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Discussione: L'Europa al bivio.

  1. #1
    SENATORE di POL
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    Predefinito L'Europa al bivio.

    Discorso pronunciato dal presidente del Senato della Repubblica, MARCELLO PERA al convegno «1995-2005. Dieci anni di Liberal»
    Roma, 4 marzo 2005:



    " Discorsi
    L’Europa alla prova dell’Unione




    1. Senza etichette

    Da tempo l’Europa è al centro delle mie preoccupazioni. Lo è perché ho molte speranze, ma sono perplesso sul suo stato attuale e sul suo futuro. Lo è perché so che cosa è stata, nel bene e nel male, mi piace ciò che potrebbe essere, ma non ho chiaro che cosa sia e voglia essere. E lo è perché, nonostante siamo nel mezzo del processo di ratifica del Trattato costituzionale, non riesco a scorgere, né in Italia né altrove, una discussione adeguata a questo evento storico. Invece, si dovrebbe parlarne molto di più, senza posizioni preconcette, senza concessioni retoriche, senza ostilità o entusiasmi predefiniti. E soprattutto senza trasformare il tema in una bandiera di propaganda politica a scopi nazionali.

    Cercherò di mettere in ordine i miei sentimenti sollevando tre problemi, che ritengo cruciali. Il primo: quale Europa stiamo costruendo? Il secondo: quali relazioni euroatlantiche sono utili? Il terzo: il Trattato costituzionale europeo è adeguato?

    Per onestà intellettuale, e per cercare di essere più chiaro possibile e perciò più facilmente comprensibile anticipo le mie risposte.

    L’Europa è ad un bivio fra due identità. Una era nota da molto tempo ma è stata abbandonata, l’altra è stata imboccata di recente, ma non è chiaro in quale direzione porti. Questa è la risposta alla mia prima domanda.

    La risposta alla seconda domanda, posso sintetizzarla nella formula “orgoglio e pregiudizio”. Da una parte, l’Europa è tentata di essere una grande potenza, con poteri, politiche, princìpi, valori, culture, suoi propri, diversi da, e anche contrapposti a, gli analoghi americani. Questa è l’Europa ostile, in varie forme e con varia intensità, all’America. Dall’altra parte, è invece convinta che il legame con l’America debba essere stretto, che il destino debba essere comune, che le distinzioni non possano essere differenze e le differenze non debbano produrre divergenze o divisioni.

    Infine, la risposta al terzo problema. Il Trattato costituzionale europeo non è una vera e propria costituzione. Non lo è per le procedure di decisione dell’Unione, che sono ancora troppo simili a quelle intergovernative. Non lo è neppure per lo spirito. Per questo manca il popolo e mancano i rappresentanti del popolo con le funzioni adeguate alla volontà del popolo. Il Trattato costituzionale europeo è uno strumento formidabile e una tappa utile di un processo molto lungo. Ma oggi esso è più importante per ciò che impedisce (il ritorno all’indietro) che per ciò che costruisce (la federazione europea).

    Quando si discute seriamente, non c’è niente di peggio delle definizioni e delle etichette. Sovente queste si usano e si attribuiscono allo stesso modo in cui si indossano le magliette per fare il tifo alla propria squadra. Ma, poste all’inizio di un dibattito, definizioni e etichette sono gabbie che impediscono la discussione approfondita e producono solo controversie verbali. Per questo, converrebbe dimenticarle tutte. Senza etichette si è più liberi.

    E ora cercherò di articolare le mie domande e le mie risposte.

    2. Identità spirituale e identità geopolitica

    L’Europa deve decidere la propria natura e darsi una propria identità. Una l’aveva trovata nel dopoguerra ed era quella dei Padri fondatori: l’identità culturale e spirituale. Secondo i Padri, Adenauer, De Gasperi, Schuman, l’Europa doveva essere una civiltà, prima che un’area economica e di sicurezza. Ed era strettamente alleata con l’America, considerata soggetto appartenente alla stessa civiltà. Questa alleanza non era aggiuntiva, al contrario era costitutiva. I padri avevano in mente un’unica zona euroatlantica contrassegnata da comuni interessi, comuni princìpi, comuni valori, comuni istituzioni. «Il sorgere di un’Europa unita – disse de Gasperi – non può significare differenza e addirittura concorrenza con l’alleanza mondiale patrocinata dall’America perché anzi essa appare, come è, inquadrata nella comune speranza del mondo libero». E circa il tipo di identità spirituale che i Padri pensavano per l’Europa, Adenauer fu assai esplicito: «consideravamo mèta della nostra politica estera l’unificazione dell’Europa, perché unica possibilità di affermare e salvaguardare la nostra civiltà occidentale e cristiana contro le furie totalitarie».

    Questo tipo di Europa dall’unica identità culturale e spirituale è morta due volte: nel 1954, quando fallì la Comunità europea di difesa, e nel 2003, quando dal Progetto di Trattato fu eliminato il riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Ognuno può misurare il fallimento del percorso che va dall’Europa sede di civiltà cristiana all’Europa che è incapace persino di ammettere di essere stata formata dalla tradizione cristiana.

    Chiusa questa strada, oggi l’Europa ne ha imboccata un’altra, quella dell’identità geopolitica. Ciò vuol dire che i confini dell’Europa continueranno ad allargarsi progressivamente, e con essi si amplierà l’area di sicurezza, di libertà e mercato ai paesi nuovi, i quali cesseranno man mano di essere le nuove frontiere europee. Si tratta di quella che talvolta si chiama l’“Europa dei diritti”.

    Questa identità è, al tempo stesso, più modesta e più ambiziosa della precedente. È più modesta, perché un’unità di diritti positivi civili, politici, economici, sociali è più diluita di un’unità spirituale. È più ambiziosa, perché un’unità di diritti, ogni volta che importa paesi nuovi, esporta libertà e democrazia.

    Se questa è l’ambizione, essa però deve fare i conti con parecchie difficoltà.

    Una è quella che, siccome non c’è identità per quanto debole senza un confine definito, procedere senza porre limiti geografici all’espansione rischia di minare la solidità dell’impianto europeo, perché porta in seno all’Europa tensioni e contraddizioni non facilmente gestibili. Più si estendono i confini, meno è agevole garantire gli stessi diritti.

    Un’altra difficoltà proviene dalla forza, in particolare economica. I diritti non sono gratuiti, costano e in particolare quei diritti sociali che sono una specialità europea costano moltissimo. Ce la farà l’Europa a mantenere il suo benessere attuale, che è la ragione non ultima della sua capacità di attrazione? Avrà un’Europa sempre più larga e ancora allargabile la capacità di garantire a tutti i cittadini i suoi diritti, restando competitiva rispetto alle altre potenze geopolitiche con le quali si troverà in concorrenza? Oppure questa concorrenza farà diminuire corrispondentemente i diritti degli europei? E in tal caso, come si conserverà la coesione europea?

    C’è ancora una difficoltà e riguarda la volontà politica. Per numero di abitanti, risorse, capacità produttive, tecnologia, ricerca, possibilità di crescita, l’Europa può diventare un’unica grande potenza mondiale. Di fatto, lo è già. Ma una grande potenza ha un ruolo, non solo interno ma anche esterno. Non ha soltanto una politica di sicurezza domestica, ma anche una sola politica estera e una sola politica militare. Vorrà l’Europa giocare questo ruolo? Vorrà giocare le partite fuori casa? L’esperienza recente ci dice che questi problemi sono ancora in gran parte da risolvere.

    3. Con o senza l’America?

    Il tema dell’identità geopolitica dell’Europa e del ruolo che ad essa compete ci porta al secondo punto: i rapporti fra l’Europa e gli Stati Uniti.

    Che abbiano toccato la soglia più bassa è noto. Ma è utile riflettere sul perché.

    L’Europa sembra voler essere “postmoderna”. Ma se si chiede in che cosa questa postmodernità europea propriamente consista c’è di che preoccuparsi. Essa consiste di relativismo, multiculturalismo, nichilismo, pacifismo, esercizio leggero del potere, rifiuto della forza, volontà di declinare le proprie responsabilità, desiderio di stare alla larga dalle zone calde, salvo che non siano nel giardino di casa. Insomma, la postmodernità dell’Europa consiste nel contrario della sua identità geopolitica, o comunque l’una va in una direzione diversa, se non opposta, a quella dell’altra. La geopolitica va verso la forza, non necessariamente militare. La postmodernità va verso la scomparsa o l’affievolimento della soggettività, che non è necessariamente arroganza.

    Questo è ciò che più allontana l’Europa dall’America, come si è visto su quasi tutte le principali iniziative importanti dell’America dopo l’11 settembre, dalla guerra in Iraq al Grande Medio Oriente, alle strategie di esportazione della democrazia, alla percezione del rischio della rinascita del fanatismo islamico, alla diffusione della cultura dei diritti umani fondamentali.

    Il risultato di questo allontanamento è una sorta di isolazionismo da parte dell’Europa, opposto al nuovo interventismo americano, quel wilsonismo idealistico, non irenico bensì armato, che caratterizza l’attuale amministrazione americana e che in Europa è invece sovente considerato una forma di imperialismo o una volontà di ingerenza nella vita degli altri paesi. La tendenza isolazionistica europea può avere cause contingenti, ma non sembra essere effimera. L’inerzia, l’assenza, la timidezza, persino la paura, dell’Europa derivano da decenni di sicurezza garantita, di benessere economico, di assenza dalle responsabilità, di pace protetta. Finito il comunismo, una buona parte dell’Europa credeva di poter stare per sempre in un’oasi felice. È come se, nonostante tutte le smaliziate acutezze culturali del suo passato e le tante ironie sull’argomento, l’Europa credesse davvero alla “fine della storia” o alla “pace perpetua”.

    Questa duplice tendenza – all’isolazionismo dell’Europa e all’interventismo unilaterale dell’America – deve essere contrastata. Da entrambe le parti. Da parte europea, perché un’Europa isolata è innaturale e insostenibile, e comunque sarebbe destinata a dividersi al suo interno di fronte alle grandi crisi. Ma la tendenzza deve essere contrastata anche da parte americana. È probabile che gli Stati Uniti non sentano il bisogno di un’Europa unita e identitaria. È probabile che non ne abbiano l’interesse e che credano che sia più utile avere più linee telefoniche in Europa, anche se alcune sempre occupate, piuttosto che un solo numero. È probabile che siano tentati da un’Europa ausiliaria anziché partner. O che tutto ciò che essi desiderano sia un’Europa salda nell’alleanza transatlantica, fedele agli ideali democratici e del libero mercato, forte economicamente, che estenda la propria area di stabilità e sviluppo alle regioni limitrofe, che contribuisca alla governance mondiale e coadiuvi gli Stati Uniti nell’opera di mantenimento dell’ordine internazionale con coalizioni ad hoc.

    Questo sarebbe un errore. Se gli Stati Uniti ragionassero sulla base del presupposto che l’unità europea è un mito e che su molte questioni internazionali l’Europa è, e resterà, divisa, non è sicuro che farebbero il loro stesso interesse. Il “cherrypicking” può essere ricco un giorno e povero il giorno dopo. Una coalizione di “volenterosi” europei che agisca a seconda dei menu delle crisi internazionali può essere utile in un caso, ma non in altri, mentre i “non volenterosi”, anche contro la loro stessa volontà, potrebbero creare difficoltà maggiori, all’interno dell’Europa con nuove tensioni, all’esterno con la loro assenza dal teatro mondiale. E la stessa impresa di diffondere libertà e democrazia potrebbe diventare insostenibile per i soli Stati Uniti.

    Ora che le cose sembrano cambiare – dopo le elezioni in Iraq, i fatti in Ucraina, le manifestazioni in Libano, i primi colloqui fra Israele e Autorità palestinese, i tanti sintomi di novità nel mondo arabo e islamico – l’Europa medesima sembra voler ripensare la sua recente esperienza. Sarebbe un errore lasciarla sola a coltivare il proprio unilateralismo e non cercare invece di costruire nuovi ponti e strade di comunicazione.

    4. Il Trattato costituzionale

    Aiuta il Trattato costituzionale europeo a trovare questi ponti e a dare un’identità all’Europa? È il mio terzo e ultimo punto.

    La firma a Roma del documento che per la prima volta nella storia della costruzione europea dà una base costituzionale all’Unione è stata senz’altro uno sviluppo importante ed è giusto sottolinearlo. E tuttavia è giusto sottolinearne anche i limiti.

    In primo luogo, dovremo aspettare ancora gli esiti delle ratifiche dei 25 stati membri, prima di poter considerare la carta costituzionale come acquisita. La certezza sul risultato positivo di questo processo è tutt’altro che solida.

    In secondo luogo, la carta costituzionale presenta difetti evidenti. È lunga più di quanto ragionevolmente una Carta costituzionale possa esserlo; è minuziosa su dettagli, ciò che è comprensibile in un trattato fra stati ma non in una Costituzione; ha una carta di diritti ipertrofica su alcuni punti, in particolare i diritti sociali, e stranamente reticente su altri o ambigua su altri ancora; ha un preambolo retorico.

    Infine, c’è il problema della predominanza del diritto. Anche se nussun testo costituzionale contiene in sé tutte le interpretazioni che la sua vita futura ne darà, il Trattato costituzionale europeo è tutt’altro che chiaro fin dalla lettera. Un articolo dice che «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti alla Costituzione e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali» (art.5). Un altro, il successivo, sembra smentirlo. Esso dice che «la Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze a questa attribuite prevalgono sul diritto degli Stati membri» (art.6).

    Si tratta, per gli Stati, di un’enorme cessione di sovranità, la quale diventerà maggiore o minore, andrà in questa o quella direzione, assumerà questo o quell’aspetto a seconda delle giurisprudenze nazionali e della Corte di Giustizia, cioè di organismi di garanzia ma non democratici o comunque che possono sfuggire al controllo democratico di Stati e popoli. Il futuro dell’Europa dovrebbe dipendere più da scelte politiche che da decisioni giurisdizionali.

    Alcuni paesi europei hanno preso la questione di petto. Hanno modificato le loro costituzioni, hanno posto clausole, hanno fissato controlli di costituzionalità preventiva, sono ricorsi a maggioranze qualificate o a referendum. In Italia ci si avvale di un articolo della nostra Costituzione, la cui adeguatezza allo scopo di una sì grande cessione di sovranità e con sì vaste conseguenze non è esente da discussioni e obiezioni.

    È augurabile che ci sia più consapevolezza, più dibattito, più conoscenza. Quella che c’è è poca rispetto alla posta in gioco. Soprattutto gli europeisti dovrebbero chiedere più riflessione. L’Europa è un’opportunità e un obiettivo. Sarebbe un obiettivo mancato se i nostri sforzi fossero già considerati conclusi con la cerimonia della firma di un Trattato.
    "


    Saluti liberali

  2. #2
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    " Un’Europa che funzioni



    Di Carlo Pelanda ( IL GIORNALE : 3-6-2005)



    Dal 1995 al 1998 ho scritto qui gli argomenti che mostravano come il costruire un’architettura europea a partire dal tetto avrebbe comportato un effetto impoverente indiretto della moneta unica ed il rischio di gravi dissensi nelle nazioni. Ora è evidente. Dal 1999 ad oggi ho segnalato che ci volevano urgentissime iniezioni di cemento realistico nell’edificio europeo per non farlo crollare. Ora è evidente. Non voglio alcuna soddisfazione contro chi mi ha chiamato euroscettico, ma chiedo loro, e a tutti voi, di essere aperti ad un modo razionale di pensare l’Europa. Il metodo usato per costruirla dal Trattato di Maastricht in poi non funziona. Inutile negarlo o gioirne perché ambedue gli atteggiamenti porterebbero al disastro per tutti. Va, invece, trovato un metodo di costruzione europea che possa funzionare.

    Uno era in vigore fino al 1989. Si chiamava “metodo funzionalista” e prescriveva di unire quelle cose che andavano bene a tutte le nazioni, posponendo quelle più difficili, ma con l’obiettivo condiviso di perseguire una crescente integrazione. In tale metodo venivano combinati sia la pressione unificante sia il pragmatismo. Richiamiamo in servizio chi lo disegnò? In realtà non lo inventò alcuno, ma fu creato dai fatti. Anzi, semplificando, da risposte realistiche alla domanda “Europa per che cosa?”. Negli anni ’50 fu: per non farci più la guerra e per restare uniti contro la minaccia sovietica. E iniziò una integrazione utile per tale scopo. Negli anni ’80 fu: oltre che per fare fronte comune anche per diventare più ricchi facendo un mercato unico. E l’Atto unico firmato a Milano nel 1985 fu uno splendido esempio di un’Europa che funzionava integrando ciò che era chiaramente utile e rimandando ciò che non lo era ancora per tutti, ma mettendolo nell’agenda futura. Come mai, dal 1990 in poi, fu abbandonato un metodo che faceva funzionare l’Europa? Perché la Francia ebbe paura che la Germania riunificata potesse diventare la potenza singola del continente e concepì un piano per ingabbiarla: imporle di sostituire il marco con l’euro e di accettare le conseguenti regole di sovranità limitata. Tale obiettivo strategico di Parigi trasformò il negoziato per il Trattato di Maastricht (1990 – 1993) da rifinitura dell’Atto unico nella costruzione “a strappo” di una architettura finalizzata ad europeizzare la Germania. Kohl restò per un po’ indeciso, ma nel settembre del 1996 accettò tale soluzione perché temeva che dopo di lui sarebbe risorto il nazionalismo germanico e che, pertanto, si sarebbe riaperta la “questione tedesca”. In sintesi, l’euro e l’idea di una Unione europea (con)federale non nacquero in quella occasione, ma furono imposti anticipatamente, senza valutarne fattibilità e conseguenze, per l’urgenza francese di legare Berlino. E di mantenere viva la diarchia franco-tedesca sull’Europa. Il punto: il metodo funzionalista che costruiva la casa a partire dal muro fu sostituito da uno che pretende di farlo cominciando dal tetto. Questo è il motivo per cui si è fatto un euro senza governo europeo dell’economia, prima di ottenere dalle nazioni adeguate riforme interne e con regole che, di fatto, le ostacolavano. Una mostruosità che ha generato impoverimenti reali degli europei. Seconda solo al caos istituzionale prodotto dal voler forzare l’unione – costituzionalizzata – di nazioni non pronte ad esserlo. Ora i non e nee alla Costituzione europea hanno svelato l’infattibilità del metodo “a strappo”. Sarà possibile tornare a quello funzionalista? Sarà necessario, ma adesso abbiamo l’euro – catastrofica la sua eventuale dissoluzione - che costringe gli europei ad un coordinamento stretto. Significa che dovremo unire più cose di quelle che sono possibili. Quindi il nuovo metodo dovrà essere funzionalista, ma anche capace di forzare almeno quegli elementi di integrazione economica necessari al regime della moneta unica. Si può fare, mi permetterò di dare esempi concreti, ma prima è necessario un chiarimento che invoco con questo articolo: quanti di noi sono disposti a pensare realisticamente e non in modo eurolirico? Con meno euroballe un’Europa che funzioni la troveremo.

    www.carlopelanda.com
    "

    Saluti liberali

  3. #3
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    Predefinito Robert Kagan e l'opinione neoconservatrice USA


  4. #4
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    " Il laicismo che uccide l'Europa

    " L'Europa che si ispira all'illuminismo e che rifiuta di menzionare le radici cristiane, cestinando la sua stessa storia e la sua stessa origine, è un continente debole, molle, in crisi d'identità, in difficoltà economica, che non fa figli, che sta letteralmente morendo
    ". George Weigel (teologo conservatore, biografo di Giovanni Paolo II).


    Shalom

  5. #5
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    " 09/06/2005
    La Francia, un paese malato senza dottori


    Provate a immaginare un paese con oltre il 10% di disoccupati. Provate a immaginare un paese in cui ogni riforma viene combattuta nelle piazze dai sindacati con una serie di scioperi e manifestazioni. Provate a immaginare un paese in cui la regolamentazione che regola i licenziamenti è di 30 pagine. Provate a immaginare un paese in cui una persona su quattro lavora per lo Stato. E provate a immaginare un paese in cui il presidente non ha ancora deciso, dopo decenni di attività politica, se la via da seguire per il bene del paese sia quella socialista o quella liberale (ammesso che sappia cosa sia). Bene, quella che state immaginando è un paese molto vicino: è la Francia. Jacques Chirac ripete da alcuni anni sempre la medesima frase: "ho capito il messaggio degli elettori". Era successo dopo la presenza di Le Pen al secondo turno delle presidenziali, è successo dopo che la sinistra ha trionfato nelle elezioni regionali ed è nuovamente avvenuto dopo lo schiaffo inferto dal popolo alla Costituzione europea, fortemente voluta e difesa dallo stesso presidente.
    Questa volta Chirac è andato ancora oltre. Ha promesso radicali cambiamenti e ha lanciato appelli all'unità nazionale per combattere la piaga della disoccupazione. Ha cambiato primo ministro e ieri Dominique de Villepin ha presentato il suo piano. Invece di attaccare il problema alla radice, quello di una legislazione sul lavoro troppo regolamentata, cerca di apportare dei correttivi di facciata. Lo Stato destinerà 4,5 miliardi di euro al piano del premier, ma la realtà è che la Francia non ha bisogno di un ulteriore ricorso al denaro pubblico. Ha bisogno di libertà contrattuale e economica e di una drastica riduzione del diritto di veto dei sindacati e dei dipendenti pubblici, esercitato tramite scioperi a oltranza. Ciò di cui la Francia necessita non è un piano contro la disoccupazione (si arriverà al punto di pagare la gente con denaro pubblico affinché accettino un lavoro), ma di un programma liberale volto a favorire la crescita economica. Non si tratta qui di investire denaro, ma di deregolamentare e liberalizzare. Dopo quanto presentato ieri da Dominique de Villepin difficilmente sentiremo ancora Jacques Chirac ripetere agli elettori: "ho capito il vostro messaggio". Questo non perché riuscirà nel suo intento, ma semplicemente perché dopo le presidenziali del 2007 non avrà più occasione di farlo.
    "
    da:
    http://pinocchio.blogspirit.com/poli...nternazionale/



    Saluti liberali

  6. #6
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    dal sito di EMPORION

    " Usa e Europa
    L’Occidente spezzato
    intervista a Ernesto Galli della Loggia di Cristiana Vivenzio




    Di Stati Uniti, egemonia americana, rapporti con la Vecchia Europa, lotta al terrorismo e di molto altro ancora abbiamo conversato con Ernesto Galli della Loggia, professore di storia contemporanea a Perugia ed editorialista del “Corriere della Sera”. Partendo da un controverso punto di discussione: che fine ha fatto il multilateralismo americano? E’ definitivamente finito il tempo delle scelte multilaterali? “Tutti sostengono di apprezzare e di volere il multilateralismo. Nessuno si chiede però se esso sia anche possibile. Nessuno si chiede cioè se il multilateralismo per vivere non implichi l’esistenza di certi presupposti validi ancora oggi”.



    Quali presupposti?

    Attualmente tra Europa e Stati Uniti non esiste una delle condizioni preliminari necessarie perché il multilateralismo dalle parole divenga fattuale: si tratta di quell’elemento che ho chiamato una “percezione condivisa”, un modo comune di essere colpiti dalla realtà. Per mezzo secolo quella percezione condivisa è stata rappresentata dalla presenza dell’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti e l’Europa occidentale e democratica avevano lo stesso nemico e la sua minaccia pesava allo stesso modo su entrambi. Inoltre, vi era una omogeneità, per così dire geografica, della minaccia stessa. Mosca, cioè, appariva la diretta antagonista tanto in Asia come in Africa o in Europa degli Stati Uniti. Non c’era differenza tra un teatro geopolitico e l’altro, l’avversario era sempre il medesimo.



    In un contesto del genere si potrebbe sostenere che il multilateralismo tra Europa e Stati Uniti era naturale…

    Certamente, anche se molto spesso – diciamo la verità – il multilateralismo tra noi e gli Usa era prevalentemente di facciata. Ad una partecipazione alle decisioni multilaterale e eguale di principio non corrispondeva certo, infatti, una altrettanto ripartita condivisione degli oneri e degli impegni nel campo cruciale degli armamenti e delle possibili risposte militari. In questo ambito erano gli Stati Uniti ad avere le carte decisive: gli interventi in Corea, a Cuba, in Vietnam non furono certo decisi su una base multilaterale.




    Però non si sostenne mai, nemmeno da parte europea, che gli Stati Uniti in quelle occasioni stessero agendo unilateralmente.

    Certo, perché Washington cercò ogni volta di dar loro una veste o un supporto multilaterale, ma c’è qualcuno che crede realmente che se nel 1950, mettiamo, l’Onu per un marchiano errore della diplomazia sovietica non avesse appoggiato la risposta Usa in Corea, allora Truman se ne sarebbe astenuto e avrebbe assistito impassibile alla sovietizzazione dell’intera penisola coreana? La verità è che, ieri come oggi, un multilateralismo reale si potrebbe sostenere se tutti gli attori in campo avessero alle spalle una disponibilità militare e una autorità politica più o meno egualmente ripartita. Difficile da pensare, se non impossibile da realizzare soprattutto oggi, quando manca quella che ho chiamato una percezione condivisa degli scenari e della gerarchia della minaccia.






    Neanche il terrorismo internazionale rappresenta un comune nemico da combattere?

    Sì certamente, ma in maniera del tutto astratta. Quando dalle dichiarazioni si passa all’ambito delle scelte concrete, allora si vede quale differenziazione esiste tra la posizione americana e quella di molti altri paesi europei. L’Europa fa finta di credere che il nemico comune esista, ma appare assai reticente circa i modi concreti di combatterlo.



    Ma forse l’essenza del problema non sta tanto nella differenza dei pesi – militari, economici, politici – messi in campo sullo scenario internazionale quanto piuttosto nell’impossibilità di trovare un interlocutore unico all’interno del contesto europeo, tanto più oggi in un’Ue a 25…

    Ha perfettmente ragione, non esiste un interlocutore Europa, esistono tanti governi europei, ognuno con le sue caratteristiche e le sue esigenze e ciò da un lato complica maledettamente le cose dall’altro dà agli americani la possibilità di godere di un grande spazio di manovra e di azione politica che non avrebbero se l’Europa parlasse con una sola voce.



    La caduta del Muro ha, dunque, rappresentato in qualche modo la caduta del velo di ipocrisia che legava l’Europa agli Stati Uniti?

    La fine del blocco sovietico ha significato, certamente, il venir meno, almeno all’apparenza, di un pericolo comune agli Stati Uniti come all’Europa. Da qui una sostanziale disarticolazione dello scenario geopolitico mondiale e delle sue potenziali minacce. E l’Europa ha pensato che una volta sconfitto il nemico oltre cortina potesse vivere in una singolare e felice assenza di rischi e di emergenze globali: almeno del tipo di quelli rappresentati a suo tempo da Mosca.




    Ma il pericolo è venuto meno anche per gli Stati Uniti, i quali però non sembrano sottrarsi al loro ruolo di superpotenza.

    Naturalmente. Ma gli Stati Uniti, hanno ricavato dalla caduta del Muro di Berlino un beneficio assai minore rispetto ai loro alleati europei, poiché esser rimasti l’unica superpotenza mondiale ha in qualche modo accresciuto il loro impegno su tutti gli scacchieri. Accrescendone al tempo stesso l’esposizione ai pericoli esterni.




    L’effetto è stato quello di un forte allontanamento di prospettive rispetto all’Europa…

    L’ipermondialità della potenza americana ha prodotto e produce in chi comanda alla Casa Bianca e al Pentagono una percezione allargata delle minacce e una certa propensione a collegare e unificare gli scenari di rischio. Tutto ciò viceversa manca radicalmente all’Europa. E’ come se la fine del blocco sovietico e del comunismo avesse relegato l’Europa in un angolo “a parte” del mondo, lontana dai teatri tumultuosi dei mille conflitti che agitano il pianeta, lontano, almeno all’apparenza, dai pericoli che ne derivano. E’ per questo motivo che oggi l’Europa può permettersi di essere massicciamente pacifista perché ai suoi confini non vi sono conflitti che essa sia obbligata a sentire pericolosi. Gli Stati Uniti, invece, non possono nutrire le medesime illusioni. Il loro ruolo di superpotenza li pone a contatto e li obbliga a confrontarsi con tutte le guerre, con tutte le rivalità, con tutte le tensioni. E ad agire di conseguenza. Sta qui il vero problema del multilateralismo.




    vivenzio@ideazione.com
    "


    Saluti liberali

  7. #7
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    Predefinito Europei...anzi ITALIANI....d'Oltreatlantico

    dal sito di IDEAZIONE

    " Italo-americani
    Alla conquista della frontiera politica


    Da Fiorello La Guardia a Rudolph Giuliani, sindaci di New York e quindi d’America, la comunità italiana ha sempre contato negli Stati Uniti. Ma negli ultimi tempi non succede più quel che succedeva ai primi tempi, quando un anonimo emigrante così spiegava le ragioni della sua partenza dall’Italia (e il museo dell’emigrazione di Ellis Island ha registrato): “Sono venuto in America perché avevo sentito dire che le strade fossero ricoperte d’oro. Quando arrivai qui, scoprii tre cose: primo, che le strade non erano pavimentate d’oro. Secondo, che non erano pavimentate affatto. E terzo che da me si aspettavano che le pavimentassi”.


    Oggi le strade degli italiani sono cambiate. Un tempo, si sa, essi abitavano “Little Italy”, dalle parti di Mulbery Street e ai confini con China Town, vale a dire il sud est di Manhattan. Certo, molto è rimasto di quella vecchia epoca, molto folklore soprattutto a beneficio dei visitatori occasionali. Ma il quartiere “italiano” dell’attualità, quello che meglio rappresenta sotto il profilo simbolico e in concreto l’identità italiana in America, oggi sorge sulla Quinta Strada, un negozio dopo l’altro, un marchio dopo l’altro. Non little Italy ma big Italy, perché a fare tendenza non sono più le trattorie di campanilistica memoria, la cucina lombarda o siciliana, la nostalgia, bensì le case di moda, l’arte, l’architettura e quant’altro l’Italia esprima ed esprime nel mondo. L’eccellenza al posto della tradizioncina regionale.


    La comunità italo-americana è un po’ il riflesso di questo processo già arrivato al traguardo. All’ultimo censimento quindici milioni di americani si sono dichiarati “italiani americani”, e il numero salirebbe a venticinque se si prendessero in considerazione, come si deve, gli americani figli di doppia cultura (padre di Philadelphia e madre di Firenze per fare un esempio). Dunque, quasi un americano su dieci è d’origine italiana e oggi, a differenza di ieri, tale origine rivendica con fierezza. Ma è soprattutto nel ruolo esercitato che gli italiani d’America hanno fatto il salto di qualità. Mediamente ben inseriti, essi sono imprenditori spesso affermati e professionisti “riconosciuti” in una società che lascia all’iniziativa individuale la massima libertà (viene fuori l’animo “intraprendente” dell’italiano tipico).


    Gli americani italiani non sono più gente che ha trovato l’America, come è accaduto coi figli di una parte rilevante della vecchia emigrazione, ma sono gente che ha fatto e sta facendo l’America. L’ultima tappa di conquista è la politica. Tradizionalmente la comunità italo-americana s’è interessata poco di “pesare”, rispetto alla sua consistenza rilevante, sui partiti, sui presidenti, sui governi. Ora non si esclude che sarà l’ex sindaco Giuliani a competere, da repubblicano, nella contesa presidenziale fra quattro anni. Invece dieci anni fa un altro oriundo, e altrettanto popolare, Mario Cuomo, che tutti davano candidato democratico, preferì gettare la spugna. Ecco, oggi non gettano più la spugna gli italiani d’America. (f.gui.)


    f.guiglia@tiscali.it
    "


    Saluti liberali

  8. #8
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    Ancora dal EMPORION

    " Geopolitica. Oltre la rendita di posizione

    di Massimo De Leonardis

    Atlantismo ed europeismo sono stati i cardini della politica estera italiana dopo la seconda guerra mondiale. Ma mentre in Gran Bretagna e in Francia la potenziale tensione tra le due politiche è stata ben percepita, in alcuni momenti anche in maniera drammatica, l’Italia non si è mai invece troppo preoccupata della dialettica tra europeismo ed atlantismo, ritenendo queste due opzioni politiche facilmente componibili. L’atlantismo, o per meglio dire il rapporto con Washington, è stato comunque, durante la guerra fredda, assai più condizionante dell’europeismo per la politica interna del nostro paese e per il susseguirsi delle varie stagioni politiche, pur non comportando, tuttavia, una cieca condivisione del “mito dell’onnipotenza della presenza americana in Italia”. Le vicende successive all’11 settembre 2001 dimostrano la persistente centralità del rapporto con Washington; proprio perché il divario di potenza tra le due capitali, Roma e Washington, è enorme e il loro rapporto non è soggetto a fattori ideologici, sono assenti le tensioni che talvolta emergono con certe grandi potenze europee, verso le quali non dobbiamo più provare alcuna sudditanza, né ideologica né d'altro genere.

    Nel tempo, all’atlantismo e all’europeismo si è affiancato un “terzo cerchio” della politica estera italiana, quello “mediterraneo” o “terzomondista”: un interesse determinato sia dalla collocazione geopolitica del nostro paese sia dalla cultura politica prevalente nel dopoguerra. Nel 1956 l’ambasciatore a Washington Manlio Brosio ammoniva: “Apprezzo la necessità della nostra amicizia coi paesi arabi e la nostra funzione mediterranea, ma non credo se ne possa fare il fulcro della nostra politica a spese dei nostri essenziali impegni occidentali, che ci vincolano in una lotta mondiale, ove noi non possiamo sognare di assumere un ruolo autonomo”.

    Oggi i termini della lotta mondiale sono cambiati; rimane però irrealistico pensare ad un ruolo italiano autonomo dall’Occidente, anche se è un “dibattito futile” porsi il problema di una “alternativa fra il pieno assorbimento nella politica continentale e la volontà (o velleità) di svolgere un ruolo attivo nel Mediterraneo”, perché non si può “separare artificialmente una situazione geopolitica”. Del resto, l’economia da sola non è più sufficiente a garantire all’Italia un ruolo di primo piano nell’Occidente. E, come ha dichiarato in un’intervista lo stesso presidente del Consiglio (e ministro degli Esteri ad interim) SilvioBerlusconi: “Il ruolo internazionale dell’Italia richiede una forza militare adeguata alla forza della sua economia, nonché alle esigenze di sicurezza imposte dalla pericolosa area geografica in cui siamo collocati”. La collocazione geopolitica dell’Italia, immersa nel Mediterraneo e a contatto con i Balcani e il Medio Oriente, le attuali maggiori aree di crisi del mondo, accresce le responsabilità ed i rischi per il nostro paese: l’Italia non può più vivere di rendita.

    L’11 settembre si è chiusa l’ambigua fase di transizione degli anni Novanta. Con l’attentato alle Torri gemelle si è posta fine a quel clima di “buonismo” internazionale, che, mascherando le dure e classiche realtà della politica di potenza, da un lato poteva consentire all’Unione Europea di fingere di avere un ruolo, dall’altro era congeniale, nel nostro paese, all’ecumenismo a sfondo pacifista e terzomondista. Ora guerra e diplomazia ritornano ad essere al servizio della sicurezza nazionale nel senso pieno del termine e la gerarchia del potere mondiale considera nuovamente la forza militare come suo parametro fondamentale. Del resto, la presidenza Bush aveva già inaugurato una nuova politica estera, fondata su realpolitik e interesse nazionale e non sull’ambiguo idealismo e sul falso multilateralismo clintoniano. In occasione del conflitto in Afghanistan, gli Usa non hanno perso tempo – e fatica – ad ottenere l’appoggio inutile e forse politicamente fastidioso degli alleati minori della Nato. Il modello della coalition of the willing è prevalso sull’organizzazione Nato, la strategia delle coalizioni su quella delle alleanze permanenti. La futura Nato sarà un’alleanza più politica che militare: un’organizzazione a geometria variabile. Se gli europei vorranno far parte del cerchio più ristretto dovranno mettere in campo non solo abilità diplomatica e successi d’immagine, ma anche forze militari.

    Al brusco risveglio dell’11 settembre, l’Unione Europea ha rivelato tutta la sua inconsistenza ed impotenza. Quella militare è evidente, quella ideologica altrettanto. Di fronte agli Stati Uniti che riaffermano con orgoglio la forte convinzione della superiorità dei loro valori, radicati in una religiosità di tipo calvinista, alla Russia di Putin che esce dalla sua crisi anche ritrovando i valori tradizionali e ad un mondo islamico che ostenta la sua identità, l’Unione Europea rivela il suo vuoto ideale e ripudia sia la sua tradizione cristiana sia la realpolitik. L’attuale governo di Roma, oltre a dotare l’Italia di una capacità militare all’altezza dei tempi, dovrebbe farsi portatore nel mondo di quei valori tradizionali, necessari, insieme alla forza delle armi ed alla superiorità economica, a mantenere nel lungo periodo la supremazia dell’Occidente.

    3 luglio 2002
    "

    Shalom

  9. #9
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    " L' Europa giudaico-cristiana

    Una civiltà non esiste senza identità e senza radici riconosciute



    Il Foglio


    La definizione storico-ideologica dell'Europa che esce dal testo, per fortuna provvisorio, della Convenzione, sarebbe piaciuta a Robespierre. Ci sono i Lumi, c'è la reminiscenza del passato greco-romano, dal quale fu derivato il cappello frigio, c'è un riferimento generico e panteistico alla religione, più o meno come nel culto della dea Ragione. Anche quella giacobina, beninteso, è stata un'idea di Europa, anche se per affermarsi ha dovuto passare per la traduzione napoleonica, che di una Chiesa, seppure asservita e umiliata, ha pur dovuto servirsi. Ma, come osserva Pierluigi Battista sulla Stampa, non è certo quella l'unica Europa. E' comprensibile che la tecnocrazia europea si senta protetta dalla dea Ragione, in nome della quale pretende di decidere al di sopra delle volontà espresse politicamente, ma quella in discussione non è l'identità della burocrazia di Bruxelles, è quella degli europei.
    L'identità non è l'esito di un patto, di un trattato sociale, con buona pace di Jean Jacques Rousseau, ma qualcosa di più profondo e persino di più intimo. Che cos'è che rende tra loro più simili gli europei, che li distingue da altre tradizioni, da altre culture, da altre civiltà? E' difficile, pressoché impossibile cercare una risposta trascurando la storia del continente, che è intimamente legata a quella della societas christianorum. Si può scegliere di negare l'esigenza di definire un'identità, in nome di un cosmopolitismo genericamente umanitario, e questa in sostanza è stata la scelta, sbagliata, della Convenzione. I valori specifici dell'Europa vengono infatti definiti come i "diritti dell'uomo", principi universalistici che si vorrebbe veder applicati in ogni parte del mondo. Ma il principio in base al quale è "giusto" che questi diritti vengano estesi a tutti è, appunto, il concetto giudaico-cristiano di persona, di unicità della persona, inviolabile in quanto portatrice di per sé, e non per concessione o per convenzione, di libertà.

    La libertà appartiene alla persona

    Dopo l'11 settembre si è visto con chiarezza come questo principio personalistico abbia innervato la reazione dell'Occidente alla minaccia terroristica, che per sua natura è negatrice della personalità. Quando i terroristi delle Brigate rosse, come tutti i terroristi, sostenevano che sparare contro una divisa, una rappresentanza istituzionale, una figura sociale, non creava problemi di coscienza, illustravano esattamente il contrario del principio di personalità.

    Per reagire a questa follia, quando è arrivata a progettare l'apocalisse, l'America è ricorsa all'identità più riposta, quella della difesa della persona umana come base di tutto, che è la forza vera di una società, che non risiede nel suo livello di consumi e neppure nella sua evoluzione tecnologica.

    L'Europa è nata dalla contaminazione del principio di libertà personale con quello di autonomia dello Stato. La frase evangelica "date a Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare" è la base su cui, a differenza di tutte le altre civiltà, in quella occidentale, cioè europea, lo Stato è considerato il garante delle libertà, non la sua fonte.

    Naturalmente questo è avvenuto attraverso processi complessi e terribili attriti. E' avvenuto perché la predicazione giudeo-cristiana della libertà è avvenuta sotto Cesare, portatore ed erede della civiltà ellenica e della formidabile organizzazione giuridica romana. Maometto non ha incontrato Cesare, i suoi credi si sono fatti califfi, e ciò ha segnato la differenza della civiltà islamica. Il riferimento alle radici cristiane dell'Europa, proprio per questo, non è affatto clericale. L'autonomia della politica nella sua sfera, che è in sostanza il principio di laicità dello Stato, è infatti uno dei lasciti più importanti di questa eredità. Se ne vede una conseguenza persino nel fatto che, nonostante la predicazione del Papa contro la guerra in Iraq, i quattro principali paesi cattolici d'Europa, Italia, Spagna, Polonia e Portogallo, si sono invece schierati dalla parte delle potenze anglosassoni.

    L'altra grande eredità della tradizione giudeo-cristiana è che la libertà appartiene alla persona, non all'individuo. La libertà come pura volontà di potenza, che ha trionfato durante la più tragica vicenda europea, non accetta il limite della libertà altrui, perché nell'altro non riconosce una persona. E' esagerato dire che questa concezione deriva in linea diretta dal giacobinismo, ma con la visione di uno Stato che distribuisce diritti, anziché tutelare quelli naturali della persona, ha molte parentele. Gli avvenimenti del secolo scorso mostrano che le radici non bastano a preservare dai rischi dell'affermaziore, di concezioni illiberali ed antipersonali. L'Europa unita, però, nasce dal fallimento di quelle ipotesi e di quei tralignamenti, definisce la sua identità sul rifiuto della legge del più forte e del darwinismo sociale. Affermare un'identità significa riconoscere le proprie radici, senza di che una civiltà specifica non esiste, per ragioni perfettamente laiche.
    "


    Europa: «L' Europa giudaico-cristiana. Una civiltà non esiste senza identità e senza radici riconosciute», Il Foglio 31.5.2003


    Saluti liberali

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    Dal quotidiano di via Solferino....di oggi, venerdì 17 giugno 2005...

    " Corriere della Sera del 17/06/2005


    --------------------------------------------------------------------------------
    Come riconvertire il nostro europeismo

    Obbligati a cambiare

    Angelo Panebianco
    --------------------------------------------------------------------------------

    L’Europa è a pezzi. I «no» francese e olandese al trattato detto costituzionale hanno provocato una valanga. Anche la Commissione ha ammesso che continuare nell'iter di approvazioni del trattato come se niente fosse è controproducente: il contagio si è diffuso e gli orientamenti delle opinioni pubbliche verso il trattato stanno diventando negativi in molti Paesi europei. Lo scontro fra Blair e Chirac sul bilancio comunitario ha aperto, dopo quello istituzionale, un nuovo capitolo della crisi europea. In un altro clima il conflitto sulle risorse avrebbe trovato qualche ragionevole soluzione di compromesso. Ma ciò che era facile quando l'Unione godeva di buona salute diventa quasi impossibile nelle nuove condizioni.
    La crisi europea pone speciali problemi all'Italia. E li pone perché «speciale», ossia differente da quello di altri Paesi europei, è sempre stato il nostro modo di stare in Europa e, soprattutto, il nostro modo di giustificare, agli occhi dell'opinione pubblica italiana, il nostro impegno europeista. Dove stava la differenza? Nel fatto che mentre gli altri principali Paesi europei avevano articolato una loro visione, più o meno conforme ai loro interessi nazionali, del loro ruolo nella costruzione europea, noi italiani, per ragioni che rinviano alle specificità della nostra storia, avevamo fatto una scelta diversa: avevamo assunto come dogma la coincidenza, sempre e comunque, fra interesse italiano e «interesse» europeo. Col risultato che mentre l'atteggiamento più «realistico» di altri Paesi li portava, in sede europea, a difendere con determinazione i loro interessi, l'approccio italiano non aiutava noi a fare altrettanto.
    Questo atteggiamento, pur danneggiandoci in molte occasioni, è stato comunque complessivamente pagante. Almeno in passato. Lo è stato perché l'Europa, fin dai tempi di De Gasperi, era per noi l'ancoraggio che doveva aiutarci a superare certi difetti, a vincere, per esempio, le resistenze interne contro la modernizzazione dell'economia. L'Europa era il vincolo esterno di cui avevamo bisogno per imporre a noi stessi comportamenti virtuosi. E poiché l'Europa era un vincolo, più che un'insieme di opportunità, nostro compito era adattarci, più o meno passivamente, al vincolo anziché sfruttare, in un mix di cooperazione e di competizione con i partner, le opportunità.
    Questa combinazione di europeismo di maniera e di relativa passività nei giochi competitivi che quotidianamente si svolgevano nei diversi tavoli in cui si articola l'Unione non può più funzionare, nelle nuove condizioni. Siamo chiamati a una riconversione, che è culturale prima ancora che politica, e che è difficile, dolorosa: dobbiamo rivedere stereotipi, abitudini, atteggiamenti sedimentati nei decenni. Comunque evolverà la crisi europea, la nuova Europa sarà diversa dalla vecchia. Verosimilmente, nel prossimo futuro, non ci sarà molto spazio per quei progetti «federalisti», sovranazionali, da noi generosamente coltivati. Dovremo imparare a muoverci senza dogmi e senza tabù.
    Anche per fermare le spinte antieuropee che la crisi dell'Unione farà inevitabilmente crescere in Italia (e di cui è un segnale la campagna anti-euro della Lega) ci sarà un solo modo: articolare una visione «italiana», più assertiva, più attenta a cogliere le opportunità, meno deferente verso i partner, dell’Europa che ci interessa, e sulla base di quella visione andare poi a stipulare i necessari compromessi. Perché non cominciare a discutere, ad esempio, su quanto convenga a noi italiani che così ingenti risorse comunitarie continuino a essere bruciate nella politica agricola europea? La convenienza francese è nota. Ma noi che perdiamo competitività sui mercati non abbiamo magari altre convenienze, altre priorità, altri interessi da affermare?
    "


    Saluti liberali

 

 
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