...israeliani
Roma. Gli israeliani non lo chiamano “copà”, muro, ma “gader”, recinzione, e vorrebbero che tutti avessero bene in mente la differenza.
Battaglia persa, almeno per ora, visto che da quando è stata intrapresa la costruzione della barriera tra Israele e territori palestinesi in Cisgiordania, non passa giorno senza che venga rinfacciato a Gerusalemme di aver voluto un nuovo “muro di Berlino”. Ora, con l’approvazione della risoluzione Onu (sia pure non vincolante) contro il “muro” e per lo smantellamento della parte già edificata, quel parallelo indigeribile si trova ad avere una sorta di implicito avallo, e si candida a trovare nuovi sostenitori. Tra i quali, con lo stile che gli è proprio, si è segnalato José Saramago.
Il Nobel per la letteratura ha dichiarato infatti che la decisione di Israele “ci obbliga a ricordare i ghetti in cui gli stessi ebrei erano costretti a vivere”.
Ma ben più delle esternazioni di Saramago, appare impressionante l’unanimità europea, espressa senza tentennamenti nella condanna di quello che nasce come un sistema di difesa dalle incursioni dei kamikaze, deciso dopo una infinita catena di stragi. E’ un mondo smemorato, quello che assimila lo sbarramento in Cisgiordania al “muro della vergogna”.
Dimenticando, tra l’altro, che l’idea della barriera di separazione non è un parto del falco Sharon, ma nasce in casa progressista.
Il copyright dell’idea (“l’unica è uscire dai territori, senza aspettare un accordo che non arriva mai, e tirare su una barriera senza tanti complimenti, un muro, insomma un confine che sia netto e insuperabile”) appartiene infatti allo scrittore Abraham B. Yehoshua, campione del partito del dialogo.
Oggi Yehoshua sottolinea che c’è differenza tra la sua idea e l’operazione avviata da Sharon, che non prevede lo smantellamento degli insediamenti e penetra anche nelle zone destinate al futuro Stato palestinese.
Ma neanche per un momento rinnega la necessità del “gader”, della recinzione, prima di tutto sistema non violento di difesa. Subito approvato con entusiasmo dall’ex premier laburista Ehud Barak, così come da una parte importante del suo partito. E che tuttora, pur turbata dalla riprovazione internazionale, continua a pensare che il “gader” sia l’unica risposta adeguata alle emergenze del presente.
A differenza di quanto avviene per alcuni esponenti del Likud e per tutti i partiti religiosi, che temono che la demarcazione tagli fuori una parte degli insediamenti e contribuisca a disegnare i confini di un possibile futuro Stato palestinese.
L’America non ci casca
Dopo la condanna all’Onu, il vicepremier israeliano Ehud Olmert ha dichiarato che non cambia nulla: “La recinzione continuerà a essere eretta, e noi continueremo a prenderci cura della sicurezza dei cittadini di Israele”. Gli europei smemorati, invece, dovrebbero almeno rileggersi un intervento di Yehoshua sulla Stampa dell’11 agosto scorso, in cui lo scrittore puntualizza che il muro di Berlino e “il confine tra la Germania orientale e quella occidentale eretti dall’impero sovietico dividevano un popolo con una lingua, una cultura e un passato comune.
I tedeschi occidentali non volevano compiere attentati terroristici nella Germania dell’est e il confine non intendeva quindi proteggere i cittadini dalla violenza ma evitare che gli uni si ricongiungessero agli altri sotto un regime democratico”. E aggiunge: “Gli europei, che fino a pochi decenni fa si sono combattuti, hanno abbattuto vecchi confini e ne hanno fissato dei nuovi, hanno versato il sangue di decine di milioni di esseri umani… non possono essere tanto romantici da credere che ciò che hanno ottenuto con decenni di paziente lavoro possa essere raggiunto con uno schiocco di dita nel pieno di una lotta sanguinosa tra due popoli che hanno conosciuto solo conflitti”.
Gli americani, nel frattempo, meno romantici e più pragmatici degli europei, da una parte votano contro la risoluzione di condanna del “muro” e dall’altra alzano la guardia nello spinoso campo del mantenimento della pace multietnica in casa loro. Lo prova la decisione del segretario alla difesa, Rumsfeld, che ha avviato un’inchiesta interna sulle dichiarazioni del generale William G. Boykin, sottosegretario alla Difesa per l’intelligence.
Boykin, fervente evangelico, avrebbe detto in pubblico che l’Islam radicale vuole distruggere l’America “perché è una nazione cristiana”, e che quello venerato dai musulmani è “un idolo” e non “un vero Dio”. L’Amministrazione è stata costretta a puntualizzare che quella contro il terrorismo non è una guerra contro l’Islam. Un richiamo, ai massimi livelli, a non dimenticare che la forza dell’America è fatta di multiculturalismo.
saluti