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    Predefinito 7 marzo (28 gennaio) - S. Tommaso d'Aquino Dottore della Chiesa

    Oggi ricorre, tra l'altro, anche la memoria liturgica del grande teologo, S. Tommaso d'Aquino, il Doctor Angelicus.
    In suo onore apro il seguente thread.

    Augustinus

    ****
    dal sito SANTI E BEATI con alcune integrazioni:

    San Tommaso d'Aquino Sacerdote e dottore della Chiesa

    28 gennaio (e 7 marzo)

    Roccasecca, Frosinone, 1225 circa – Fossanova, Latina, 7 marzo 1274

    Domenicano (1244), formatosi nel monastero di Montecassino e nelle grandi scuole del tempo, e divenuto maestro negli studi di Parigi, Orvieto, Roma, Viterbo e Napoli, impresse al suo insegnamento un orientamento originale e sapientemente innovatore. Affidò a molti scritti impegnati e specialmente alla celebre ‘Summa’ la sistemazione geniale della dottrina filosofica e teologica raccolta dalla tradizione. Ha esercitato un influsso determinante sull’indirizzo del pensiero filosofico e della ricerca teologica nelle scuole dei secoli seguenti. (Mess. Rom.)

    Patronato: Teologi, Accademici, Librai, Scolari, Studenti, Scuole cattoliche

    Etimologia: Tommaso = gemello, dall'ebraico

    Emblema: Bue, Stella, sole sul petto per il privilegio avuto dal Papa di portare il SS. Sacramento addosso

    Martirologio Romano: Memoria di san Tommaso d’Aquino, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e dottore della Chiesa, che, dotato di grandissimi doni d’intelletto, trasmise agli altri con discorsi e scritti la sua straordinaria sapienza. Invitato dal beato papa Gregorio X a partecipare al secondo Concilio Ecumenico di Lione, morì il 7 marzo lungo il viaggio nel monastero di Fossanova nel Lazio e dopo molti anni il suo corpo fu in questo giorno traslato a Tolosa.
    (7 marzo: Nel monastero cistercense di Fossanova nel Lazio, transito di san Tommaso d’Aquino, la cui memoria si celebra il 28 gennaio).

    Martirologio tradizionale (7 marzo): Nel Monastero di Fossanova, presso Terracina, nella Campania, san Tommaso d'Aquino, Confessore e Dottore della Chiesa, dell'Ordine dei Predicatori, assai illustre per la nobiltà del sangue, per la santità della vita e per la scienza della Teologia, dal Papa Leone decimoterzo dichiarato celeste Patrono di tutte le Scuole cattoliche.

    S. Tommaso, nato verso la fine del 1225 dal conte d'Aquino, nel castello di Roccasecca, all'età di 18 anni, contro la volontà del padre e addirittura inseguito dai fratelli che avrebbero voluto sequestrarlo, entrò nell'ordine dei Predicatori di S. Domenico. Completò la sua formazione a Colonia, alla scuola di S. Alberto Magno, e poi a Parigi. Nello studio parigino da studente divenne docente di filosofia e teologia. Tenne cattedra anche ad Orvieto, Roma e Napoli.
    Mite e silenzioso (a Parigi lo avevano soprannominato "il bue muto"), obeso di costituzione, contemplativo e devoto, rispettoso di tutti e da tutti amato, Tommaso era soprattutto un intellettuale. Costantemente immerso negli studi, perdeva facilmente la nozione del tempo e del luogo: durante una traversata in mare non avvertì neppure la terribile burrasca e il forte rollio della nave sbattuta dai flutti, tant'era immerso nella lettura. Ma le sue non furono letture sterili né fine a se stesse. Il suo motto, "contemplata aliis tradere", partecipare agli altri i frutti della propria riflessione, si tradusse in una mole di libri che hanno del prodigioso, se si tiene presente che la morte lo colse all'ancor giovane età di 48 anni.
    Morì infatti all'alba del 7 marzo 1274, nel monastero cistercense di Fossanova, mentre si recava al concilio di Lione, convocato dal B. Gregorio X. L'opera sua più celebre è la Summa Theologiae, dallo stile semplice e preciso, di una chiarezza cristallina, unita a una straordinaria capacità di sintesi. Quando Giovanni XXII lo iscrisse nell'albo dei santi, il 18 luglio 1323, a quanti obiettavano che Tommaso non aveva compiuto grandi prodigi nè in vita nè dopo morte, il papa rispose con una frase famosa: "Quante proposizioni teologiche scrisse, tanti miracoli fece". Il Pontefice San Pio V, nel 1567, lo proclamò Dottore della Chiesa. Papa Leone XIII, nel 1879, lo ha dichiarato celeste Patrono delle scuole cattoliche. Il 28 gennaio si commemora la deposizione delle sue reliquie, avvenuta nel 1369 a Tolosa nella chiesa a lui dedicata. Trasportate durante la Rivoluzione Francese, nel 1792, nella cripta di Saint Sernin, nel 1974 sono ritornate finalmente nella loro primitiva sede.
    Il primato dell'intelligenza, la chiave di volta di tutta l'opera teologica e filosofica del Dottore angelico (come venne denominato dopo il XV secolo), non si risolveva in un astratto intellettualismo, fine a se stesso. L'intelligenza è condizionata e condizionante l'amore. "Luce intellettual piena d'amore amor di vero ben pien di letizia...", così Dante, uno dei primi tomisti, traduce in poesia il concetto tomistico di intelligenza-beatitudine... Il pensiero di S. Tommaso è stato per secoli la base degli studi filosofici e teologici dei seminaristi, ed ha conosciuto una singolare rifioritura proprio nei nostri tempi ad opera di Leone XIII e Jacques Maritain. E forse particolarmente attuali, più che le grandi Summae, sono proprio gli Opuscoli teologico-pastorali e gli Opuscoli spirituali, sempre ristampati.
    San Tommaso è raffigurato solitamente non solo con l’ostensorio, ma soprattutto con il sole fulgente sul petto. Egli ebbe infatti il privilegio dal papa di recare addosso il Santissimo.

    Autore: Piero Bargellini

    *****
    Sempre dallo stesso SITO altro profilo biografico (con integrazioni mie):

    Quando papa Giovanni XXII nel 1323, iscrisse Tommaso d’Aquino nell’Albo dei Santi, a quanti obiettavano che egli non aveva compiuto grandi prodigi, né in vita né dopo morto, il papa rispose con una famosa frase: “Quante preposizioni teologiche scrisse, tanti miracoli fece”.
    E questo, è il riconoscimento più grande che si potesse dare al grande teologo e Dottore della Chiesa, che con la sua “Summa teologica”, diede sistematicamente un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana.

    Origini, oblato a Montecassino, studente a Napoli

    Tommaso, nacque all’incirca nel 1225 nel castello di Roccasecca (Frosinone) nel Basso Lazio, che faceva parte del feudo dei conti d’Aquino; il padre Landolfo, era di origine longobarda e vedovo con tre figli, aveva sposato in seconde nozze Teodora, napoletana di origine normanna; dalla loro unione nacquero nove figli, quattro maschi e cinque femmine, dei quali Tommaso era l’ultimo dei maschi.
    Secondo il costume dell’epoca, il bimbo a cinque anni, fu mandato come “oblato” nell’Abbazia di Montecassino; l’oblatura non contemplava che il ragazzo, giunto alla maggiore età, diventasse necessariamente un monaco, ma era semplicemente una preparazione, che rendeva i candidati idonei a tale scelta.
    Verso i 14 anni, Tommaso che si trovava molto bene nell’abbazia, fu costretto a lasciarla, perché nel 1239 fu occupata militarmente dall’imperatore Federico II, allora in contrasto con il papa Gregorio IX, e che mandò via tutti i monaci, tranne otto di origine locale, riducendone così la funzionalità; l’abate accompagnò personalmente l’adolescente Tommaso dai genitori, raccomandando loro di farlo studiare presso l’Università di Napoli, allora sotto la giurisdizione dell’imperatore.
    A Napoli frequentò il corso delle Arti liberali, ed ebbe l’opportunità di conoscere alcuni scritti di Aristotele, allora proibiti nelle Facoltà ecclesiastiche, intuendone il grande valore.

    Domenicano; incomprensioni della famiglia

    Inoltre conobbe nel vicino convento di San Domenico, i frati Predicatori e ne restò conquistato per il loro stile di vita e per la loro profonda predicazione; aveva quasi 20 anni, quando decise di entrare nel 1244 nell’Ordine Domenicano; i suoi superiori intuito il talento del giovane, decisero di mandarlo a Parigi per completare gli studi.
    Intanto i suoi familiari, specie la madre Teodora rimasta vedova, che sperava in lui per condurre gli affari del casato, rimasero di stucco per questa scelta; pertanto la castellana di Roccasecca, chiese all’imperatore che si trovava in Toscana, di dare una scorta ai figli, che erano allora al suo servizio, affinché questi potessero bloccare Tommaso, già in viaggio verso Parigi.
    I fratelli poterono così fermarlo e riportarlo verso casa, sostando prima nel castello paterno di Monte San Giovanni, dove Tommaso fu chiuso in una cella; il sequestro durò complessivamente un anno; i familiari nel contempo, cercarono in tutti i modi di farlo desistere da quella scelta, ritenuta non consona alla dignità della casata.
    Arrivarono perfino ad introdurre una sera, una bellissima ragazza nella cella, per tentarlo nella castità; ma Tommaso di solito pacifico, perse la pazienza e con un tizzone ardente in mano, la fece fuggire via. La castità del giovane domenicano era proverbiale, tanto da meritare in seguito il titolo di “Dottore Angelico”.
    Su questa situazione i racconti della ‘Vita’, divergono, si dice che papa Innocenzo IV, informato dai preoccupati Domenicani, chiese all’imperatore di liberarlo e così tornò a casa; altri dicono che Tommaso riuscì a fuggire; altri che Tommaso ricondotto a casa della madre, la quale non riusciva ad accettare che un suo figlio facesse parte di un Ordine ‘mendicante’, resistette a tutti i tentativi fatti per distoglierlo, tanto che dopo un po’ anche la sorella Marotta, passò dalla sua parte e in seguito diventò monaca e badessa nel monastero di Santa Maria a Capua; infine anche la madre si convinse, permettendo ai domenicani di far visita al figlio e dopo un anno di quella situazione. lo lasciò finalmente partire.

    Studente a Colonia con s. Alberto Magno

    Ritornato a Napoli, il Superiore Generale, Giovanni il Teutonico, ritenne opportuno anche questa volta, di trasferirlo all’estero per approfondire gli studi; dopo una sosta a Roma, Tommaso fu mandato a Colonia dove insegnava sant’Alberto Magno (1193-1280), domenicano, filosofo e teologo, vero iniziatore dell’aristotelismo medioevale nel mondo latino e uomo di cultura enciclopedica.
    Tommaso divenne suo discepolo per quasi cinque anni, dal 1248 al 1252; si instaurò così una feconda convivenza tra due geni della cultura; risale a questo periodo l’offerta fattagli da papa Innocenzo IV di rivestire la carica di abate di Montecassino, succedendo al defunto abate Stefano II, ma Tommaso che nei suoi principi rifuggiva da ogni carica nella Chiesa, che potesse coinvolgerlo in affari temporali, rifiutò decisamente, anche perché amava oltremodo restare nell’Ordine Domenicano.
    A Colonia per il suo atteggiamento silenzioso, fu soprannominato dai compagni di studi “il bue muto”, riferendosi anche alla sua corpulenza; s. Alberto Magno venuto in possesso di alcuni appunti di Tommaso, su una difficile questione teologica discussa in una lezione, dopo averli letti, decise di far sostenere allo studente italiano una disputa, che Tommaso seppe affrontare e svolgere con intelligenza.
    Stupito, il Maestro davanti a tutti esclamò: “Noi lo chiamiamo bue muto, ma egli con la sua dottrina emetterà un muggito che risuonerà in tutto il mondo”.

    Sacerdote; Insegnante all’Università di Parigi; Dottore in Teologia

    Nel 1252, da poco ordinato sacerdote, Tommaso d’Aquino, fu indicato dal suo grande maestro ed estimatore s. Alberto, quale candidato alla Cattedra di “baccalarius biblicus” all’Università di Parigi, rispondendo così ad una richiesta del Generale dell’Ordine, Giovanni di Wildeshauen.
    Tommaso aveva appena 27 anni e si ritrovò ad insegnare a Parigi sotto il Maestro Elia Brunet, preparandosi nel contempo al dottorato in Teologia.
    Ogni Ordine religioso aveva diritto a due cattedre, una per gli studenti della provincia francese e l’altra per quelli di tutte le altre province europee; Tommaso fu destinato ad essere “maestro degli stranieri”.
    Ma la situazione all’Università parigina non era tranquilla in quel tempo; i professori parigini del clero secolare, erano in lotta contro i colleghi degli Ordini mendicanti, scientificamente più preparati, ma considerati degli intrusi nel mondo universitario; e quando nel 1255-56, Tommaso divenne Dottore in Teologia a 31 anni, gli scontri fra Domenicani e clero secolare, impedirono che potesse salire in cattedra per insegnare; in questo periodo Tommaso difese i diritti degli Ordini religiosi all’insegnamento, con un celebre e polemico scritto: “Contra impugnantes”; ma furono necessari vari interventi del papa Alessandro IV, affinché la situazione si sbloccasse in suo favore.
    Nell’ottobre 1256 poté tenere la sua prima lezione, grazie al cancelliere di Notre-Dame, Americo da Veire, ma passò ancora altro tempo, affinché il professore italiano fosse formalmente accettato nel Corpo Accademico dell’Università.
    Già con il commento alle “Sentenze” di Pietro Lombardo, si era guadagnato il favore e l’ammirazione degli studenti; l’insegnamento di Tommaso era nuovo; professore in Sacra Scrittura, organizzava in modo insolito l’argomento con nuovi metodi di prova, nuovi esempi per arrivare alla conclusione; egli era uno spirito aperto e libero, fedele alla dottrina della Chiesa e innovatore allo stesso tempo.
    “Già sin d’allora, egli divideva il suo insegnamento secondo un suo schema fondamentale, che contemplava tutta la creazione, che, uscita dalle mani di Dio, vi faceva ora ritorno per rituffarsi nel suo amore” (Enrico Pepe, Martiri e Santi, Città Nuova, 2002).
    A Parigi, Tommaso d’Aquino, dietro invito di s. Raimondo di Peñafort, già Generale dell’Ordine Domenicano, iniziò a scrivere un trattato teologico, intitolato “Summa contra Gentiles”, per dare un valido ausilio ai missionari, che si preparavano per predicare in quei luoghi, dove vi era una forte presenza di ebrei e musulmani.

    Il ritorno in Italia; collaboratore di pontefici

    All’Università di Parigi, Tommaso rimase per tre anni; nel 1259 fu richiamato in Italia dove continuò a predicare ed insegnare, prima a Napoli nel convento culla della sua vocazione, poi ad Anagni dov’era la curia pontificia (1259-1261), poi ad Orvieto (1261-1265), dove il papa Urbano IV fissò la sua residenza dal 1262 al 1264.
    Il pontefice si avvalse dell’opera dell’ormai famoso teologo, residente nella stessa città umbra; Tommaso collaborò così alla compilazione della “Catena aurea” (commento continuo ai quattro Vangeli) e sempre su richiesta del papa, impegnato in trattative con la Chiesa Orientale, Tommaso approfondì la sua conoscenza della teologia greca, procurandosi le traduzioni in latino dei padri greci e quindi scrisse un trattato “Contra errores Graecorum”, che per molti secoli esercitò un influsso positivo nei rapporti ecumenici.
    Sempre nel periodo trascorso ad Orvieto, Tommaso ebbe dal papa l’incarico di scrivere la liturgia e gli inni della festa del Corpus Domini, istituita l’8 settembre 1264, a seguito del miracolo eucaristico, avvenuto nella vicina Bolsena nel 1263, quando il sacerdote boemo Pietro da Praga, che nutriva dubbi sulla transustanziazione, vide stillare copioso sangue, dall’ostia consacrata che aveva fra le mani, bagnando il corporale, i lini e il pavimento.
    Fra gli inni composti da Tommaso d’Aquino, dove il grande teologo profuse tutto il suo spirito poetico e mistico, da vero cantore dell’Eucaristia, c’è il famoso “Pange, lingua, gloriosi Corporis mysterium”, di cui due strofe inizianti con “Tantum ergo”, si cantano da allora ogni volta che si impartisce la benedizione col SS. Sacramento.
    Nel 1265 fu trasferito a Roma, a dirigere lo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, che aveva sede nel convento di Santa Sabina; nei circa due anni trascorsi a Roma, Tommaso ebbe il compito di organizzare i corsi di teologia per gli studenti della Provincia Romana dei Domenicani.

    La “Summa theologiae”; affiancato da p. Reginaldo

    A Roma, si rese conto che non tutti gli allievi erano preparati per un corso teologico troppo impegnativo, quindi cominciò a scrivere per loro una “Summa theologiae”, per “presentare le cose che riguardano la religione cristiana, in un modo che sia adatto all’istruzione dei principianti”.
    La grande opera teologica, che gli darà fama in tutti i secoli successivi, fu divisa in uno schema a lui caro, in tre parti: la prima tratta di Dio uno e trino e della “processione di tutte le creature da Lui”; la seconda parla del “movimento delle creature razionali verso Dio”; la terza presenta Gesù “che come uomo è la via attraverso cui torniamo a Dio”. L’opera iniziata a Roma nel 1267 e continuata per ben sette anni, fu interrotta improvvisamente il 6 dicembre 1273 a Napoli, tre mesi prima di morire.
    Intanto Tommaso d’Aquino, per i suoi continui trasferimenti, non poteva più vivere una vita di comunità, secondo il carisma di s. Domenico di Guzman e ciò gli procurava difficoltà; i suoi superiori pensarono allora di affiancargli un frate di grande valore, sacerdote e lettore in teologia, fra Reginaldo da Piperno; questi ebbe l’incarico di assisterlo in ogni necessità, seguendolo ovunque, confessandolo, servendogli la Messa, ascoltandolo e consigliandolo; in altre parole i due domenicani vennero a costituire una piccola comunità, dove potevano quotidianamente confrontarsi.
    Nel 1267, Tommaso dovette mettersi di nuovo in viaggio per raggiungere a Viterbo papa Clemente IV, suo grande amico, che lo volle collaboratore nella nuova residenza papale; il pontefice lo voleva poi come arcivescovo di Napoli, ma egli decisamente rifiutò.

    Per tre anni di nuovo a Parigi e poi ritorno a Napoli

    Nel decennio trascorso in Italia, in varie località, Tommaso compose molte opere, fra le quali, oltre quelle già menzionate prima, anche “De unitate intellectus”; “De Redimine principum” (trattato politico, rimasto incompiuto); le “Quaestiones disputatae, ‘De potentia’ e ‘De anima’” e buona parte del suo capolavoro, la già citata “Summa teologica”, il testo che avrebbe ispirato la teologia cattolica fino ai nostri tempi.
    All’inizio del 1269 fu richiamato di nuovo a Parigi, dove all’Università era ripreso il contrasto fra i maestri secolari e i maestri degli Ordini mendicanti; occorreva la presenza di un teologo di valore per sedare gli animi.
    A Parigi, Tommaso, oltre che continuare a scrivere le sue opere, ben cinque, e la continuazione della Summa, dovette confutare con altri celebri scritti, gli avversari degli Ordini mendicanti da un lato e dall’altro difendere il proprio aristotelismo nei confronti dei Francescani, fedeli al neoplatonismo agostiniano, e soprattutto confutò alcuni errori dottrinari, dall’averroismo, alle tesi eterodosse di Sigieri di Brabante sull’origine del mondo, sull’anima umana e sul libero arbitrio.
    Nel 1272 ritornò in Italia, a Napoli, facendo sosta a Montecassino, Roccasecca, Molara; Ceccano; nella capitale organizzò, su richiesta di Carlo I d’Angiò, un nuovo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, insegnando per due anni al convento di San Domenico, il cui Studio teologico era incorporato all’Università.
    Qui intraprese la stesura della terza parte della Summa, rimasta interrotta e completata dopo la sua morte dal fedele collaboratore fra Reginaldo, che utilizzò la dottrina di altri suoi trattati, trasferendone i dovuti paragrafi.

    L’interruzione radicale del suo scrivere

    Tommaso aveva goduto sempre di ottima salute e di un’eccezionale capacità di lavoro; la sua giornata iniziava al mattino presto, si confessava a Reginaldo, celebrava la Messa e poi la serviva al suo collaboratore; il resto della mattinata trascorreva fra le lezioni agli studenti e segretari e il prosieguo dei suoi studi; altrettanto faceva nelle ore pomeridiane dopo il pranzo e la preghiera, di notte continuava a studiare, poi prima dell’alba si recava in chiesa per pregare, avendo l’accortezza di mettersi a letto un po’ prima della sveglia per non farsi notare dai confratelli.
    Ma il 6 dicembre 1273 gli accadde un fatto strano, mentre celebrava la Messa, qualcosa lo colpì nel profondo del suo essere, perché da quel giorno la sua vita cambiò ritmo e non volle più scrivere né dettare altro.
    Ci furono vari tentativi da parte di padre Reginaldo, di fargli dire o confidare il motivo di tale svolta; solo più tardi Tommaso gli disse: “Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”, aggiungendo: “L’unica cosa che ora desidero, è che Dio dopo aver posto fine alla mia opera di scrittore, possa presto porre termine anche alla mia vita”.
    Anche il suo fisico risentì di quanto gli era accaduto quel 6 dicembre, non solo smise di scrivere, ma riusciva solo a pregare e a svolgere le attività fisiche più elementari.

    I doni mistici

    La rivelazione interiore che l’aveva trasformato, era stata preceduta, secondo quanto narrano i suoi primi biografi, da un mistico colloquio con Gesù; infatti mentre una notte era in preghiera davanti al Crocifisso (oggi venerato nell’omonima Cappella, della grandiosa Basilica di S. Domenico in Napoli), egli si sentì dire “Tommaso, tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi?” e lui rispose: “Nient’altro che te, Signore”.
    Ed ecco che quella mattina di dicembre, Gesù Crocifisso lo assimilò a sé, il “bue muto di Sicilia” che fino allora aveva sbalordito il mondo con il muggito della sua intelligenza, si ritrovò come l’ultimo degli uomini, un servo inutile che aveva trascorso la vita ammucchiando paglia, di fronte alla sapienza e grandezza di Dio, di cui aveva avuto sentore.
    Il suo misticismo, è forse poco conosciuto, abbagliati come si è dalla grandezza delle sue opere teologiche; celebrava la Messa ogni giorno, ma era così intensa la sua partecipazione, che un giorno a Salerno fu visto levitare da terra.
    Le sue tante visioni hanno ispirato ai pittori un attributo, è spesso raffigurato nei suoi ritratti, con una luce raggiata sul petto o sulla spalla.

    Sempre più ammalato; in viaggio per Lione

    Con l’intento di staccarsi dall’ambiente del suo convento napoletano, che gli ricordava continuamente studi e libri, in compagnia di Reginaldo, si recò a far visita ad una sorella, contessa Teodora di San Severino; ma il soggiorno fu sconcertante, Tommaso assorto in una sua interiore estasi, non riuscì quasi a proferire parola, tanto che la sorella dispiaciuta, pensò che avesse perduto la testa e nei tre giorni trascorsi al castello, fu circondato da cure affettuose.
    Ritornò poi a Napoli, restandovi per qualche settimana ammalato; durante la malattia, due religiosi videro una grande stella entrare dalla finestra e posarsi per un attimo sul capo dell’ammalato e poi scomparire di nuovo, così come era venuta.
    Intanto nel 1274, dalla Francia papa Gregorio X, ignaro delle sue condizioni di salute, lo invitò a partecipare al Concilio di Lione, indetto per promuovere l’unione fra Roma e l’Oriente; Tommaso volle ancora una volta obbedire, pur essendo cosciente delle difficoltà per lui di intraprendere un viaggio così lungo.
    Partì in gennaio, accompagnato da un gruppetto di frati domenicani e da Reginaldo, che sperava sempre in una ripresa del suo maestro; a complicare le cose, lungo il viaggio ci fu un incidente, scendendo da Teano, Tommaso si ferì il capo urtando contro un albero rovesciato.
    Giunti presso il castello di Maenza, dove viveva la nipote Francesca, la comitiva si fermò per qualche giorno, per permettere a Tommaso di riprendere le forze, qui si ammalò nuovamente, perdendo anche l’appetito; si sa che quando i frati per invogliarlo a mangiare gli chiesero cosa desiderasse, egli rispose: “le alici”, come quelle che aveva mangiato anni prima in Francia.

    La sua fine nell’abbazia di Fossanova

    Tutte le cure furono inutili, sentendo approssimarsi la fine, Tommaso chiese di essere portato nella vicina abbazia di Fossanova, dove i monaci cistercensi l’accolsero con delicata ospitalità; giunto all’abbazia nel mese di febbraio, restò ammalato per circa un mese.
    Prossimo alla fine, tre giorni prima volle ricevere gli ultimi sacramenti, fece la confessione generale a Reginaldo, e quando l’abate Teobaldo gli portò la Comunione, attorniato dai monaci e amici dei dintorni, Tommaso disse alcuni concetti sulla presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, concludendo: “Ho molto scritto ed insegnato su questo Corpo Sacratissimo e sugli altri sacramenti, secondo la mia fede in Cristo e nella Santa Romana Chiesa, al cui giudizio sottopongo tutta la mia dottrina”.
    Il mattino del 7 marzo 1274, il grande teologo morì, a soli 49 anni; aveva scritto più di 40 volumi.
    Dante Alighieri, nella Commedia (Purgatorio, canto XX, v. 69) sostiene che il grande teologo sia stato avvelenato per ordine di Carlo d'Angiò; il Villani (Cronache IX, 218) riprende questa credenza, mentre l'Anonimo Fiorentino descrive il crimine e le sue motivazioni. Il Muratori, al contrario, riproducendo il resoconto di uno degli amici del teologo, non fa accenni ad eventuali congiure.

    Il suo insegnamento teologico

    La sua vita fu interamente dedicata allo studio e all’insegnamento; la sua produzione fu immensa; due vastissime “Summe”, commenti a quasi tutte le opere aristoteliche, opere di esegesi biblica, commentari a Pietro Lombardo, a Boezio e a Dionigi l’Areopagita , 510 “Questiones disputatae”, 12 “Quodlibera”, oltre 40 opuscoli.
    Tommaso scriveva per i suoi studenti, perciò il suo linguaggio era chiaro e convincente, il discorso si svolgeva secondo le esigenze didattiche, senza lasciare zone d’ombra, concetti non ben definiti o non precisati.
    Egli si rifaceva anche nello stile al modello aristotelico, e rimproverava ai platonici il loro linguaggio troppo simbolico e metafisico.
    Ciò nonostante alcune tesi di Tommaso d’Aquino, così radicalmente innovatrici, fecero scalpore e suscitarono le più vivaci reazioni da parte dei teologi contemporanei; s. Alberto Magno intervenne più volte in favore del suo antico discepolo, nonostante ciò nel 1277 si arrivò alla condanna da parte del vescovo E. Tempier a Parigi, e a Oxford sotto la pressione dell’arcivescovo di Canterbury, R. Kilwardby; le condanne furono ribadite nel 1284 e nel 1286 dal successivo arcivescovo J. Peckham.
    L’Ordine Domenicano, si impegnò nella difesa del suo più grande maestro e nel 1278 dichiarò il “Tomismo” dottrina ufficiale dell’Ordine. Ma la condanna fu abrogata solo nel 1325, due anni dopo che papa Giovanni XXII ad Avignone, l’aveva proclamato santo il 18 luglio 1323.

    Il suo culto

    Nel 1567 s. Tommaso d’Aquino fu proclamato Dottore della Chiesa e il 4 agosto 1880, patrono delle scuole e università cattoliche.
    La sua festa liturgica, da secoli fissata al 7 marzo, giorno del suo decesso, dopo il Concilio Vaticano II, che ha raccomandato di spostare le feste liturgiche dei santi dal periodo quaresimale e pasquale, è stata spostata al 28 gennaio, data della traslazione del 1369.
    Le sue reliquie sono venerate in vari luoghi, a seguito dei trasferimenti parziali dei suoi resti, inizialmente sepolti nella chiesa dell’abbazia di Fossanova, presso l’altare maggiore e poi per alterne vicende e richieste autorevoli, smembrati nel tempo; sono venerate a Fossanova, nel Duomo della vicina Priverno, nella chiesa di Saint-Sermain a Tolosa in Francia, portate lì nel 1369 dai Domenicani, su autorizzazione di papa Urbano V, e poi altre a San Severino, su richiesta dalla sorella Teodora e da lì trasferite poi a Salerno; altre reliquie si trovano nell’antico convento dei Domenicani di Napoli e nel Duomo della città.
    A chiusura di questa necessariamente incompleta scheda, si riporta il bellissimo inno eucaristico, dove san Tommaso profuse tutto il suo amore e la fede nel mistero dell’Eucaristia.

    “Pange lingua” di S. Tommaso d’Aquino (Testo latino)

    Pange língua gloriósi
    Córporis mystérium,
    Sanguinísque pretiósi,
    Quem in mundi prétium
    fructus ventris generósi
    Rex effúdit géntium.

    Nobis datus, nobis natus
    ex intácta Vírgine,
    et in mundo conversátus,
    sparso verbi sémine,
    sui moras incolátus
    miro cláusit órdine.

    In suprémae nocte cenae
    recúmbens cum frátribus,
    observáta lege plene
    cibis in legálibus,
    cibum turbae duodénae
    se dat suis mánibus.

    Verbum caro panem verum
    verbo carnem éfficit:
    fitque sanguis Christi merum.
    Et si sensus déficit,
    ad firmándum cor sincérum
    sola fides súfficit.

    Tantum ergo Sacraméntum
    venerémur cérnui:
    et antícuum documéntum
    novo cedat rítui:
    praestet fides suppleméntum
    sénsuum deféctui.

    Genitóri, Genitóque
    laus et jubilátio,
    salus, hónor, virtus quoque
    sit et benedíctio:
    procedénti ad utróque
    cómpar sit laudátio.

    Amen.

    “Pange lingua” (Traduzione italiana)

    Canta, o mia lingua,
    il mistero del corpo glorioso
    e del sangue prezioso
    che il Re delle nazioni,
    frutto benedetto di un grembo generoso,
    sparse per il riscatto del mondo.

    Si è dato a noi, nascendo per noi
    da una Vergine purissima,
    visse nel mondo spargendo
    il seme della sua parola
    e chiuse in modo mirabile
    il tempo della sua dimora quaggiù.

    Nella notte dell'ultima Cena,
    sedendo a mensa con i suoi fratelli,
    dopo aver osservato pienamente
    le prescrizioni della legge,
    si diede in cibo agli apostoli
    con le proprie mani.

    Il Verbo fatto carne cambia con la sua parola
    il pane vero nella sua carne
    e il vino nel suo sangue,
    e se i sensi vengono meno,
    la fede basta per rassicurare
    un cuore sincero.

    Adoriamo, dunque, prostrati
    un sì gran sacramento;
    l'antica legge
    ceda alla nuova,
    e la fede supplisca
    al difetto dei nostri sensi.

    Gloria e lode,
    salute, onore,
    potenza e benedizione
    al Padre e al Figlio:
    pari lode sia allo Spirito Santo,
    che procede da entrambi.

    Amen.

    Autore: Antonio Borrelli









    Sandro Botticelli, S. Tommaso d'Aquino, Fondation Abegg, Riggisberg, Berna

  2. #2
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    Predefinito Dalle «Conferenze» di san Tommaso d'Aquino (Conf. 6 sopra il «Credo in Deum»)

    Fu necessario che il Figlio di Dio soffrisse per noi? Molto, e possiamo parlare di una duplice necessità: come rimedio contro il peccato e come esempio nell'agire.
    Fu anzitutto un rimedio, perché è nella passione di Cristo che troviamo rimedio contro tutti i mali in cui possiamo incorrere per i nostri peccati.
    Ma non minore è l'utilità che ci viene dal suo esempio. La passione di Cristo infatti è sufficiente per orientare tutta la nostra vita.
    Chiunque vuol vivere in perfezione non faccia altro che disprezzare quello che Cristo disprezzò sulla croce, e desiderare quello che egli desiderò. Nessun esempio di virtù infatti è assente dalla croce.
    Se cerchi un esempio di carità, ricorda: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).
    Questo ha fatto Cristo sulla croce. E quindi, se egli ha dato la sua vita per noi, non ci deve essere pesante sostenere qualsiasi male per lui.
    Se cerchi un esempio di pazienza, ne trovi uno quanto mai eccellente sulla croce. La pazienza infatti si giudica grande in due circostanze: o quando uno sopporta pazientemente grandi avversità, o quando si sostengono avversità che si potrebbero evitare, ma non si evitano.
    Ora Cristo ci ha dato sulla croce l'esempio dell'una e dell'altra cosa. Infatti «quando soffriva non minacciava» (1 Pt 2, 23) e come un agnello fu condotto alla morte e non apri la sua bocca (cfr. At 8, 32). Grande è dunque la pazienza di Cristo sulla croce: «Corriamo con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia» (Eb 12, 2).
    Se cerchi un esempio di umiltà, guarda il crocifisso: Dio, infatti, volle essere giudicato sotto Ponzio Pilato e morire.
    Se cerchi un esempio di obbedienza, segui colui che si fece obbediente al Padre fino alla morte: «Come per la disobbedienza di uno solo, cioè di Adamo, tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19).
    Se cerchi un esempio di disprezzo delle cose terrene, segui colui che è il Re dei re e il Signore dei signori, «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 3, 2). Egli è nudo sulla croce, schernito, sputacchiato, percosso, coronato di spine, abbeverato con aceto e fiele.
    Non legare dunque il tuo cuore alle vesti ed alle ricchezze, perché «si sono divise tra loro le mie vesti» (Gv 19, 24); non gli onori, perché ho provato gli oltraggi e le battiture (cfr. Is 53, 4); non alle dignità, perché intrecciata una corona di spine, la misero sul mio capo (cfr. Mc 15, 17); non ai piaceri, perché «quando avevo sete, mi han dato da bere aceto» (Sal 68, 22).

    Filippino Lippi, Scena dalla vita di S. Tommaso, 1489-91, Basilica di S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa, Roma

    Filippino Lippi, Trionfo di S. Tommaso (S. Tommaso, circondato dalla Filosofia, dall'Astronomia, dalla Teologia e dalla Grammatica, trionfa degli eretici Ario, Apollinario, Averroes (a sinistra) e Sabellio, Euchite e Mani a destra), 1489-91, Basilica di S. Maria sopra Minerva, Roma

    Beato Angelico, Vergine con Bambino tra i SS. Domenico e Tommaso d'Aquino, 1424-30, Hermitage, San Pietroburgo

    Benozzo Gozzoli, Trionfo di S. Tommaso d'Aquino, 1471, Musée du Louvre, Parigi

    Antoine Nicolas, S. Tommaso d'Aquino fontana della Saggezza, 1648 circa, Transetto della Basilica di Notre Dame, Parigi

    Sebastiano Ricci, SS. Pio V, Tommaso d'Aquino e Pietro martire, 1730-33, Basilica di S. Maria del Rosario (Gesuati), Venezia

  3. #3
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    Predefinito

    Francesco Traini, Trionfo di S. Tommaso, 1340 circa, Basilica di Santa Caterina, Pisa

    Guercino, S. Tommaso d'Aquino scrive assistito dagli angeli, 1662, Basilica di S. Domenico, Bologna

    Francisco de Zurbarán, Apoteosi di S. Tommaso d'Aquino, 1631, Museo de Bellas Artes de Sevilla, Siviglia

    Abraham Jansz. van Diepenbeeck, S. Tommaso d'Aquino, 1640-50, Courtauld Institute of Art Gallery, Londra

    Santi di Tito, S. Tommaso dedica la sua opera a Cristo alla presenza della Vergine e Santi (Giovanni evangelista, Caterina d'Alessandria e Maria Maddalena), 1593, Basilica di S. Marco, Firenze

  4. #4
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    Predefinito «Predica sulla carità» di san Tommaso d'Aquino

    (Citato in Delfieux, Evangeliques, Fayard, 1988, p.28)

    Il principio di ogni bene sta in questo: la legge dell'amore è fonte di vita spirituale. E' un fatto naturale e manifesto che il cuore amante è abitato da ciò che ama. Colui che ama‑Dio lo possiede in sé. Chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui (1 Gv 4,16). La natura dell'Amore è proprio questa: trasforma nell'essere amato. Ama Dio e sarai divino. Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito (l Cor 6,17).

    E' questione di vita o di morte, perché Dio è la vita dell'anima; senza la carità, l'anima non agisce più. Chi non ama rimane nella morte (1Gv 3,14). Potreste possedere tutti i carismi dello Spirito santo, ma senza l'amore siete morti. Il dono delle lingue, il dono della fede, tutti i doni possibili e immaginabili non ti renderanno mai un vivente, se non ami, ma un morto: magari rivestito di oro e di gioielli, però soltanto un cadavere. L'amore illumina il cuore; infatti la Scrittura ci rivela che siamo circondati da tenebre. Spesso non sappiamo bene cosa fare, che desiderare. L'amore ci insegna tutto quanto è necessario per la salvezza. Il suo Spirito vi insegnerà ogni cosa (Cf. Gv 14,26) ci dice Gesù. Appunto perché dove sta l'amore, c'e lo Spirito Santo che tutto conosce, e ci conduce sulla via retta. E poi l'amore riversa in noi la gioia e la pace perfette; spetta a lui costituire la vera grandezza dell'uomo. Da schiavo lo rende amico. Perciò grazie all'amore non soltanto diveniamo liberi, ma figli, non di nome, ma in realtà. Tutti i doni scendono dal Padre dei lumi, ma nessuno eguaglia l'amore. Tutti gli altri possono essere posseduti senza l'amore, ma solo l'amore ci fa ricevere lo Spirito di santità.

    Francesco Solimena, S. Tommaso d'Aquino, Basilica di S. Domenico Maggiore, Napoli

    Guido di Pietro da Mugello, Polittico di S. Pietro Martire con la Madonna e Santi (SS. Tommaso d'Aquino, Pietro Martire, Domenico e Giovanni Battista), 1428-1429, Museo di S. Marco, Firenze

    Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, Visione di S. Tommaso d'Aquino, 1608-1613, Chiesa di S. Croce, Bosco Marengo

    Joos van Ghent, S. Tommaso d'Aquino, 1460-75

    Murillo, La visione di Fra Lauterio, 1638-40 circa, Fitzwilliam Museum, Cambridge. Si racconta che un frate e teologo francescano, Lauterio, avesse delle difficoltà circa una questione riguardante i suoi studi. Invocò S. Francesco d'Assisi che lo aiutasse a risolvere il quesito. In quel momento gli apparve la Vergine col Bambino ed i SS. Tommaso d'Aquino e Francesco d'Assisi. Il Serafico Padre suggerì al suo frate di consultare la Summa Theologica dell'Aquinate, dove avrebbe trovato la soluzione ai suoi dubbi, e che il frate non aveva studiato. Terminata l'apparizione, il frate consultò la Summa che trovò aperta alla pagina dove vi era la soluzione ai suoi dubbi teologici.

  5. #5
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    Predefinito Dai «Commenti sulla prima lettera ai Corinzi» di S. Tommaso d'Aquino

    Dai «Commenti sulla prima lettera ai Corinzi», Torino 1953, vol. I, 240-241

    Gesù Cristo mi ha mandato a evangelizzare, ma non con la sapienza delle parole, cioè con la sapienza mondana. Per sapienza delle parole l'Apostolo intende la retorica che insegna a parlare in modo cattivante, tanto da indurre gli uomini a assentire a errori e falsità.Ma dal momento che il testo greco riporta il termine «Logos», che significa «ragione» e «parola», si potrebbe più convenientemente intendere la ragione umana, la quale è inadeguata a evangelizzare perché i contenuti della fede la trascendono. Bisogna tuttavia notare che legittimamente usa della ragione umana colui che, supponendo i fondamenti della vera fede, assume a servizio della fede quelle verità che eventualmente trova nelle dottrine dei filosofi. Anche sant'Agostino dice: «La tecnica dell’eloquenza è indifferente quanto a indurre al male o al bene: perché non viene assimilata dai buoni con lo studio e l'esercizio per porla al servizio della bontà, dal momento che i cattivi la usurpano per le loro iniquità?» (De Doct. Christi 4,2.2).

    Alcune volte il modo di insegnare non è adatto all'argomento, soprattutto quando non si presta a esporre le verità principali di quella materia, come ad esempio capiterebbe a chi volesse procedere in dimostrazioni intellettuali attraverso metodi che non vanno oltre il livello dell'immaginazione e quindi di per sé non esprimono un contenuto intellettuale e astratto. Ciò che è precipuo nella religione cristiana è la salvezza nella croce di Cristo, per cui l'Apostolo dice: «lo ritenni infatti di non sapere altro di mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1 Cor 2,2). Chi nell'insegnare il cristianesimo si appoggia soprattutto alla sapienza umana, per quel che lo riguarda rende vana la croce di Cristo. Quindi insegnare con sapienza di parole umane non è modo conveniente alla catechesi cristiana. E' per questo che l'Apostolo dice: «Perché non venga resa vana la croce di Cristo» (1 Cor 1, 17), cioè, affinché, oscurata dai mezzi umani di sapienza, non venga meno la fiducia nella croce di Cristo.

    Più sopra abbiamo quindi precisato che se si dà la precedenza alla sapienza umana si rende vana la croce di Cristo: «La parola della Croce infatti», cioè l'annuncio della croce di Cristo, «è stoltezza», cioè sembra qualcosa di stolto «per quelli che vanno in perdizione» (1 Cor 1, 18), cioè per gli infedeli che si reputano sapienti secondo questo mondo, per il fatto che la predicazione della croce di Cristo contiene qualcosa che secondo l'umana sapienza pare impossibile; per esempio che Dio muoia e che l'onnipotente perisca sotto le mani dei violenti. La medesima predicazione presenta inoltre alcuni contenuti che sembrano contrari alla sapienza umana; per esempio che qualcuno, potendolo, non rifugga dalle umiliazioni: quanto Festo fece notare a Paolo che gli annunciava la potenza della croce: «Sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello» (At 26,24) e Paolo risponde nelle sue lettere: «Noi stolti a causa di Cristo» (1 Cor 4,10).

    Ma perché non si creda che la parola della croce contiene veramente in sé della stoltezza, aggiunge: «Ma per quelli che si salvano, per noi», cioè fedeli di Cristo che siamo da lui salvati, «è potenza di Dio» (1 Cor 1, 18), poiché essi attraverso la croce di Cristo conoscono un annientamento divino che ha il potere di vincere il demonio e il mondo: «Ha vinto il leone della tribù di Giuda» (Ap 5,5); morendo con Cristo ai vizi e alle concupiscenze, riconoscono in sé una forza superiore, secondo quanto è scritto: «Quelli che sono in Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5,24), per cui «Da lui (Gesù) usciva una forza che sanava tutti» (Lc 6,19).

  6. #6
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    Predefinito Le XXIV tesi tomiste

    I. - Potentia et actus ita dividunt ens, ut quidquid est, vel sit actus purus, vel ex potentia et actu tanquam primis atque intrinsecis principiis necessario coalescat.
    (Cf. S. Thomas, Métaphysiques, V, 14; IX, surtout I. I, 5, 7, 8, 9.- De Potentia, q. 1, a. 1 et 3; Somme théologique, Ire Partie, question 77, article 1, conclusion.)

    II.- Actus, utpote perfectio, non limitatur, nisi per potentiam, quae est capacitas perfectionis. Proinde in quo ordine actus est purus, in eodem non nisi illimitatus et unicus existit; ubi vera est finitus ac multiplex, in veram incidit cum potentia compositionem.
    (Cf. S. Thomas, I Contra Gentiles, ch. 43; I Sentences, dist. 43, q. 2.)

    III.- Quapropter in absoluta ipsius esse ratione unus subsistit Deus, unus est simplicissimus : cetera cunsta quae ipsum esse participant, naturam habent qua esse coarctatur, ac tamquam distinctis realiter principiis, essentia et esse constant.
    (Cf. S. Thomas, I Contra Gentiles, cc. 38, 52-54; Somme théologique, Ire Partie, q. 50, a. 2, ad. 3; L'Être et l'Essence, c. 5.)

    IV.- Ens, quod denominatur ab esse, non univoce de Deo, et creaturis dicitur, nec tamen prorsus aequivoce, sed analogice, analogia tum attributionis tum proportionalitatis.
    (Cf. S. Thomas, I Contra Gentiles, cc. 32-34; De Potentia, q. 7, a. 7.)

    V.- Est praeterea in omni creatura realis compositio subjecti subsistentis cum formis secundario additis, sive accidentibus : ea vera nisi esse realiter in essentia distincta reciperetur, intelligi non posset.
    (Cf. S. Thomas, I Contra Gentiles, c. 23; II Contra Gentiles, c. 52; Somme théologique, Ire Partie, q. 3; a. 6; L'Être et l'Essence, c. 7)

    VI.- Praeter absoluta accidentia est etiam relativum, sive ad aliquid. Quamvis enim ad aliquid non significet secundum propriam rationem aliquid alicui inhaerens, saepe tamen causam in rebus habet, et ideo realem entitatem distinctam a subjecto.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, q. 28, surtout a. 1.)

    VII.- Creatura spiritualis est in sua essentia omnino simplex. Sed remanet in ea compositio duplex : essentiae cum esse et substantiae cum accidentibus.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, questions 50-51 et 54; De spiritualibus creaturis, a. 1.)

    VIII.- Creatura vero corporalis est quoad ipsam essentiam composita potentia et actu; quae potentia et actus ordinis essentiae materiae et formae nominibus designantur.
    (Cf. S. Thomas, De spiritualibus creaturis, a. 1.)

    IX.- Earum partium neutra per se esse habet, nec per se producitur vel corrumpitur, nec ponitur in praedicamento nisi reductive ut principium substantiale.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, q. 45, a. 4; De Potentia, q. III, a. 1, ad. 12.)

    X.- Etsi corpoream naturam extensio in partes integrales consequitur, non tamen idem est corpori esse substantiam et esse quantum. Substantia quippe ratione sui indivisibilis est, non quidem ad modum puncti, sed ad modum ejus quod est extra ordinem dimensionis. Quantitas vero, quae extensionem substantiae tribuit, a susbtantia realiter differt, et est veri nominis accidens.
    (Cf. S. Thomas, IV Contra Gentiles, c. 65; I Sent., dist. 37, q. 2, a. 1, ad. 3; II Sent., dist. 30, q. 2, a. 1.)

    XI.- Quantitate signata materia principium est individuationis, id est numericae distinctionis (quae in puris spiritibus esse non potest) unius individui ab alio in eadem natura specifica.
    (Cf. S. Thomas, II Contra Gentiles, cc. 92-93; Somme théologique, Ire Partie, q. 50, a. 4; L'Être et l'Essence, c. II.)

    XII.- Eadem efficitur quantitate ut corpus circumscriptive sit in loco, et in uno tantum loco de quacumque potentia per hunc modum esse possit.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, IIIe Partie, q. 75; IV Sent., dist. 10, a. 3; Quodlib., III.)

    XIII.- Corpora dividuntur bifariam : quaedam enim sunt viventia, quaedam expertia vitae. In viventibus, ut in eodem subjecto pars movens et pars mota per se habeantur, forma substantialis, animae nomine designata, requirit organicam dispositionem, seu partes heterogeneas.
    (Cf. S. Thomas, I Contra Gentiles, c. 97; Somme théologique, Ire Partie, q. 18, aa. 1-2; q. 75, a. 1; V Métaphysiques, lect. 14e; De Anima, passim., et spécialement L. II, c.I.)

    XIV.- Vegetalis et sensibilis ordinis animae nequaquam per se subsistunt, nec per se producuntur, sed sunt tantummodo ut principium quo vivens est et vivit, et, cum a materia se tolis dependeant, corrupto composito, eo ipso per accidens corrumpuntur.
    (Cf. S. Thomas, II Contra Gentiles, cc. 80, 82; Somme théologique, Ire Partie, q. 75, a. 3, et q. 90, a. 2.)

    XV.- Contra, per se subsistit anima humana, quae, cum subjecto sufficienter disposito potest infundi, a Deo creatur, et sua natura incorruptibilis est atque immortalis.
    (Cf. S. Thomas, II Contra Gentiles, cc. 83 et suiv.; Somme théologique, Ire Partie, q. 75, a. 2; q. 90; q. 118; Questions disputées, De Anima, a. 14; De Potentia, q. 3, a. 2.)

    XVI.- Eadem anima rationalis ita unitur corpori, ut sit ejusdem forma substantialis unica, et per ipsam habet homo ut sit homo et animal et vivens et corpus et substantia et ens. Tribuit igitur anima homini omnem gradum perfectionis essentialem; insuper communicat corpori actum essendi, quo ipsa est.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, q. 76; II Contra Gentiles, cc. 56, 68-71; De Anima, a. 1; Quest. Disp., De Spiritualibus creaturis, a. 3.)

    XVII.- Duplicis ordinis facultates, organicae et inorganicae, ex anima humana per naturalem resultantiam emanant : priores, ad quas sensus pertinet, in composito subjectantur, posteriores in anima sola. Est igitur intellectus facultas ab organo intrinsece independens.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, qq. 77-79; II Contra Gentiles, c. 72; De Spiritualibus creaturis, a. 11 et suiv.; De Anima, a. 12 et ss.)

    XVIII.- Immaterialitatem necessario sequitur intellectualitas, et ita quidem ut secundum gradus elongationis a materia, sint quoque gradus intellectualitatis. Adaequatum intellectionis objectum est communiter ipsum ens; proprium vero intellectus humani objectum in praesenti statu unionis, quidditatibus abstractis a conditionibus materialibus continetur.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, q. 14, a. 1; q. 84, a. 7; q. 89, aa. 1-2; II Contra Gentiles, cc. 59, 72.)

    XIX.- Cognitionem ergo accipimus a rebus sensibilibus. Cum autem sensibile non sit intelligibile in actu, praeter intellectum formaliter intelligentem, admittenda est in anima virtus activa, quae species intelligibiles a phantasmatibus abstrahat.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, q. 79, aa. 3-4; q. 84, aa. 6-7; II Contra Gentiles, c. 76 et suiv.; De Spiritualibus creatoris, a. 10.)

    XX.- Per has species directe universalia cognoscimus; singularia sensu attingimus, tum etiam intellectu per conversionem ad phantasmata; ad cognitionem vero spiritualium per analogiam ascendimus.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, questions 85-88.)

    XXI.- Intellectum sequitur, non praecedit voluntas, quae necessario appetit id quod sibi praesentatur tanquam bonum ex omni parte explens appetitum, sed inter plura bona, quae judicio mutabili appetenda proponuntur, libere eligit. Sequitur proinde electio judicium practicum ultimum; at quod sit ultimum, voluntas efficit.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, qq. 82-83; II Contra Gentiles, cc. 72 et suiv.; De Veritate, q. 22, a. 5; De Malo, q. 11.)

    XXII.- Deum esse neque immediata intuitione percipimus, neque a priori demonstramus, sed utique a posteriori, hoc est, per ea quae facta sunt, ducto argumento ab effectibus ad causam : videlicet, a rebus quae moventur et sui motus principium adaequatum esse non possunt, ad primum motorem immobilem : a processu rerum mundanarum e causis inter se subordinatis, ad primam causam incausatam; a corruptibilibus, quae aequaliter se habent ad esse et non esse, ad ens absolute necessarium; ab iis quae secundum minoratas perfectiones essendi, vivendi, intelligendi, plus et minus sunt, vivunt, intelligunt, ad eum qui est maxime intelligens, maxime vivens, maxime ens; denique ab ordine universi ad intellectum sezparatum qui res ordinavit, disposuit et dirigit in finem.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, q. 2; I Contra Gentiles, cc. 12 et 31; III Contra Gentiles, qq. 10 et 11; De Veritate, qq. 1 et 10; De Potentia, qq. 4 et 7.)

    XXIII.- Divina essentia, per hoc quod exercitae actualitati ipsius esse identificatur, seu per hoc quod est ipsum Esse subsistens, in sua veluti metaphysica ratione bene nobis constituta proponitur, et per hoc idem rationem nobis exhibet suae infinitatis in perfectione.
    (Cf. S. Thomas, I Sent., dist. 8, q. 1; Somme théologique, Ire Partie, q. 4, a. 2; q. 13, a. 11.)

    XXIV.- Ipsa igitur puritate sui esse, a finitis omnibus rebus secernitur Deus. Inde infertur primo, mumdum nonnisi per creationem a Deo procedere potuisse; deinde virtutem creativam, qua per se primo attingitur ens in quantum ens, nec miraculose ulli finitae naturae esse communicabilem; nullum denique creatum agens in esse cujuscumque effectus influere, nisi motione accepta a prima Causa.
    (Cf. S. Thomas, Somme théologique, Ire Partie, qq. 44-45, 105; II Contra Gentiles, cc. 6-15; III, cc. 66-69; IV, c. 44; Questions disputées : de Potentia, surtout q. 3, a. 7.)

    FONTE

  7. #7
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    Predefinito Dagli “Opuscoli teologici” di san Tommaso d’Aquino

    De rationibus fidei, nell’ed. Leonina di Opera omnia, XL, Roma 1969, pp. 56 ss.

    Cristo scelse per sé genitori poveri e tuttavia perfetti nella virtù, affinché nessuno si glori della sola nobiltà del sangue e delle ricchezze dei genitori. Condusse vita povera per insegnare a disprezzare le ricchezze. Visse in semplicità, senza ostentazione, allo scopo di tenere lontani gli uomini dalla disordinata brama degli onori. Sostenne la fatica, la fame, la sete e le afflizioni del corpo affinché gli uomini proclivi alle voluttà e delicatezze, a motivo delle asprezze di questa vita non si sottraessero all’esercizio della virtù. Infine sostenne la morte per impedire che il timore di essa facesse abbandonare a qualcuno la verità. E perché nessuno avesse paura di incorrere in una morte spregevole a causa della verità, scelse il più orribile genere di morte, cioè la morte in croce. Così dunque fu conveniente che il Figlio di Dio fatto uomo patisse la morte, per indurre col suo esempio gli uomini alla pratica della virtù, di modo che risulti vero ciò che Pietro dice: “Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio affinché ne seguiate le orme"(1 Pt 2,21).

    Se infatti fosse vissuto ricco nel mondo e rivestito di potere e di qualche grande dignità, si sarebbe potuto credere che la sua dottrina e i suoi miracoli fossero accolti in forza del favore degli uomini e della potenza umana. Perciò, affinché fosse manifesta l’opera della divina potenza, scelse tutto ciò che nel mondo è vile e debole: una madre povera, una vita indigente, discepoli e messaggeri incolti, il disprezzo e la condanna a morte da parte dei magnati della terra, onde apparisse chiaramente che l’accettazione dei suoi miracoli e della sua dottrina non erano opera di potenza umana ma divina.

    A proposito di tutto questo c’è ancora un’altra cosa da tener presente. Secondo lo stesso piano provvidenziale per il quale il Figlio di Dio fatto uomo volle prendere su se stesso le debolezze umane, stabilì che anche i suoi discepoli – da lui costituiti ministri dell’umana salvezza - fossero essi pure disprezzati nel mondo. Perciò non li scelse dotti e nobili, ma senza cultura e di bassa condizione sociale, ossia poveri pescatori. E mandandoli a lavorare per l’umana salvezza, comandò loro di praticare la povertà, di accettare persecuzioni e ingiurie, e di subire anche la morte per la verità, cosicché la loro predicazione non apparisse esercitata per vantaggi terreni, e la salvezza del mondo non venisse attribuita alla sapienza e alla potenza dell’uomo, bensì soltanto a quella di Dio: per cui in essi – che secondo il giudizio del mondo sembravano spregevoli - non venne meno la potenza divina che opera cose mirabili.

    Questo era necessario per l’umana salvezza, affinché gli uomini imparassero a non confidare orgogliosamente nelle proprie forze, ma solo in Dio. Infatti per la perfezione della santità umana è richiesto che l’uomo si sottometta in tutte le cose a Dio, da lui speri di poter conseguire il possesso di ogni bene e riconosca di averlo da lui ricevuto.

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    Predefinito Dagli “Opuscoli teologici ” di san Tommaso d’Aquino

    Opuscula theologica, II, nn. 1137-1154, ed. Marietti, 1954.

    E’ evidente che non tutti possono dedicarsi a fondo alla scienza; e perciò Cristo ha emanato una legge breve e incisiva che tutti possano conoscere e dalla cui osservanza. nessuno per ignoranza possa ritenersi scusato. E questa è la legge della divina carità. Ad essa accenna l’Apostolo con quelle parole: “Il Signore pronunzierà sulla terra una parola breve” (Rm 9, 28).

    Questa legge deve costituire la norma di tutti gli atti umani. Come infatti vediamo nelle cose artificiali che ogni lavoro si dice buono e retto se viene compiuto secondo le dovute regole, così anche si riconosce come retta e virtuosa la azione dell’uomo, quando essa è conforme alla regola della divina carità. Quando invece è in contrasto con questa norma, non è né buona, né retta, né perfetta.

    Questa legge dell’amore divino produce nell’uomo quattro effetti molto desiderabili. In primo luogo genera in lui la vita spirituale. E’ noto infatti che per sua natura l’amato è nell’amante. E perciò chi ama Dio, lo possiede in sé medesimo: “Chi sta nell’amore sta in Dio e Dio sta in lui” (1 Gv 4, 16). E’ pure la legge dell’amore, che l’amante venga trasformato nell’amato. Se amiamo il Signore, diventiamo anche noi divini: “Chi si unisce al Signore, diventa un solo spirito con lui ” (1 Cor 6, 17). A detta di sant’Agostino, “come l’anima è la vita del corpo, così Dio è la vita dell’anima ”. L’anima perciò agisce in maniera virtuosa e perfetta quando opera per mezzo della carità, mediante la quale Dio dimora in essa. Senza la carità, in verità l’anima non agisce: “Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3, 14). Se perciò qualcuno possedesse tutti i doni dello Spirito Santo, ma non avesse la carità, non avrebbe in sé la vita. Si tratti pure del dono delle lingue o del dono della fede o di qualsiasi altro dono: senza la carità essi non conferiscono la vita. Come avviene di un cadavere rivestito di oggetti d’oro o di pietre preziose: resta sempre un corpo senza vita.

    Secondo effetto della carità è promuovere la osservanza dei comandamenti divini: “L’amore di Dio non è mai ozioso — dice san Gregorio Magno —quando c’è, produce grandi cose; se si rifiuta di essere fattivo, non è vero amore”. Vediamo infatti che l’amante intraprende cose grandi e difficili per 1’amato: “Se uno mi ama osserva la mia parola”(Gv 14, 25). Chi dunque osserva il comandamento e la legge dell’amore divino, adempie tutta la legge.

    Il terzo effetto della carità è di costituire un aiuto contro le avversità. Chi possiede la carità non sarà danneggiato da alcuna avversità: “Ogni cosa concorre al bene di coloro che amano Dio ”(Rm 8, 28); anzi è dato di esperienza che anche le cose avverse e difficili appaiono soavi a colui che ama.

    Il quarto effetto della carità è di condurre alla felicità. La felicità eterna è promessa infatti soltanto a coloro che possiedono la carità, senza la quale tutte le altre cose sono insufficienti. Ed è da tenere ben presente che solo secondo il diverso grado di carità posseduto si misura il diverso grado di felicità, e non secondo qualche altra virtù. Molti infatti furono più mortificati degli Apostoli; ma questi sorpassano nella beatitudine tutti gli altri proprio per il possesso di un più eccellente grado di carità. E così si vede come la carità ottenga in noi questo quadruplice risultato.

    Ma essa produce anche altri effetti che non vanno dimenticati: quali, la remissione dei peccati, l’illuminazione del cuore, la gioia perfetta, la pace, la libertà dei figli di Dio e l’amicizia con Dio.

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