Donadelli, don Luigi Ilariucci, don Aldemiro Corsi e don Luigi Manfredi) erano stati uccisi dai partigiani comunisti, don Marzocchini fu spostato in un luogo più sicuro e venne sostituito in parrocchia da un giovane prete, don Alberto Camellini.
    Il 1 aprile, tuttavia, don Marzocchini volle ritornare in parrocchia a San Valentino, ma al suo fianco rimase il giovane curato don Camellini, verso il quale Rolando aveva dimostrato subito grande simpatia.
    Il 10 aprile, martedì dopo la domenica in Albis, al mattino presto, il ragazzo era già in chiesa: si celebrava la Messa cantata in onore di san Vincenzo Ferreri e Rolando vi partecipò, suonando l’organo.
    Terminato il rito, prima di uscire, prese accordi con i cantori, per «cantare Messa» anche il giorno seguente.
    Uscito di chiesa, mentre i suoi genitori si recarono a lavorare nei campi, Rolando, con i libri sottobraccio, si diresse come al solito a studiare nel boschetto a pochi passi da casa.
    Indossava, come sempre, la sua talare nera.
    A mezzogiorno i suoi genitori l’attesero invano per pranzo.
    Preoccupati l’andarono a cercare.
    Tra i libri sull’erba trovarono un biglietto: «non cercatelo. Viene un momento con noi. I partigiani».
    Il papà e il curato don Camellini, in forte ansia, cominciarono allora a girare nei dintorni alla ricerca del ragazzo.
    Frattanto Rolando, trascinato via dai partigiani in un loro covo nella boscaglia, iniziava la sua «via crucis».
    Venne spogliato della veste talare che li irritava, insultato, percosso con la cinghia sulle gambe e schiaffeggiato.
    Rimase per tre giorni nelle mani dei suoi aguzzini, ascoltando bestemmie contro Cristo, insulti contro la Chiesa e contro il sacerdozio.
    Secondo alcuni testimoni sarebbe stato frustato e avrebbe subito altre indicibili violenze.
    Tra i rapitori pare che qualcuno si commosse, proponendo di lasciarlo andare.
    Ma altri si rifiutarono, minacciando di morte chi aveva fatto la proposta del rilascio.

    Prevalse l’odio per la Chiesa, per il sacerdote, per l’abito che lo rappresenta e che quel ragazzino non si era mai voluto togliere.
    Decisero di ammazzarlo: «avremo domani un prete in meno».
    Lo portarono, sanguinante, in un bosco presso Piane di Monchio (in provincia di Modena), dove c’era una fossa già scavata.
    Rolando capì che stava per morire, pianse, chiedendo di essere risparmiato.
    Con un calcio lo scaraventarono a terra.
    Allora chiese di pregare un’ultima volta.
    Si inginocchiò, poi due scariche di rivoltella lo fecero rotolare nella buca.
    Venne coperto con poche palate di terra e di foglie secche.
    La veste del «pretino» divenne un pallone da calciare; poi sarà appesa, come trofeo di guerra, sotto il porticato di una casa vicina.
    Era venerdì 13 aprile 1945, ricorrenza del martirio del giovane sant’Ermenegildo (585 dopo Cristo). Rolando aveva quattordici anni e tre mesi. Per tre giorni i genitori e don Camellini lo cercarono lungo tutto quel tratto del crinale appenninico, finché alcuni partigiani li indirizzarono a Piane di Monchio.
    Qui incontrarono un capo partigiano comunista, cui chiesero: «dov’è il seminarista Rivi?»
    Quello rispose: «è stato ucciso qui, l’ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo».
    E indicò il luogo dove il giovanetto era stato sepolto il giorno prima.
    Don Camellini domandò ancora al partigiano: «ha sofferto molto?».
    Quello, mostrandogli la sua rivoltella, replicò beffardo: «con questa non si soffre molto. Non si sbaglia».
    Era la sera di sabato 14 aprile 1945.

    Raggiunto il posto dell’omicidio, il sacerdote non fece fatica a recuperare il cadavere del ragazzo, con indosso solo una maglietta e un paio di calzoni sdruciti, legati al ginocchio.
    Aveva due ferite: una alla tempia sinistra e l’altra sulla spalla in corrispondenza del cuore.
    Il volto, sporco di terra, era coperto di lividi; il suo corpo martoriato.
    Il padre si inginocchiò vicino al suo bambino e lo strinse, piangendo a dirotto, tra le braccia.
    Due contadini del posto fabbricarono alla bell’e meglio una cassa di legno.
    Don Camellini lavò il volto di Rolando, lo asciugò con il suo fazzoletto e lo compose nella povera bara.
    Era notte ormai, sicché solo la mattina dopo, seconda domenica dopo Pasqua, «domenica del Buon Pastore», il corpo di Rolando fu portato in chiesa a Monchio, dove don Camellini celebrò la Messa per l’anima di Rolando.
    Alla presenza del padre Roberto e di don Camellini, il parroco di Monchio scrisse in latino sul registro parrocchiale l’atto di morte e di sepoltura di Rolando.
    «15 aprile 1945. Rivi Rolando, figlio di Roberto e di Canovi Albertina, celibe, di San Valentino (Reggio Emilia), qui, per mano di uomini iniqui, a 14 anni di età, alle ore 19, in comunione con santa madre Chiesa, rese la sua anima a Dio.
    Il suo cadavere, oggi, fatte le sacre esequie e celebrata la Messa, è stato sepolto nel cimitero parrocchiale». (1)
    Il padre di Rolando e il curato di San Valentino tornarono mestamente al paese, a recare la notizia terribile alla madre che lì aveva aspettato invano.
    La terribile notizia si diffuse rapidamente in paese, lasciando la gente sgomenta di fronte a quella barbarie.

    A guerra terminata, una grande folla di parrocchiani martedì 29 maggio 1945, attese a San Valentino l’arrivo della salma, traslata in località Montadella.
    La chiesa accolse in silenzio e commozione il piccolo martire.
    Ucciso in odio alla fede, la sua causa di canonizzazione ha dovuto attendere 60 anni, fino al 7 gennaio scorso.
    Quando il 25 maggio del 1945 il suo corpo era stato tumulato nel cimitero di San Valentino, le parole del suo parroco, don Olinto Marzocchini, erano state brevi ed intense: «non bastano le nostre lacrime a piangere Rolando… Ma guardate a Cristo che è la resurrezione e la vita.
    Lui asciughi le lacrime dai nostri occhi».
    Questa la fede semplice di chi per essa era disposto a dare la vita, di chi in Cristo ci credeva davvero.
    «Era stato lui - è scritto in un libro distribuito in fondo alla chiesa dal «Comitato amici di Rolando Rivi« al termine della cerimonia religiosa di sabato 7 gennaio - a preparare quel trionfo al figlio prediletto, a quel ragazzo aspirante al sacerdozio, caduto innocente sotto il piombo di uomini empi, come i ragazzi e i giovani cattolici martiri in Russia, in Messico e in Spagna, nelle recenti persecuzioni sotto l’odio massonico e comunista». (2)

    Domenico Savino

    ------------------------------------------------------------------------
    Note

    (1) «Die decima quinta mensis aprilis 1945. Rivi Rolandus, filius Ruperti et Canovi Albertinae, statu celebs, e S. Valentino (Regii Lepidi) hic, aetate annorum 14, die 13 aprilis currentis, hora 19, per manus hominum iniquorum, in Comunione Sanctae Matris Ecclesiae, animam Deo reddidit. Cadaver autem eius, hodie, sacris persolutis exequiis, ac Missa celebrata, in coemeterio parochiali, sepultum est»
    (2) Paolo Risso, «Rolando Rivi, un ragazzo per Gesù», Edizioni Del Noce, 2004.

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    Predefinito

    Quei preti devoti all’esibizionismo

    di Alessandro Maggiolini


    Sulla figura del prete si può partire per un ampio e alto volo di teologia per scoprire che cosa suggerisce la Scrittura sulla realtà del sacerdozio cattolico e poi per ordinare gli spunti raccolti in una sintesi che offra una visione teologica completa e profonda. Non sono queste le finalità di un articolo di giornale. Meglio prendere un dizionario biblico o teologico e spaccarsi la testa sugli spunti che la Bibbia offre e la Patristica raccoglie e la Scolastica ordina con la maggior logicità possibile.

    Stiamo a ciò che vediamo attorno a noi oggi, nella vita usuale. Come si vede il prete? Come lo si desidererebbe?

    Intanto, è da distinguere la pubblicistica popolare che dilaga sui giornali e sui settimanali circa il prete: anche la rappresentazione filmica, letteraria o umoristica: distinguere tutto ciò dalla realtà che si incontra senza trasfigurazioni e senza caricature. Molti notisti avvertono, di questi tempi, che raramente il sacerdote ha avuto tanta pubblicità. E non certo per invitare a intraprendere la via della consacrazione in seminario o oltre. L’immagine sacerdotale compare assai più spesso nelle vignette umoristiche, negli articoli di costume, nelle riflessioni un po’ svagate e un po’ irridenti che mostrano il ministro di Dio come una figura desueta, estranea agli schemi della moda corrente e dello stile di pensiero e di vita comuni. Si vada oltre: un certo vezzo di descrizione e di disegno del prete non si arresta nemmeno all’umorismo: passa a piè pari alla presa in giro più grossolana quand’anche non al disprezzo più volgare. L’umorismo è arte difficile: soprattutto quando lambisce temi sacrali come la talare, la predicazione e la celebrazione dei sacramenti.

    Qualche segno di disprezzo o di oltraggio, però, questa insistenza dissacrante l’ha lasciata. Allora quello che doveva essere umorismo diviene sarcasmo e si traduce in un allontanamento da ciò che il prete è, fa e insegna. Non è raro che anche giovani pressoché analfabeti in fatto di cristianesimo si sentano in diritto di sdottorare su un «sentito dire cristiano» che di cristiano non ha assolutamente nulla. Il tema della libertà diviene qui prevalente e la norma morale avanza verso la ribalta della vita e appare come una prigione che disprezza l’uomo e lo mortifica. Poi le cose appariranno in modo diverso. Ma intanto occorre fare i conti con questa situazione.

    Il tema va considerato anche «ex parte inferi» perché non si risolva in una celebrazione immotivata. Ciascuno conosce sacerdoti dotti, prudenti, capaci di ascolto e di comprensione, protesi a comunicare consolazione e a dare speranza. Così come conosco altri preti che, senza darsi l’aria di monaci un po’ goffi e malriusciti, riescono ad inserirsi nella società contemporanea e soprattutto nel mondo dei giovani: veste talare compresa. Molti nostri parroci raggiungono una tale semplicità da essere capaci di dialogare anche con le persone meno addottorate e tuttavia desiderose di certezze chiare capaci di scavare dei caratteri umani e cristiani sulla traccia del Vangelo.

    Mettiamo che questa sia la norma. Ad attirare un’attenzione curiosa e quasi morbosa, però, sono altri sacerdoti: quelli che mettono ogni cura per camuffarsi da operai, da contadinotti, da sindacalisti, da sportivi, o da disinvolti contestatori del pensare e del vivere comune. Gesù Cristo sembra escluso dal loro linguaggio. Conoscono tutto sulle canzonette e sullo sport. Non esitano a sorpassare il limite delle barzellette spinte, pur di apparire come gli altri e più aggiornati degli altri nelle scemenze più deludenti. Non si vedono mai davanti al Signore a pregare con attenzione e con occhi e cuore fissi al tabernacolo. Non si lasciano irretire in discorsi su valori anche umani e non solo cristiani. Si mostrano conversatori disinibiti. Se proprio vogliono oltrepassare i limiti delle vacuità, i loro interessi si rivolgono ai margini dell’umanità normale: si dedicano, ma in maniera esibizionistica ai poveri, ai portatori di handicap, ai drogati e così via. Purché questi marginali abbiano la capacità di spogliare il prete della propria fisionomia e della propria missione.

    Il giorno dopo i fatti, osservano subito il giornale per controllare l’eco che hanno avuto le loro bravate. I ragazzi non imparano quasi nulla da loro né circa il Vangelo né circa il catechismo: roba vecchia e ininfluente. A me uno dei fenomeni più traumatici è dato dal fatto che il tradimento di qualche prete rispetto ai suoi impegni sacri è visto quasi con approvazione e con compiacimento da persone che hanno salutato Dio da lontano.

    Fonte: Il Giornale, 28.8.2007

 

 
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