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    Predefinito Strani fenomeni del terremoto di Messina

    Tra le vecchie cartoline della collezione del nonno, le più drammatiche sono forse quelle tre o quattro che riportano immagini del terribile terremoto del 1908 che distrusse Messina e Reggio facendo più di ottantamila vittime, di cui sessantamila nella sola Messina.



    Nella cartolina che mostra le macerie di Reggio Calabria (qui sotto riportata), si legge questa enigmatica didascalia: "Arrivo dei Bersaglieri - Strani fenomeni del terremoto"



    Di quali strani fenomeni si tratta? Dalla foto non si riesce a dedurre alcunchè di strano ma certamente deve essere accaduto qualcosa di abbastanza strano da meritarsi quella didascalia.

    Potrebbe essersi tratto di "triboluminescenza", fenomeno abbastanza comune nei terremoti intensi che - per la frizione tra minerali dovuta ai movimenti tellurici - causa emissione di luminescenza.

    Le manifestazioni di triboluminescenza riportate dalle cronache dei terremoti registrati in Sicilia sono numerose, ma nessuna notizia ho trovato relativamente al terremoto di Messina del 1908.



    - a proposito dei terremoto che il 1° gennaio 1693 colpì la Sicilia Orientale e la città di Catania in particolare, i cronisti dell'epoca scrissero che coloro che ebbero la fortuna di sopravvivere al terribile sisma videro "u celu russu e luci strane" ("un fattu stranu " tramandato anche da generazione in generazione con i racconti attorno "a conca co' Iuci che í nanni cuntavanu a figghi e niputi " )

    - a Palermo invece a seguito dei terremoto dell'1 settembre 1726, furono osservate "due colonne di fuoco" che rimasero visibili anche quando si immersero in mare.

    - ancora a Palermo "... ad ore diecinnove e tre quatri" dei 6 novembre 1730 "vi fu in Palermo una scossa di terremoto, sentita dalla maggior parte de' cittadini, ma senza alcun danno. Dicono che vi fusse stato pure a 2 del presente ad ora una e mezza di notte, e che le sere precedenti, alla parte di ponente, verso AIondello, fu veduto come un trave di fuoco, altra volta 10, che vennero ad unirsi in uno ".

    - e sempre nel capoluogo regionale siciliano in occasione del terremoto del 20 febbraio 1743 alle ore 23 fu vista una fiamma alzarsi in zona Monreale, attraversare la città e con un sibilo tuffarsi in mare.

    - al terremoto del 16 febbraio 1783 di Messina e Reggio Calabria sono invece addebitati i fenomeni luminosi e le fiamme anche uscenti dal mare osservate da numerosi testimoni.

    - mentre a quello terribile della Valle dei Belice del 18 gennaio 1968 si imputò l'emissione di gas sulfureo, fiammelle e luci notturne da piccoli vulcanetti affiorati dagli squarci della superficie terrestre.

  2. #2
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    Grandissimo Pcosta, che splendido thread!

    Io, collezionista feroce (e, si dice, ben fornito...) di cimeli della Messina pre-terremoto o riguardanti l'evento medesimo, sono fonte inesauribile di ricchezza per antiquari e simili... Inoltre due anni fa, sulla "Gazzetta del Sud", unico quotidiano cittadino, ho pubblicato per l'anniversario la sintesi di un mio studio su alcuni aspetti pressoché ignorati dalla storiografia consueta...

    Eccolo (grazie a Silvia che me lo ha spedito in tempo reale... La mia versione elettronica era andata perduta e rischiavo di dover fare l'amanuense della tastiera... )...

    Conseguenze psicologiche e aspetti sociali del terremoto del 28 dicembre 1908
    E la vita trionfò sulla morte

    Quando il baluginio dell'alba livida di quel ventotto dicembre disperse un'oscurità breve eppure interminabile, Messina apparve somigliante, scrisse Concetto Marchesi, a «un'enorme, mostruosa e irregolare cava di pomice, desolata e cinerea». La cortina del porto, secondo i cronisti dell'epoca, pareva «sorridere come un bocca sdentata»; le mura degli edifici sembravano «sbocconcellate dalle mandibole immani di un mostro», e da esse, come da immense forche, pendevano corpi umani. Il cielo plumbeo sovrastava un paesaggio da incubo, da incantesimo malefico. Si udivano urla, pianti e risate. Per terra e fra i ruderi si intravedevano carte da gioco, biglietti di auguri e altri piccoli e macabri cimeli di una serenità violata a tradimento.
    Ma il sisma, che secondo alcuni sopravvissuti era stato accompagnato da un'aurora boreale e da una pioggia di stelle cadenti, non si era limitato a distruggere palazzi e a uccidere alla cieca. L'intero ordine costituito, con i suoi valori e i suoi equilibri etici e familiari, giaceva anch'esso sotto le macerie, spodestato da un'anarchia presociale in cui l'unica legge rimasta era quella del più forte. Essere morti era la norma, essere vivi era l'eccezione. Su una porta fu scritto: «Tutti salvi. Famiglia Serrao».
    Niente rimaneva della città dalle rigorose gerarchie sociali, mirabilmente dipinta dal Boner nelle sue novelle; niente rimaneva della città in cui il dottor Vincenzo Cammareri era stato considerato un eccentrico poiché, dopo le scosse del 1894 e del 1896, si era fatto costruire una casa dai muri rinforzati; niente rimaneva della città in cui ogni borghese era chiamato “professore”. Qualsiasi titolo, ormai, sarebbe sembrato una beffa.
    Diversi cittadini che, poche ore prima, erano andati a dormire tranquilli e benestanti, si ritrovarono improvvisamente sul lastrico, costretti a nutrirsi di erbe e radici. Talvolta, andarono perduti i sacrifici di generazioni. Il banchiere Mauromati si presentò al Prefetto scalzo e nudo, chiedendo un paio di scarpe e un cappotto. L'ingegner Soave, stimato professionista, perse tutta la famiglia e, impazzito, fu portato a Catania. Mentre lo trascinavano via, gridava: «Nulla è successo a Messina! Proprio nulla! Soltanto la mia famiglia è distrutta!». La catastrofe venne, infatti, anche paragonata a una sorta di rivoluzione, poiché aveva colpito senza clemenza il lusso e lo sfarzo, risparmiando, in misura maggiore, la povertà.
    Nei giorni successivi, i superstiti, pallidi e con gli occhi sbarrati, avvolti in tende o tappeti oppure vestiti di cenci, si aggiravano tra i ruderi, sedevano sui sassi o si scaldavano dando fuoco a ciò che restava della loro casa. Molti feriti, che magari si erano trascinati in cerca di soccorso fino all'Ospedale Civico per poi accasciarsi nel vederlo ridotto a uno scheletro, chiedevano solo di bere e di morire. C'erano uomini vestiti con abiti femminili e, viceversa, alcune donne indossavano pastrani o giubbe militari. Rifugiati in improvvisate capanne, preistoriche e zingaresche, sembravano personaggi di un grande affresco raffigurante i “Vinti” di verghiana memoria.
    Non mancavano, fra loro, atti di pietosa abnegazione, ma c'era anche qualcuno che, inebriato dal solo fatto di essere in vita, osservava con compiacimento le disgrazie altrui o, addirittura, si rendeva protagonista di episodi ignobili. Alla contessa Massei, che invocava aiuto, tagliarono le dita per portarle via gli anelli; a una donna che chiedeva qualcosa da mangiare, attraverso un buco, spararono con il moschetto. Rapidamente, si diffuse una sorta di esasperata insensibilità, di anomala abitudine al dolore. Paradossale motivo di gioia era, per taluni, il ritrovamento del corpo dei congiunti, che riconoscevano senza disperazione, a volte con un moto di raccapricciante felicità. Ciò risaltava di fronte al vistoso strazio dei parenti che giungevano da fuori. Anche i casi di follia non mancavano, eppure Claudio Treves, su Il Tempo del 6 gennaio 1909, poteva constatare che «a tutt'oggi, di laggiù, non è segnalato un solo caso di suicidio».
    Nel frattempo altri, approfittando della momentanea mancanza di militari (che, in gran parte, erano stati falciati dalla scossa...), si davano ai saccheggi, anche perché i furti, al cospetto di quel male assoluto, non erano più avvertiti come peccati. Un tale, che aveva preso un sacco di farina, fu fermato da un maresciallo dei Carabinieri. «A chi hai rubato quel sacco?», chiese quest'ultimo. «A chi? – rispose l'altro. – «Al Padre Eterno ca nni conza sti festi ». Il fenomeno fu represso con il pugno di ferro. E pensare che, non di rado, anche i soldati, in cerca di cibo, dovevano improvvisarsi scassinatori.
    La situazione era aggravata dagli incendi, per lo più dolosamente appiccati proprio per generare confusione e distrarre le guardie. Nessuno si stupiva di quelle fiamme sinistre, che completavano uno scenario già spettrale. Il lezzo di morte, che in vicinanza degli agrumeti si mescolava al profumo dei limoni, impregnava le divise dei soccorritori, costretti a lavorare muniti di fialette di sali e batuffoli di ovatta. Sotto l'influenza di una certa letteratura ottocentesca, ci si immedesimava, inoltre, nella condizione dei sepolti vivi, tentando di immaginare i loro pensieri.
    In molti cominciarono a chiedersi, ossessivamente, perché la città protetta dalla Madonna della Lettera fosse stata colpita da un simile flagello, di quali atroci colpe si fosse macchiata. Dino Provenzal, nel suo contributo per la Rivista di Psicologia del marzo 1909, ricordò che, durante i sussulti della fatidica mattina, aveva pensato: «Dato che Dio esista, il terremoto l'ha mandato lui; pregare è un assurdo dunque; morrò: aspettiamo». Per strada, capitava di scorgere gruppi di donne che, come invasate, urlavano che la vendetta divina si era compiuta. L'evento tellurico era sentito come un inspiegabile trionfo del male sul bene, un'incomprensibile frattura storica e religiosa. Si diffuse, inoltre, la convinzione che il disastro, dopo un mese lunare, si sarebbe ripetuto. A tal proposito, Giuseppe Antonio Borgese terminava la sua corrispondenza per La Stampa del 17 gennaio 1909 commentando: «In questa provvisoria sospensione delle leggi naturali a cui il terremoto ha sostituito, prima del Governo, una sua legge marziale, si abbandona la scienza e si accolgono con pronto consenso le profezie superstiziose, si citano i vaticini delle sonnambule e degli astrologhi, si rievoca la grande eclissi del 1905 a cui seguirono inondazioni ed eruzioni e distruzioni di città, e si contano le notti che ci separano dalla fine del mese lunare, dal secondo terremoto. Tutte le notti, quando la solita scossa incrudelisce sui morti, le sentinelle stanche e taciturne balzano spaventate sentendo passare un nemico che non risponde al chi va là e che non cade sotto la mitraglia...».
    Eppure, fra rischi di epidemie e sterili polemiche, la vita avrebbe, man mano, ripreso il sopravvento. Lo si intuì quando, in quel contesto apocalittico, nacquero i primi bambini. Fu la tranquillizzante dimostrazione che i dettami della natura, nonostante tutto, vigevano ancora.

  3. #3
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    Dal volume 28 dicembre 1908 ore 5.21 Terremoto di Sandro Attanasio, Bonanno Editore, Acireale 1988

    In questo passaggio il riferimento è al sisma del 5 febbraio 1783 ma, come accennavo io stesso, una simile fenomenologia si osservò anche nel 1908... Ricordo, in particolare, un servizio trasmesso dalla Rai forse nel 1988, in cui si riportavano le parole di un pescatore che, notando movimenti anomali nelle acque poco prima del terremoto, aveva commentato: "Chista non è cosa giusta!"...

    [i] Quel 5 febbraio 1783 il cielo si oscurò improvvisamente e subito la terra cominciò a tremare. Le scosse furono di una violenza indescrivibile, sicuramente le più forti della scala Mercalli. Ad una serie di movimenti ondulatori fece seguito un intenso scuotimento sussultorio. I superstiti poi raccontarono di avere avuto l'impressione di essere preda ad un prolungato e tremendo "moto vorticoso". Nello stesso tempo il cielo veniva coperto da una "vasta nuvola di cenere che si spostava lentamente" (era la povere dei crolli) e fu vista "una subitanea e passeggera luce". Subito dopo si scatenò una pioggia a dirotto e il mare si gonfiò e si scagliò con apocalittica violenza contro la costa siciliana di Capo Peloro e quella calabra del Tirreno. (Gli stessi fenomeni si erano verificati 90 anni prima a Catania, durante il terrificante terremoto dell'11 gennaio 1693).
    A Scilla, in Calabria, le acque irruppero nell'abitato con catastrofico impeto. Cancellarono il paese e uccisero 2500 persone. In Calabria l'area investita dal sisma comprese l'intera punta dello stivale, da Pizzo sulla costa tirrenica a Siderno su quella jonica. Furono devastate centinaia di località con almeno 60.000 morti. Scomparvero fiumi come il Petrace e laghi "e se ne formarono altri nuovi... pianure divennero montagne e queste valli... dal suolo uscirono lucide fiamme e nerissimo fumo". (Cfr. Andrea Gallo, Lettere scritte al Cavaliere N. N. Pelli terremoti del 1783 - Messina 1784).

    (...)

    Nelle 24 ore che seguirono il 5 febbraio furono contate altre 62 scosse sismiche tutte di rovinosa intensità. I movimenti tellurici continuarono per circa due anni accompagnati da continui fenomeni. Improvvisi scoppi di fulmini, stelle cadenti, aurore boreali e altri eccezionali chiarori del cielo.
    Strane coloriture delle acque del mare che si scatenava con improvvise tempeste, spaventosa moria di pesci di tutti i tipi, tranne il popolare "cicirello" che invece aumentò in maniera prodigiosa nelle acque che attorniavano la Calabria e la Sicilia e per anni venne pescato in grandissima quantità. Le scosse di terremoto venivano annunziate da immense colonne che si levavano dai crateri eoliani di Stromboli e Vulcano. Dopo il fumo dei vulcani, a distanza di ore o di giorni, la terra riprendeva a tremare furiosamente.
    Nei due anni di scosse sismiche e di altri sconvolgenti fenomeni la gente di Messina e della Calabria affinò la sua sensibilità sino a prevedere le scosse di terremoto "con improvvise vertigini, vomito e necessità di svuotare il ventre" (Cfr. Andrea Gallo, op. cit.).

  4. #4
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    Dal sito http://www.ingv.it/


    Maremoto del 1908: alle distruzione prodotte dallo scuotimento sismico, nelle localita’ costiere si aggiunsero quelle dovute alle onde di maremoto (foto da Baratta, 1910).

  5. #5
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    Dal volume 28 dicembre 1908 ore 5.21 Terremoto di Sandro Attanasio, Bonanno Editore, Acireale 1988

    Quel 27 dicembre 1908 le due città, le località delle riviere della Calabria e della Sicilia vivevano serenamente le ultime ore della loro esistenza. Anche se nei secoli erano state ripetutamente decimate dai cataclismi le popolazioni si erano sempre tenacemente riprese ed avevano ricostuito città, paesi e villaggi su quelle rive che, con la loro bellezza, sembravano sfidare le forze della natura. Sopravvissuti a tante catastrofi, messinesi e calabresi avevano accettato di vivere in compagnia dell'orrendo pericolo, imprevedibile ma certamente periodico, della calamità.
    Nel ricordo delle genti la mitica ferocia di Scilla e di Cariddi si univa al ciclico avvicendarsi di terremoti e maremoti, al vortice del "galoffaru" gorgo mortale del mare e alle impetuose correnti marine dello stretto quotidianamente sfidate da pescatori e marinai.

    Un anno prima, nell'ottobre del 1907, il terremoto aveva devastato la punta estrema della Calabria, una striscia di terreno montuoso dal Tirreno all'Jonio, da Gioia Tauro a Siderno. Il sisma aveva infierito su due paesini di montagna. Aveva scrollato e sconquassato Bruzzano e Ferruzzano, aveva vigliaccamente pestato le case contadine e assassinato tanta povera gente. Anche se posti a non molta distanza dalla costa i due paesini erano il più efficace quadro della derelitta Calabria sempre ignorata da tutti i potenti e da tutti i governi. Senza comunicazioni telefoniche e telegrafiche, senza nemmeno vere strade di accesso, Bruzzano e Ferruzzano erano rimasti per giorni senza aiuto. Le operazioni di soccorso erano state lunghe e difficilissime. In quella occasione fra la sventurata popolazione della Calabria era corsa un'atroce profezia. Uno dei leggendari "Maghi" dell'Aspromonte, che aveva predetto l'avvenuto terremoto, aveva anche annunciato "un nuovo cataclisma, infinitamente più devastatore, che avrebbe colpito paesi prosperi con migliaia e migliaia di morti e montagne di rovine" (Cfr. Temps, 30 octobre 1907, Paris).

    Ma i profeti di sciagure non erano soltanto i maghi dell'Aspromonte. A Messina, da circa quatrocento anni, veniva ripetuta una tremenda profezia attribuita ad una pia monaca professa del Monastero di Basicò; divenuta poi Badessa di Montevergine, morta nel 1486 in odore di santità e successivamente beatificata. Suor Eustochia Calafato era sepolta nella chiesa attigua al monastero di Montevergine dove "si conservava l'intero corpo incorrotto e flessibile su di un'arca della tribuna dell'Altare Maggiore". (E' ancora così. Nota mia)
    Dal 1486 l'arca, con il corpo incorrotto della Beata, era meta di fedeli e luogo di preghiera A Messina si era diffusa la credenza che al corpo mummificato continuassero a crescere le unghie e i capelli che, recisi dalla badessa del monastero nel giorno della ricorrenza della defunta beata, venivano disputati dai fedeli come ambite reliquie. Altra generale e diffusa credenza era che la Beata Eustochia avvertisse le suore del monastero della prossima morte di una di esse. Ciò avveniva alcune settimane prima del trapasso con un rumore cupo, come se qualcuno rotolasse una palla di ferro. Infine era a tutti nota la terrificante profezia fatta dalla suora in punto di morte. La monaca aveva detto che "per le strade di Messina si sarebbe visto il sangue scorrere a fiumi fino al mare". Le parole della monaca avevano avuto nuove conferme nel corso dei secoli e furono autorevolmente ribadite nei mesi che precedettero il fatale dicembre 1908.

    Nel 1907 l'arcivescovo di Reggio Calabria, Cardinale Gennaro Portanova, aveva scritto ad un conoscente che si trovava in America una lettera che in seguito venne ritenuta profetica. Il Cardinale, che aveva appena sessantadue anni e godeva perfetta salute, annunciava la sua prossima morte (infatti morì pochi mesi dopo, nell'aprile 1908) e concludeva così la sua lettera: "Ho un presentimento della mia fine non lontana. Così non mi strazierà la rovina di questa povera città. Se la rovina viene, io non sono più di questo mondo. Recate un poco della vostra energia agli sventurati".

    Appena pochi giorni prima della catastrofe, per una strana e terribile coincidenza il terremoto venne ricordato, anzi invocato. Nel numero di Natale di un foglio di Messina, "Il Telefono", un periodico cosiddetto umoristico e sfrenatamente anticlericale, che si faceva notare per la sua volgare e gratuita antireligiosità, apparve una parodia della "Novena a Bambino Gesù".
    Era una poesiola di protesta contro un nuovo balzello proposto dalla Giunta Comunale che aveva sollevato in città moltissime proteste ed una fiera polemica. Il Telefono terminava la parodia con questi versi: "O bambinello mio/vero uomo e vero Dio/per amor della Tua Croce/fa sentire la nostra voce/Tu che sai, non sei ignoto/manda a tutti un terremoto!".

    Infine, poche ore prima del terremoto, il 26 dicembre 1908, nel corso di un processo che si svolgeva al Tribunale di Messina, un ragazzo di diciotto anni accusato di furto venne giudicato e condannato a due anni di prigione. Al momento della lettura della sentenza la madre del giovane condannato, Carmela Gruno, "gli occhi dilatati, orrenda e sublime, cme un'ossessa o una... veggente, irrompe nel Pretorio urlando: 'Malanova! Havi a veniri un tirrimotu cu' 'll'occhi e v'havi ammazzari a vui birbanti e a tutta Missina!".

    Il terremoto arrivò puntuale, quaranta ore dopo. Ma venne "senz'occhi". Non scelse i luoghi da colpire, né selezionò le sue vittime. Colpì ciecamente, tutto devastando e uccidendo.

  6. #6
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    MESSINA, 28 DICEMBRE 1908

    Non era ancora l'alba e Messina dormiva il suo pesante primo sonno di città felice, ricca e spensierata. D'improvviso la furia dell'inferno si scatenò nel dolce anfiteatro dello Stretto. La città fu colta alla sprovvista. Nessuno di quelli che erano sulla terra ferma potè capire. Si udì dapprima un boato profondo e misterioso, poi la terra parve volersi scrollare di dosso le sue case, come fa un cavallo imbizzarrito. Le acque nel centro del porto parvero aprirsi. Si levarono ondate immense. Lo scoppio d'ira del mare si ripetè quattro volte nello spazio di mezz'ora. Terribile, spazzò ogni essere vivente, distruggendo la banchine del porto.
    Quando la luce diventò più chiara, Messina era crollata di schianto e dalle sue rovine si levava, disperato e terrificante, l'urlo dei sepolti vivi.

    La più spaventosa catastrofe di tutti i tempi, la più micidiale tragedia, era accaduta nel volgere di pochi minuti. In trentadue secondi la scossa sismica, sussultoria e ondulatoria, aveva raso al suolo Messina, Reggio e tutto il litorale calabro. Gli orologi, nelle case sventrate, segnavano le 5,20. In quel preciso istante, i sismografi di tutto il mondo avvertirono il sinistro segnale della lontana, immensa tragedia: il pennino dei pendoli oscillanti tracciò un disordinato scarabocchio, traducendo in grafico la simultanea fine di centoventimila vite.

    Dall'epoca di Ercolano e Pompei sino all'atomica di Hiroshima nulla di più atroce è mai accaduto sulla terra. Eppure, di un disastro così smisurato, nelle altri parti d'Italia e del mondo si ebbe più il presentimento che la certezza: telegrafo, telefono rimasero implacabilmente muti. Ogni mezzo di comunicazione con i luoghi colpiti era distrutto. Neanche i superstiti poterono subito rendersi conto della vastità delle distruzioni. Fu una piccola torpediniera, la meno danneggiata dal terremoto, a dover fare il primo, inorridito bilancio. Inviata da Messina sino a Scilla, trovò macerie e morti. Allora riprese il mare e, costeggiando la Calabria, risalì di porto in porto, di rovina in rovina: Messina, Reggio, Villa, Scilla, Pellaro, Bagnare, Palmi, Cannitello, Sant'Eufemia erano distrutte.

    Per i primi quattro giorni Messina fu isolata dal resto del mondo.

    L'agonia della città fu terrificante: ottantamila dei suoi abitanti erano passati dal sonno alla morte, travolti e soffocati dalle macerie. La città era una sola piaga urlante. Dalle tubature del gas, dai lumi a petrolio era sprizzata la scintilla di un incendio che rendeva più infernale e sinistro quello spettacolo di morte.
    Schiacciati tra le macerie delle abitazioni crollate, migliaia di messinesi imploravano aiuto. I superstiti giacevano inebetiti sotto la pioggia fitta, mentre la terra era ancora scossa da fremiti.

    Nei quattro maremoti successivi il mare aveva rigettato a riva i cadaveri di quelli che avevano cercato scampo sulle banchine del porto. Nessuno poteva porgere aiuto ai sepolti vivi. Una tetra pazzia piombò sulle menti sconvolte, un terrore sovrumano dominò, cupo e irrefrenabile, nella città distrutta.
    Mentre le ore e i giorni passavano, i lamenti che salivano dalle macerie insanguinate si affievolivano. Molti feriti morirono prima di essere medicati. Sui tavoli di marmo di un caffè distrutto, gli ufficiali medici delle navi russe improvvisarono un posto di medicazione.


    Un ospedale da campo venne allestito fra le tende di un circo equestre. Le navi accorse da ogni parte divennero ospedali galleggianti. I senzatetto avevano fame e sete e molti di essi impazzirono dal dolore. Non c'era acqua, non c’erano viveri, né disinfettanti e medicinali a sufficienza. Gli incendi divampavano ancora. Ombre insidiose di saccheggiatori si profilavano sulle macerie, abbattuti senza esitazione da soldati e marinai in osservanza alla legge marziale.
    Tutto venne fatto pur di porgere aiuto e sollievo: il giorno del suo arrivo, la corazzata Makaroff dissetò i superstiti distribuendo l'acqua delle sue caldaie. I marinai, per ore ed ore, non ebbero altro da offrire ai feriti che un dito da succhiare, intinto nell'acqua piovana.

    Le squadre di soccorso si aggiravano fra le rovine con il viso avvolto nei fazzoletti imbevuti di acido fenico. L'aria era irrespirabile a causa dei cadaveri insepolti. Alla fine, essendo umanamente impossibile trovare il luogo e il tempo per dare sepoltura ai morti, macabri roghi levarono le loro fiamme acri e sinistre.


  7. #7
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    28 dicembre 1908 – 28 dicembre 2004

    "Invano
    cerchi tra la polvere,
    povera mano, la città
    è morta. È morta ... "
    S. Quasimodo

    Il primo telegramma parte alle nove e dieci dalla prefettura di Catania: "Ore 05:20 di stamattina avvertitasi violenta scossa di terremoto ondulatorio durata vari secondi. Popolazione impressionatissima. Telegrammi giunti finora da diversi comuni della provincia accennano soltanto danni fabbricati ma senza disgrazie".
    E’ la mattina di lunedì 28 dicembre 1908. Presidente del consiglio e ministro degli Interni è Giovanni Giolitti. Quando il telegramma spedito da Catania arriva negli uffici del Ministero degli Interni, nessuno si scompone: l’Italia è un paese sismico, le scosse sono quasi di routine. Per cui la giornata dei ministeriali romani continua a scorrere tranquillamente. Intanto, in Sicilia, l’impiegato Antonio Barreca cammina sconvolto lungo la linea Messina-Siracusa. Dopo tre ore di marcia arriva alla stazione di Scaletta. Da lì riesce a trasmettere un telegramma di due sole parole: "Messina distrutta". Giolitti lo legge e poi lo cestina: questo Barreca deve essere un pazzo. Eppure qualcosa non quadra: notizie su danni provocati da un terremoto arrivano arrivano da tutte le prefetture di Sicilia e Calabria. Solo i telegrafi di Messina e di Reggio tacciono. Perché?

    La risposta arriva alle 17:25 con un altro telegramma, firmato dal tenente di vascello Belleni, comandante della torpediniera Spica: Messina e Reggio non esistono più. Ma, ancora a tarda sera, ai giornalisti che si accalcano intorno a lui per avere notizie, Giolitti dice: "Non è possibile, qualcuno ha confuso la distruzione di qualche casa con la fine del mondo."

    E’ facile dare la colpa alla solita inefficienza italica se a Roma ancora si ignorava quasi tutto, mentre squadre di marinai russi e inglesi erano già sbarcati a Messina per soccorrere i sopravvissuti.

    E si capisce perché quando, la mattina di martedì 29, anche il nostro esercito sbarcò sul luogo del disastro, l’accoglienza non sia stata proprio cordiale: "Ora venite, ora che è finito tutto!", inveiva la folla. Per gli uomini del Sud era la conferma che il Meridione era solo terra di conquista del Regno savoiardo.


  8. #8
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    Da un vecchio "Almanacco delle Famiglie Cristiane" stampato nel 1909, una cronaca d'epoca e alcune immagini della tragedia.

    L'IMMANE CATASTROFE DI SICILIA E DI CALABRIA

    L'anno 1908 stava per finire, quando una tristissima notizia volò da un capo all'altro d'Italia portando da per tutto il dolore, il lutto e lo spavento.
    Due grandi e magnifiche città, una quindicina di città minori e borgate, appartenenti a quelle regioni meridionali del paese che, nel corso de' secoli passati, già tanto furono provate da grandi catastrofi naturali - specie dal terremoto del 1783 - erano, per così dire, scomparse dalla faccia della terra, seppellendo sotto le loro rovine la maggior parte dei popoli che vi abitavano. Or come?
    Io mi proverò a brevemente richiamarlo in queste pagine, poichè è salutare per tutti il ricordarsi della fragilità di ogni cosa creata e della stessa vita umana, come è ufficio di carità il commemorare e quelli che, per simili catastrofi, d'un tratto, si trovarono balzati nella eternità e quelli che, pure essendo rimasti fra i viventi, tutto hanno miseramente perduto quaggiù, perchè poi non cessiamo di dare ai primi il conforto delle nostre preghiere e agli altri quello della nostra compassione e del nostro soccorso.
    Il 28 dicembre, dì dei Santi Innocenti, alle 5 del mattino, due scosse di terremoto, ondulatoria la prima e sussultoria l'altra, in un lampo di trenta secondi, distruggevano Messina, Reggio di Calabria e molte altre terre dianzi felici e rigogliose, strappando dalle braccia del sonno riparatore, per gittarli in quella della morte, dugento mila nostri fratelli, ed altri centomila e più lanciando nella più squallida miseria e desolazione.
    Della « nobile » Messina, « perla della Sicilia», della città «luminosa» - come la chiamò il De Amicis - «biancheggiante splendidamente fra l'azzurro vivo del mare e il verde della lussureggiante vegetazione, che copre i suoi colli e i suoi monti», della tre volte millenaria, forte, gloriosa e ricca città, detta « il bel Paradiso », non rimaneva più che un cumulo di macerie! Cumulo di macerie la superba, pomposa fila serrata di Palazzi, che dominava uno dei porti più vasti, profondi e sicuri del Mediterraneo; la Cittadella; il Corso Vittorio Emanuele, con la sua grandiosa fontana del Nettuno, opera del Montorsoli, allievo di Michelangelo, compiuta nel 1546; il duomo, celebre opera di arte, sorto nel 1092, ricostrutto e restaurato a più riprese, e via via suntuosamente adornato dal genio e dalla pietà dei fedeli di quella antichissima Chiesa metropolitana; il tempio grandioso, dalla facciata di marmo, dalle gotiche porte finemente ricamate; il cui interno, a tre navate a croce e a dodici arcate, sostenute da ventisei colonne di granito egiziano, era ricco di preziosi mosaici, di monumenti funerari, del preziosissimo baldacchino, sotto il quale veneravasi l'imagine della Madonna della Lettera, baluardo della città. Rovinate del pari le chiese di San Francesco d'Assisi, dell'Annunziata, dell' Immacolatella, di San Filippo, dello Spirito Santo, con l'orfanatrofio ; atterrati il Municipio, la Camera di Commercio, il Monte di pietà, la Corte d'Appello, il Tribunale, la Prefettura, l'Università, la Biblioteca, la Pinacoteca, che conservava opere di gran pregio, fra le quali dipinti di quell'Antonello da Messina, che insegnò agli Italiani il modo di colorire a olio, il Liceo, l'Intendenza di Finanze, il Teatro Massimo!

    Ridotti a un mucchio di ruderi tutti gli istituti di educazione, tutte le caserme, meno una, le Banche, gli ospedali, il manicomio, le carte il camposanto monumentale, edifici privati di mirabile architettura, fra i quali il palazzo dei Brunaccini, principi di San Teodoro.
    E, sotto le macerie, sepolti due terzi di una popolazione di 160,000 abitanti, quali rimasti morti sul colpo e quali giunti a salvamento, ma, ignudi miseri, inebetiti, in fuga lungo la riva del mare e su per le montagne.



    E, fatte le dovute proporzioni, altrettanto era accaduto di Reggio di Calabria, la più graziosa gentile città dell'antica Magna Grecia, adagiata al pari della opposta Messina, a guisa di anfiteatro sulla spiaggia di un incantevole mare, inghirlandata di aranci e di cedri, con vie ampie diritte, fianclieggiate da grandiosi palazzi, con la sua bella cattedrale, la chiesa di San Vincenzo; il santuario della Consolazione, un museo civica fornito di oggetti vetusti, un Monte di Pietà; città pur questa fiorente per industrie e commerci. E là pure di molte chiese, edifici pubblici e privati, istituti, ricoveri, scossi dalle fondamenta, abbattuti, e sotto le rovine, migliaia e migliaia de'suoi quarantacinque mila abitanti.
    Poi, a 41 chilometri da Reggio, il terremoto avea distrutto Palmi, allegra e graziosa cittadina a duecentocinquanta metri sul livello del mare, lieta di undicimila anime, e con Palmi, Bagnara, Scilla, Villa S. Giovanni, Cannitello, Catena, Gallico, Villa S. Giuseppe, Sant' Eufemia, S. Procopio, Stefanconi e altre ed altre terre erano cadute e morti migliaia di coloro che le popolavano.
    E quasi il terribile cataclisma, che avea fatto repentinamente sollevarsi, poi abbassarsi. per risollevarsi e sprofondarsi da capo, la crosta della terra per così vasta distesa della regione etnea, non bastasse, ecco che, a un tempo, di subito, il mare si ritrae per lunga tratta dalla spiaggia crollante, poi, con una impetuosa ondata, invade Messina, con gran parte del litorale, e, quando si ritira, spazza via tutto ciò che incontra e seco il trascina ne' gorghi profondi.



    Di che, allo spuntare dell'alba lugubre, compaiono, galleggianti a fior d'acqua, innumerevoli cadaveri ed uomini ancor vivi, ma che tutti periranno, or ora, annegati, misti a rottami di barche, a mobili casalinghi, a casse di merci involate nel porto.
    All'acqua tien dietro il fuoco. Liberandosi dai condotti sconquassati e spezzati, il gas fa esplosione, e da 'sette punti diversi si innalzano colonne di fumo, scoppiano incendi paurosi, e quanto può ardere arde nella desolata città. E tra le fiamme altre migliaia di abitanti perdono miseramente la vita!
    E questo incendio durerà per settimane e settimane, a malgrado dello imperversare di una pioggia torrenziale, della grandine, accompagnate da fitte e dense tenebre.


  9. #9
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    Nel suo saggio La terra trema (Mondadori, pubblicato da poco), Giorgio Boatti scrive che quello di Messina è il terremoto che ha cambiato l’Italia, ma non gli italiani. Infatti, se c’è chi si abbandona sconvolto al caos più totale, c’è anche chi inizia a ragionare sul disastro facendo conti non sempre nobilissimi: da una parte la terribile maestosità della catastrofe, dall’altra la meschinità delle piccole dispute.

    Perfino gli orfani diventano oggetto di un’incredibile polemica ideologico-religiosa. Mentre Don Luigi Orione si prodiga per allestire ricoveri agli orfani, Giuseppe Torniolo, presidente dell’Unione popolare fra i cattolici d’Italia, si scaglia contro l’offerta della comunità valdese di Firenze di accogliere sessanta bambini senza genitori. Bisogna salvare, dice, gli innocenti bambini avviati a Firenze per apprendere l’ideologia valdese. Dunque, meglio morti che valdesi.

    Ma anche lo storico Gaetano Salvemini scrive al direttore dell’Avanti, Leonida Bissolati, che gli orfani non devono diventare settentrionali: devono rimanere figli della loro patria infelice e vivere per essa.
    Salvemini sapeva di cosa parlava. Docente all’Università di Messina, nel terremoto aveva perso la moglie e i cinque figli. Il cadavere di uno, però, non si trovava. Nel gennaio 1909, Salvemini scriveva a Giovanni Gentile: "Voglio tornare a Messina per cercare sotto le macerie quello dei miei bambini, Ugo, che non trovai nei giorni passati. Può darsi il caso che sia stato salvato, mentre io non ero presente e che vada orfano per il mondo. Appena troverò il cadavere mi metterò l’anima in pace. Se non troverò il cadavere, lo cercherò vivo per il mondo". Il cadavere non fu trovato. Decenni dopo, Salvemini continuava a scrutare gli studenti che andavano alle sue lezioni sperando di riconoscere il volto del figlio.

  10. #10
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    Ma i comuni vicini non registrarono nulla di quando avvenuto a Messina e Reggio? le ferroviarie nella zona dovevano essere fuori uso oppure no? nessuno noto l'improvviso flusso di profugi provenienti dalle zone disastrate?
    Quali furono i provvedimenti che Roma prese in riguardo alle zone disastrate? Mi sembra impossibile che nessuno sapeva niente.......
    Syntax error.

 

 
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