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Discussione: Ciampi e Bouteflika

  1. #1
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    Angry Ciampi e Bouteflika

    Il presidente Ciampi ha recentemente visitato l'Algeria su invito del suo collega Bouteflika (quello che è stato eletto come unico candidato dopo che tutti gli altri si erano ritirati per i palesi brogli!).
    Ciampi sa cosa succede in Algeria?

  2. #2
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    Predefinito Algeria, cronaca di un massacro. Parla la gente

    “Hanno massacrato gli uomini e i bambini e violentato le donne” raccontano i testimoni che accusano anche l’esercito

    ash-Sharq al-Awsat (il Medio Oriente, Londra) 06/01/03


    I gruppi armati algerini hanno inaugurato il nuovo anno con due delle più violente e sanguinose stragi mai avvenute, provocando circa 56 vittime e numerosi feriti. Nella regione di Aures (Algeria sud-orientale) sono stati uccisi 43 militari in un’operazione attribuita al Gruppo salafita per la Da‘wa e la lotta, mentre un’altra compagine, che si presume appartenga al Gruppo Islamica Armata ha ucciso 13 abitanti di una cittadina a sud della capitale.

    La notte del 4 gennaio, infatti, non è trascorsa tranquilla per la popolazione di al-Bulayda [Boulaida, n.d.t.], 50 km a sud di Algeri, dopo che una falange armata di circa dieci persone ha compiuto una vera e propria carneficina, massacrando 13 persone. Alcuni degli abitanti, inerti testimoni dell’accaduto, hanno riferito ciò che hanno visto, dichiarandosi fortemente addolorati dall’impossibilità di poter impedire questi orribili eccidi, che sempre seguono all’irruzione dei terroristi nei loro villaggi.

    Un giovane ha detto: “Come possiamo opporci a questi sanguinari terroristi essendo del tutto indifesi?”. Una domanda questa, rivolta all’inizio di un dibattito intorno alle modalità di difesa diffuse dal Governo per i cittadini indifesi delle varie regioni.

    L’implicita accusa, contenuta nella dichiarazione, è naturalmente rivolta al potere centrale che “ha rifiutato” - stando alle parole della gente - “di aiutarci con le armi al punto che è fortunato chi ha i soldi necessari per ottenere il porto d’armi ed acquistarne una dallo Stato”. La cittadina in questione è lontana appena 300 metri dal posto di guardia, ma i militari hanno impiegato quasi due ore prima di giungere su luogo del massacro, dopo che tutti i lenzuoli erano già stati collocati sopra le vittime e dopo che anche l‘ultimo criminale era riuscito a dileguarsi.

    Il problema non è nuovo, anzi esiste già dalla strage del 1997, quando in una sola notte vennero massacrate più di cento persone ed il luogo della carneficina era lontano solo una decina di metri dai quartieri militari dell’esercito.

    I soldati della Guardia cittadina, però, non fanno altro che ripetere le stesse parole formulate dal Governo, dicendo: “Noi siamo obbligati a restare all’interno dei nostri quartieri e a muoverci finché giunge l’ordine ufficiale”. Tuttavia, tra l’arrivo dell’ordine e la sua effettiva esecuzione, tutto quanto c’è di più orribile si è già svolto.

    Questa volta nella cittadina di al-Bulayda gli uomini armati hanno fatto irruzione nel silenzio della notte, alle ventidue circa. Un uomo vestito dell’uniforme arancione dei militari ha fatto cenno ad altri due, sempre in abiti militari per aprire la strada agli altri. Un testimone racconta: “Uno di questi è venuto da noi ed ha chiesto di poter entrare nel centro di guardia, poiché una truppa dell’esercito sarebbe arrivata di lì a poco. Io però, dopo aver visto che questi due uomini calzavano scarpe da ginnastica e non gli stivali militari, ho capito che non avevano niente a che fare con l’esercito, bensì con i gruppi terroristi e non sapevo ancora quale disgrazia si sarebbe abbattuta sui nostri vicini. Ho detto loro che avrei chiamato i miei colleghi per entrare nel centro, come ci avevano chiesto, ma invece, ho radunato coloro che erano con me e siamo fuggiti. Così, siamo rimasti nascosti mentre ascoltavamo le disperate richieste d’aiuto e le donne che urlavano, poi il suono delle pallottole ha tagliato in due il silenzio della notte.

    Dopo un po’ di tempo siamo accorsi verso gli abitanti. Abbiamo trovato uno dei nostri compagni, la cui casa era stata il primo bersaglio dei terroristi, che avevano ucciso i suoi genitori e cinque dei suoi fratelli, il più piccolo dei quali aveva appena un anno, che sbatteva convulsamente la testa contro un palo di ferro. Solo un altro dei suoi fratelli si è salvato, poiché era andato a trascorrere la notte dai nonni. Gli aggressori hanno poi ripetuto il massacro in molte altre case, trucidando in massa genitori e figli, violentando le ragazze, prendendo i viveri ed vestiti delle vittime. Una bambina è riuscita a nascondersi dietro un cumulo di grano, dopo aver visto che le sarebbe toccato lo stesso destino dei suoi genitori massacrati sotto i suoi occhi.”

    Nella regione di Aures, esattamente nella città di Bistra [Beskra, n.d.t.], un gruppo di circa 20 persone presumibilmente appartenti al Gruppo salafita, guidato da Hassan al-Hattab, ha ucciso 43 soldati in una delle più tremende operazioni occorse da più di due anni. Il gruppo armato ha teso ai soldati un agguato in una regione conosciuta per le accidentalità del terreno e per le sue impervie montagne, scaricando su di essi una quantità immane di proiettili, oltre che -stando alle parole del giornale Le Matin - gas tossici. A differenza dell’altra strage resa nota immediatamente, quest’ultima è stata divulgata soltanto ieri [5 gennaio, n.d.t.].

    A.R.R.

  3. #3
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    Predefinito Massacri di Stato in Algeria, un ufficiale racconta l’inganno

    Libroscandalo di un parà che ha partecipato alle stragi travestito da estremista islamico

    Franco Fabiani, La Repubblica, 9 feb. 2001

    PARIGI — Molti dei massacri di civili che hanno insanguinato e insanguinano tutt’ora l’Algeria, attribuiti sistematicamente agli integralisti islamici, sono, al contrario, opera di fazioni dell’Esercito regolare che obbedendo agli ordini di questo o quel capo, in nome della guerra condotta contro i ribelli, assassinano, torturano, deportano in massa intere popolazoioni di campagne e villaggi.
    A confermare le numerose testimonianze dei superstiti di queste persecuzioni che in passato hanno denunciato l’implicazione delle forze armate nei massasri attribuiti agli integristi, arriva un librobomba: la drammatica testimonianza di un giovane ufficiale dei paracadutisti, Habib Souaidia, che dalla Francia dove si è rifugiato, porta prove dirette e precise.
    Questo ex ufficiale delle forze speciali, impegnato tra il ‘92 e il ‘95 nella lotta antiterrorista, descrive nella "La sporca guerra", i metodi impiegati dall’esercito in quella che si rivela essere una vera e propria strategia del terrore: rastrellamenti, deportazioni, esecuzioni sommarie di semplici civili presunti estremisti islamici, massacri di interi villaggi, attribuiti in seguito ai gruppi armati ribelli. «Ho visto dei colleghi bruciare vivo un ragazzo di 15 anni. Ho visto dei soldati travestirsi da terroristi e massacrare dei civili.Ho visto dei colonnelli assassinare a sangue freddo dei semplici sospetti. Ho visto degli ufficiali torturare a morte deigli islamici. Ho visto troppe cose».
    Il giovane ufficiale racconta come nella primavera del ‘94, a Lakhdaria, un territorio islamico a meno di cento chilometri da Algeri, accompagna un commando di ufficiali dei servizi antiterroristi, travestiti da "barbuti", venuti a rapire in tutta illegalità una dozzina di persone sospettate di simpatie islamiste. Tutti saranno assassinati. «Gente che viene arrestata, torturata, che viene uccisa e i loro cadaveri bruciati. Un ciclo infernale: dal quando sono arrivato ho visto almeno un centinaio di persone liquidate».
    Di episodi come questo il libro di questo testimone dall’interno di questq macabra storia, ne fornisce fino alla nausea. E la sua credibilià è difficilmente discutibile. Impossibile sopettarlo di simpatie verso gli islamici. È senza l’ombra di un rammarico che racconta di aver partecipato ai combatimenti contro i "barbuti" e «di averne uccisi più d’uno».
    Il libro su questa "Sporca guerra" viene ad arricchire in maniera incontestabile il dossier che a fatica le organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo si sforzano di mettere in piedi per denunciare l’impunità di queste pratiche criminali. Il giudice italiano Ferdinando Imposimato, nella prefazione che ha scritto per questo librodenuncia, afferma che la testimonianza di Habib Souaidia apporta «un insieme prezioso di notificazioni di crimine, con indicazioni precise di nomi, di luoghi e di date che possono servire di base ad azioni penali delle vittime e delle loro famiglie, ivi compreso dinanzi ai tribunali dei paesi europei».
    Su Le Monde di ieri, un gruppo d’intellettuali europei e maghrebini, tra i quali, il sociologo Pierre Bourdieu e lo storico VidalNaquet, tracciano un quadro drammatico della situazione algerina, sottolieando che testimonianze come quella odierna, permettono di stabilire la grave implicazione delle forze di sicurezza nelle vioazioni di ogni diritto civile ed umano che caratterizzano quella situazione. Ai governi europei e a quello francese in particolare che «ha troppo a lungo sostenuto la politica algerina, che sotto la copertura della lotta antiterrorista non è altro che lo sradicamento sia politico che fisico, di ogni opposizione», essi chiedono d’agire in maniera «imperativa», per arrestre il bagno di sangue.

  4. #4
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    Predefinito Massacro in diretta per i generali

    Bentalha tre anni dopo. Nuove rivelazioni denunciano la complicità dei militari nell’uccisione di 417 civili

    Massacro in diretta per i generali

    Algeria, un elicottero filmò la strage ma l’esercito restò fermo tutta la notte

    dal nostro inviato

    Valerio Pellizzari, Il Messagero, Domenica 3 Dicembre 2000

    PARIGI — Quella notte i "terroristi" massacrarono 417 persone — in gran parte donne, bambini, vecchi — nel villaggio di Bentalha alla periferia di Algeri. Per tutta la notte un elicottero militare sorvolò quel quartiere popolare trasmettendo le immagini al comando delle forze speciali. Per tutta la notte una colonna di blindati restò ferma con i fari accesi a 150 metri dalle case che venivano assaltate, tre posti di blocco dei militari impedirono per molte ore ai civili di andare in aiuto delle vittime, le guardie comunali che volevano intervenire furono aggredite dai soldati, ed una decina di ambulanze radunate già prima che iniziasse il massacro restarono immobili fino all’alba. Dopo la notte del 22 settembre ’97 Bentalha resta il simbolo di una violenza barbara e primitiva. Ma a distanza di tempo, testimonianza dopo testimonianza, quella strage rivela una gravissima complicità dei vertici militari algerini. Coinvolti troppe volte nella strategia della tensione, dopo il golpe bianco contro il Fronte islamico.
    Il generale Betchine — ex capo della sicurezza militare, uomo decisivo nella lotta dei clan — al momento del suo siluramento nell’estate ’98 minacciò di rendere pubblici i dossier sui massacri avvenuti nel ’97. Non era una sortita spettacolare, di facciata. Adesso quella minaccia generica rivela una dimensione ben più consistente. Si integra con i racconti di testimoni che hanno lasciato l’Algeria. Come Nesroulah Yous, imprenditore edile, residente a Bentalha. Come Habib Souaidia, tenente dei paracadutisti. Come altri che vogliono parlare ma senza esporsi alle ritorsioni.
    L’elicottero in missione sopra il villaggio la notte del 22 settembre era uno degli otto elicotteri di costruzione francese, modello Ecureuil-Scoiattolo, dipinti in bianco e blu, attrezzati con infrarossi ed altri strumenti elettronici sofisticati per fotografare dall’alto le zone di operazione. L’elicottero filmava in diretta il massacro che avveniva in quelle povere case vicino agli aranceti e trasmetteva le immagini al Comando generale della lotta anti-sovversione, dove i responsabili avevano il quadro esatto della scena, in tempo reale. Da lì gli ordini rimbalzavano agli ufficiali distaccati nel villaggio, protetti dietro la colonna dei blindati. Per quasi sei ore — dalle 23,30 alle 5 — i cosiddetti "terroristi", che anche quella notte non lanciarono alcuna rivendicazione credibile, si mossero indisturbati.
    L’elicottero aveva visto arrivare i camion con i banditi e li vedrà ripartire. Normalmente l’Ecureuil usciva in missione accompagnato da altri tre elicotteri di costruzione russa, più grandi e più rumorosi: il velivolo francese dava le coordinate, indicava i bersagli, poi gli altri tre intervenivano a bombardare con le bombe e con i razzi. Quella notte invece l’elicottero blu continuò a volare da solo.
    Nesroulah Yous si salvò saltando di terrazza in terrazza, da un muro ad un altro, rompendosi una gamba che ancora oggi lo fa penare. Decise che avrebbe speso il resto della sua vita a raccontare la cronaca dettagliata ed autentica di quella notte infame. Ha pubblicato da poco in Francia "Chi ha ucciso a Bentalha?". A parte le accuse generiche e gli insulti al telefono nessuna fonte ufficiale ha smentito il suo resoconto. Certo, per giustificare l’inerzia scandalosa e prolungata dei militari, le autorità hanno spiegato che la zona era stata minata dai terroristi. Ma i civili, le guardie comunali che volevano andare in aiuto alla fine non troveranno una sola mina.
    Il massacro cominciò con il verso degli sciacalli ripetuto da un aranceto ad un altro, seguito da una serie di esplosioni e dal lancio di proiettili traccianti. I "terroristi" passarono di porta in porta, dentro il piccolo perimetro del quartiere di Hai el Djilali, la città di Djilali. Usavano le bombole di gas, collegate a due fili elettrici, come bombe rudimentali per sfondare muri e portoni. Quei portoni di ferro che sono diventati negli ultimi dieci anni la protezione obbligata e primitiva di tutte le case algerine. Poi con asce e coltelli passavano di stanza in stanza tagliando, mutilando, bruciando. Non risparmiavano nessuno. Un giovane handicappato, soprannominato "Cioccolata", fu tagliato a pezzi e le sue urla attraversarono tutto il villaggio. Le donne con i bambini, ammassate come animali impauriti, imploravano: «Uccideteci con le pistole, non tagliateci la gola». Alcune di loro, ormai sicure della morte, si erano cosparse il collo con l’olio per fare scivolare meglio la lama degli assassini, per soffrire meno. Ma il gesto abituale di sgozzare i montoni quella notte si ripetè contro gli abitanti del villaggio, indistintamente.
    Yous racconta che i "terroristi" avevano strane barbe. Alcuni si nascondevano con il passamontagna. Ma lanciavano le stesse grida: veniamo e vi sgozziamo tutti. Il giorno dopo, quando i sopravvissuti tornarono sul luogo del massacro, trovarono un po’ ovunque siringhe e bustine di polvere bianca. Ma questa ipotesi dei "terroristi" che si drogano prima di compiere i massacri contro i civili è una voce che ricorre ormai da vari anni in Algeria. Invece il tenente Habib non ha bisogno di affidarsi alle dicerie. Lui viveva nelle caserme delle forze speciali e racconta con precisione come andavano le cose: «L’ottanta per cento delle unità speciali prende la droga prima di una operazione». Gli ufficiali lo sanno ma nessuno lo impedisce. Quelli che hanno tentato di intervenire sono stati trasferiti o rimossi. La droga non viene distribuita dentro le caserme, ma tutti i militari sanno dove andare a procurarsela. Forse solo così si spiegano i racconti che vengono da villaggi poverissimi, dove oltre alle madri sgozzate i bambini sono stati gettati nei pozzi o dentro i forni.
    Attorno a Bentalha quella notte erano dislocati complessivamente circa quattromila militari. I responsabili del massacro erano circa duecento. Ma la inerzia e la complicità delle forze regolari si era già vista in altro modo la sera del 28 agosto ’97 a Rais, a venti chilometri da Algeri, quando furono assassinate più di trecento persone. Il comandante dell’unità 772, forze speciali dell’aviazione, doveva proteggere la zona con centoventi uomini. Ma quella notte i superiori ne lasciarono sul posto solo trenta. L’ufficiale chiese ripetutamente rinforzi che non arrivarono mai. Un mese dopo la stessa unità si trovava a Bentalha, per rinnovare la sua dimostrazione di inerzia. L’ufficiale, troppo ostinato nelle sue richieste, ha subito procedimenti disciplinari ed un anno di prigione.
    Dopo Bentalha il generale Said Bey, comandante della Prima regione, è stato rimosso. In realtà finì in Svizzera, con un incarico diplomatico, a rappresentare il suo Paese presso le Nazioni Unite. I sopravvissuti al massacro dopo pochi giorni hanno ricevuto alcuni fucili che avevano chiesto con insistenza nei mesi precedenti per organizzare l’autodifesa del villaggio. Quella notte usarono le pietre, le bottiglie molotov e i coltelli. Dopo qualche settimana le autorità comunali hanno installato alcuni riflettori, chiesti da anni, per illuminare il quartiere di Djilali. Resta sempre in ombra la composizione dei gruppi terroristici legati al Gia, che è una sigla islamica estremamente ambigua. Ma ormai un numero sempre più vasto di ufficiali intermedi dell’esercito e della polizia testimonia che quelle bande erano composte da criminali autentici, da trafficanti, da sbandati, da gente ricattata, manipolata da alcuni clan militari. A Bentalha l’elicottero, i blindati, le ambulanze ed i posti di blocco sono serviti solo a garantire la puntualità e l’efficienza del massacro. Lo diceva anche il povero Messaud, testimone qualunque di quella notte infame. Fino a quando un ufficiale della gendarmeria non gli ordinò davanti a tutti con la pistola in pugno di tenere la bocca chiusa.

  5. #5
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    Predefinito UCCISI PER SERVIZIO

    Adista - Contesti
    N°4 dell'11 gennaio 2003

    UCCISI PER SERVIZIO

    Ex militare algerino rivela le circostanze del rapimento e
    dell’assassinio, nel 1996, dei sette monaci francesi di
    Tibehirine

    QUESTO ARTICOLO, DI ARNAUD DUBUS, È STATO PUBBLICATO SUL
    QUOTIDIANO FRANCESE "LIBÉRATION" (23/12/2002). TITOLO
    ORIGINALE: "LES SEPT MOINES DE TIBEHIRINE ENLEVÉS SUR ORDRE
    D’ALGER"


    Finora Abdelkader Tigha ha mantenuto il segreto. Solo
    qualche volta con i suoi rari visitatori ha ricordato il
    sequestro e l’assassinio, nel 1996, dei sette monaci
    francesi di Tibehirine in Algeria. "Non potrei dire tutto
    ciò che so se non in regime di protezione", ci dice in un
    primo momento. Un timore raddoppiato dalla paura di
    "rappresaglie sulla famiglia", che ha lasciato in Algeria.
    Carcerato da due anni nel Centro di detenzione per
    immigrati a Bangkok in condizioni molto dure, Tigha sa che
    non ha niente da perdere. La sua testimonianza su
    quest’affare, uno dei più eclatanti e oscuri svoltisi fra
    Parigi e Algeri, resta per questo ex-quadro dei servizi
    segreti algerini una delle ultime possibilità di farsi
    sentire da dietro le sbarre, dall’altra parte del mondo. Un
    racconto dettagliato - sei pagine di diligente scrittura -
    su un’operazione di cui Tigha è stato testimone e che
    doveva, secondo lui, "intossicare l’opinione internazionale
    e in particolare la Francia", affinché il sostegno francese
    ad Algeri di fronte alla "barbarie degli islamici radicali"
    non si indebolisse.
    Già all’epoca, i responsabili politici francesi e
    l’episcopato non nascondevano i loro sospetti su
    un’implicazione del Dipartimento Informazioni e Sicurezza
    (Drs), l’ex Sicurezza Militare (Sm), nel sequestro o
    nell’esecuzione dei monaci, ufficialmente attribuita ai
    Gruppi Islamici Armati (Gia). Ma è la prima volta oggi che
    un quadro di un servizio dipendente della Sm coinvolge
    direttamente i superiori nel dramma di Tibehirine.
    Rivalità armata dei Gia
    Nel marzo del 1996, Tigha è in forza al Centro territoriale
    di ricerca e indagine (Ctri) di Blida, nella Mitidja, a una
    quarantina di chilometri da Algeri, una delle regioni più
    "dure" di un Paese in piena guerra civile. Là, dopo circa
    10 anni, l’Armata islamica di Salvezza (Ais), braccio
    armato del Fronte islamico di salvezza (Fis), che aveva
    fino ad allora dominato i maquis (falange armata dei Gia,
    incaricata soprattutto dei sabotaggi, ndt), è in
    concorrenza con i commandos dei Gia. Una rivalità che vira
    ben presto verso lo scontro armato. I massacri di civili,
    che i Gia prendono a bersaglio prioritariamente, suscitano
    le prime domande sulla natura reale di questi gruppi. È
    precisamente questo, e più ancora la personalità del loro
    capo di allora, Djamel Zitouni, la questione centrale
    nell’affare dei monaci. Quest’uomo è in effetti sospettato
    di essere nel migliore dei casi un agente doppiogiochista,
    nel peggiore di essere al servizio della Sicurezza Militare
    dopo esserne stato allontanato. Manco a dirlo, la faccenda
    dei monaci pone una volta di più la questione del ruolo dei
    servizi di informazione algerini nella sporca guerra.
    Se non c’è dubbio che i Gia uccidano "in nome di Dio",
    alcuni diplomatici stranieri constatano da tempo
    infiltrazioni o manipolazioni nei maquis e sottolineano che
    "le condizioni della creazione dei Gia ne fanno uno dei
    movimenti armati meno trasparenti". Sei anni più tardi, le
    testimonianze a questo riguardo si sono moltiplicate. A
    luglio, durante il processo intentato a Parigi dal generale
    Nezzar, il vecchio uomo forte di Algeri, contro un giovane
    ufficiale dissidente, Habib Souaïdia, il colonnello Mohamed
    Samraoui aveva scosso il tribunale con la sua deposizione:
    "Arrivato a un certo punto, sinceramente, non si contavano
    più i gruppi che erano stati costituiti o infiltrati.
    Siccome nascevano in continuazione nuove strutture di
    sicurezza, non si sapeva a chi appartenevano questi gruppi,
    se era o no un gruppo amico. Ecco il caos al quale eravamo
    giunti. La situazione era diventata incontrollabile". È di
    questo colonnello, ex aggiunto del numero due della Sm,
    generale Smaïn Lamari, l’affermazione: "Il Gia è la
    creazione dei servizi di sicurezza".
    Missione speciale a Medea
    Il 24 marzo 1996, al Ctri di Blida, Abdelkader Tigha si
    stupisce di veder arrivare Mouloud Azzout, "un terrorista
    dei Gia", che passa per essere il braccio destro di Djamel
    Zitouni. Non è il contatto con Azzout che lo sorprende, ma
    il fatto che venga direttamente, e vi passi anche la notte,
    in questa caserma, luogo speciale delle operazioni
    d’infiltrazione dei maquis. "Gli incontri con Azzout - nota
    - si facevano solitamente in un appartamento ‘cassetta
    postale’ del Drs, a Blida".
    Il giorno dopo, verso le 9, "è il generale Smaïn Lamari ad
    arrivare a bordo della sua Lancia blindata per vedere
    personalmente Azzout". L’incon-tro dura più di due ore,
    nell’ufficio di Tigha. Quest’ultimo cita ad uno ad uno i
    cinque partecipanti, in particolare il colonnello M’henna
    Djebbar, capo del Ctri. Il giorno stesso, questo colonnello
    "ordina un’allerta di primo grado, che impedisce a chiunque
    di lasciare il proprio posto di lavoro". Le guardie e le
    sentinelle vengono sostituite da sottufficiali. La sera
    erano pronte due normali camionette J-5, in genere
    utilizzate per gli arresti. "Ho domandato a un collega:
    ‘Dove vanno?’". "Missione speciale a Medea".
    I monaci, soli testimoni
    A una trentina di chilometri da Blida, Medea, nel cuore
    della Mitidja, ricco pianoro agricolo chiuso fra montagne,
    è l’epicentro delle violenze. Dopo l’annullamento delle
    elezioni legislative del 1992, ogni roccia è un maquis,
    ogni tornante un’imboscata. Una dozzina di trappisti
    francesi non ha mai voluto lasciare Tibehirine. "Finché
    abbiamo un medico fra noi, gli uomini in armi ci
    risparmieranno". È fratel Luc ad avere l’unico dispensario
    della regione. Rifiuta di domandarsi chi assiste: "Un
    malato non è né un militare, né un maquisard. È un malato".
    Il monastero, che domina tutta la vallata, è un posto
    d’osservazione inespugnabile. Quando la guerra si amplifica
    e la popolazione è presa in ostaggio fra gli assassini dei
    gruppi armati e le esazioni dell’esercito, i monaci sono i
    soli testimoni esterni al conflitto. Dopo la loro morte,
    gli abitanti della zona avranno ancora più paura: "Ormai,
    non c’è più nessuno". Al Ctri di Blida, gli eventi
    subiscono un’accelerazione. Nella notte fra il 26 e il 27
    marzo, i due furgoni sono rientrati. "Si credeva ad un
    arresto di terroristi", racconta Tigha. "Erano purtroppo i
    sette monaci ad essere stati sequestrati. Sono stati
    interrogati da Mouloud Azzout. Due giorni dopo, li ha
    trascinati sulle alture di Blida, poi al posto di comando
    di Djamel Zitouni, in un posto detto "Tala Acha",
    costituito da rifugi sotterranei, di un’infermeria di
    fortuna e di una scuola per le reclute" dei Gia. Da questo
    nascondiglio, Azzout tiene i contatti con il centro di
    Blida.
    Nella Mitidja, le rivalità interne ai Gia rischiano di
    rovesciare la situazione. Hocine Besiou, meglio conosciuto
    come Abou Mosaâb, che dirige uno dei gruppi della zona
    Blida-Bougara-Sidi Moussa-Baraki, esige che Zitouni gli
    consegni i monaci. Una preda che, nella geografia dei
    maquis, non può che assicurare la supremazia. "Zitouni e
    Azzout hanno rifiutato fermamente il trasferimento degli
    ostaggi a Bougara. Ma hanno dovuto cedere quando i
    luogotenenti dei Gia hanno sostenuto la richiesta",
    prosegue Tigha.
    Djamel Zitouni sarà d’altronde obbligato a "giustificarsi"
    per aver ceduto, davanti al suo gruppo, in cui non
    necessariamente ogni "combattente" conosce il suo doppio
    gioco: prende a pretesto la possibilità di un
    rastrellamento militare nella zona. I monaci sono dunque
    portati presso i maquis di Bougara e Azzout andrà al Ctri a
    spiegarsi per questo trasferimento. "Ci resterà due
    settimane, prima di dare segni di vita", afferma Tigha.
    In Francia, il sequestro dei trappisti solleva un’immensa
    emozione. I responsabili politici si urtano di fronte al
    mutismo delle autorità algerine. "Siamo nelle loro mani per
    ottenere informazioni e ce la danno a bere. Ci dicevano di
    ‘essere sulla buona strada’ spiegandoci che ci avrebbero
    informato appena avrebbero avuto una pista", affermano
    all’epoca vari diplomatici francesi a "Libération",
    persuasi che Algeri "non alzerà un dito".
    Far scomparire ogni traccia
    Due emissari francesi tentano di avanzare nell’indagine,
    incoraggiati da un misterioso contatto dei Gia giunto
    all’ambasciata di Francia ad Algeri con una proposta di
    negoziato e con una cassetta registrata dei monaci. La
    faccenda farà gran rumore e le autorità algerine non
    nascondono la loro ostilità a questi pourparler. Se questo
    passo vanti doveva avere luogo, "il Drs avrebbe voluto che
    Azzout fosse l’interlocutore dei francesi", sottolinea
    Tigha. Quanto a Djamel Zitouni, il Drs esige che vada lui
    stesso a recuperare gli ostaggi nei maquis di Bougara. Come
    dire un viaggio senza ritorno in quello che era il periodo
    più sanguinoso, fra guerra civile e guerra dei maquis, per
    questo testimone divenuto troppo ingombrante nel momento in
    cui l’operazione stava per sfuggire di mano ai servizi di
    sicurezza algerini. "Zitouni è stato ucciso nel tragitto,
    in un’imbo-scata tesa dall’Ais", riprende Tigha. "La sua
    neutralizzazione e la scomparsa di Azzout sopprimevano ogni
    traccia che incriminava i nostri servizi. Zitouni sarà
    dichiarato morto solo a luglio". Ben dopo i monaci.
    È in effetti con un comunicato del 21 maggio 1996 che i Gia
    annunciano la loro morte: "Il presidente francese e il suo
    ministro degli Affari esteri hanno dichiarato che non
    avrebbero negoziato con i Gia, tagliando così il filo del
    dialogo. E noi, da parte nostra, abbiamo tagliato la gola
    ai sette monaci".
    Una settimana più tardi, il 30 maggio, le loro teste
    saranno scoperte per terra o appese a un albero in sacchi
    di plastica all’uscita di Medea.

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    Predefinito ALGERIA: VIOLENZA CONTINUA

    ALGERIA: VIOLENZA CONTINUA
    di Francesco Postiglione



    Sembrava impossibile, ma la situazione dei diritti umani in Algeria in questo inizio di terzo millennio, già tornata ai livelli di allarme degli anni più bui dei massacri indiscriminati, è andata ancora peggiorando. Tutto questo mentre ancora non si spegne l’eco delle polemiche sulla pubblicazione, l’8 febbraio, del libro La sporca guerra di Habib Souadia, ex-ufficiale dell’esercito algerino, nel quale si denuncia il coinvolgimento di gruppi interni alle forze armate, fino ai più alti vertici militari, in alcuni dei più gravi massacri commessi durante il 1997 e il 1998. L’intervista che Souaidia ci ha concesso, e che pubblichiamo nelle prossime pagine, dà la misura della gravità delle accuse di Souadia nei confronti dei militari algerini.



    Stragi, massacri e uccisioni indiscriminate continuano a mietere centinaia di vittime ogni mese, in buona parte civili, assassinate durante attentati o scontri con i gruppi di opposizione armata. È ripresa la triste pratica degli assalti a famiglie intere, sgozzate o uccise a coltellate, donne bambini e anziani compresi.

    Si registra inoltre una ulteriore brutalizzazione delle tensioni sociali in Algeria, probabilmente frutto combinato della nuova escalation di uccisioni e di una situazione socio-economica di grande povertà e incertezza: vi sono attacchi alle donne giovani o alle coppie, da parte di presunti membri di forze religiose conservatrici. Ad Annata una donna ha rischiato di morire bruciata viva dopo che un uomo l’ha aggredita con una tanica di benzina. A Tiaret otto persone, quattro coppie, sono morte per lo stesso motivo. Le autorità ritengono che la responsabilità sia di persone legate a gruppi conservatori. In ogni caso, si tratta di un nuovo fenomeno di violenza: finora nessuno aveva attaccato individualmente donne sole o in coppia con il proprio partner cercando di ucciderle tra le fiamme.

    Ma la più grave fonte di preoccupazione per la situazione dei diritti umani in questi mesi deriva dallo sviluppo di un nuovo fenomeno di protesta da parte della popolazione nei confronti delle autorità, in particolare della Gendarmeria. Tutto è iniziato ad aprile, nella inquieta regione della Kabilia, abitata da etnie berbere e quindi da sempre tendente a un certo separatismo, a seguito dell’uccisione di un ragazzo in una caserma della polizia. La rivolta scaturita da questo episodio, le cui circostanze non sono ancora state chiarite del tutto, ha dato vita a quella che di fatto è stata la più grande ondata di proteste della storia algerina: nei mesi successivi si sono svolte numerose manifestazioni, ognuna delle quali con la partecipazione di oltre 50.000 persone, che hanno subito assunto un carattere nazionale di rivolta, nonostante il tentativo del governo di presentarle come una forma di insubordinazione alle leggi dello stato da parte di un ristretto gruppo etnico. Di fatto, dalla Kabilia l’ondata di protesta si è allargata a tutta l’Algeria, coinvolgendo anche la capitale.

    Purtroppo durante queste manifestazioni, ripetutesi quasi senza sosta in questi mesi, sono avvenuti scontri durissimi fra la popolazione e le forze dell’ordine, che hanno causato più di 80 morti fra i dimostranti. Le circostanze di queste uccisioni hanno dato vita esse stesse a una campagna di protesta e provocato l’indignazione generale da parte di stampa e società civile. Il presidente Bouteflika ha accettato di istituire una commissione di inchiesta, che il 28 luglio ha pubblicato il suo rapporto preliminare. Questo afferma che fra il 22 e il 28 aprile almeno 50 persone sono morte per colpi di arma da fuoco esplosi da elementi delle forze di sicurezza durante le dimostrazioni; sono denunciati anche casi di persone uccise con le armi da fuoco dopo che le manifestazioni erano concluse. Il rapporto non tace nemmeno i numerosi casi di arresti arbitrari e torture che sono seguiti alle manifestazioni, durante la detenzione di alcuni dimostranti nelle caserme della Gendarmeria.

    Commentando le conclusioni del rapporto della commissione d’inchiesta, AI ha chiesto che si faccia completa luce, attraverso indagini esaustive ed imparziali che prendano in esame caso per caso tutti gli abusi commessi.



    INTERVISTA:

    OSTAGGI DI UNA SPORCA GUERRA



    Habib Souaidia, 31 anni, rifugiato politico a Parigi, è un ex ufficiale del ramo speciale anti-terrorismo dell’esercito algerino. Paracadutista delle forze speciali, luogotenente di stato, si arruolò volontariamente nel 1989 dopo essere uscito dalla prestigiosa accademia militare di Cherchell. Nel 1995 venne arrestato e condannato a quattro anni di prigione militare con l’accusa di furto.

    L’8 febbraio l’editore Discouvert ha pubblicato il suo libro La sale guerre (trad. La sporca guerra), scatenando un caso politico: Souaidia denuncia a chiare lettere i crimini a suo dire commessi da alcune autorità di stato durante i massacri del 1997 di Benthalha e Rais, nei quali persero la vita circa 700 persone.

    Nella prefazione al libro Ferdinando Imposimato, prestigioso giudice italiano anti-terrorismo, sostiene che le accuse di Souaidia sono credibili e costituiscono indizi di reato che vanno indagati da una commissione internazionale indipendente.

    Recentemente alcuni soci del Gruppo AI Italia 100 di Milano hanno incontrato Habib Souaidia, ponendogli alcune domande.



    Abdelhamid Brahimi, ex primo ministro algerino dal 1984 al 1988 ed ora rifugiato politico, ha dichiarato: "Tutti i massacri nei dintorni di Algeri in questi ultimi anni (Benthalha, Rais, Beni Massous) sono avvenuti in luoghi molto vicini a insediamenti militari e sono durati 6 o 7 ore senza problemi, nonostante l’allarme dato dalla popolazione locale". Come commenta queste affermazioni?

    Sono d’accordo. Come ho spiegato nel mio libro, io nel ‘97 e nel ‘98 mi trovavo in prigione, pertanto non ho preso parte personalmente a questi massacri. A Benthalha sono state uccise quasi 400 persone e il massacro è stato attribuito al Gia (Gruppo islamico armato).

    Posso farvi i nomi delle unità permanenti che operano in quella regione: per esempio, l’Unità 770 delle forze speciali che appartiene all’aviazione, come pure il diciottesimo Reggimento di paracommando la cui base è nei pressi di Benthalha, senza dimenticare le tre basi elicotteristiche, i commissariati di polizia, i miliziani e i gruppi di autodifesa. L’esercito è complice dei terroristi: ha lasciato che massacrassero la popolazione, che ammazzassero tutti e riuscissero a scappare senza che nessuno di loro fosse arrestato o indagato.

    All’epoca, tutte le forze che facevano parte dell’esercito potevano essere lanciate da un elicottero, in caso di necessità, senza alcun problema: voglio dire che le truppe delle unità speciali avrebbero dovuto soccorrere la popolazione in questo modo. Infine, i luoghi teatro dei massacri non sono nemmeno stati accerchiati, il che avrebbe consentito almeno di prendere i terroristi. Nessun colonnello, nessun generale ha dato ordine di circondare Benthalha per fermare gli assassini.

    Anche il massacro di Rais si è verificato in una regione in cui sono stanziati molti militari, unità delle forze speciali, della fanteria, ecc. Nel ’98 ho incontrato il sottotenente Tarrah Dellkhade: la notte del massacro era presente e non ha potuto fare nulla per intervenire; poi è stato condannato da un tribunale militare e imprigionato per un anno nel carcere di Ghidala, dove mi trovavo anch’io, e così l’ho conosciuto. Lui ha sempre rimproverato ai capi militari di avere ordinato a tutte le unità di non intervenire, specialmente durante le ore notturne.

    Era previsto che di notte ci fosse sempre un distaccamento di 120 soldati all’interno del villaggio, senza contare tutti gli altri che si trovavano attorno a Rais. Lui mi ha raccontato che, la notte del massacro, di soldati sul posto ce n’erano solo 30 e che oltre la metà delle forze che erano state destinate a difendere la popolazione di Rais erano state allontanate e trasferite altrove.

    Quella notte, ha aggiunto, aveva paura perché c’erano dei terroristi che riuscivano a infiltrarsi nella caserma e non aveva gli uomini necessari per difendere la postazione militare e la popolazione. Per ben quattro ore ha sentito delle urla, ha visto delle persone che venivano uccise, ha cercato di sparare, ma al tempo stesso non poteva aprire il fuoco sulla folla che si dirigeva verso di lui ed era nel panico più totale. Era buio, non c’erano riflettori, se non quello della caserma. Fin dall’inizio, il sottufficiale ha chiesto rinforzi al comando: ha aspettato quattro ore, ma nessuno li ha aiutati ed anzi, come a Benthalha, i rinforzi si sono fermati a 5-600 metri dal paese. Lui chiedeva al suo comandante: "Ma cosa aspettate?" e l’altro rispondeva "Attendo gli ordini", quelli del capo di stato maggiore generale Mohamed Lamari o del comandante della regione militare, che si chiamava Beissaid. Questi è il principale responsabile dei massacri di Benthalha e Rais. Dopo di lui, i generali Smail Lamari e Mohamed Lamari. Sono loro i comandanti della prima regione militare.



    Sempre Brahimi afferma che "il Gia è opera dei servizi segreti algerini"…

    Non sono d’accordo. Io ho iniziato a combattere il terrorismo nel ‘92-‘93, quando abbiamo cominciato ad eseguire operazioni contro i gruppi armati. Esistono davvero. Solo che all’inizio le loro azioni erano mirate, colpivano prevalentemente i militari oppure chi aveva familiari o amici all’interno della polizia o dell’esercito. Bisognerà aspettare il 1997, di gran lunga l’anno peggiore di tutti, per assistere a bagni di sangue in cui perdono la vita fino a 400 persone per volta. Ci sono enormi differenze tra un gruppo armato e l’altro. Comunque, i gruppi armati esistono sul serio e rivendicano la paternità dei massacri.

    Tutta quella gente, sia essa composta da militari o da gruppi armati, deve capire che occorre riportare la pace in Algeria, che questa guerra deve finire. Perché questo accada, è necessario che le organizzazioni internazionali e i paesi in cui vengono rispettati i diritti umani ci aiutino a mobilitare i governi europei affinché i generali mafiosi vengano arrestati e venga istituita una commissione di inchiesta internazionale composta da persone oneste in grado di condurre un’indagine libera e trasparente.



    Il generale Mohamed Lamari, capo dell’esercito, ha parlato di una delirante campagna di stampa, influenzata da interessi stranieri. Del suo libro, dice che è privo di qualunque obiettività ed originalità e manca di valore letterario e documentario. Lei viene dipinto come un individuo che ha abusato del suo rango, un ladro giudicato da una corte marziale e espulso dall’esercito. Qual è il suo commento?

    Non ho scritto il libro con l’intento di diventare un romanziere e non sono mai stato uno scrittore. Ho semplicemente voluto portare una testimonianza, perché il popolo algerino ha sofferto molto. Nessuno di loro, né Mohamed Lamari né Smail Lamari né alcun altro responsabile militare dirà mai che Habib Souaidia è onesto e dice la verità: è chiaro, io li ho accusati di essere i veri responsabili di quanto accade in Algeria ormai da 10 anni. Sono diversi mesi che la stampa algerina scrive cose incredibili sul mio conto e sul mio libro, dicendo che io sono un bugiardo e che non ho raccontato la verità.

    Il giorno in cui Mohamed Lamari ha parlato all’esercito, 47 ufficiali sono stati uccisi. È stato un avvertimento chiaro: chiunque si permetterà di fare ciò che ha fatto Habib Souaidia verrà ucciso. Non è la prima volta che Lamari si macchia di simili colpe, ha già ucciso dei civili semplicemente perché li sospettava di complicità con i gruppi armati. Io l’ho accusato perché è uno dei principali responsabili di tutti i massacri e della guerra in generale. È ovvio che lui cerchi di difendersi.



    Nel suo libro, lei parla più volte del coinvolgimento della Francia nell’addestramento di rami dell’esercito alla "sporca guerra". Può essere più preciso su questo punto?

    Non sono solo gli agenti dei servizi segreti algerini a venire in Francia a fare addestramento. Il generale Mohamed Lamari, per esempio, ha frequentato la Scuola di guerra qui in Francia, dove ha appreso le strategie belliche francesi per applicarle poi nei confronti del popolo algerino: la strategia della guerriglia, della terra bruciata e dei massacri.

    La complicità della Francia si estende anche alla vendita di armi. Siamo in possesso di immagini e documenti che dimostrano la vendita al Ministero della difesa algerino di elicotteri militari progettati per bombardare villaggi e nascondigli. Tutto questo per dire che i primi a sostenere questo regime militare in Algeria sono proprio i francesi.



    Come valuta il fatto che, nell’ultima loro visita, i delegati di AI si sono visti respinta la richiesta di incontrare i generali algerini e sono stati attaccati dalla stampa?

    "Loro" sono al di sopra della legge. Per "loro" è inaccettabile che una delegazione di AI venga a chiedere di rendere conto delle proprie azioni. Si sentono onnipotenti, superiori a tutti, semplicemente ritengono di non dovere rendere conto a nessuno. Sono talmente arroganti che sarebbero disposti a continuare questa guerra ancora per anni, per decenni, perché l’unica cosa che conta per loro è rimanere al potere.

    Ringrazio AI per il suo atto coraggioso; sono certo che presto o tardi un’altra delegazione tornerà in Algeria e chiederà nuovamente di poter parlare con il generale Lamari e altri gerarchi militari per chiedere spiegazioni.



    Secondo AI, vi sono almeno 4.000 casi di "sparizioni" irrisolti dal 1992 ad oggi. Per altre fonti, i casi sarebbero addirittura 20.000. Chi sono e dove sono attualmente gli "scomparsi"?

    È doloroso parlare degli "scomparsi". Ho incontrato molti familiari ai quali ho detto molto sinceramente che non credo siano veramente "scomparsi". Io ho combattuto i terroristi e so come si facevano sparire le persone. Queste 4.000 persone che mancano all’appello sono state sequestrate dalle forze dell’ordine; si tratta nella maggior parte dei casi di simpatizzanti del Fronte islamico di salvezza, ma anche di uomini che non c’entrano nulla con gli islamici. Purtroppo non torneranno mai: questi 4.000 uomini sono morti, è terribile a dirsi. Ho visto coi miei occhi uomini bruciati vivi per farli scomparire dalla faccia della terra.



    Cosa possono fare gli attivisti per i diritti umani di ogni parte del mondo per porre fine alle violenze in Algeria e combattere l’insidiosa ondata di impunità che si sta diffondendo?

    Continuare ad aiutarci per riportare l’ordine e la giustizia in Algeria. I cittadini europei devono organizzare manifestazioni, scrivere ai loro governi per chiedere di non finanziare più questa guerra, di non inviare più denaro ai generali algerini.

    In seguito si potrebbe fare come in occasione della visita a Parigi del generale Nezzar, quando i familiari delle vittime e degli "scomparsi" lo hanno denunciato, costringendolo a lasciare la Francia in tutta fretta. Si potrebbe fare lo stesso in Italia, in Germania e altrove, denunciare i generali per torture e omicidio. È importante, perché se un giorno ci sarà un tribunale internazionale che processerà i generali, ci saranno già delle denunce di tortura provenienti da diversi paesi. Lo scopo ultimo è di condannare i generali per crimini contro l’umanità e per farlo occorrono testimonianze e denunce. Ecco perché lancio questo appello a tutti coloro che in Europa si battono per la giustizia e i diritti umani: aiutateci a farla finita con questa guerra!



    Vuole raccontare un episodio della sua vita che ha descritto ne La sporca guerra?

    Il fatto più terribile è l’uccisione di un ragazzino di 15 anni, bruciato vivo. Io affiancavo alcuni ufficiali della polizia giudiziaria ed è così che sono stato costretto ad assistere a quello spettacolo orribile. Poi hanno detto che era colpa dei terroristi… Mi chiedo veramente che differenza c’è tra un terrorista e un militare quando ci si macchia di un crimine così!

    A coloro che cercano il dialogo, che dicono che bisogna dimenticare, io rispondo che bisogna processare i colpevoli. Ci sono ufficiali che si sono macchiati di orrori incredibili e vivono in totale impunità, continuano a fare quello che vogliono, si pongono al di sopra della legge, si sentono onnipotenti. Non potrò mai dimenticare quel ragazzino di 15 anni, come pure altre persone che hanno fatto la stessa fine.



    Qual è il suo stato d’animo?

    Non ne posso più di questa guerra, non vedo l’ora che finisca, perché io mi trovo qui, esiliato in Francia, mentre la mia famiglia è in Algeria, dove continuano ad esserci uccisioni e massacri. A volte mi chiedo se questa guerra finirà mai…



    Fine. Per ulteriori informazioni sulla situazione dei diritti umani in Algeria, si può contattare il Coordinamento Nordafrica della Sezione Italiana (Francesco Postiglione, f.postiglione@amnesty.it)

 

 

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