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    Predefinito 15 ottobre - S. Teresa di Gesù (d'Avila), vergine e dottore della Chiesa

    Oggi ricorre la memoria di S. Teresa d'Avila, riformatrice dell'Ordine carmelitano, assieme a S. Giovanni della Croce.
    Ecco un breve profilo biografico della Santa.
    Sulle origini della Santa v. QUI.
    Al secolo Teresa de Cepeda y Ahumada, riformatrice del Carmelo, Madre delle Carmelitane Scalze e dei Carmelitani Scalzi. Ella è la "mater spiritualium" (titolo sotto la sua statua nella basilica vaticana); patrona degli scrittori cattolici (1965) e Dottore della Chiesa (1970): prima donna, insieme a S. Caterina da Siena, ad ottenere tale titolo.
    Era figlia di una famiglia numerosa, che contava ben dodici figli (nove maschi e tre donne). Suo padre era don Alfonso o Alonso Sánchez de Cepeda e sua madre donna Beatriz Dávila y Ahumada. Nacque ad Avila, in Spagna, 28 marzo 1515. Da bambina giocava a fare l'eremita o la martire, tuttavia l'episodio che più segnò la sua vita in questo periodo, fu la morte della madre. In gioventù, dedicò buona parte del suo tempo alla lettura di romanzi cavallereschi, arrivando persino a scriverne uno.
    Nel 1531 entra nel convento de Gracia come educanda, dove rimarrà sotto la direzione dell'agostiniana María de Briceño, personalità che influenzerà chiaramente la sua vocazione religiosa per un anno e mezzo.
    Nel 1533 si ammala e suo padre, per farla riprendere, la manda dallo zio a Castellanos de la Cañada. In questo luogo, Teresa dedica gran parte del tempo alla lettura di quei libri di orazioni e meditazione che saranno poi decisivi nella sua proiezione letteraria.
    Nel 1535, il 2 novembre, entra, suo malgrado, nel convento dell'Encarnación poiché deve lasciare da solo il padre, dopo la partenza di quasi tutti i figli per l'America, Italia e Fiandre.
    Prende l'abito un anno più tardi. Tuttavia la sua vita continua ad essere piena di alti e bassi dato che dopo tre anni si ammala di nuovo e suo padre la porta da una guaritrice che rischia di ucciderla. Passata questa crisi rientra in convento, ma deve partire dopo poco tempo occuparsi del padre malato. Alla morte del padre, hanno inizio i problemi economici della famiglia che è costretta a vendere la casa natìa.
    Un pò per le condizioni oggettive del luogo, un pò per le difficoltà di ordine spirituale, faticò prima di arrivare a quella che lei chiama la sua "conversione", a 39 anni. Ma l'incontro con alcuni direttori spirituali la lanciò a grandi passi verso la perfezione.
    Dal 1555 al 1558 rimase accanto a donna Guiomar de Ulloa, nobile avilese con cui strinse grande amicizia e persona che la incoraggiò a iniziare la Riforma. Sarà nella casa di donna Guiomar che riceverà, in più di un'occasione, i suoi consiglieri spirituali: Francisco de Borja, San Pedro de Alcantára, ecc.
    Nel convento dell'Encarnación cominciò la sua vita di scrittrice e fu che ebbero luogo alcune delle più importanti esperienze mistiche della sua vita: la Transverberazione e il Matrimonio spirituale.
    Nel 1560 ebbe la prima idea di un nuovo Carmelo ove potesse vivere meglio la sua regola, senza rendite e "secondo la regola primitiva": espressione che va ben compresa, perchè allora e subito dopo fu più nostalgica ed "eroica" che reale. Nel 1562 fonda San José, il primo convento di monache carmelitane scalze, ma è a partire dal 1567 che comincia davvero il processo fondazionale. Fu allora che Teresa ottenne dal Generale dell'Ordine, Giovanni Battista Rossi - in visita in Spagna - l'ordine di moltiplicare i suoi monasteri ed il permesso per due conventi di "Carmelitani contemplativi" (poi detti Scalzi), che fossero parenti spirituali delle monache ed in tal modo potessero aiutarle. Ma anche quelli maschili superarono ben presto il numero iniziale; alcuni con il permesso del Generale Rossi, altri - specialmente in Andalusia - contro la sua volontà, ma con quella dei visitatori apostolici, il domenicano Vargas e il giovane Carmelitano Scalzo Girolamo Graziano (questi fu inoltre la fiamma spirituale di Teresa, al quale si legò con voto di far qualsiasi cosa le avesse chiesto, non in contrasto con la legge di Dio). Ne seguirono incresciosi incidenti aggravatisi per interferenze di autorità secolari ed altri estranei, sino all'erezione degli Scalzi in Provincia separata nel 1581. Teresa potè scrivere: "Ora Scalzi e Calzati siamo tutti in pace e niente ci impedisce di servire il Signore". Teresa è tra le massime figure della mistica cattolica di tutti i tempi. Le sue opere - specialmente le 4 più note (Vita, Cammino di perfezione, Mansioni e Fondazioni) - insieme a notizie di ordine storico, contengono una dottrina che abbraccia tutta la vita dell'anima, dai primi passi sino all'intimità con Dio al centro del Castello Interiore. L' Epistolario, poi, ce la mostra alle prese con i problemi più svariati di ogni giorno e di ogni circostanza. La sua dottrina sull'unione dell'anima con Dio (dottrina da lei intimamente vissuta) è sulla linea di quella del Carmelo che l'ha preceduta e che lei stessa ha contribuito in modo notevole ad arricchire, e che ha trasmesso non solo ai confratelli, figli e figlie spirituali, ma a tutta la Chiesa, per il cui servizio non badò a fatiche.
    Durante i suoi viaggi e la sua opera instancabile di riforma, conobbe il futuro San Giovanni della Croce, il quale sarà di grande appoggio spirituale. Anzi, fu giusto per influenza sua, se Fra Giovanni della Croce diventerà il primo carmelitano scalzo e l'incaricato di riformare il ramo maschile dell'ordine del Carmelo.
    La Santa camminatrice realizzò un totale di 17 fondazioni, prima del 4 ottobre 1582, giorno in cui, a causa delle fatiche di un viaggio disagevole, nel convento di Alba de Tormes e dopo aver esclamato: "finalmente sono figlia della Chiesa", morì circondata dalle sue monache. Un profumo di gigli pervase tutta la cella e l'orologio si fermò nel momento preciso della morte: alle nove di sera.
    Grande scrittrice del XVI secolo, le sue opere più importanti furono "il libro della vita", "Cammino di perfezione", "Le Mansioni", "Castello Interiore", "Il Libro delle Fondazioni", ecc.
    Santa Teresa, considerata una delle grandi figure della cristianità, fu beatificata da Paolo V il 24 aprile 1614 e canonizzata da Papa Gregorio XV il 12 marzo 1622 (assieme a S. Isidoro lavoratore, Ignazio di Loyola e Francesco Saverio) e nominata Dottore della Chiesa da Paolo VI, il 27 settembre 1970.
    Nel 1726 Benedetto XIII istituì, per il solo ordine carmelitano, la Festa della Transverberazione del suo cuore.

    Augustinus

    José de Ribera (1591-1652), S. Teresa d'Avila, Valencia

    François Gérard, S. Teresa, 1827, Infirmerie Marie-Thérèse, Parigi

    Angelo Massarotti, S. Teresa in preghiera, S. Imerio, Cremona

  2. #2
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    Predefinito La Transverberazione

    La Riformatrice del Carmelo fu diverse volte protagonista dello stradordinario dono della transverberazione.
    Una prima volta, ad Avila, nel coro superiore del monastero dell'Incarnazione, negli anni 1559-1562. Non a caso, in questo monastero è stata dedicata a ciò un'apposita cappella della transverberazione. Non solo. Lo straordinario fenomeno è commemorato nel solo Ordine carmelitano ed in tutte le diocesi della Spagna il 27 agosto con Messa ed Ufficio propri, concessi dal Sommo Pontefice Benedetto XIII, il 2 maggio 1726 (analogamente a quanto accade per il 1° aprile per S. Caterina da Siena, la cui stigmatizzazione è commemorata in detta data da parte dei soli ordini domenicani).
    Una seconda serie di transverberazioni si verificarono, sempre nel monastero dell'Incarnazione, negli anni 1571-1574, quando Teresa era priora del monastero stesso.
    Una terza volta, infine, nella casa di Doña Guiomar di Ulloa, che ne fu fortunata testimone. Di quest'ultima ne fece menzione, durante il processo canonico di beatificazione, la figlia, Doña Antonia di Guzman.
    In mancanza di relazioni puntuali che coprano tutti i periodi suddetti nei quali si verificò il fenomeno della transverberazione, ci si è soliti rifare ad un testo scritto dalla stessa Teresa.



    Si tratta di un passo tratto dal “Libro della Vita”, sez. III, 29, 13:

    «Il Signore, mentre ero in tale stato, volle alcune volte favorirmi di questa visione: vedevo vicino a me, dal lato sinistro, un angelo in forma corporea, cosa che non mi accade di vedere se non per caso raro. Benché, infatti, spesso mi si presentino angeli, non li vedo materialmente, ma come nella visione di cui ho parlato in precedenza. In questa visione piacque al Signore che lo vedessi così: non era grande, ma piccolo e molto bello, con il volto così acceso da sembrare uno degli angeli molto elevati in gerarchia che pare che brucino tutti in ardore divino: credo che siano quelli chiamati cherubini, perché i nomi non me ridicono, ma ben vedo che nel cielo c’è tanta differenza tra angeli e angeli, e tra l’uno e l’altro di essi, che non saprei come esprimermi. Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere quei gemiti di cui ho parlato, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi d’altro che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che mento».

    Nel passo successivo, il par. 14, Teresa scriveva ancora:

    «I giorni in cui durava questo stato ero come trasognata: non avrei voluto vedere né parlare con alcuno, ma tenermi stretta alla mia pena che per me era la beatitudine più grande di quante ve ne siano nel creato. Questo mi è accaduto alcune volte, allorché il Signore volle che io avessi quei rapimenti così grandi che, anche stando tra persone, non potevo opporre loro resistenza, pertanto con mio grande rammarico cominciarono a divulgarsi. Da quel momento sento meno questo tormento, bensì sento quello di cui ho parlato prima in altro luogo – non ricordo in quale capitolo – che è molto diverso per molti aspetti ed è di maggior valore. Infatti, quando ha inizio la pena di cui parlo, sembra che il Signore rapisca l’anima e l’immerga nell’estasi; non c’è tempo, pertanto, di sentir pena né di patire, perché subito sopraggiunge il godimento. Sia benedetto per sempre il Signore che fa tante grazie a chi risponde così male ai suoi immensi benefici!».

    Gianlorenzo Bernini, Estasi di S. Teresa d'Avila, 1647-52, Chiesa di S. Maria della Vittoria, Cappella Cornaro, Roma. Il celebre gruppo marmoreo si ispira passo surriportato della Vita di S. Teresa

  3. #3
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    Predefinito Piccolo omaggio a S. Teresa d'Avila












  4. #4
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    Predefinito La transverberazione

    Nella relazione che fa Teresa della sua transverberazione (termine mistico per indicare il “trapassare il cuore” da parte di un dardo d’amore), fa esplicito riferimento ad una visione di natura certamente corporale, non intellettuale. In precedenza, Teresa riferisce di aver visto Dio in visione intellettuale (Vita, 7, 6). Questa volta, l’Angelo gli appare in forma corporea e le scaglia addosso un dardo, una freccia infuocata, “nel cuore, cacciandolo dentro fino alle viscere”.
    Ella chiama questo soggetto con il termine “Cherubino”. Ora, gli “spiriti sublimi”, che si consumano tutti di amore sono designati, in verità, dalla Scrittura e dalla Teologia, con l’appellativo di “serafini”. I Cherubini ed i Serafini appartengono a due gerarchie angeliche differenti, sebbene pur sempre superiori (Serafini, Cherubini, Troni), ma con funzioni diverse. I Cherubini, infatti, manifestano la presenza di Dio ed in special modo la sua Gloria; i Serafini indicano l’ardore dell’Amore Divino. Orbene, Teresa erroneamente chiama l’essere che le appare come “cherubino”, quando in realtà doveva essere un "serafino". Ma quest’errore è giustificabile considerando che Teresa non aveva una formazione teologica. Infatti, S. Giovanni della Croce, fedele discepolo di Teresa, ma dotato di una più vasta e soda cultura teologica non sbaglia ad attribuire alla creatura angelica incaricata di commettere la transverberazione, cioè il mistico dono di fuoco e di amore, l’espressione di “serafino”.
    Questa interpretazione è avallata anche dagli strumenti adoperati dall’Angelo, vale a dire il dardo d’oro con la punta di ferro ed il fuoco: oro, ferro e fuoco sono gli elementi tipici che contraddistinguono l’amore, nella sua preziosità, nella sua fortezza e nel suo vigore.
    Il libro biblico del Cantico dei Cantici così descrive l’amore:

    «Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
    come sigillo sul tuo braccio;
    perché forte come la morte è l’amore,
    tenace come gli inferi è la passione:
    le sue vampe son vampe di fuoco,
    una fiamma del Signore!
    Le grandi acque non possono spegnere l’amore
    né i fiumi travolgerlo.
    Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
    in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio
    » (Ct 8, 6-7).

    Anche gli effetti della ferita subita la dicono lunga su questo fenomeno. Lasciano, infatti, Teresa in una “fornace di amore”. Questa ferita, poi, le produceva uno spasimo “vivo” e “dolce” ad un tempo. Per la vivezza, la nostra Santa usciva in gemiti; mentre per la dolcezza, non ne desiderava la fine. Per la Riformatrice del Carmelo, il dolore non era fisico, ma spirituale, anche se il corpo “vi partecipava non poco”, dal momento che le pareva che anche le viscere le fossero strappate nel momento in cui l’Angelo ritraeva il dardo.
    In un’altra opera di S. Teresa, le Relazioni Spirituali (5, 17), scrive:

    «Un’altra forma di orazione assai frequente è una specie di ferita, in cui sembra quasi all’anima che le si trafigga il cuore e tutta se stessa con una freccia. Ciò produce un vivo dolore che fa emettere lamenti, ma insieme così piacevole che l’anima vorrebbe non le venisse mai meno. Questo non è un dolore fisico né si tratta di una piaga materiale: ha sede nell’anima e non ne appare traccia sul corpo. Siccome tutto ciò non può spiegarsi se non aiutandosi con paragoni, io mi servo di alcuni confronti – grossolani, è vero, rispetto a un simile fatto, ma non so esprimermi in altro modo. Queste sono grazie che non si possono scrivere né raccontare, perché riesce a capirle solo chi ne ha fatto esperienza. Intendo dire che si riesce a comprendere fin dove arrivi questa pena, in quanto le pene spirituali sono assai diverse dalle altre. Da ciò deduco in che misura le anime dell’inferno e del purgatorio debbano patire più di quel che si possa immaginare qui mediante le nostre pene corporali».

    Per S. Teresa, dunque, la transverberazione non le avrebbe prodotto alcun effetto fisico. Sta di fatto che, alla sua morte, il suo corpo fu sottoposto ad autopsia. Il cuore estrattole dal petto e collocato in un prezioso reliquiario conservato nella Chiesa delle Carmelitane Scalze di Alba di Tormes, mostra evidenti trafitture con segni di bruciature. Ma questo fatto non contraddice le parole di Teresa, la quale non poteva compiere nessun esame fisico sul suo cuore: del resto, l’ardore ed il dolore che provava erano talmente superiori a qualsiasi ardore e dolore fisico che a lei sembrava di avere solo una ferita nell’anima e non anche nel corpo. Le circostanze nel quale si inseriva il fenomeno della transverberazione è descritto nei parr. 10-14 della sua Vita, dove si parla di ferite o trafitture di amore. Riporto i passi che precedono il racconto della sua visione:

    «10. Questi altri impulsi sono diversissimi. Non siamo noi a porre la legna, ma sembra che, acceso già il fuoco, subito vi siamo gettati dentro per bruciare. Non è l’anima a inasprire il dolore della piaga, per l’assenza del Signore, ma è una saetta che le si conficca a volte nelle viscere e nel cuore così al vivo da lasciarla incapace di capire cosa abbia o cosa voglia. Solo intende di volere Dio e che la saetta pare abbia la tempera di un’erba che l’induce ad odiare se stessa per amore del Signore, in servizio del quale rinunzierebbe volentieri alla vita. Non si può magnificare né dire il modo con cui Dio ferisce l’anima e l’enorme sofferenza che produce, perché la trae fuori di sé, ma questa pena è così piacevole che non c’è nessun godimento nella vita terrena capace di offrire maggior piacere. L’anima vorrebbe sempre, come ho detto, giungere a morire di un tal male.

    11. Questa pena e questa gioia unite insieme mi facevano uscire di senno perché non riuscivo a capire come ciò potesse essere. Oh, che cos’è per l’anima vedersi ferita! Si sente, cioè, in modo tale da potersi dire ferita per così eccellente causa, e vede chiaramente di non aver fatto nulla per attirarsi questo amore, ma che dal sommo amore, di cui Dio la privilegia, sembra sia caduta a un tratto su di lei quella scintilla che la fa ardere tutta. Oh, quante volte ricordo, quando mi trovo in questo stato, quel verso di Davide: Come la cerva anela ai corsi d’acqua, che mi sembra di vedere realizzarsi testualmente in me.

    12. Quando questi impeti non sono molto forti, sembra all’anima di potersi calmare un po’, per lo meno cerca qualche rimedio, non sapendo che cosa fare, con alcune penitenze, ma il corpo è ormai insensibile ad esse e non sente dolore nemmeno nel versare sangue, quasi fosse morto. Cerca allora altri espedienti e maniere che servano a procurarle qualche sofferenza per amor di Dio, ma quel primo dolore è così forte che non so quale tormento fisico glielo potrebbe togliere. Siccome il rimedio non è qui, queste nostre medicine sono di troppo basso livello per un male di così alto livello. Si calma un po’ e ha una qualche tregua, se chiede a Dio di darle un rimedio per il proprio male, ma non ne vede alcuno all’infuori della morte, perché con essa pensa di godere totalmente il suo bene. Altre volte l’impeto è così forte che non si può fare né questo né altro; il corpo resta come morto, non si possono muovere né piedi né mani, anzi, se si sta in piedi, si ricade su se stessi come una cosa inerte, senza poter neppure respirare; si emettono solo alcuni gemiti, non forti, perché non si ha più energia, ma intensi di sentimento
    ».

    Anche la morte di Teresa fu di natura mistica. E’ nota la causa naturale: il faticoso viaggio da Burgos ad Avila, compiuto in pessime condizioni, le causò un flusso di sangue, facendole rendere placidamente l’anima a Dio, posando dolcemente la testa sulle braccia della consorella infermiera. In realtà, la causa ultima fu di natura mistica: fu l’ultimo assalto dell’amore divino che ruppe la debole tela del suo corpo, ricongiungendo nell’eternità l’eletta al Suo Amato Sposo. Questa è peraltro la versione indicata dalla Bolla di Canonizzazione della Santa: cioè la sua fu una morte per amore.
    Si legge “quin etiam post mortem – cuidam moniali per visum manifestavit se non vi mortis, sed ex intolerabili divini amoris incendio vita excessisse” (la suora a cui si accenna è suor Caterina di Gesù del monastero di Bea, monaca dotata di grandi virtù).
    Il desiderio di morire per amore, del resto, in una preghiera che la Santa era solita recitare, prima di morire:

    Mio Signore e mio Sposo!
    E’ giunta l’ora tanto desiderata.
    Finalmente è giunta l’ora di vederci.
    Mio amato, mio Signore,
    è giunta l’ora di partire.
    E’ giunta l’ora.
    Sia fatta la vostra volontà!
    Sì, è giunta l’ora che io lasci quest’esilio
    E che la mia anima goda di Voi,
    che ho tanto desiderato
    ”.

    Il Signore la ascoltò. Era la mattina del 4 ottobre 1582, festa di S. Francesco d’Assisi, un altro ferito d’amore come lei. Il giorno dopo, per la correzione gregoriana del calendario, diventò il 15 ottobre.
    Cinque anni prima della morte, S. Teresa aveva descritto la sua morte con parole altamente poetiche:

    «La farfalletta è morta, felicissima d’aver trovato il suo riposo, e Cristo vive in lei» (Castello interiore, settime mansioni, III, 1).

    S. Giovanni della Croce, avendo dinanzi agli occhi l’esperienza di Teresa, dirà che la fiamma d’amore, che investe le anime trasformate, spezza la tela del corpo e «si porta via il gioiello dell’anima».

    Augustinus


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    Predefinito

    Scrive S. Giovanni della Croce nella “Fiamma viva d’amore” tenendo presente l'esperienza di Teresa:

    1. O fiamma d’amor viva,
    che tenera ferisci
    dell’alma mia il più profondo centro!
    Poiché non sei più schiva,
    finiscimi se vuoi,
    il velo squarcia a questo dolce incontro!

    2. O dolce cauterio!
    Deliziosa piaga!
    Morbida mano, tocco delicato,
    che sa di eterna vita
    e ogni debito paga!
    Morte in vita, uccidendo, hai tramutato!

    3. O lampade di fuoco,
    nei cui vivi bagliori
    gli abissi più profondi del mio senso,
    prima oscuro e cieco,
    con rara perfezion
    all’Amato or dan luce e calor!

    4. Come mite e amoroso
    ti svegli sul mio seno,
    dove in segreto e solo tu dimori!
    Col tuo dolce respiro
    di bene e gloria pieno,
    quanto teneramente m’innamori!

    (Fiamma viva B, 1, 1 ss.).



    Ed ancora, sempre nella stessa opera:

    29. Il velo è ciò che impedisce un’impresa così importante, perché è facile pervenire a Dio, una volta tolti gli ostacoli e squarciati i veli che separano l’anima da Dio. Tre sono i veli che, potendo impedire quest’unione, devono essere squarciati perché essa si realizzi e l’anima giunga al possesso perfetto di Dio: quello temporale, che racchiude tutte le creature; quello naturale, che comprende le operazioni e le inclinazioni puramente naturali; il terzo è quello sensitivo e concerne l’unione dell’anima con il corpo, cioè la vita sensitiva e animale, di cui parla san Paolo in questi termini: Sappiamo che quando verrà disfatta questa nostra abitazione sulla terra, riceveremo una dimora da Dio nei cieli (2Cor 5,1). È necessario squarciare i primi due veli prima che l’anima arrivi al possesso dell’unione con Dio, stato in cui si esige la rinuncia e il distacco da tutte le cose del mondo, come anche la mortificazione di tutti gli appetiti e gli affetti naturali. Attraverso questa purificazione le operazioni dell’anima da naturali sono diventate divine. Tutto ciò è avvenuto compiutamente nell’anima mediante i contatti penosi della fiamma quando essa le procurava ancora dolore. Infatti nella purificazione spirituale, di cui ho parlato sopra, l’anima ha finito di squarciare i due veli, per passare poi all’unione con Dio, dove si trova ora. Resta da rompere solo il terzo velo della vita sensitiva: perciò l’anima parla di velo e non di veli, perché solo questo le rimane da squarciare. Siccome questo velo è molto sottile, leggero e spiritualizzato in seguito all’unione con Dio, la fiamma non lo investe dolorosamente come gli altri due, ma con dolcezza e soavità. Ecco perché l’anima parla di dolce incontro, che è tanto più dolce e delizioso quanto più le sembra che debba squarciare il velo della vita.
    30. È utile ricordare che la morta naturale di coloro che arrivano a questo stato, può sembrare, dal punto di vista umano, simile a quella degli altri, ma la causa e il modo di morire sono molto differenti. Se gli altri, infatti, muoiono di morte provocata da una malattia o dalla vecchiaia, queste persone, pur morendo di malattia o di vecchiaia, in realtà ciò che le strappa dal loro corpo è uno slancio o un trasporto d’amore, molto più elevato, più forte e più possente dei precedenti, tanto da squarciare il velo e portare via il gioiello dell’anima. Per tutti questi motivi, la morte di tali persone è molto più soave e dolce di quanto sia stata per loro l’intera vita spirituale. Muoiono, infatti, per elevati rapimenti e soavi trasporti d’amore, come il cigno che emette il canto più melodioso quando sta per morire. Per questo Davide dice che è preziosa la morte dei santi che si sono devotamente donati a Dio (Sal 115,15 Volg.). In quell’attimo vengono a incontrarsi tutte le ricchezze dell’anima, e i fiumi d’amore dell’anima, così vasti e maestosi da sembrare mari, sfociano nell’oceano divino. È qui che vengono a congiungersi il primo e l’ultimo dei tesori per accompagnare il giusto che parte per il suo regno, mentre, come dice Isaia, dai confini della terra si elevano le lodi a gloria del giusto (Is 24,16).
    31. L’anima sente ormai giunto il momento di questi gloriosi incontri e che è sul punto d’entrare in possesso del suo regno in modo perfetto e definitivo, per l’abbondanza di beni di cui si vede arricchita. Si riconosce, infatti, pura, ricca e piena di virtù e pronta per la vita eterna. Dio le concede di vedere, in questo stato, la sua bellezza e le rivela i doni e le virtù che le ha dato, perché trasformi tutto in amore e lode, senza accenni di presunzione o vanità: ormai il lievito d’imperfezione che corrompe la pasta (1Cor 5,6; Gal 5,9) non c’è più. Si accorge che le resta solo da squarciare questo sottile velo della vita mortale, in cui si sente incatenata, imprigionata e privata della libertà. Desidera essere sciolta dal corpo per essere con Cristo (Fil 1,23), perché la disturba che una vita così vile e debole le impedisca l’altra tanto eccelsa e rigogliosa. Per questo chiede che il velo si squarci, in questi termini: il velo squarcia a questo dolce incontro!
    32. Lo chiama velo per tre motivi: primo, per l’unione esistente tra lo spirito e la carne; secondo, perché divide l’anima da Dio; terzo, perché come il velo non è tanto opaco e spesso da impedire alla luce di trasparire leggermente, così, nel presente stato, l’unione di cui si parla, essendo già molto spiritualizzata, illuminata, trasparente, assomiglia a un velo talmente sottile da lasciar intravedere qualche riflesso di Dio. L’anima sente qui il vigore dell’altra vita e si rende conto della pochezza di questa, che le sembra un velo sottile e una tela di ragno, secondo l’espressione di Davide: I nostri anni sono fatti come tela di ragno (Sal 89,9 Volg.). Ma questo velo è ancora più sottile della ragnatela per l’anima ormai così elevata da essere stabilita in Dio: sente le cose come Dio, di fronte al quale, dice Davide, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato (Sal 89,4), e ugualmente Isaia: Tutte le nazioni sono come un nulla davanti a lui (Is 40,17). Lo stesso valore hanno per l’anima, per la quale tutte le cose sono nulla, ed anche lei stessa è nulla ai propri occhi. Solo il suo Dio è tutto per lei.
    (Fiamma viva B, 1, 29 ss.)

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    Predefinito Una bella preghiera e pensiero di S. Teresa



    Nada te turbe

    Nada te turbe Nada te espante,
    Quien a Dios tiene nada le falta.
    Todo se pasa. Dios no se muda.
    La paciencia todo lo alcanza.
    Nada te turbe, nada te espante
    quien a Dios tiene, nada le falta.

    Nulla ti turbi - Nulla t'attristi,
    tutto dilegua - Dio non si muta,
    con la pazienza - tutto t'acquisti,
    manchi di nulla - se hai Dio nel cuor.




  7. #7
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    Predefinito

    Pietro Novelli, detto Il Monrealese, Nostra Signora del Carmelo e Santi carmelitani (SS. Teresa d'Avila, Maria Maddalena de' Pazzi, Simone Stock e Angelo da Gerusalemme), 1641, Museo Diocesano, Palermo

  8. #8
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    Predefinito Dalle «Opere» di santa Teresa di Gesù, Vergine

    (Opusc. «Il libro della vita», cap. 22, 6-7, 14)

    Chi ha come amico Cristo Gesù e segue un capitano così magnanimo come lui, può certo sopportare ogni cosa; Gesù infatti aiuta e dà forza, non viene mai meno ed ama sinceramente. Infatti ha sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima umanità di Cristo, nella quale egli ha detto di compiacersi.
    Ne ho fatto molte volte l'esperienza, e me l'ha detto il Signore stesso. Ho visto nettamente che dobbiamo passare per questa porta, se desideriamo che la somma Maestà ci mostri i suoi grandi segreti. Non bisogna cercare altra strada, anche se si è raggiunto il vertice della contemplazione, perché per questa via si è sicuri. E' da lui, Signore nostro, che ci vengono tutti i beni. Egli ci istruirà.
    Meditando la sua vita, non si troverà modello più perfetto. Che cosa possiamo desiderare di più, quando abbiamo al fianco un così buon amico che non ci abbandona mai nelle tribolazioni e nelle sventure, come fanno gli amici del mondo? Beato colui che lo ama per davvero e lo ha sempre con sé! Guardiamo il glorioso apostolo Paolo che non poteva fare a meno di avere sempre sulla bocca il nome di Gesù, perché l'aveva ben fisso nel cuore. Conosciuta questa verità, ho considerato e ho appreso che alcuni santi molto contemplativi, come Francesco, Antonio da Padova, Bernardo, Caterina da Siena, non hanno seguito altro cammino. Bisogna percorrere questa strada con grande libertà, abbandonandoci nelle mani di Dio. Se egli desidera innalzarci fra i principi della sua corte, accettiamo volentieri tale grazia.
    Ogni volta poi, che pensiamo a Cristo, ricordiamoci dell'amore che lo ha spinto a concederci tante grazie e dell'accesa carità che Dio ci ha mostrato dandoci in lui un pegno della tenerezza con cui ci segue: amore infatti domanda amore. Perciò sforziamoci di considerare questa verità e di eccitarci ad amare. Se il Signore ci facesse la grazia, una volta, di imprimerci nel cuore questo amore, tutto ci diverrebbe facile e faremmo molto, in breve e senza fatica.

  9. #9
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    Predefinito Dall'Autobiografia di santa Teresa d'Avila

    Vida de Santa Teresa de Jesus, XXIL 3.5‑11.14. Obras, Burgos, 1922, 159‑166

    Quando cominciai ad avere un po' d'orazione soprannaturale, vale a dire di quiete, procurai di allontanarmi da ogni cosa corporea; tuttavia, non osai elevare l'anima, perché mi sembrava una temerarietà a causa della mia grande miseria. Intanto ‑ ed era vero ‑ mi pareva di sentire la presenza di Dio e cercavo di starmene raccolta in lui. Se il Signore aiuta, questa orazione fa gustare molte delizie. Perciò, sentendone diletto e profitto, non solo non trovavo chi mi riconducesse alla considerazione dell'umanità di Cristo, ma in verità la reputavo anch'io un ostacolo. O Signore dell'anima mia, mio Bene, Cristo Gesù crocifisso! Non ricordo mai questa illusione che avevo allora, senza sentirne gran dolore; mi sembra infatti che fu un grave tradimento, anche se per ignoranza.

    Voler far a meno dell'umanità di nostro Signore rivela un difetto nell'umiltà cosi nascosto e dissimulato che uno nemmeno se ne accorge. Ma chi può essere come me, cosi superbo e miserabile, da non stimarsi molto ricco e ben ripagato se in ricompensa della sua vita, sia pur condotta tra ogni genere di fatiche, orazioni, penitenze e persecuzioni, il Signore gli permette di stare ai piedi della croce con san Giovanni? Non so a chi può mai sorgere il pensiero di non esserne contento se non a me; appunto per questo ebbi a perdere dove invece avrei potuto guadagnare. A volte la sensibilità o la malattia non permettono di pensare alla passione del Signore, perché è troppo penosa. Ma nessuno vieta di far compagnia a Gesù risorto, giacché l'abbiamo tanto vicino nel santissimo Sacramento, in cui si trova glorificato.

    Non ho mai avuta una prova che non abbia sopportato bene, purché ti contempli, Signore, quando stavi davanti ai giudici. Chi ha come amico Cristo Gesù e segue un capitano cosi magnanimo come lui, può certo sopportare ogni cosa. Gesù infatti aiuta e da forza, non viene mai meno: è un vero amico. Ho sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima umanità di Cristo, nella quale egli ha detto di compiacersi. Ne ho fatto molte volte l'esperienza, e me l'ha detto il Signore stesso. Ho visto nettamente che dobbiamo passare per questa porta, se desideriamo che la somma Maestà ci mostri i suoi grandi segreti. Non bisogna cercare altra strada, anche se si è raggiunto il vertice della contemplazione, perché per questa via si è sicuri.

    Da nostro Signore ci vengono tutti i beni. Lui ci istruirà e meditando la sua vita non si troverà modello più perfetto. Che cosa possiamo desiderare di più, quando abbiamo al fianco un cosi buon amico che non ci abbandona mai nelle tribolazioni e nelle sventure, come fanno gli amici del mondo? Beato colui che lo ama per davvero e lo ha sempre con se! Guardiamo il glorioso apostolo Paolo che non poteva far a meno di avere sempre sulla bocca il nome di Gesù, perché l'aveva ben fisso nel cuore. Conosciuta questa verità, ho considerato e ho appreso che alcuni santi molto contemplativi non hanno seguito altro cammino. Ce ne da prova san Francesco con le stimmate e sant'Antonio con il Bambino. San Bernardo trovava le sue delizie nell'umanità di Cristo, cosi come santa Caterina da Siena e molti altri che conoscete meglio di me. Rigettare ogni immagine corporea sarà certo ben fatto se l'insegnano persone tanto spirituali; ma io credo che ciò non debba farsi se non quando l'anima sia già molto avanzata, perché prima d'allora si deve sempre cercare il Creatore attraverso le creature.

    Quando Dio vuol sospendere tutte le potenze dell'anima in certi modi d'orazione, è chiaro che la presenza della sacratissima umanità di Cristo ci è tolta dinanzi, anche se non vogliamo. Se è cosi, tanto meglio, perché una tale perdita ci fa meglio godere quello che ci sembrava di aver perduto. Allora l’anima si dedica totalmente ad amare colui che l'intelletto faticava a conoscere. L'anima può cosi amare colui che non riusciva a comprendere e godere il bene che non avrebbe mai potuto cosi godere se non col perdere se stessa per meglio guadagnare. Ma che noi mettiamo ogni cura e ogni abilità per evitare di aver sempre innanzi la sacratissima umanità di Gesù, (e piacesse a Dio che l'avessimo sempre per davvero!), ecco ciò che non mi pare ben fatto. Anzi, come suol dirsi, è camminare per aria, perché allora l'anima sembra andare senza appoggio, nonostante,'.il che si creda piena di Dio. E' invece importantissimo per noi uomini, finché siamo quaggiù, rappresentarci il Signore in figura di uomo.

    Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, mentre siamo sulla terra, è una vera pazzia, soprattutto quando si è cosi miseri come ero io.Il pensiero solitamente ha bisogno di appoggio, benché talvolta l'anima esca cosi fuori di se e sia talmente piena di Dio da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata. Ma ciò non è abituale. Quando perciò sopraggiungono affari, travagli, persecuzioni, quando non si può avere tanta quiete o si passa per un periodo di aridità, Cristo è sempre un buonissimo amico. Lo vediamo uomo come noi, soggetto alle nostre medesime debolezze e sofferenze, e ci diventa di grande compagnia. Una volta fatta l'abitudine, sapremo rappresentarcelo facilmente, nonostante che ci saranno giorni in cui non saper trovare Dio ne senza immagini, ne attraverso l'umanità di Cristo. Perciò è bene, come ho detto, di non abituarci a cercare consolazioni spirituali. Capiti ciò che vuole, sarà già gran cosa rimanere abbracciati alla croce.

    Nostro Signore rimase senza consolazione, solo, sotto il peso dei suoi dolori. Non abbandoniamolo, ed egli ci darà la mano per salire, più che non potrà fare la nostra solerzia). Poi magari si assenterà, quando lo vedrà opportuno e vorrà spingere l'anima a uscire da sé stessa. Dio si compiace molto nel vedere un'anima prendere umilmente suo Figlio per mediatore, amarlo tanto e riconoscersi indegna, dicendo con san Pietro: Signore, allontanati da me che sono un peccatore (Lc 5, 8), i anche se lui la eleva alla più alta contemplazione. L'ho provato io stessa, perché il Signore mi ha condotta per questa via. Altri potranno prendere una strada più breve, ma io ho visto che l'edificio dell'orazione deve fondarsi sull'umiltà: quanto più un'anima si abbassa nell'orazione, tanto più Iddio la innalza.

    Concluderò cosi: ogni volta che pensiamo a Cristo, ricordiamoci dell'amore che lo ha spinto a concederci tante grazie e dell'accesa carità che il Padre ci ha mostrato dandoci in lui un pegno della tenerezza con cui ci segue. Amore chiama amore. Nonostante che siamo agli inizi e la nostra miseria sia grande, sforziamoci di aver sempre questo presente e di essere vigili nell'amare. Se Dio ci facesse la grazia, una volta, di imprimerci nel cuore questo amore, tutto ci diverrebbe facile e faremmo molto, in breve e senza fatica. Sua Maestà ci doni questa fiamma, lui che sa bene quanto ci convenga. lo lo supplico in nome dell'amore che ci ha portato e in nome dei suo glorioso Figlio che tanto patì per testimoniarcelo. Amen.

  10. #10
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    Predefinito Dalla Novena dello Spirito Santo di sant'Alfonso Maria De' Liguori

    Novena dello Spirito Santo, meditaz. 9,3,1. Opere, Torino, 1826, t. X, 213-201‑202.197‑198.

    Il cuore umano va sempre cercando beni che possano renderlo felice. Se egli li cerca dalle creature, per quanti ne riceva, non rimane mai contento. Ma se non vuole altro che Dio, Iddio accontenterà tutti i suoi desideri. Gli uomini più felici in questa terra non sono forse i santi? Chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete (Gv 4,13). L'amore è acqua che sazia; chi ama Dio di vero cuore, non cerca né desidera niente più, perché in Dio trova ogni bene. Contento di Dio, egli va sempre dicendo: "Dio mio e mio tutto". Dio mio, tu sei ogni mio bene. Ma perciò il Signore si lagna di tante anime che vanno mendicando miseri e brevi diletti dalle creature, e lasciano lui ch'è un bene infinito e fonte d'ogni gaudio: Essi hanno abbandonato me. sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l'acqua (Ger 2,13), dice il Signore in Geremia.

    Dio ci ama e desidera vederci contenti. Egli perciò grida e fa sapere a tutti: Chi ha sete vengo a me. Chi desidera essere beato, venga a me, e io gli donerò lo Spirito Santo, che lo renderà beato in questa e nell'altra vita. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Chi crede e ama Gesù Cristo, sarà arricchito di tanta grazia che dal suo cuore, cioè dalla volontà che è il centro dell'anima, sgorgheranno più fontane di sante virtù; esse non solo gioveranno a conservare la sua vita, ma anche a dare la vita agli altri. Appunto quest'acqua era lo Spirito Santo, l'amore sostanziale che Gesù Cristo promise di mandarci dal cielo dopo la sua ascensione. Leggiamo infatti in Giovanni che Gesù questo disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato.

    La chiave che apre i canali di quest'acqua beata è la santa preghiera, che ci ottiene ogni bene in virtù della promessa del Signore: Chiedete e vi sarà dato (Mt 7, 7). Noi siamo ciechi, poveri e deboli; ma la preghiera ci ottiene luce, forza e ricchezze di grazia. Teodoreto affermava che la preghiera può tutto, anche da sola. Chi prega, riceve quanto desidera. Iddio vuol darci le sue grazie, ma vuol essere pregato. Gesù mio, ti pregherà con la Samaritana: Dammi quest'acqua del tuo amore, che mi faccia scordare della terra, per vivere solo per te, amabile, infinito. L'anima mia è terra arida, che non produce altro che sterpi e spine di peccati. Signore, innaffiala con la tua grazia, perché renda qualche frutto a tua gloria.

    Signore, il tuo Spirito ci infiammi di quel fuoco di cui Gesù disse: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già accesso (Lc 12,49). Questo è stato quel fuoco divino che ha accesso i santi a far grandi cose per Dio: amare i nemici, e amare i disprezzi, spogliarsi di tutti i beni terreni e abbracciare con allegrezza persino i tormenti e la morte. L'amore non sa stare ozioso e non dice mai basta. Un'anima che ama Dio, quanto più fa per l'amato, più desidera di fare per dargli gusto e attirarsi di più il suo affetto. Questo santo fuoco si accende nell'orazione mentale, secondo la parola del salmista: Nel meditare e divampato il fuoco (Sal 38,4). Se dunque desideriamo di ardere d'amore verso Dio, amiamo l'orazione; questa è la beata fornace, dove si accende questo divino ardore.

 

 
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