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    Predefinito 25 aprile - S. Marco evangelista

    In onore di S. Marco evangelista apro questo thread.

    Augustinus

    ****
    dal sito SANTI E BEATI:

    San Marco Evangelista

    25 aprile - Festa

    sec. I

    Marco era figlio di Maria di Gerusalemme, nella cui casa si rifugiò Pietro liberato dal carcere. Collaborò con Barnaba all'opera apostolica di Paolo, al quale fu vicino anche nella prigionia di Roma. Discepolo fedele di Pietro ('mio figlio' 1Pt 5,13), scrisse il secondo vangelo, raccogliendo la predicazione dell'apostolo sui detti e sui fatti di Gesù. Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù, Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del vangelo di Marco è la professione di fede del centurione ai piedi della croce. (Mess. Rom.)

    Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l'apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l'ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L'evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un'altra come martire, ad Alessandria d'Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell'828 nella città della Venezia. (Avvenire)

    Patronato: Segretarie

    Etimologia: Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino

    Emblema: Leone

    Martirologio Romano: Festa di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.

    Martirologio tradizionale (25 aprile): Ad Alessandria il natale del beato Marco Evangelista. Questi, discepolo ed interprete dell’Apostolo Pietro, pregato in Roma dai fratelli, scrisse il Vangelo, col quale se ne andò in Egitto, e per primo annunziando Cristo in Alessandria, vi fondò la Chiesa. Poi, preso per la fede di Cristo, legato con funi e trascinato fra i sassi, fu gravemente tormentato; quindi, chiuso in carcere, prima fu confortato da un’angelica visione, e finalmente, apparendogli lo stesso Signore, fu chiamato ai gaudii celesti, nell’anno ottavo di Nerone.

    Nei libri del Nuovo Testamento Marco è ricordato dieci volte, col nome ebraico di Giovanni, col nome romano di Marco o col doppio nome di Giovanni Marco. Per alcuni studiosi si dovrebbero distinguere due o addirittura tre Marco. Noi accettiamo qui l'opinione più comune di un solo Giovanni Marco, figlio di quella Maria nella cui casa si radunavano i primi cristiani di Gerusalemme e dove andò a rifugiarsi lo stesso S. Pietro dopo la prodigiosa liberazione dal carcere.
    Marco, ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. S. Pietro, che lo chiama "figlio mio", lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. L'antichità cristiana, a cominciare da Papia (130), chiamò Marco "interprete di Pietro": "Marco, un interprete di Pietro, ha messo in iscritto esattamente tutto quello di cui si ricordava. Però scrisse quello che dal Signore è stato detto o fatto, non secondo l'ordine. Marco cioè non ha udito il Signore, né lo ha accompagnato; ma più tardi ha udito Pietro, che disponeva i suoi insegnamenti secondo il bisogno... ".
    Oltre alla familiarità con S. Pietro, l'evangelista Marco può vantare una lunga comunità di vita con l'apostolo Paolo, che incontrò la prima volta nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la generosa colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco. Evangelizzata Cipro, quando Paolo progettò un più faticoso e rischioso viaggio nel cuore dell'Asia Minore, tra le infide e bellicose popolazioni semibarbare del Tauro, Marco - si legge negli Atti degli Apostoli - "si separò da Paolo e Barnaba e tornò a Gerusalemme". Poi Marco tornò al fianco di S. Paolo mentre questi era prigioniero a Roma.
    Nel 66 S. Paolo ci dà l'ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: "Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi".
    I dati cronologici della vita di S. Marco rimangono incerti. Egli morì probabilmente nell'anno 140 dell'impero di Nerone (68), di morte naturale, secondo una relazione, e secondo un'altra come martire, ad Alessandria d'Egitto. Gli Atti di Marco, uno scritto della metà del quarto secolo, riferiscono che S. Marco il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Il trafugamento del suo corpo da parte di due mercanti veneziani nell'828 appartiene alla leggenda, ma è attorno a questa leggenda che è stata eretta dal 976 al 1071 la stupenda basilica veneziana dedicata all'autore del secondo Vangelo, simboleggiato dal leone.

    Autore: Piero Bargellini

    *****
    Sempre dallo stesso SITO altro profilo biografico:

    La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
    Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
    Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.

    Discepolo degli Apostoli e martirio

    Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
    Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagnae del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
    Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
    Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
    In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
    Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
    Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
    Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
    Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto l’imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
    Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

    Il Vangelo

    Il Vangelo scritto da Marco, considerato dalla maggioranza degli studiosi come “lo stenografo” di Pietro, va posto cronologicamente tra quello di s. Matteo (scritto verso il 40) e quello di s. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
    È stato così descritto: “Marco come fu collaboratore di Pietro nella predicazione del Vangelo, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato nella stesura del medesimo e ci ha per mezzo di esso, trasmesso la catechesi del Principe degli Apostoli, tale quale egli la predicava ai primi cristiani, specialmente nella Chiesa di Roma”.
    Il racconto evangelico di Marco, scritto con vivacità e scioltezza in ognuno dei sedici capitoli che lo compongono, seguono uno schema altrettanto semplice; la predicazione del Battista, il ministero di Gesù in Galilea, il cammino verso Gerusalemme e l’ingresso solenne nella città, la Passione, Morte e Resurrezione.
    Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del suo Vangelo, è la professione del centurione romano pagano ai piedi di Gesù crocifisso: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, è la piena definizione della realtà di Gesù e la meta cui deve giungere anche il discepolo.

    Le vicende delle sue reliquie - Patrono di Venezia

    La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
    E in questo luogo nell’828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
    Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
    Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. “Cielo e mare vi posero mano”, ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d’oro al confine dell’arte.
    Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
    Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l’attuale ‘Terza San Marco’ fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
    La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all’XI secolo era il patrono e l’unico santo militare venerato dappertutto.
    Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l’alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
    La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
    Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
    Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”, divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio.
    San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.

    Autore: Antonio Borrelli








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    Predefinito Dal trattato «Contro le eresie» di sant'Ireneo (Lib. 1, 10, 1-3; PG 7, 550-554)

    La Chiesa, sparsa in tutto il mondo, fino agli ultimi confini della terra, ricevette dagli apostoli e dai loro discepoli la fede nell'unico Dio, Padre onnipotente, che fece il cielo la terra e il mare e tutto ciò che in essi è contenuto (cfr. At 4, 24). La Chiesa accolse la fede nell'unico Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnatosi per la nostra salvezza. Credette nello Spirito Santo che per mezzo dei profeti manifestò il disegno divino di salvezza: e cioè la venuta di Cristo, nostro Signore, la sua nascita dalla Vergine, la sua passione e la risurrezione dai morti, la sua ascensione corporea al cielo e la sua venuta finale con la gloria del Padre. Allora verrà per «ricapitolare tutte le cose» (Ef 1, 10) e risuscitare ogni uomo, perché dinanzi a Gesù Cristo, nostro Signore e Dio e Salvatore e Re secondo il beneplacito del Padre invisibile «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua lo proclami» (Fil 2, 10) ed egli pronunzi su tutti il suo giudizio insindacabile.

    Avendo ricevuto, come dissi, tale messaggio e tale fede, la Chiesa li custodisce con estrema cura, tutta compatta come abitasse in un'unica casa, benché ovunque disseminata. Vi aderisce unanimemente quasi avesse una sola anima e un solo cuore. Li proclama, li insegna e li trasmette all'unisono, come possedesse un'unica bocca.

    Benché infatti nel mondo diverse siano le lingue, unica e identica è la forza della tradizione. Per cui le chiese fondate in Germania non credono o trasmettono una dottrina diversa da quelle che si trovano in Spagna o nelle terre dei Celti o in Oriente o in Egitto o in Libia o al centro del mondo. Come il sole, creatura di Dio, è unico in tutto l'universo, così la predicazione della verità brilla ovunque e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità. E così tra coloro che presiedono le chiese nessuno annunzia una dottrina diversa da questa, perché nessuno è al di sopra del suo maestro.

    Si tratti di un grande oratore o di un misero parlatore, tutti insegnano la medesima verità. Nessuno sminuisce il contenuto della tradizione. Unica e identica è la fede. Perciò né il fecondo può arricchirla, né il balbuziente impoverirla.

    Donatello, S. Marco, 1411-13, Orsanmichele, Firenze

    Donatello, S. Marco evangelista, 1428-43, Vecchia Sacrestia, Chiesa di San Lorenzo, Firenze

    Fra Bartolomeo, Cristo ed in quattro evangelisti, Galleria Palatina (Palazzo Pitti), Firenze

    Albrecht Dürer, Quattro Santi uomini, 1526, Alte Pinakothek, Monaco. I quattro santi sono Giovanni evangelista e Pietro a sinistra e Marco e Paolo a destra

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    Predefinito Dal "Dialogo della divina Provvidenza" di santa Caterina da Siena.

    Capp. 23 e 24. Messaggio di santa Caterina da Siena, Vincenziane, 1970, 52‑55. Testo adattato.

    La Verità eterna diceva a Caterina:

    "Ogni creatura, che è dotata di ragione, ha la vigna in se stessa, cioè, la: vigna dell'anima sua. La volontà, mediante il libero arbitrio, è il lavoratore di questa vigna, durante il tempo di questa vita. Passato questo tempo, la volontà non può più fare lavoro alcuno, ne buono ne cattivo; invece, finché vive può lavorare la sua vigna, nella quale io l'ho messa.

    Ed ha ricevuta tanta fortezza questo lavoratore dell'anima, che ne demonio ne altra creatura gliela può togliere, se egli non vuole; poiché, ricevendo il santo Battesimo, si fortificò e gli fu dato Il coltello dell'amore alla virtù e dell'odio al peccato. Quest'amore e quest'odio li trova nel sangue di Cristo. perché per amore di voi e odio del peccato l'unigenito mio Figlio morì, dandovi il sangue; per questo sangue aveste vita nel santo Battesimo.

    E cosi avete il coltello, che dovete usare col libero arbitrio, finché ne avete Il tempo, per svellere le spine dei peccati mortali e piantare le virtù. In altro modo voi non potreste ricevere il frutto del sangue dai lavoratori che io ho messi nella santa Chiesa, i quali già ti dissi che tolgono il peccato mortale, e vi danno la grazia, somministrandovi il sangue nei sacramenti, che sono ordinati nella santa Chiesa.

    Conviene che prima vi leviate su con la contrizione del cuore, con il dispiacimento del peccato e l'amore della virtù; allora riceverete il frutto del sangue.

    In altro modo non potreste riceverlo, se da parte vostra voi non vi disponete come tralci uniti alla vite dell'unigenito mio Figliuolo. il quale disse: Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo, voi i tralci.

    La verità è questa: io sono il lavoratore, perché ogni cosa che ha l'essere è uscita ed esce da me. La mia potenza è inestimabile, e con la mia potenza e virtù governo tutto l'universo mondo: nessuna cosa è fatta o governata senza di me. Sicché io sono il lavoratore che piantai la vite vera dell'unigenito mio Figliuolo nella tetra della vostra umanità, affinché voi, tralci uniti con la vite, faceste frutto.

    Perciò, chi non farà frutto di sante e buone opere sarà tagliato da questa vite e si seccherà.

    Coloro che si separano dalla vite, perdono la vita della grazia e sono messi nel fuoco eterno.

    Essi non hanno lavorato la loro vigna; hanno disfatta la loro e l'altrui.

    Non solo non vi hanno messo alcuna buona pianta di virtù ma ne hanno pure tolto il seme della grazia. che avevano ricevuto alla luce del santo Battesimo, partecipando del sangue del mio Figliuolo, il quale fu il vino che vi porse questa vera vite. Ma essi hanno tratto via questo seme e l'hanno dato a mangiare agli animali, ossia a diversi e molti peccati, e l'hanno messo sotto i piedi dell'affetto disordinato. Con questo affetto hanno offeso me, facendo danno a se stessi e al prossimo.

    Ma i miei servi non fanno così; e cosi dovete fare voi, cioè essere uniti e innestati in questa vite. Allora riporterete molto frutto, perché parteciperete dell'umore della vite.

    Stando nel Verbo, mio Figliuolo, voi state in me, poiché io sono una cosa sola con lui ed egli con me. Stando in lui, seguirete la dottrina sua; seguendo la sua dottrina, partecipate della sostanza di questo Verbo, ossia partecipate della deità eterna unita all'umanità, traendone voi un amore divino In cui l'anima s'inebria. Per questo ti dissi che partecipate della sostanza della vite.

    Sai che modo io tengo appena i miei servi si uniscono nel seguire la dottrina del dolce e amoroso Verbo? Io li poto, affinché facciano molto frutto, e il loro frutto sia provato e non Inselvatichisca.

    Lo stesso si fa del tralcio che sta nella vite; Il lavoratore lo pota, perché faccia miglior vino e in maggior copia; ma taglia e mette al fuoco quello che non fa f rutto. Cosi fo io, vero lavoratore; poto con molte tribolazioni I miei servi che stanno in me, affinché facciano frutto più copioso e migliore, e sia provata la loro virtù. Quelli invece che non fanno frutto, sono tagliati e messi nel fuoco, come ti ho detto.

    Questi tali sono lavoratori veri, e lavorano bene l'anima loro, traendone fuori ogni amor proprio, rivoltando la terra del loro affetto per me. Cosi nutrono e accrescono il seme della grazia, avuto nel santo Battesimo.

    Lavorando la loro terra, lavorano anche quella del prossimo, perché non possono lavorare l'una senza l'altra. Già sai che io ti dissi che tanto il male come il bene si fanno col mezzo del prossimo.

    Voi dunque siete i miei lavoratori usciti da me, sommo ed eterno lavoratore, che vi ho uniti e innestati nella vite, per l'unione che ho fatta con voi.

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    Predefinito Dalla cost. dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II sulla divina rivelazione

    Dei Verbum, 11.17; 19.7‑10. AAS 58 (1966), 823, 826‑827, 820‑822.

    Le verità divinamente rivelate, che nei libri della sacra Scrittura sono contenute ed espresse, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo (Gv 20,31; 2 Tm 3,16; 2 Pt 1,19‑21.3.15‑16). La santa Madre Chiesa, per fede apostolica, reputa sacri e canonici tutti interi i libri sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti. Infatti, scritti per ispirazione dello Spirito Santo, essi hanno Dio per autore, e come tali, sono stati consegnati alla Chiesa.

    Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e risorse. Egli agì in essi e per loro mezzo, in modo che scrivessero come veri autori tutto e solamente quello che egli voleva fosse scritto.

    Perciò tutto quello che gli autori ispirati o agiografi asseriscono, va stimato asserito dallo Spirito Santo; dobbiamo anche reputare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnarono con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, in ordine alla nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Lettere.

    Pertanto: Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare. convincere. correggere e formare alla giustizia. perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona (2 Tm 3,16).

    La parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede (Mc 1,16), si rivela e manifesta la sua forza in modo eminente negli scritti del Nuovo Testamento. Quando infatti venne la pienezza del tempo (Gal 4,4), il Verbo si fece carne e abitò tra noi pieno di grazia e di verità (Gv 1,14).

    Cristo stabilì il regno di Dio sulla terra, manifesto con opere e parole il Padre suo e se stesso; egli portò a compi l'opera sua con la morte, la risurrezione e la gloriosa ascensione, e l'invio dello Spirito Santo. Sollevato in alto, attira tutto a se (Gv 12,32), lui che solo ha parole di vita eterna (Gv 6,68).

    Questo mistero non fu palesato alle altre generazioni, come adesso è stato svelato al santi apostoli e ai profeti nello Spirito Santo (Ef 3,5), perché predicassero il vangelo, suscitassero la fede in Gesù Cristo e Signore e congregassero la Chiesa.

    Di tutto ciò gli scritti dei Nuovo Testamento sono testimonianza perenne e divina.

    A nessuno sfugge che fra tutte le Scritture, anche del Nuovo Testamento, i Vangeli giustamente eccellono; essi costituiscono, infatti, la principale testimonianza sulla vita e la dottrina del Verbo Incarnato, nostro Salvatore.

    Sempre e in ogni luogo la Chiesa afferma che i quattro Vangeli sono di origine apostolica. Ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito di Dio, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti, come fondamento della fede: cioè il Vangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni

    La santa Madre Chiesa ha affermato e afferma con forza e massima costanza che i quattro suddetti Vangeli, di cui attesta senza alcuna esitazione la storicità, ci trasmettono fedelmente quanto Gesù, Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (At 1,1‑2).

    Dopo l'ascensione, gli apostoli trasmisero ai loro ascoltatori ciò che il Signore aveva detto e fatto. Istruiti dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, essi insegnarono con quella più completa intelligenza di cui godevano.

    Gli autori sacri scrissero allora i quattro Vangeli: essi scelsero alcuni elementi tra i molti che erano tramandati a voce o anche per iscritto, alcuni altri sintetizzando, altri spiegando in funzione della situazione delle Chiese. Conservarono sempre però il carattere di predicazione, in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità.

    Questi autori infatti attinsero sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di quelli che fin da principio furono testimoni oculari e ministri della parola; e scrissero con l'intenzione di farci conoscere la "verità" (Lc 1, 2‑4) circa gli insegnamenti che abbiamo ricevuto.

    Per conservare sempre integro e vivo nella Chiesa il Vangelo, gli apostoli lasciarono come loro successori i vescovi, ai quali affidarono il proprio posto di maestri. Questa sacra Tradizione, dunque, e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono come uno specchio nel quale la Chiesa in terra contempla Dio. Essa riceve tutto da lui, finche giunga a vederlo a faccia a faccia, come egli è (1 Gv 3, 2).

    Per questo motivo, la predicazione apostolica, che e espressa in modo speciale nel libri ispirati, doveva essere conservata con successione continua sino alla fine dei tempi. Gli apostoli, trasmettendo quello che essi stessi hanno ricevuto, ammoniscono i fedeli di attenersi alle tradizioni apprese sia a voce sia per lettera (2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede loro tramandata una. volta per sempre (Gd 3).

    Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del Popolo di Dio e all'incremento della fede. Cosi la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a ogni generazione tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.

    La Tradizione che deriva dagli apostoli progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo. Cresce, infatti, la comprensione sia delle cose sia delle parole tramandate, grazie alla contemplazione dei credenti che le conservarono in cuor loro (Lc 2,19.51) oppure attraverso la penetrazione profonda delle realtà spirituali che essi sperimentano; cresce per la predicazione di coloro che mediante la successione nell'episcopato hanno ricevuto un carisma sicuro di verità.

    La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende continuamente alla pienezza della verità divina, finché in essa non si compiano le parole di Dio.

    Le affermazioni dei santi Padri testimoniano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze vengono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e prega.

    Attraverso questa medesima Tradizione si manifesta alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri; e le stesse sacre Scritture sono comprese più profondamente e rese continuamente operanti proprio grazie alla Tradizione.

    In questo modo, Dio, il quale ha parlato In passato, non cessa di parlare con la Sposa del suo diletto Figlio. La viva voce del Vangelo risuona cosi per mezzo dello Spirito Santo nella Chiesa e attraverso la Chiesa nel mondo Intero. Lo Spirito Santo guida i credenti alla verità intera e la parola di Cristo abita in essi con tutta la sua ricchezza (Col 3,16).

    La sacra Tradizione e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte tra loro e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, formano in certo modo una sola corrente e tendono verso il medesimo fine. Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio, in quanto scritta per Ispirazione dello Spirito di Dio.

    La sacra Tradizione poi trasmette integralmente la parola di Dio affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli e ai loro successori. Illuminati dallo Spirito dì verità, con la loro predicazione essi devono fedelmente conservarla, esporla e diffonderla; ne segue che la Chiesa attinge la certezza su tutto Il dato rivelato solo dall'unica Scrittura. La sacra Tradizione e la sacra Scrittura devono dunque essere ricevute e venerate con pari sentimenti di pietà e di rispetto.

    La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa. Nell'adesione ad esso, tutto il popolo santo, unito ai suoi pastori, assiduamente persevera nella dottrina degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (At 2, 42), e nel confessare la fede trasmessa, si stabilisce un accordo tra i vescovi e i fedeli, degno di nota.

    Però, l'ufficio di interpretare autenticamente la parola di Dio è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità viene esercitata nel nome di Gesù Cristo.

    Questo magistero, tuttavia, non è superiore alla parola di Dio, ma la serve, perché insegna solo ciò che è stato trasmesso. Infatti, per mandato divino e con l'assistenza dello Spirito Santo, la Chiesa piamente ascolta la parola di Dio,, santamente la custodisce e la espone con fedeltà. Da questo unico deposito della fede essa attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio.

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    Tiziano Vecellio, S. Marco in trono e Santi, 1510, Chiesa di Santa Maria della Salute, Venezia. I Santi in basso sono SS. Cosma e Damiano a sinistra e SS. Rocco e Sebastiano a destra

    Tiziano Vecellio, S. Marco, Santa Maria della Salute, Venezia

    Tiziano Vecellio, Il Doge Antonio Grimani inginocchiato dinanzi alla fede ed alla presenza di S. Marco, 1575-76, Palazzo Ducale, Venezia

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    Andrea Mantegna, S. Marco, 1448-49 circa, Stadelsches Kunstinstitut, Francoforte

    Agnolo Bronzino, S. Marco, 1525, Cappella Capponi, Santa Felicità, Firenze

    Vittore Carpaccio, Leone di S. Marco, 1516, Palazzo Ducale, Venezia

    Pietr Pawel Rubens, I quattro evangelisti, 1614, Schloss Sanssouci, Berlino

  7. #7
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    Jacob Jordaens, I quattro evangelisti, 1625-30, Musée du Louvre, Parigi

    Matthias Stom, Gli evangelisti Marco e Luca, 1635 circa, collezione privata

    Paolo Veronese, S. Marco, 1555, Chiesa di San Sebastiano, Venezia

    Maestro dell'Epifania di Fiesole, Cristo (di Lucca) sulla Croce tra i SS. Vincenzo Ferrer, Giovanni Battista, Marco ed Antonino di Firenze, 1491-95, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles

  8. #8
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    Da dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 564-570

    25 APRILE

    SAN MARCO, EVANGELISTA


    Il Leone evangelico, che vigila avanti al trono di Dio, insieme all'Uomo, al Bue, e all'Aquila, viene oggi festeggiato dalla santa Chiesa. È il giorno che vide Marco salire dalla terra al cielo, con la fronte cinta dalla duplice aureola dell'Evangelista e del Martire.

    L'evangelista.

    Come i quattro profeti maggiori - Isaia, Geramia, Ezechiele e Daniele - riassumono in sé il ministero profetico in Israele, così Dio voleva che la nuova alleanza riposasse su quattro testi degni di venerazione, destinati a rivelare al mondo la vita e la dottrina del suo Figliolo incarnato. Marco è discepolo di Pietro. Il suo Vangelo è stato scritto a Roma, sotto l'ispirazione del Principe degli Apostoli. Quello di Matteo era già in uso nella Chiesa; ma i fedeli di Roma desideravano che vi fosse aggiunta la narrazione personale dell'Apostolo. Pietro non intese scriverlo di proprio pugno, ma ordinò al suo discepolo di prendere la penna; e lo Spirito Santo condusse la mano del nuovo Evangelista. Marco si attiene alla narrazione di Matteo; l'abbrevia e, nello stesso tempo, la completa. Una parola, un cenno che ne sviluppi i fatti, attestano, ad ogni pagina, che Pietro, testimone e uditore di tutto, ispirò il lavoro del discepolo. Ma il nuovo Evangelista passerà sotto silenzio, o cercherà di attenuare la colpa del suo Maestro? Ben lungi da ciò, il Vangelo di Marco sarà più duro di quelle di Matteo nel raccontare il rinnegamento dì Pietro. Vi si sente che le amare lacrime, provocate dallo sguardo di Gesù nella casa di Caifa, non avevano cessato di sgorgare. Quando il lavoro di Marco fu compiuto, Pietro lo riconobbe giusto e l'approvò, le Chiese accolsero con gioia questa seconda narrazione dei misteri svoltisi per la salvezza del mondo ed il nome di Marco divenne celebre per tutta la terra [1].

    Matteo, che comincia il suo Vangelo con la genealogia umana del Figlio di Dio, aveva realizzato il tipo celestiale dell'Uomo; Marco compie quello del Leone, poiché inizia con la predicazione di Giovanni Battista, ricordando che la missione del Precursore del Messia era stata annunciata da Isaia, quando aveva parlato della voce di colui che grida nel deserto; voce del leone che scuote le solitudini col suo ruggito.

    Il Missionario.

    La missione apostolica cominciò per Marco dopo la stesura del suo Vangelo. Il momento era giunto in cui l'Egitto, fonte di tutti gli errori, doveva ricevere la verità; la superba Alessandria avrebbe visto sorgere, tra le sue mura, la seconda Chiesa della cristianità, la seconda cattedra di Pietro. Marco era stato destinato, dal suo maestro a compiere questa grande opera. Per mezzo della sua predicazione, la dottrina salvifica germogliò, fiorì, producendo il buon seme in questa terra infedele; e da allora l'autorità di Pietro si delineò, anche se in gradi diversi, nelle tre grandi città dell'Impero: Roma, Alessandria e Antiochia.

    Il Martire.

    Ma la gloria di Marco sarebbe restata incompleta se l'aureola del martirio non fosse venuta a incoronarla [2]. I successi della predicazione del santo Evangelista sollevarono contro di lui i furori dell'antica superstizione egiziana. Durante una festa a Serapide, Marco venne maltrattato dagli idolatri e gettato in una prigione. Fu lì che il risorto Signore, di cui aveva raccontato la vita e le opere, gli apparve una notte, e gli disse quelle celebri parole, che sono poi state il motto della città di Venezia "La pace sia con te, Marco, Evangelista mio"! Al che il discepolo, preso dall'emozione, non potè rispondere che: "Signore!" non trovando altre parole per esprimere la gioia e l'amore; come fece la Maddalena nel mattino di Pasqua, quando restò in silenzio, dopo avere esclamato: "Maestro"! L'indomani Marco fu immolato dai Pagani; aveva compiuta la sua missione, il ciclo si apriva a colui che avrebbe occupato ai piedi del trono dell'Antico dei giorni il posto d'onore ove il profeta di Patmos lo contemplò nella sua sublime visione (Ap 4,6-11). Nel IX secolo, la Chiesa Occidentale si arricchì delle spoglie mortali di Marco. I suoi sacri resti, fino ad allora venerati in Alessandria, furono trasportati a Venezia, che, sotto i suoi auspici, cominciò quel glorioso destino che durò mille anni. La fede in un così grande patrono, operò meraviglie in quegli isolotti ed in quelle lagune, che videro innalzarsi presto una città, altrettanto potente che magnifica. L'arte bizantina costruì l'imponente e sontuosa Chiesa che fu il palladio della regina dei mari; e la nuova repubblica incise sulle sue monete l'effige del Leone di san Marco; sarebbe stata fortunata se, più filiale verso Roma e più severa nei suoi costumi, non avesse degenerato nella dignità della condotta e nella fede dei suoi secoli di gloria!

    Preghiera.

    Tu sei, o Marco, il Leone misterioso attaccato, insieme con l'Uomo, col Bue e con l'Aquila, al carro sul quale il Re dei re avanza alla conquista del mondo. Fin dall'antica Alleanza, Ezechiele ti vide nel cielo, e Giovanni, il profeta della nuova Legge, ti riconobbe presso il trono di Dio. Quale gloria è la tua! Storico del Verbo fatto carne, narrasti a tutte le generazioni ciò che gli da diritto all'amore e all'adorazione degli uomini; la Chiesa s'inchina di fronte ai tuoi scritti e li dichiara ispirati dallo Spirito Santo.

    Nello stesso giorno di Pasqua ti abbiamo ascoltato nel racconto che ci fai della Risurrezione del nostro Salvatore; ottienici, o Santo Evangelista, che questo mistero produca in noi tutti i suoi frutti; che il nostro cuore, come il tuo, si stringa a Gesù risorto, affinché lo seguiamo ovunque in questa nuova vita che ci ha aperto, risuscitando per primo.

    Domandagli che si degni di concederci la sua pace, come la dette ai suoi Apostoli, quando apparve nel Cenacolo; come la dette anche a te, nella prigione.

    Tu fosti il discepolo di Pietro; Roma si onora di averti ospitato tra le sue mura; prega adesso per il successore del tuo Maestro, per la Chiesa Romana, sbattuta dalla tempesta. Leone evangelico, implora il Leone della tribù di Giuda in favore del suo popolo; risveglialo dal suo sonno; pregalo di levarsi con la sua forza: mediante il suo solo aspetto, dissiperà tutti i nemici.

    O Apostolo dell'Egitto! cosa è divenuta la tua Chiesa di Alessandria, seconda cattedra di Pietro, arrossata dal tuo sangue? Le stesse rovine sono perite. Il vento infuocato dell'eresia portò la desolazione in Egitto, e Dio, nella sua collera, tredici secoli fa, scatenò su di esso il torrente dell'islamismo. Quelle contrade, dovranno dunque rinunziare per sempre a veder brillare di nuovo la fiamma della fede, fino alla venuta del Giudice dei vivi e dei morti? L'ignoriamo; ma, in mezzo agli avvenimenti che si succedono, osiamo pregarti, o Marco, d'intercedere per quelle regioni che evangelizzasti, e dove le anime sono altrettanto devastate quanto il suolo.

    Ricordati anche di Venezia, o Marco! il suo scettro è caduto, forse per sempre; ma essa è ancora abitata da quel popolo, i cui antenati si consacrarono a te. Conserva in esso la fede; accordagli la prosperità, fa' che si risollevi dalle prove avute e renda gloria a Dio.

    LA PROCESSIONE DI SAN MARCO

    Storia.


    La giornata odierna ha un particolare interesse nei fasti della Liturgia per la celebre processione, detta di san Marco. L'appellativo, di per sé, non è esatto, perché la processione era già fissata al 25 Aprile prima dell'istituzione della festa del santo Evangelista, che, nel VI secolo, non ne aveva ancora una memoria fissa nella Chiesa romana. Il vero nome di questa Processione è di Litania Maggiore.

    La parola Litania significa supplica, e si riferisce ad una processione religiosa durante la quale si eseguono alcuni canti che hanno per scopo di placare il cielo. Indica pure il grido che vi si ripete: "Signore, abbiate pietà!" che ha il medesimo significato delle due parole greche Kyrie, eleison. Più tardi fu applicato il nome di Litanie a tutto l'insieme d'invocazioni aggiunte al seguito delle due parole greche, in maniera da formare un corpo di preghiera liturgica che la Chiesa impiega in alcune circostanze importanti.

    La Litania maggiore è chiamata così per distinguerla dalle Litanie minori, o processioni delle Rogazioni, istituite nella Gallia nel V secolo. Da uno scritto di san Gregorio Magno, vediamo che l'uso della Chiesa Romana era di celebrare, ogni anno, una Litania maggiore alla quale prendevano parte tutto il clero e tutto il popolo; uso già molto antico. Il santo Pontefice non fece dunque che fissare questa processione al 25 Aprile, e indicare per luogo stazionale la Basilica di S. Pietro.

    Molti liturgisti hanno confuso, con la detta istituzione, le Processioni che ordinò varie volte san Gregorio durante le pubbliche calamità: sono ben distinte da quella di oggi, che era in uso già antecedentemente, ma senza data fissa. È dunque a questo giorno che è in relazione la sua determinazione fissa, e non alla solennità di san Marco, stabilita più tardi.

    Se capita che il 25 Aprile cada nella settimana di Pasqua, la processione ha luogo nel giorno stesso, almeno che non sia proprio il. giorno della Risurrezione: la festa dell'Evangelista è invece rimandata dopo l'Ottava.

    Si potrebbe domandare perché si scelse il 25 Aprile per indicare una Processione ed una Stazione, tutta improntata a compunzione e penitenza, in un tempo dell'anno in cui la Chiesa è immersa nelle gioie della Risurrezione del Signore.

    Presso gli antichi Romani, il 25 Aprile si celebrava la festa dei Robigalia, festa che consisteva soprattutto in una processione molto popolare, che andava dalla via Flaminia al Tempio del dio Robigo. Qui si offrivano preghiere e sacrifici alla divinità affinché preservasse il grano dalla ruggine nell'epoca in cui si era, ossia quella dei geli tardivi della luna d'aprile. La Chiesa, una volta di più, sostituì l'uso pagano con una cerimonia cristiana.

    Non si può fare a meno di costatare il contrasto evidente che esistette fin d'allora tra l'allegrezza dell'attuale periodo e i sentimenti di penitenza che dovevano accompagnare la Processione e la Stazione della Litania maggiore, istituite entrambe con lo scopo d'implorare la misericordia divina. Non ci lamentiamo, dunque, se, pur ricolmati da ogni specie di grazie elargiteci in questo sacro Tempo, inondati dalle gioie Pasquali, la Chiesa senta la necessità d'imporci di rientrare per qualche ora nei sentimenti di compunzione che convengono a peccatori, quali siamo. Si tratta di allontanare i flagelli che le iniquità della terra hanno meritato, di ottenere, umiliandoci e invocando l'aiuto della Madre di Dio e dei Santi, la cessazione delle malattie, la conservazione delle messi; di presentare infine alla divina giustizia un compenso per l'orgoglio, la mollezza e le ribellioni dell'uomo.

    Facciamo nostri questi sentimenti, e riconosciamo umilmente la parte che hanno i nostri peccati nei motivi che causarono il divino sdegno. E le nostre deboli suppliche, unite a quelle della Chiesa otterranno grazia per i colpevoli, e per noi che siamo nel numero di essi.

    Questo giorno, consacrato alla riparazione della gloria divina, non poteva passare senza la salutare espiazione con la quale il cristiano deve accompagnare l'offerta del suo cuore pentito. Fino alla recente riforma del diritto ecclesiastico, che ne ha data dispensa, l'astinenza dalla carne era obbligatoria a Roma in questo giorno; e quando la Liturgia Romana fu adottata in Francia da Pipino e Carlo Magno, vi fu promulgato lo stesso precetto d'astinenza, mentre era già in uso la grande Litania del 25 Aprile. Il concilio di Aix-la-Chapelle nell'836 vi aggiunse l'obbligo della sospensione delle opere servili, disposizione che troviamo pure nei Capitolari di Carlo il Calvo. In quanto al digiuno propriamente detto, che il tempo pasquale non ammetteva, sembra non essere stato osservato, almeno in modo generale. Amalario, nel IX secolo, attesta che al tempo suo non veniva praticato neppure a Roma.

    Durante il corso della Processione si cantano le Litanie dei Santi, seguite dai numerosi versetti ed orazioni che le completano. La Messa della Stazione viene celebrata secondo il rito quaresimale, senza Gloria in excelsis e adoperando il colore viola.

    Ci sia qui permesso di protestare contro una gran quantità di cristiani, anche di persone più o meno dedite alla pietà, che non si vedono mai assistere alla Processione di san Marco, né a quelle delle Rogazioni.

    Il rilassamento su questo punto è giunto al colmo, soprattutto nelle città. Infatti questi cristiani sono rimasti soddisfatti dell'abolizione dell'astinenza che, prima limitata ad alcune diocesi, ai tempi nostri è stata estesa a tutti i fedeli. Sembrerebbe che questa indulgenza dovesse renderli più zelanti a prender parte all'opera di preghiera, visto che quella della penitenza è stata alleviata dalla dispensa. La presenza del popolo fedele alle Litanie forma una parte essenziale di questo rito riconciliatore; Dio non è tenuto a prendere in considerazione preghiere alle quali non si uniscono quelli che sono chiamati ad offrirle. E questo è uno dei molti punti sui quali una pretesa devozione privata ha gettato nell'illusione molte persone. San Carlo Borromeo, arrivando nella città di Milano, trovò che quel popolo lasciava compiere la Processione del 25 Aprile dal solo clero. Egli s'impose l'obbligo di assistervi in persona; vi andava camminando a piedi nudi; e il popolo, allora, non tardò a seguire le orme del suo pastore.

    ----------------------------------------------------------------------------

    NOTE

    [1] San Marco riporta nel suo Vangelo i ricordi di san Pietro. Secondo san Papia e sant'Ireneo, l'avrebbe scritto dopo la morte dell'Apostolo. Ai nostri giorni il Padre Lagrange ammette due date possibili per la composizione del Vangelo: o nel 42-43. oppure tra il martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo, nell'anno 70. Dopo avere scritto il Vangelo, Marco si sarebbe recato in Alessandria a predicare la fede.

    [2] Nessuno dei Padri ci dice che san Marco fu martirizzato, ma tale è la tradizione della Chiesa e non si può seriamente dubitare che l'Evangelista abbia subito li martirio, anche se gli Atti, che ce ne riportano i dettagli, non sono assolutamente autentici.

  9. #9
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    Predefinito Dalla lettera enciclica “Rerum Ecclesiae” del papa Pio XI.

    28 febbraio 1926. AAS, XVIII (1926), 65-66. 68-69.

    Non può sfuggire a nessuno come, fin dai primi secoli del cristianesimo, i romani Pontefici rivolsero le loro principali cure e provvidenze nel diffondere la luce della dottrina evangelica e i benefici della civiltà cristiana ai popoli che ancora stavano nelle tenebre e nell’ombra della morte (Lc 1, 79); essi non si arrestarono mai o per difficoltà incontrate o per ostacoli insorti.
    Davvero la Chiesa non ha altro intento se non di rendere partecipe tutto il genere umano dei frutti della redenzione, col dilatare in tutta la terra il regno di Gesù Cristo. E il Vicario in terra di Gesù, Principe dei Pastori, chiunque esso sia, non può affatto appagarsi della semplice difesa e custodia del gregge affidatogli dal Signore; se non vuole venir meno ad uno dei suoi principali obblighi, deve procurare con ogni zelo di guadagnare alla sequela di Gesù Cristo quanti ne stanno ancora lontani.
    In ogni tempo, com’è noto, i nostri predecessori eseguirono fedelmente il loro divino mandato d’insegnare e battezzare tutte le genti (cf Mt 28, 19). Non pochi dei sacerdoti da loro inviati, o per esimia santità di vita o per il martirio incontrato, sono venerati pubblicamente dalla Chiesa. Essi si adoperarono, sia pure con vario esito, a illuminare della nostra fede non soltanto l’Europa ma regioni fino allora ignote, man mano che venivano scoperte ed esplorate.

    Non occorre insistere a dimostrare quanto sarebbe alieno dalla virtù della carità, che riguarda Dio e tutti gli uomini, se coloro che appartengono all’ovile di Cristo non si dessero pensiero dei miseri i quali ne vanno errando lontano.
    Certo il debito di carità che ci stringe a Dio richiede non solo che procuriamo di accrescere il numero di coloro i quali lo conoscono e lo adorano in spirito e verità (Gv 4, 23); è necessario che assoggettiamo al regno dell’amabilissimo Redentore quanti più possiamo, affinché riesca ogni giorno più fruttuosa la fecondità del suo sangue e possiamo sempre più piacergli. A lui sopra ogni cosa è gradito che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità (1 Tm 2, 4).
    Gesù Cristo diede come carattere distintivo dei suoi seguaci l’amore vicendevole. Potremmo allora noi dimostrare al nostro prossimo carità maggiore o più insigne che procurando di trarlo dalle tenebre della superstizione e di istruirlo nella vera fede di Cristo? Anzi, questo supera qualunque altra opera o prova di carità, come l’anima è più pregevole del corpo, il cielo della terra, l’eternità del tempo.

    Chiunque esercita una simile opera di carità secondo le sue forze, dimostra di stimare il dono della fede quant’è giusto che lo stimi; inoltre manifesta la sua gratitudine verso la bontà di Dio, partecipando a chi purtroppo non conosce il cristianesimo questo stesso dono, il più prezioso di tutti, e con ciò gli altri beni che ad esso vanno uniti.
    Se nessun fedele può esimersi da tale dovere, potrà forse esimersene il clero, che per una mirabile scelta e vocazione partecipa del sacerdozio e dell’apostolato di Cristo nostro Signore? Potrete esimervene voi, venerabili fratelli, che, insigniti della pienezza del sacerdozio, siete divinamente costituiti pastori, ciascuno per la sua parte, del clero e del popolo cristiano?
    Leggiamo che non al solo Pietro, di cui occupiamo la cattedra, ma a tutti gli Apostoli di cui voi siete i successori, Cristo ordinò: Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura (Mc 16, 15). È quindi ovvio che appartiene, sì, a noi la cura della propagazione della fede, ma in modo che anche voi dovete partecipare con noi a tale impresa e aiutarci, per quanto ve lo permette l’adempimento del vostro ufficio particolare.

    Con la parola e con gli scritti procurate di introdurre e di gradatamente estendere la santa consuetudine di pregare il padrone della messe che mandi operai nella sua messe (Mt 9, 38), e d’implorare per i non-cristiani gli aiuti del lume e della grazia celeste.
    A ragion veduta parliamo di consuetudine e di usanza stabile e continua; presso la divina misericordia, quest’abitudine, come ognuno vede, ha più valore ed efficacia che non preghiere indette o una volta sola o di quando in quando.
    I predicatori evangelici potrebbero ben affaticarsi e versare sudori, persino dare la vita per condurre i pagani alla religione cattolica; potrebbero usare ogni industria, ogni diligenza e ogni genere di mezzi umani. Tutto ciò non gioverebbe a nulla, tutto cadrebbe nel vuoto, se Dio con la sua grazia non toccasse i cuori dei non-cristiani per convertirli attirandoli a sé.
    Ora è facile capire che non manca a nessuno la possibilità della preghiera, per cui tutti hanno in mano quest’aiuto e questa specie di alimento da dare alle Missioni.

  10. #10
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    Predefinito Dalla lettera enciclica “Fidei Donum” di papa Pio XII.

    21 aprile 1957. AAS 49 (1957), 236-238.240.

    Senza alcun dubbio, al solo apostolo Pietro e ai suoi successori, i romani Pontefici, Gesù ha affidato la totalità del suo gregge: Pasci i miei agnelli. Pasci le mie pecorelle (Gv 21, 15.16). Ma, se ogni vescovo è pastore proprio soltanto della porzione del gregge affidata a lui, la qualità di legittimo successore degli apostoli per istituzione divina lo rende solidale e responsabile della missione apostolica della Chiesa, secondo la parola di Cristo ai suoi apostoli: Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi (Gv 20, 21). Questa missione che deve abbracciare tutte le nazioni e tutti i tempi, non è cessata alla morte degli apostoli; essa dura nella persona di tutti i vescovi in comunione con il Vicario di Gesù Cristo. In essi, che sono per eccellenza gli inviati, i missionari del Signore, risiede nella sua pienezza “la dignità dell’apostolato, che è la prima nella Chiesa”, come attesta san Tommaso d’Aquino. Dal loro cuore questo fuoco apostolico, portato da Gesù sulla terra, deve comunicarsi al cuore di tutti i nostri figli e suscitarvi un nuovo ardore per l’azione missionaria della Chiesa nel mondo.

    Questo interessamento ai bisogni universali della Chiesa manifesta in modo molto vivo e vero la cattolicità della Chiesa. “Lo Spirito missionario e lo spirito cattolico, abbiamo detto in altra occasione, sono una sola e stessa cosa. La cattolicità è una nota essenziale della Chiesa: a tal punto che un cristiano non è veramente affezionato e devoto alla Chiesa, se non è ugualmente attaccato e devoto alla sua universalità, se non desidera che essa metta radici e fiorisca in tutti i luoghi della terra. Nulla è più estraneo alla Chiesa di Gesù Cristo che la divisione; nulla è più nocivo alla sua vita dell’isolamento, del ripiegarsi su di sé, e di tutte le forme di egoismo collettivo che inducono una comunità cristiana particolare, qualunque essa sia, a chiudersi in se. “Madre di tutte le nazioni e di tutti i popoli, non meno che di tutti gli individui”, la Chiesa, la santa madre Chiesa, “non è e non può essere straniera in alcun luogo; essa vive o almeno, per la sua natura, essa deve vivere in tutti i popoli” .

    Inversamente, potremmo dire, nulla di ciò che riguarda la Chiesa, nostra madre, è o può essere estraneo ad un cristiano: come la sua fede è la fede di tutta la Chiesa, come la sua vita soprannaturale è la vita di tutta la Chiesa, così le gioie e le angosce della Chiesa saranno le sue gioie e le sue angosce, le prospettive universali della Chiesa saranno le prospettive normali della sua vita cristiana. Spontaneamente, allora, gli appelli dei romani Pontefici per i grandi compiti apostolici nel mondo avranno eco nel suo cuore, pienamente cattolico, come gli appelli più cari, più gravi, più urgenti. Missionaria fin dalle sue origini, la santa Chiesa non ha cessato, per compiere l’opera cui non potrebbe venir meno, di indirizzare ai suoi figli un triplice invito: alla preghiera, alla generosità, e, per alcuni, al dono di se stessi.

    Pregate, venerabili fratelli e diletti figli, pregate di più. Ricordatevi degli immensi bisogni spirituali di tanti popoli ancora così lontani dalla vera fede, oppure così privi di soccorsi per perseverarvi. Rivolgetevi al Padre celeste e, con Gesù, ripetete la preghiera che fu quella dei primi apostoli e rimane quella degli operai apostolici di ogni tempo: Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
    Per l’onore di Dio e lo splendore della sua gloria, noi vogliamo che il suo regno di giustizia, di amore e di pace venga finalmente stabilito in ogni luogo. Questo zelo per la gloria di Dio, in un cuore ardente di amore per i propri fratelli, non è forse per eccellenza lo zelo missionario? L’apostolo è anzitutto l’araldo di Dio.

 

 
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