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    Predefinito 12 marzo (3 settembre) - S. Gregorio I Magno, Papa

    Dal sito SANTI E BEATI:

    San Gregorio I, detto Magno, Papa e dottore della Chiesa

    3 settembre - Memoria

    Roma, 540 - 12 marzo 604

    (Papa dal 03/09/590 al 12/03/604)
    Già prefetto di Roma, divenne monaco e abate del monastero di sant'Andrea sul Celio. Eletto papa, ricevette l'ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nella tutela delle popolazioni angariate dai barbari, nell'azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medioevo. (Mess. Rom.)

    Nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant'Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l'ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell'azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Morì il 12 marzo 604. (Avvenire)

    Patronato: Cantanti, Musicisti, Papi

    Etimologia: Gregorio = colui che risveglia, dal greco

    Emblema: Colomba, Gabbiano

    Martirologio Romano: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.
    (12 marzo: A Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).

    Martirologio tradizionale (12 marzo): A Roma san Gregorio primo, Papa, Confessore ed esimio Dottore della Chiesa, il quale, per le ammirabili gesta e per aver convertito gli Inglesi alla fede di Cristo, è stato detto Magno e soprannominato Apostolo dell’Inghilterra.

    (3 settembre): Così pure a Roma l'Ordinazione a Sommo Pontefice dell'incomparabile uomo san Gregorio Magno, il quale, costretto a portare quel peso, dall'alto trono rifulse nel mondo con i più fulgidi raggi di santità.

    In papa Gregorio si ritrovano, in grado eminente, tutte le qualità dell'uomo di governo, il senso del dovere, della misura e della dignità. In lui lo storico protestante Harnack ammira "la saggezza, la giustizia, la mitezza, la forza di iniziativa, la tolleranza", e Bossuet lo ritiene "il modello perfetto di come si governa la Chiesa". S. Gregorio Magno era nato per diventare papa. La famiglia Anicia, cui egli apparteneva, era una delle principali di Roma. Alla morte di suo padre Gordiano, Gregorio, ancor giovanissimo (era nato verso il 540), era già "praefectus urbis". Ammiratore dell'eccezionale figura di S. Benedetto, decise ben presto di trasformare i suoi possedimenti a Roma (sul Celio) e in Sicilia in altrettanti monasteri. Ma egli stesso non vi potè dimorare a lungo, poiché il papa Pelagio Il lo inviò come apocrisario, cioè come nunzio, a Costantinopoli. Rientrato nella quiete del monastero sul Celio, ne godette per pochissimo tempo, chiamato al supremo pontificato dall'entusiasmo del popolo e dalle insistenza del clero e del senato di Roma.
    Fisicamente non era un colosso e la salute sua fu sempre cagionevole: la sua prima serie di Omelie sul Vangelo la dovette leggere un notaio, per l'impossibilità di tenersi ritto. E tuttavia la sua attività, in quattordici anni scarsi di pontificato (dal 3 settembre 590 al 12 marzo 604), ha dell'incredibile: organizza la difesa di Roma minacciata da Agilulfo, col quale intesse poi rapporti di buon vicinato; amministra la cosa pubblica con puntigliosa equità, supplendo all'incuria dei funzionari imperiali; ha cura degli acquedotti; favorisce l'insediamento dei coloni eliminando ogni residuo di servitù della gleba; animato da zelo, promuove la missione in Inghilterra di S. Agostino di Canterbury. Capace di allargare lo sguardo oltre i confini della cristianità, non sdegnava le cure minute della vita quotidiana. Poco prima di morire trovò il modo di far pervenire al vescovo di Chiusi un mantello per l'inverno.
    L'epistolario (ci sono pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo ci documentano ampiamente sulla sua molteplice attività. Ovunque ha lasciato un'impronta, basti ricordare in campo liturgico la promozione del canto "gregoriano". La sua familiarità con la Sacra Scrittura appare dalle Omelie su Ezechiele e sul Vangelo, mentre i Moralia ne attestano l'ammirazione per S. Agostino. Profondo influsso nella spiritualità ha esercitato, insieme alla Vita di S. Benedetto, il suo Liber regulae pastoralis, stimolante ancor oggi.

    Autore: Piero Bargellini


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    Adriaen Isenbrant, Messa di S. Gregorio Magno, Museo del Prado, Madrid

    Matthias Stom, S. Gregorio Magno, Öffentliche Kunstsammlung, Basilea

    Giovanni Battista Crespi, S. Gregorio Magno celebra la Messa per l'anima di un monaco, 1617, Chiesa di S. Vittore, Parese

    Lorenzo Lotto, Vergine col Bambino con i SS. Domenico, Gregorio Magno e Urbano, 1508, Pinacoteca Comunale, Recanati

    Michael Pacher, Altare dei quattro Padri della Chiesa (Girolamo, Agostino, Gregorio Magno e Ambrogio), 1483 circa, Alte Pinakothek, Monaco

    Sebastiano Ricci, Altare di S. Gregorio Magno, Basilica di S. Giustina, Padova

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    Carlo Saraceni, S. Gregorio Magno, 1610 circa, Galleria Nazionale d'Arte Antica, Roma

    Carlo Saraceni, S. Gregorio Magno scrive assistito dallo Spirito Santo

    Francisco Goya y Lucientes, S. Gregorio Magno, 1772-82, Chiesa parrocchiale di San Juan Bautista, Remolinos

    Francisco Goya y Lucientes, S. Gregorio Magno, 1796-99, Museo Romántico, Madrid

    Sebastiano Ricci, S. Gregorio Magno in meditazione, 1730 circa, Staatliche Museen, Berlino

    Francisco de Zurbarán, S. Gregorio Magno, 1626, Museo BB.AA., Siviglia

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    Predefinito Dal Commento sul libro di Giobbe di san Gregorio Magno.

    Moralia in Iob, V, 61-64; XVIII, 88-89; IV, 45-46, in PL 75, 712-714; PL 76, 92-93; 75, 659-660.

    L'anima umana fu espulsa dalla gioia del paradiso per il peccato dei progenitori e da allora, perduta la luce delle realtà invisibili, si è votata ad amare quelle visibili. Quanto essa malamente si disperde all'esterno, altrettanto rimane cieca per la contemplazione interiore. Perciò non è capace di conoscere se non quello che viene come palpando con gli occhi del corpo.

    L'uomo sarebbe rimasto spirituale anche nella carne se avesse voluto osservare i precetti di Dio; ma commettendo il peccato, è divenuto carnale anche nella mente. Non può infatti concepire i pensieri se non per mezzo di immagini che trae dalle realtà corporee, cielo, terra, animali e quanto è visibile.

    In continuazione egli ha davanti agli occhi tutte queste realtà e quando la mente ci trova gusto e si immerge in esse, perde la finezza dell'intelligenza interiore. Impotente ad elevarsi verso le somme realtà, si compiace e languisce in quelle inferiori.

    Quando l'anima con sforzi straordinari cerca di emergere dal suo misero stato, è già molto se arriva a una conoscenza di sé scevra da immagini materiali; questa però e la condizione necessaria per aprire l'intelligenza alla considerazione della sostanza eterna.

    Quando l'anima può concepire sé stessa senza far ricorso alle immagini terrestri, si serve di questa pura conoscenza come di una scala per elevarsi fino al suo Creatore. La mente, la quale ha abbandonato ogni immagine corporea per rientrare in sé stessa, ha davvero compiuto un bel cammino.

    Benché l'anima sia incorporea, dipende tuttavia dal luogo, perché è unita a un corpo situato nel tempo e nello spazio. Quando essa dimentica quel che sapeva, conosce cose nuove, ricorda quelle dimenticate, passa dalla tristezza alla serenità e dalla letizia all'avvilimento, allora si rende conto quanto sia lontana dalla sostanza immutabile ed eterna di Dio.

    Tutte quelle fluttuazioni indicano che la natura dell'anima è ben diversa dalla sostanza di Dio, sempre uguale a sé stesso, presente interamente dovunque, invisibile e incomprensibile. Ecco perché la mente che anela a Dio, lo contempla senza che egli abbia figure visibili, lo ode senza che abbia voce, lo riceve senza che abbia movimento, lo tocca senza che abbia corpo, lo trattiene senza che sia in qualche luogo.

    Quando la mente, avvezza alle cose materiali, vuole pensare alla sostanza invisibile di Dio, è assediata da un cumulo di immagini concrete. Se però con la mano del discernimento riesce a scacciare queste immagini dai suoi occhi spirituali, e tutto pospone al pensiero dell'essenza divina, allora in qualche modo riesce a contemplarla.

    A questo livello la mente non è ancora capace di cogliere ciò che è Dio, ma almeno conosce con certezza ciò che non è. Pensieri nuovi e inconsueti sorgono allora dalla mente, che si sforza di penetrare in Dio.

    In Giobbe sta scritto: Stava ritto uno, di cui non riconobbi l'aspetto (Gb 4,16). Quello "star ritto" esprime bene la stabilità e l'immutabilità di Dio. Le creature irrazionali hanno un'esistenza mutevole ed effimera, perché vengono dal nulla e ad esso tendono di nuovo. La creatura ragionevole, al contrario, ha una stabilità che le impedisce di tornare nel nulla, perché è creata a immagine dei Creatore.

    Le creature irrazionali non hanno l'essere fisso e stabile, ma il loro corso passeggero è soltanto rallentato, finché la loro manifestazione serve a completare la bellezza dell'universo. Il cielo e la terra sussisteranno si in eterno. tuttavia adesso corrono al nulla, compiendo la loro funzione specifica, fino a che siano rinnovati e ricreati in uno stato migliore.

    Solo il Creatore è immutabile: tutte le altre realtà passano, regolate da lui che non passa e ne trattiene alcune perché non siano destinate a passare.

    Quando perciò il nostro Redentore vide che la mente umana era incapace di concepire la divinità che non muta, volle venire da noi come un essere che passa. Si degnò scendere sulla terra, nascervi, morirvi, esservi sepolto, risorgere e ritornare in cielo.

    Questo è ben espresso nel passo dove Gesù ridà la vista a un cieco (Mt 9,27; 20,30). Il Signore lo udì gridare mentre stava passando, ma lo guarì quando si fermò. Gesù passa come uomo, ma si ferma secondo la sua natura divina che è dappertutto.

    Il vangelo sottolinea che Gesù, passando, ode le grida del nostro accecamento, perché come uomo ha compassione della nostra miseria. Invece quando si ferma, restituisce la luce al cieco, perché mediante la sua divinità immutabile illumina le tenebre della nostra infermità.

    Perciò in Giobbe a ragione sta scritto: Uno spirito mi passo davanti alla faccia. Stava ritto la uno, di cui non riconobbi l'aspetto (Gb 4, 15.16). Ciò significa: Ho sentito passare colui che non passa e che sta. Passa, perché con la nostra conoscenza non possiamo trattenerlo; sta, perché si rivela immutabile, per quanto lo conosciamo.

    Se in Giobbe si dice che Dio "sta ritto ciò significa che egli non muta, secondo quanto fu annunziato a Mosè: lo sono colui che sono ( Es 3,14)! San Giacomo lo intende come: Il Padre della luce, nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento (Gc 1,17).

    Se uno comprende qualcosa dell'eternità di Dio, l'ha capito grazie alla sua immagine coeterna. Ecco perché il testo di a Giobbe prosegue: L'immagine stava davanti ai miei occhi (Gb 4,16). Infatti il Figlio è l'immagine dei Padre. La Genesi lo suggerisce parlando della creazione dell'uomo e il sapiente lo esprime dicendo della Sapienza, cioè del Figlio di Dio: E' un riflesso della luce perenne (Sap 7,26).

    Quando si vede l'eternità di Dio, per quanto è possibile alla debolezza umana, i nostri occhi spirituali percepiscono anzitutto l'immagine del Padre, cioè il Figlio. Quando tendiamo davvero verso il Padre, tutto quello che siamo capaci di scorgerne passa attraverso la sua immagine.

    Questa immagine è nata da lui da tutta l'eternità e per essa noi ci sforziamo in qualche modo di arrivare a vedere colui che non ha né inizio né fine. Per questo Gesù, la verità eterna del Padre, dice nel vangelo: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me (Gv 14,6).

    La Sapienza, che è Dio stesso, è nascosta agli occhi dei viventi; anche se qualche mortale potè intravederla sotto forma di immagini circoscritte, nessuno mai la potè contemplare nella luce della sua essenza eterna, perché questa non è contenuta entro alcun limite.

    Si dice tuttavia che certi santi si innalzarono a una perfezione cosi sublime che penetrarono in quella luce eterna grazie alla forza della loro contemplazione. Ciò si collega alle parole di Giobbe: La sapienza e nascosta agli occhi di ogni vivente (Gb 28,21).

    Infatti, per contemplare la Sapienza,che è Dio stesso, occorre morire radicalmente all'amore di questo mondo. Nessuno di quelli che vivono ancora un'esistenza guidata dalla natura, ha mai visto Dio, perché è impossibile abbracciare Dio e il mondo insieme. Infatti chi vede Dio muore davvero di una morte spirituale, in quanto sa recidersi da tutte le gioie di questa vita con la realtà dei fatti, o almeno con l'intenzione del cuore.

    Spesso l'anima, pur vivendo ancora in un corpo mortale, avvampa di fuoco celeste; allora la mente che ha soggiogato ogni pensiero materiale, è rapita in Dio. Eppure non può contemplarlo cosi com'egli è in sé stesso, perché geme ancora in una carne corruttibile sotto il peso della condanna originaria.

    Talvolta capita che l'anima vorrebbe essere aspirata interamente in Dio, tanto da raggiungere direttamente la vita eterna, senza passare per la morte del corpo. Anche san Paolo anelava vivamente verso la luce interiore, sebbene trepidasse per il disfacimento del corpo. Scrisse perciò: Quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati ma sopravestiti, perché ciò che e mortale venga assorbito dalla vita (2 Cor 5,4).

    I santi bramano di pervenire al vero mattino dell'eternità e, se potessero, vorrebbero entrare nel secreto di quella intima luce senza lasciare il corpo. Tuttavia, per quanto si sforzino di elevarsi fino a Dio, restano sempre aggravati dalla notte della condizione mortale.

    Infatti il giudice giusto e supremo ha chiuso gli occhi spirituali della nostra carne corruttibile, privandoli di scorgere il fulgore della divinità, poiché un tempo il nemico dell'uomo li apri alla concupiscenza peccaminosa.

    Giobbe dice: Speri la luce e non venga; non veda schiudersi le palpebre dell'aurora (Gb 3,9).

    Durante il pellegrinaggio terreno, nonostante l'ardore impiegato, invano l'anima si sforza di contemplare la luce eterna come è in sé stessa, perché gliela nasconde l'accecamento dovuto alla sua prima condanna.

    Lo spuntare dell'aurora rappresenta la nuova nascita della risurrezione, in cui la Chiesa risusciterà anche nella carne e sorgerà per contemplare la gloria dell'eternità.

    Se la risurrezione della nostra carne non fosse come una nuova nascita, la Verità in persona non avrebbe annunziato quella nuova creazione. quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria (Mt 19,28). Con queste parole il Signore vide bene che si trattava del sorgere dell'aurora, poiché parlò di rigenerazione.

    Per quanto gli eletti splendano ora per le loro virtù, non possono concepire quale sarà la gloria di quella nuova nascita, allorché sorgeranno con la carne per contemplare la luce dell'eternità.

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    Predefinito Dalla costituzione dogmatica Lumen gentium del Con. Ecum. Vaticano II sulla Chiesa

    Lumen gentium, III, 19.20.23.25. AAS 57 (1965), 22-24.27-31.

    Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli voleva, e ne costitui dodici perché stessero con lui, e per mandarli a predicare il Regno di Dio; e questi apostoli li costitui a modo di collegio o ceto stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro.

    Li mandò prima ai figli d'Israele e poi a tutte le genti affinché, partecipi della sua potestà, rendessero tutti i popoli discepoli di lui, li santificassero e governassero, e cosi diffondessero la Chiesa e, sotto la guida del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni sino alla fine del mondo.

    E in questa missione furono pienamente confermati il giorno di Pentecoste, secondo la promessa del Signore: Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (At 1, 82).

    Gli apostoli, quindi, predicando dovunque il vangelo, accolto dagli uditori per mozione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale, che il Signore ha fondato sugli apostoli e ha edificato sul beato Pietro, loro capo, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare.

    La missione divina, affidata da Cristo agli apostoli, durerà sino alla fine dei secoli, poiché il vangelo, che essi devono predicare, è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di costituirsi dei successori.

    Infatti, non solo ebbero vari collaboratori nel ministero, ma perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, lasciarono quasi in testamento ai loro immediati cooperatori l'ufficio di completare e consolidare l'opera da essi incominciata: raccomandarono loro cioè, di attendere a tutto il gregge, nel quale lo Spirito Santo li aveva posti a pascere la Chiesa di Dio.

    Perciò si scelsero di questi uomini e in seguito diedero disposizione che, quando essi fossero morti, altri uomini esimi subentrassero al loro posto. Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione tiene il primo posto l'ufficio di quelli che costituiti nell'episcopato, per successione che decorre ininterrotta dall'origine, possiedono il tralcio del seme apostolico.

    Cosi, come attesta sant'Ireneo, per mezzo di coloro che gli apostoli costituirono vescovi e dei loro successori fino a noi, la tradizione apostolica in tutto il mondo è manifestata e custodita. I singoli vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale.

    Ma in quanto membri del Collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli, per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con atti di giurisdizione, sommamente contribuisce al bene della Chiesa universale.

    Tutti i vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l'unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa, istruire i fedeli all'amore di tutto il Corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia; devono infine promuovere ogni attività comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità.

    Del resto è certo che, reggendo bene la propria Chiesa come porzione della Chiesa universale, contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il Corpo mistico, che è pure il corpo delle Chiese.

    Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli, sono dottori autentici, cioè rivestiti della autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita. Essi illustrano questa fede alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della rivelazione cose nuove e vecchie, la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano.

    I vescovi, quando insegnano in comunione col romano Pontefice, devono essere da tutti ascoltati con venerazione, quali testimoni della divina e cattolica verità. E i fedeli devono accettare il giudizio del loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e aderirvi con religioso rispetto.

    Ma questo religioso rispetto di volontà e di intelligenza lo si deve particolarmente prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla "ex cathedra cosi che il suo supremo magistero sia con riverenza accettato, e con sincerità si aderisca alle sentenze da lui date, secondo l'intenzione e la volontà che egli ha manifestato. Essa si palesa specialmente sia dalla natura dei documenti, sia dal frequente riproporre la stessa dottrina, sia dal tenore della espressione verbale.

  6. #6
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    Predefinito Dalle «Omelie su Ezechiele» di san Gregorio Magno, papa

    (Lib. 1, 11, 4-6; CCL 142, 170-172)

    «Figlio dell'uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d'Israele» (Ez 3, 16). E' da notare che quando il Signore manda uno a predicare, lo chiama col nome di sentinella. La sentinella infatti sta sempre su un luogo elevato, per poter scorgere da lontano qualunque cosa stia per accadere. Chiunque è posto come sentinella del popolo deve stare in alto con la sua vita, per poter giovare con la sua preveggenza.
    Come mi suonano dure queste parole che dico! Così parlando, ferisco me stesso, poiché né la mia lingua esercita come si conviene la predicazione, né la mia vita segue la lingua, anche quando questa fa quello che può.
    Ora io non nego di essere colpevole, e vedo la mai lentezza e negligenza. Forse lo steso riconoscimento della mia colpa mi otterrà perdono presso il giudice pietoso.
    Certo, quando mi trovavo in monastero ero in grado di trattenere la lingua dalla parole inutili, e di tenere occupata la mente in uno stato quasi continuo di profonda orazione. Ma da quando ho sottoposto le spalle al peso dell'ufficio pastorale, l'animo non può più raccogliersi con assiduità in se stesso, perché è diviso tra molte faccende.
    Sono costretto a trattare ora le questioni delle chiese, ora dei monasteri, spesso a esaminare la vita e le azioni dei singoli; ora ad interessarmi di faccende private dei cittadini; ora a gemere sotto le spade irrompenti dei barbari e a temere i lupi che insidiano il gregge affidatomi.
    Ora debbo darmi pensiero di cose materiali, perché non manchino opportuni aiuti a tutti coloro che la regola della disciplina tiene vincolati. A volte debbo sopportare con animo imperturbato certi predoni, altre volte affrontarli, cercando tuttavia di conservare la carità.
    Quando dunque la mente divisa e dilaniata si porta a considerare una mole così grande e così vasta di questioni, come potrebbe rientrare in se stessa, per dedicarsi tutta alla predicazione e non allontanarsi dal ministero della parola?
    Siccome poi per necessità di ufficio debbo trattare con uomini del mondo, talvolta non bado a tenere a freno la lingua. Se infatti mi tengo nel costante rigore della vigilanza su me stesso, so che i più deboli mi sfuggono e non riuscirò mai a portarli dove io desidero. Per questo succede che molte volte sto ad ascoltare pazientemente le loro parole inutili. E poiché anch'io sono debole, trascinato un poco in discorsi vani, finisco per parlare volentieri di ciò che avevo cominciato ad ascoltare contro voglia, e di starmene piacevolmente a giacere dove mi rincresceva di cadere.
    Che razza di sentinella sono dunque io, che invece di stare sulla montagna a lavorare, giaccio ancora nella valle della debolezza?
    Però il creatore e redentore del genere umano ha la capacità di donare a me indegno l'elevatezza della vita e l'efficienza della lingua, perché, per suo amore, non risparmio me stesso nel parlare di lui.

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    In rilievo

    Aug.

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    Andrea Sacchi, Messa o Miracolo di S. Gregorio Magno, 1625-27, Pinacoteca vaticana, Roma

    Guercino, SS. Ignazio di Loyola, Gregorio Magno e Francesco Saverio, 1625-26, National Gallery, Londra

    Antonio del Massaro detto Il Pastura (1478-1509), Pannello della Messa di S. Gregorio Magno, Vergine Maria che lascia cadere la cintola a S. Tommaso e S. Girolamo penitente, 1497, Musei Vaticani, Roma

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    Da dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 845-849

    12 MARZO

    SAN GREGORIO MAGNO,
    PAPA E DOTTORE DELLA CHIESA

    Il nome.


    Fra tutti i pastori che Gesù Cristo diede alla Chiesa universale, nessuno superò i meriti e la fama del santo Pontefice che oggi veneriamo. Il suo nome è Gregorio, che significa vigilanza; il suo qualificativo Magno, che già gli era dato prima che san Gregorio VII salisse sulla Sede di san Pietro. Questi due grandi Papi sono fratelli, ed ogni cuore cattolico li circonda del medesimo amore e d'una comune ammirazione.

    Il moderatore della sacra Liturgia.

    Colui del quale onoriamo la memoria è già conosciuto da quei fedeli che si studiano di seguire la Chiesa nella sua Liturgia. Ma le sue fatiche intorno al servizio divino, in tutto il corso dell'anno, non si limitarono ad arricchire gli Uffici d'alcuni cantici; l'intera Liturgia Romana lo riconosce per il suo principale organizzatore. Fu lui a raccogliere ed ordinare le preghiere ed i riti istituiti dai suoi predecessori, e quindi a dare loro la forma che hanno attualmente. Similmente il canto ecclesiastico ricevette da lui l'ultimo perfezionamento; la diligenza del santo Pontefice nel raccogliere le antiche melodie della Chiesa per disciplinarle, e disporle secondo l'occorrenza del servizio divino, legò per sempre il suo nome a quella grande opera musicale che tanto efficacemente contribuisce a preparare l'animo del cristiano alla venerazione dei Misteri ed al raccoglimento della pietà.

    Il Dottore.

    Ma l'attività di Gregorio, non si limita a queste cure, che basterebbero da sole a rendere immortale un Pontefice. Quando egli fu dato alla cristianità, la Chiesa latina si gloriava di tre grandi Dottori: Ambrogio, Agostino e Girolamo; la scienza di Gregorio le serbava l'onore d'aggiungere il nome suo al loro. L'intelligenza delle sacre Scritture, la penetrazione dei divini misteri, l'unzione e l'autorità, segno dell'assistenza dello Spirito Santo, apparivano nei suoi scritti in tutta la pienezza; e la Chiesa si rallegrò d'avere una nuova guida nella sacra dottrina.

    La venerazione per tutto ciò che usciva dalla sua penna pre*servò dalla distruzione l'immensa sua corrispondenza; ed è facile costatare in essa che non v'è un punto del mondo cristiano che non sia stato osservato dal suo infaticabile sguardo; non una sola questione religiosa, locale e personale, nell'Oriente e nell'Occidente, che non abbia sollecitato il suo zelo e dove non sia intervenuto come pastore universale. Eloquente lezione data dagli atti d'un Papa del VI secolo ai novatori che osarono affermare che la prerogativa del Romano Pontefice non aveva altra base se non negli apocrifi documenti risalenti a due secoli dopo la morte di san Gregorio!

    L'Apostolo.

    Sulla Sede Apostolica apparve l'erede degli Apostoli, non solo come depositario della loro autorità, ma come continuatore della loro missione di chiamare interi popoli alla fede. Sta ad attestarlo, l'Inghilterra, che, se conobbe Gesù Cristo, e per tanti secoli meritò l'appellativo di "Terra dei Santi", lo deve unicamente a san Gregorio, il quale, mosso a compassione degli Angli, di cui voleva fare, a suo dire, degli Angeli, nel 596 mandò in quell'isola il monaco Agostino insieme a quaranta compagni, tutti figli, come lui, di san Benedetto. Il Papa visse abbastanza a lungo, per raccogliere su quel suolo la messe evangelica. Piace vedere l'entusiasmo del santo vegliardo, quando ci descrive "l'Alleluia e gl'Inni romani ripetuti in una lingua avvezza a barbari canti, l'Oceano spianarsi sotto i piedi dei santi, e maree d'indomiti popoli placarsi alla voce dei sacerdoti!" (Morali di Giobbe, l. 27, c. 11).

    Il Santo.

    Ma, come descrivere le virtù che fecero di Gregorio un prodigio di santità? Il disprezzo del mondo e dei beni, che gli fecero cercare un asilo nell'oscurità del chiostro? l'umiltà che lo portò a fuggire gli onori del Pontificato, sino a che Dio stesso rivelò con un prodigio il nascondiglio di colui, le cui mani erano tanto più degne di tenere le chiavi del cielo, quanto più ne sentiva il peso? lo zelo per tutto il gregge, di cui si considerava lo schiavo e non il padrone, onorandosi del titolo di servo dei servi di Dio? la carità verso i poveri, che ebbe gli stessi limiti dell'universo? l'infaticabile sollecitudine, cui nulla sfugge ed a tutto sovviene, alle pubbliche calamità, ai pericoli della patria, come alle avversità particolari? la costanza e l'amabile serenità in mezzo alle più gravi sofferenze, che non cessarono di gravare sul suo corpo per tutto il tempo del suo laborioso pontificato? la fermezza nel conservare il deposito della fede e nel combattere l'errore in ogni luogo? finalmente la vigilanza sulla disciplina, che restaurò e mantenne per tanti secoli in tutta la Chiesa? Tanti servigi e tanti esempi hanno scolpito l'opera di Gregorio nella mente dei cristiani con tali impronte che non si cancelleranno mai.

    VITA. - San Gregorio nacque a Roma verso il 540. Entrò prima nella carriera politica; divenuto poi prete di Roma, nel 571, fondò sei monasteri col suo ricco patrimonio e si fece monaco. Creato cardinale diacono nel 577, fu inviato come legato a Costantinopoli per rappresentarvi la Chiesa romana al cospetto di Tiberio. Tornato a Roma nel 584, rientrò nel suo monastero, e vi fu eletto abate. Nel 590 dovette accettare il Papato e fu consacrato a S. Pietro il 3 settembre. Col suo zelo e le sue virtù divenne l'esempio di tutto l'episcopato: ristabilì la fede cattolica là dove maggiormente aveva sofferto, represse gli eretici, inviò missionari nell'Inghilterra, difese i diritti della Chiesa, regolò il culto ed il canto liturgico, fissò le Chiese stazionali, scrisse molti commenti alle sacre Scritture. Operò molti miracoli e morì nel 604 dopo tredici anni di pontificato.

    Preghiera per la Gerarchia.

    Padre del popolo cristiano, Vicario della carità di Cristo e della sua autorità, Pastore vigilante, il popolo cristiano che amasti e servisti così fedelmente, si rivolge a te fiducioso. Tu non hai dimenticato il gregge che serba di te un sì caro ricordo; ascolta dunque oggi la sua preghiera. Proteggi e guida il Pontefice attualmente regnante sulla cattedra di Pietro e tua; illumina i suoi consigli, rinsalda il suo coraggio. Benedici tutta la gerarchia dei Pastori, che deve a te sì ammirabili precetti ed esempi. Aiutala a conservare con inviolabile fermezza il deposito della fede; soccorrila negli sforzi che fa per il rinnovamento della disciplina ecclesiastica, senza la quale regna il disordine e la confusione. Tu, che fosti eletto da Dio a regolare il servizio divino, la santa Liturgia, nella cristianità, favorisci il ritorno alle tradizioni della preghiera che un tempo s'erano affievolite in mezzo a noi e minacciavano di scomparire, e stringi sempre più il vincolo vitale delle Chiese mediante l'obbedienza alla Cattedra Romana, fondamento della fede e sorgente dell'autorità spirituale.

    ... per l'unità della Chiesa.

    Tu vedesti coi propri occhi l'inizio di quello scisma che separò l'Oriente dalla comunione cattolica. Poi, ahimè! Bisanzio consumò la rottura; ed il castigo del suo delitto fu l'annientamento e la schiavitù, senza che questa seconda infedele Gerusalemme abbia ancora riconosciuta la causa delle sue sciagure. Santo Pontefice, noi ti supplichiamo che, compiuto il corso della giustizia, si compia anche quello della misericordia: che s'apra l'unico ovile alle pecorelle allontanate dallo scisma!

    ... per l'Inghilterra.

    O Apostolo d'un intero popolo! ricordati anche dell'Inghilterra che ereditò da te la fede cristiana. Quell'isola che ti fu sì cara, e dove germogliò così abbondantemente il seme da te gettato, è diventata infedele alla Cattedra Romana, ed ogni sorta di errori albergano in lei. Quanti secoli sono ormai trascorsi da che si è allontanata dalla vera fede! In questi ultimi tempi pare che la misericordia divina si sia inclinata verso di lei. Aiuta questa nazione che generasti a Gesù Cristo, aiutala ad uscire dalle tenebre che ancora l'avvolgono. A te spetta riaccendere la fiamma che in sé ha fatto estinguere: torni a brillare quella luce, ed il suo popolo darà ancora una volta, come un tempo, eroi per la propagazione della religione e la santificazione di tutto il popolo cristiano.

    ... per tutti i fedeli.

    In questo tempo di Quaresima prega anche per il gregge fedele che si applica alla penitenza, ottenendogli la compunzione del cuore, l'amore alla preghiera, l'intelligenza dei divini misteri. Leggiamo ancor oggi le Omelie che indirizzasti, in quell'epoca, al popolo di Roma; ora la giustizia e la misericordia di Dio è sempre la stessa: fa' che i nostri cuori siano presi da timore e consolati di speranza. Spesso la nostra debolezza si spaventa del rigore delle leggi che la Chiesa ci prescrive quanto al digiuno e all'astinenza; rianima di coraggio, e che nei nostri cuori sia ravvivato lo spirito di mortificazione. Sono luce i tuoi esempi e guida i tuoi insegnamenti; che la tua intercessione presso Dio ci faccia tutti veri penitenti, affinché possiamo ritrovare con la gioia d'una coscienza purificata, quell'Alleluia che ci insegnasti a cantare sulla terra e speriamo di ripetere con te per tutta l'eternità.

  10. #10

 

 
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