La liberalizzazione dei servizi è essenziale al futuro del mercato europeo
di Pascal Salin(professore all’università Paris-Dauphine e co-fondatore dell’Institut Turgot).
Il vivissimo dibattito che è esploso in Europa a proposito della liberalizzazione dei servizi è al tempo stesso rilevante in sé e simbolico. Rilevante, perché riguardano attività che rappresentano la maggior parte della produzione degli europei. Simbolico, perché illustra perfettamente l’ambiguità fondamentale che segna il processo d’integrazione europea. In effetti, si tratta di una crescente armonizzazione di tutto ciò che caratterizza il contesto dei produttori (regole giuridiche, fiscalità, norme, ecc.) oppure, al contrario, è necessario lasciar giocare la concorrenza, quali che siano le condizioni in cui si trovano i produttori dei diversi paesi?
Ma prima di tentare di rispondere a tale domanda riepiloghiamo in poche parole ciò che è al cuore del dibattito attuale. La Commissione europea nel gennaio 2004 aveva presentato una direttiva preparata dal Commissario per il mercato interno, Frits Bolkestein, in vista di accelerare la liberalizzazione degli scambi intracomunitari di servizi, oggi frenati da molti ostacoli amministrativi e legali. Ma la nuova Commissione, desiderosa di mettere in pratica tale direttiva, si scontra ora con l’opposizione di un certo numero di governi – in particolare, il governo francese,di partiti politici e di sindacati. La direttiva Bolkestein includeva in particolare il principio d’origine, e cioè l’idea che un prestatore di servizi che vendeva il proprio lavoro in un paese diverso dal suo sia sottomesso alle regole giuridiche e alle norme del suo paese d’origine, e non a quelle del paese di destinazione.
Quanti s’oppongono affermano – com’è normale in questi casi – che vi sono grandi rischi di concorrenza sleale o dumping sociale. Si ritrova dunque, a proposito degli scambi di servizi, il medesimo dibattito fondamentale che è al cuore stesso del processo d’integrazione, e cioè l’opposizione tra armonizzazione e concorrenza.
Questo dibattito è stato parzialmente risolto (ma in realtà quasi del tutto) per ciò che riguarda il commercio dei beni. Più o meno implicitamente si è riconosciuto che il mercato unico europeo consisteva essenzialmente nella soppressione degli ostacoli agli scambi tra paesi europei. In tal modo si è restati fedeli all’ispirazione iniziale dell’integrazione europea, la quale mirava a creare un “mercato comune” in cui le scelte dei produttori e dei consumatori non dovessero essere condizionate dalla nazionalità degli uni e degli altri. In questa prospettiva, per completare l’integrazione europea basterebbe generalizzare il mercato comune ai movimenti dei fattori di produzione (ciò che si è in parte realizzato), alle monete, alle regole giuridiche e alle norme, ecc. Purtroppo, anche per ciò che riguarda gli scambi di beni si fa spesso una gran confusione tra l’instaurazione della concorrenza e l’armonizzazione delle condizioni di concorrenza. In effetti, è frequente sentir dire che la concorrenza non può essere giusta o effettiva se, ad esempio, i diversi produttori non operano entro il medesimo ambiente legale, regolamentare o fiscale. È da qui che vengono tutti gli sforzi di quanti cercano di armonizzare l’Europa.
Ora, quest’ultima visione dell’integrazione – realizzata attraverso l’armonizzazione delle condizioni della produzione – è sbagliata. In effetti, uno dei grandi meriti della concorrenza – cioè della libertà lasciata a tutti i produttori e consumatori di entrare sui mercati – sta nel fatto che essa incita i produttori posti in ambienti diversi a trovare i migliori mezzi per essere “competitivi”. Per di più, lo scambio è vantaggioso proprio perché tutti i produttori non si trovano nelle medesime condizioni competitive. Perseguire l’armonizzazione è quindi un sogno costruttivista che ricorda la razionalità uniformatrice dei pianificatori, di cui si conosce perfettamente il fragoroso fallimento.
Nell’ambito degli scambi di beni, l’abbiamo detto, la visione concorrenziale resta senza dubbio predominante di fronte alla visione armonizzatrice. Se il principio d’origine è dunque bene accettato nell’ambito del commercio dei beni, la coerenza esige di accettarlo anche negli altri settori e per esempio in quello dei servizi. Da questo punto di vista la direttiva Bolkestein è del tutto fedele alla visione iniziale dell’integrazione economica europea, e questa visione è la sola ad essere corretta. Per questo motivo è spiacevole che essa sollevi oggi tanta emozione, particolarmente in Francia, dove si coltiva sempre una cultura di netta sfiducia verso i mercati, la concorrenza e la libertà. E ci si deve vivamente dispiacere del fatto che la Commissione Barroso sia spinta così a fare retromarcia in rapporto al cammino tracciato dalla commissione precedente.
La concorrenza è sempre buona, che si tratti degli scambi dei beni come di quelli delle servizi, ma essa lo è anche per le regole giuridiche e fiscali. È per questo motivo che, invece di armonizzare, è preferibile mettere in competizione i regimi impositivi, le norme e i sistemi giuridici.
Ma questa possibilità di mettere in concorrenza tra loro fisco, norme e regolamenti è evidentemente inquietante che hanno istituito, ben riparati dalla attuali protezioni, sistemi penalizzanti per i produttori. Se taluni paesi ex-comunisti hanno ben compreso i misfatti dei vincoli imposti dallo statalismo e ci danno l’esempio di ciò che può dare una più autentica libertà, questo esempio sembra intollerabile per i vecchi paesi dell’Unione europea, i quali cercano di difendere ciò che essi presentano come un modello, ma che è soprattutto un modello di declino e disoccupazione.
Ciò che rischierebbe di condurci verso situazioni estreme, sconosciute e pericolose, non è – contrariamente a ciò che si dice – l’adozione della direttiva Bolkestein, ma al contrario il fatto che essa possa essere accantonata. Al limite, ciò in effetti implicherebbe l’adozione dell’idea secondo la quale un prestatario di servizi non potrebbe proporre i propri servizi in un altro paese che il suo, dato che egli dovrebbe utilizzare – per produrre tali servizi – le norme giuridiche e regolamentari del paese di destinazione.
Il principio d’origine su cui s’appoggia la direttiva Bolkestein è il solo che sia coerente con la logica della concorrenza. O si accetta il mercato unico, e cioè un mercato in cui la concorrenza può giocare il proprio ruolo, e allora bisogna accettare la direttiva; oppure lo si rifiuta, e allora si deve riconoscere che si sono ingannate le popolazioni europee per anni e decenni parlando loro di mercato unico, integrazione economica, costruzione di uno spazio economico europeo… A questo punto di ammetta allora che la pretesa integrazione europea altro non è che l’elaborazione progressiva di un super-Stato centralizzato.
Ma è proprio per evitare questo rischio tremendo che converrebbe salvare la direttiva Bolkestein.
Pubblicato il 09/02/2005