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    Predefinito Borges, il metafisico che giocava seriamente

    Nel 1923, quando Borges (ventiquattrenne), appena rientrato dalla Svizzera in Argentina, ancora non era Borges né per l'Europa, né per il Sudamerica, decise di dare una spintarella alla propria fortuna di autore. E, nel Fervore di Buenos Aires, appena pubblicato in tiratura limitata (appena 300 copie da distribuire ad amici e parenti), andò a infilare un esemplare nella tasca di ciascun cappotto appeso nei corridoi della redazione di Nosostros, antica e prestigiosa rivista di cultura.Certo che, con quell’espediente, avrebbe attirato l’attenzione di “gente di lettere più o meno famosa”.

    Una quindicina di anni dopo quella prima, acerba raccolta di versi, quando già aveva dato due prove del “Borges allo stato puro” – Storia universale dell’infamia e Storia dell’eternità – e ancora doveva toccare lo zenit della propia maturità creativa, la sera della vigilia di Natale prese di corsa le scale di casa e andò a sbattere violentemente contro una finestra appena verniciata. Riavutosi da tre giorni di delirio, prolungò in letteratura l’estasi visionaria seguita all’incidente e inaugurò, con Pierre Menard autore del Chisciotte, la stagione della propria produzione fantastica.

    A ben guardare, però, a dispetto dei cambi di registro e delle svolte più o meno accidentali, il destino autoriale del poeta manifestò una significativa continuità se, fin dal 1904, a soli cinque anni, il piccolo Jorge Luis già scarabocchiava nell’album da disegno animali favolosi corredati dalla didascalia: “Tigre, leone, papà, leopardo”. Si era scelto come fiere tutelari dell’infanzia le stesse che avrebbero popolato i suoi bestiari totemici e le sue personali mitologie.

    A evocare questi episodi è Fernando Savater. In pochi mesi ha composto Borges (Laterza, € 12)… troppo rapsodico per essere una biografia, troppo personale per essere un’introduzione all’autore, troppo disincantatamente modesto per essere un saggio critico. E che cosa si sarebbe potuto aggiungere – chiede Savater – su una figura che vanta una bibliografia critica "grossa e pesante quanto l'elenco telefonico di New York"? Rinunciando dunque a titolografie e erudite pedanterie, il pensatore castigliano ha letteralmente raccontato la vita di Borges in quella che preferisce chiamare una "agiografia". Per devozione, avvisa. Per onorare la "leggenda aurea" di un autore che, se santo non fu, certamente seppe compiere un miracolo: "trasformare il prototipo dello scrittore per pochi in un autore di massa". Fare della sua prosa erudita (o presunta tale), fitta di (divertite) allegorie, (finti) arcaismi, (ironiche) citazioni e di una mite, sorridente metafisica, il nutrimento anelato da una moltitudine eterogenea di lettori.
    Riconoscendo l'esplosione di un successo tanto prodigioso, Savater confessa una fitta di dolore. Che tanto più brucia guardando al Borges trasformato in un feticcio letterario o, come si autodefiniva, in una "superstizione argentina". Anche per toglierlo dal piedistallo, per scioglierlo dall'imbalsamazione o per sfatare il clichè dell'autore coltissimo, complesso e contorto, che pure gli valse tanto magnetismo, Savater presenta i momenti più umani e i lati più lievi che così profondamente (e mai pesantemente) incisero sulla sua opera. Come il giovanile apprendistato giornalistico che, ventenne, lo costrinse a scrivere in redazioni tumultuose, con scadenze perentorie, contro il tempo, per denaro, ma che gli insegnò il talento della sintesi intensa, l'arte di quelle miniature che lo salvarono dal concedersi, nell'intero suo corpus, una sola "riga inerte". O come la fatale capocciata che gli lasciò per tutta la vita una traccia di esitante pudore, un senso di incertezza, una timida balbuzie e quell'inconfessabile timore di perdere le proprie facoltà mentali che, cieco dai quarant'anni, costretto ad affidarsi alla memoria e all'orecchio per la musica dei versi, lo riempì fino alla fine di sgomento.

    La paradossale agiografia di Savater, composta per dimostrare come Borges non sia autore "penitenziale", da leggere "col cilicio", è tutta fiorita di episodi umoristici. Evoca il piacere per le letture "leggere", la passione per gli eroi e i gaucios, che gli fece cercare (e promuovere) autori minori, scavalcare le differenze tra i generi e risparmiare, a sé prima che ai suoi lettori, una sola pagina di noia. Evoca, infine, le amicizie che gli regalarono momenti di spasso condiviso e un indiscutibile magistero nella prosa: dal vecchio Macedonio Fernandez, il filosofo di strada romantico e bohémien che, con la sua sregolata eccentricità, ne accentuò – per contrasto – l'indole classica e pudicamente regolare, al giovanissimo Adolfo Bioy Casares che, con la sua pirotecnica vivacità, ne corresse l'inclinazione per il "sentenzioso, il patetico, il barocco".

    Così Savater stringe e chiude il cerchio magico intorno al suo Borges. E non è un caso che, fatalmente, il teoreta spagnolo lo avesse "incontrato" per la prima volta a quindici anni tra le pagine di Il mattino dei maghi di Jacques Bergier e Louis Pauwles, citato come scrittore fantasy capace di un audace uso estetico della filosofia. Oggi, divenuto professore di filosofia, l'ex quindicenne non esita ad assegnare a quel mago del fantasy un primato tra i metafisici. Quelli che, dal dionisiaco Eraclito al Socrate ironico, al Platone più sorprendente, speculando seppero "jugar en serio": giocare sul serio.

    Alessandra Jadicicco su Il Giornale del 12 novembre 2003


  2. #2
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    Borges, che al fonte battesimale (e fortunatamente solo lì) viene chiamato Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo, nasce il 24 agosto 1899 a Buenos Aires. Dal 1914 al 1921 è in Europa con i suoi genitori. Frequenta le scuole a Ginevra e in Spagna.
    Nel 1923 dà alle stampe il suo primo libro di poesia, Fervor de Buenos Aires, seguito, a distanza di due anni, dal secondo libro di versi, Luna de Enfrente. E' nel 1925 che Borges incontra Victoria Ocampo, la musa che riuscirà a sposare quarant'anni dopo. Con lei stabilisce un'intesa intellettuale destinata a entrare nella mitologia della letteratura argentina.

    L'attività pubblicistica di Borges è infaticabile. I versi di Cauderno San Martìn escono nel '29, e un anno dopo viene pubblicato l'Evaristo Carriego, che entusiasma la critica argentina. Borges è afflitto da una forma incurabile di miopia, che lo porta in sala operatoria per ben nove volte: inutilmente. La cecità progressiva, da fattore fisiologico, esplode con violenza in un nucleo metaforico che nutre l'opera narrativa di Borges e ne alimenta la leggendaria visionarietà.
    Tra il '33 e il '34, tale visionarietà sfocia nell'invenzione della storia come menzogna, come falso, plagio, parodia universale. Vengono raccolti i racconti pubblicati sulla rivista Crìtica: è la genesi della Historia universal de la infamia, seguita dalla Historia de la eternidad, dove Storia e Sapere flirtano per produrre l'improbabile e l'esotico risultato di un trattato degno di un demiurgo impazzito.

    Annus horribilis: il 1938. Muore l'amatissimo padre di Borges e lo scrittore stesso ha un incidente che lo costringe per parecchio tempo all'immobilità, dopo un attacco di setticemia che ne minaccia gravemente la vita. Questa drammatica situazione provoca in Borges il terrore di una perdita totale di creatività. Nulla di più falso. Negli anni della malattia, lo scrittore argentino concepisce alcuni tra i suoi capolavori, che vengono raccolti e pubblicati nel '44 col titolo di Ficciones. A distanza di cinque anni escono anche i racconti di L' Aleph.
    A questo punto, Borges è uno dei maggiori scrittori argentini di tutti i tempi. Virtuosista di razza, conferma la sua fama scendendo sul piano della saggistica pura, con le sue Otras Inquisiciones (1952).

    Nel 1955 viene nominato direttore della Biblioteca Nazionale, ciò che aveva sempre sognato di fare. Con spirito eminentemente borgesiano, lo scrittore commenta così la nomina: "E' una sublime ironia divina ad avermi dotato di ottocentomila libri e, al tempo stesso, delle tenebre".
    E' l'inizio di un lungo e fecondissimo tramonto, nonostante la morte avvenga molto più tardi, il 14 giugno 1986. Accanto a Borges è la sua seconda moglie, l'amatissima Marìa Kodama.

    Labirintica, regno di specchi e falsi piani, l'opera di Borges ha stabilito il primato della linea fredda, trionfante nella prosa latina fino all'avvento del Realismo Magico di Garcia Marquez, che pure è una diretta emanazione delle suggestioni visionarie dello scrittore argentino. Non è possibile pensare alla tradizione postmoderna, alla letteratura di Calvino e di Eco senza l'esistenza dei libri di Borges, autentico giardino in cui i sentieri si biforcano e si uniscono nel medesimo istante.


  3. #3
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    Il narratore, Tzinacàn, mago della Piramide di Qaholom, non avendo voluto rivelare ai conquistadores il nascondiglio segreto del tesoro del tempio, è chiuso in una prigione insieme a un giaguaro (simbolo del suo dio), da cui lo separa un'inferriata. Passano gli anni. Una notte Tzinacàn ricorda che il suo dio, prevedendo che alla fine dei tempi sarebbero avvenute sventure e rovine, scrisse nel primo giorno della creazione una sentenza magica atta a scongiurare quei mali: … la scrisse in modo che giungesse alle più remote generazioni e che non la toccasse il caso. Nessuno sa in quale punto l’abbia scritta né con quali caratteri, ma ci consta che perdura, segreta, e che la leggerà un eletto...

    E così, poiché l'ordine inferiore è uno specchio dell'ordine superiore; le forme della terra corrispondono alle forme del cielo; le macchie della pelle sono una carta delle costellazioni incorruttibili (Tre versioni di Giuda), Tzinacàn studia per anni le macchie della pelle del giaguaro, ma inutilmente. Poi, in sogno, avviene l’unione con la divinità, con l’universo...



    *^*^*^*^*^*



    ... Un giorno o una notte – tra i miei giorni e le mie notti, che differenza c’è? - sognai che sul pavimento del carcere c’era un granello di sabbia. Mi riaddormentai, indifferente; sognai che mi destavo e che i granelli di sabbia erano due. Mi riaddormentai; sognai che i granelli di sabbia erano tre. Si andarono così moltiplicando fino a colmare il carcere e io morivo sotto quell’emisfero di sabbia. Compresi che stavo sognando; con un grande sforzo mi destai. Fu inutile; l’innumerevole sabbia mi soffocava. Qualcuno mi disse: "Non ti sei destato alla veglia ma a un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito, che è il numero dei granelli di sabbia. La strada che dovrai percorrere all’indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato".

    Mi sentii perduto. La sabbia mi rompeva la bocca, ma gridai:"Una sabbia sognata non può uccidermi, né ci son sogni che stiano dentro sogni". Uno splendore mi destò. Nella tenebra sopra di me si librava un cerchio di luce. Vidi il volto e le mani del carceriere, la ruota di ferro, la corda, la carne e le brocche. Un uomo si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino; un uomo è, alla lunga, ciò che lo determina. Più che un decifratore, o un vendicatore, più che un sacerdote del dio, io ero un prigioniero. Dall'inesauribile labirinto di sogni tornai, come a una casa, alla dura prigione. Benedissi la sua umidità, benedissi il suo giaguaro, benedissi il foro della luce, benedissi il mio vecchio corpo dolente, benedissi la tenebra e la pietra.

    Allora avvenne quel che non posso dimenticare né comunicare. Avvenne l’unione con la divinità, con l’universo (non so se queste parole differiscono). L’estasi non ripete i suoi simboli; c’è chi ha visto Dio in una luce, c’è chi lo ha scorto in una spada o nei cerchi di una rosa. Io vidi una Ruota altissima, che non stava avanti ai miei occhi né dietro né ai lati, ma in ogni parte a un tempo. Quella Ruota era fatta di acqua, ma anche di fuoco, e (benché si vedesse il bordo) era infinita. Intrecciate fra loro, la formavano tutte le cose che saranno, che sono e che furono,ed io ero uno dei fili di quella trama totale, e Pedro de Alvarado, che mi fece tormentare, era un altro. Lì erano el cause e gli effetti e mi bastava vedere quella Ruota per comprendere tutto, senza fine. Oh gioia di comprendere, maggiore di quella di operare e sentire. Vidi l’universo e vidi gl’intimi disegni dell'universo. Vidi le origini che narraa il Libro della Tribù. Vidi le montagne che sorsero dall'acqua, vidi i primi uomini di legno, vidi i vasi che si ribellarono agli uomini, vidi i cani che lacerarono loro la faccia. Vidi il dio senza volto che sta dietro gli dèi. Vidi infiniti processi che formavano una sola felicità e, comprendendo ormai tutto, potei anche capire la scrittura della tigre.
    È una formula di quattordici parole casuali (che sembrano casuali) e mi basterebbe pronunciarla ad alta voce per essere onnipotente. Mi basterebbe dirla per abolire questo carcere di pietra, perché il giorno invadesse la mia notte, per essere giovane e immortale, perché il giaguaro lacerasse Alvarado, per affondare il santo coltello in petti spagnoli, per ricostruire la piramide e l'impero. Quaranta sillabe; quattordici parole, e io, Tzinacàn, governerei le terre governate da Moctezuma. Ma so che mai dirò quelle parole, perché non mi ricordo più di Tzinacàn.
    Muoia con il me il mistero che è scritto nelle tigri. Chi ha scorto l'universo, non può pensare a un uomo, alle sue meschine gioie o sventure, anche se quell'uomo è lui. Quell'uomo è stato lui e ora non gl'importa più. Non gl'importa la sorte di quell'altro, non gl'importa la sua azione, poiché egli ora è nessuno. Per questo non pronuncio la formula, per questo lascio che i giorni mi dimentichino, sdraiato nelle tenebre.

    Stralcio da "La scrittura del dio" (L'Aleph)



  4. #4
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    LA BIBLIOTECA DI BABELE

    L'universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d'un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d'una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un'altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l'altro di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che s'inabissa e s'innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?) io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l'infinito... La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve ne sono due per esagono, su una traversa. La luce che emettono è insufficiente, incessante.
    Come tutti gli uomini della Biblioteca, in gioventù io ho viaggiato; ho peregrinato in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi; ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciò che scrivo, mi preparo a morire a poche leghe dall'esagono in cui nacqui. Morto, non mancheranno mani pietose che mi gettino fuori della ringhiera; mia sepoltura sarà l'aria insondabile; il mio corpo affonderà lungamente e si corromperà e si dissolverà nel vento generato dalla caduta, che è infinta. Io affermo che la Biblioteca è interminabile. Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale. (I mistici pretendono di avere, nell'estasi, la rivelazione d’una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure. Questo libro ciclico è Dio.) Mi basti, per ora, ripetere la sentenza classica: «La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile».
    A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna una riga, di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, però, che indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa. Prima d'accennare alla soluzione (la cui scoperta, a prescindere dalle sue tragiche proiezioni, è forse il fatto capitale della storia) voglio rammentare alcuni assiomi.
    Primo: La Biblioteca esiste ab aeterno. Di questa verità, il cui corollario immediato è l'eternità futura del mondo, nessuna mente ragionevole può dubitare. L'uomo, questo imperfetto bibliotecario, può essere opera del caso o di demiurghi malevoli; l'universo, con la sua elegante dotazione di scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non può essere che l'opera di un dio. Per avvertire la distanza che c'è tra il divino e l’umano, basta paragonare questi rozzi, tremuli simboli che La mia fallibile mano sgorbia sulla copertina d’un libro, con le lettere organiche dell’interno: puntuali, delicate, nerissime, inimitabilmente simmetriche.
    Secondo: Il numero dei simboli ortografici è di venticinque (1). Questa constatazione permise, or sono tre secoli, di formulare una teoria generale della Biblioteca e di risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti i libri. Uno di questi, che mio padre vide in un esagono del circuito quindici novantaquattro, constava delle lettere M C V, perversamente ripetute dalla prima all’ultima riga. Un altro (molto consultato in questa zona) è un mero labirinto di lettere, ma l’ultima pagina dice Oh tempo le tue piramidi. E’ ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze. (So d’una regione barbarica i cui bibliotecari ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un senso nei libri, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle linee caotiche della mano... Ammettono che gli inventori della scrittura imitarono i venticinque simboli naturali, ma sostengono che questa applicazione è casuale, e che i libri non significano nulla di per sé. Questa affermazione, lo vedremo, non è del tutto erronea.)
    Per molto tempo si credette che questi libri impenetrabili corrispondessero a lingue preterite o remote. Ora, è vero che gli uomini più antichi, i primi bibliotecari, parlavano una lingua molto diversa da quella che noi parliamo oggi; è vero che poche miglia a destra la lingua è già dialettale, e novanta piani più sopra è incomprensibile. Tutto questo, lo ripeto, è vero, ma quattrocentodieci pagine di inalterabili M C V non possono corrispondere ad alcun idioma, per dialettale o rudimentale che sia. Alcuni insinuarono che ogni lettera poteva influire sulla seguente, e che il valore di M C V nella terza riga della pagina 71 non era lo stesso di quello che la medesima serie poteva avere in altra riga di altra pagina; ma questa vaga tesi non prosperò. Altri pensarono a una crittografia; quest’ipotesi è stata universalmente accettata, ma non nel senso in cui la formularono i suoi inventori.
    Cinquecento anni fa, il capo d’un esagono superiore (2) trovò un libro tanto confuso come gli altri, ma in cui v’erano quasi due pagine di scrittura omogenea, verosimilmente leggibile. Mostrò la sua scoperta a un decifratore ambulante, e questo gli disse che erano scritte in portoghese; altri gli dissero che erano scritte in yiddish. Poté infine stabilirsi, dopo ricerche che durarono quasi un secolo, che si trattava d’un dialetto samoiedo-lituano del guaranì, con inflessioni di arabo classico. Si decifrò anche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di permutazioni a ripetizione illimitata. Questi esempi permisero a un bibliotecario di genio di scoprire la legge fondamentale della Biblioteca. Questo pensatore osservò che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi eguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Stabilì, inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che Ia Biblioteca è totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni del venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto cioè ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue. Tutto: la storia minuziosa dell’avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione della falsità del catalogo autentico, l’evangelo gnostico di Basilide, il commento di questo evangelo, il commento del commento di questo evangelo, il resoconto veridico della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri.
    Quando si proclamò che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima impressione fu di straordinaria felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto. Non v’era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse: in un qualche esagono. L’universo era giustificato, l’universo attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza. A quel tempo si parlò molto delle Vendicazioni: libri di apologia e di profezia che giustificavano per sempre gli atti di ciascun uomo dell’universo e serbavano arcani prodigiosi per il sue futuro. Migliaia di ambiziosi abbandonarono il dolce esagono natale e si lanciarono su per le scale, spinti dal vano proposito di trovare la propria Vendicazione. Questi pellegrini s’accapigliavano negli stretti corridoi, profferivano oscure minacce, si strangolavano per le scale divine, scagliavano i libri ingannevoli nei pozzi senza fondo, vi morivano essi Stessi, precipitativi dagli uomini di regioni remote. Molti impazzirono... Le Vendicazioni esistono (io ne ho viste due, che si riferiscono a persone da venire, e forse non immaginarie), ma quei ricercatori dimenticavano che la possibilità cheun uomo trovi la sua, o qualche perfida variante della sua, è sostanzialmente zero.
    Anche si sperò, a quel tempo, nella spiegazione dei misteri fondamentali dell’umanità: l’origine della Biblioteca e del tempo. E’ verosimile che di questi gravi misteri possa darsi una spiegazione in parole: se il linguaggio del filosofi non basta, la multiforme Biblioteca avrà prodotto essa stessa l’inaudito idioma necessario, e i vocabolari e la grammatica di questa lingua. Già da quattro secoli gli uomini affaticano gli esagoni.. Vi sono cercatori ufficiali, inquisitori. Li ho visti nell’esercizio della loro funzione: arrivano sempre scoraggiati; parlano di scale senza un gradino, dove per poco non s’ammazzarono; parlano di scale e di gallerie con il bibliotecario; ogni tanto, prendono il libro più vicino e lo sfogliano, in cerca di parole infami. Nessuno, visibilmente, s’aspetta di trovare nulla.
    Alla speranza smodata, com’è naturale, successe una eccessiva depressione. La certezza che un qualche scaffale d’un qualche esagono celava libri preziosi e che questi libri preziosi erano inaccessibili, parve quasi intollerabile. Una setta blasfema suggerì che s’interrompessero le ricerche e che tutti gli uomini si dessero a mescolare lettere e simboli, fino a costruire, per un improbabile dono del caso, questi libri canonici. Le autorità si videro obbligate a promulgare ordinanze severe. La setta sparì, ma nella mia fanciullezza ho visto vecchi uomini che lungamente s’occultavano nelle latrine, con dischetti di metallo in un bossolo proibito, e debolmente rimediavano al divino disordine.
    Altri, per contro, credettero che l’importante fosse di sbarazzarsi delle opere inutili. Invadevano gli esagoni, esibivano credenziali non sempre false, sfogliavane stizzosamente un volume e condannavano scaffali interi: al loro furore igienico, ascetico, si deve l’insensata distruzione di milioni di libri. Il loro nome è esecrato, ma chi si dispera per i "tesori" che la frenesia di coloro distrusse, trascura due fatti evidenti. Primo: la Biblioteca è cosi enorme che ogni riduzione d’origine umana risulta infinitesima. Secondo: ogni esemplare è unico, insostituibile, ma (poiché la Biblioteca è totale) restano sempre varie centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, cioè di opere che non differiscono che per una lettera o per una virgola. Contrariamente all’opinione generale, credo dunque che le conseguenze delle depredazioni commesse dai Purificatori siano state esagerate a causa dell’orrore che quei fanatici ispirarono. Li sospingeva l’idea delirante di conquistare i libri dell’Esagono Cremisi: libri di formato minore dei normali; onnipotenti, illustrati e magici.
    Sappiamo anche d’un’altra superstizione di quel tempo: quella dell’Uomo del Libro. In un certo scaffale d’un certo esagono (ragionarono gli uomini) deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l’ha letto, ed è simile a un dio. Nel linguaggio di questa zona si conservano alcune tracce del culto di quel funzionario remoto. Molti peregrinarono in cerca di Lui, si spinsero invano nelle più lontane gallerie. Come localizzare il venerando esagono segreto che l’ospitava? Qualcuno propose un metodo regressivo: per localizzare il libro A, consultare previamente il libro B; per localizzare il libro B, consultare previamente il libro C; e cosi all’infinito… In avventure come queste ho prodigato e consumato i miei anni.
    Non mi sembra inverosimile che in un certo scaffale dell’universo esista un libro totale (3); prego gli dei ignoti che un uomo — uno solo, e sia pure da migliaia d’anni! — l’abbia trovato e l’abbia letto. Se l’onore e la sapienza e la felicità non sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto è all’inferno. Ch’io sia oltraggiato e annientato, ma che per un istante, in un essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi.
    Affermano gli empi che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della "Biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio". Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. Inutile osservarmi che il miglior volume dei molti esagoni che amministro s’intitola Tuono pettinato, un altro Il crampo di gesso e un altro Axaxaxas mlö. Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d’una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione e verbale, e però, ex hypothesi, già figura nella Biblioteca. Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri

    dhcmrlchtj

    che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato. Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in alcuno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio. Parlare è incorrere in tautologie. Questa epistola inutile e verbosa già esiste in uno del trenta volumi del cinque scaffali di uno degli innumerabili esagoni e cosi pure la sua confutazione. (Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune, il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali, ma biblioteca sta qui per pane, o per piramide, o per qualsiasi altra cosa, e per altre cose stanno le sette parole che la definiscono. Tu, che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?)
    Lo scrivere metodico mi distrae dalla presente condizione degli uomini, cui la certezza di ciò, che tutto sta scritto, annienta o istupidisce. So di distretti in cui i giovani si prosternano dinanzi ai libri e ne baciano con barbarie le pagine, ma non sanno decifrare una sola lettera. Le epidemie, le discordie eretiche, le peregrinazioni che inevitabilmente degenerano in banditismo, hanno decimato la popolazione. Credo di aver già accennato ai suicidi, ogni anno più frequenti. M’inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana — l’unica — stia per estinguersi, e che ha Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.
    Aggiungo: infinita. Non introduco quest’aggettivo per un’abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito. Chi lo giudica limitato, suppone che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale e gli esagoni possano inconcepibilmente cessare; ciò che è assurdo. Chi lo immagina senza limiti, dimentica che è limitato il numero possibile dei libri. lo m’arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine (4).

    Mar del Plata, 1941


    1) Il manoscritto originale non contiene cifre né maiuscole. La punteggiatura è limitata alla virgola e al punto. Questi due segni, lo spazio, e le ventidue lettere dell’alfabeto, sono i venticinque simboli sufficienti che enumera lo sconosciuto. [Nota dell’editore]

    2) Prima, per ogni tre esagoni c’era un uomo. Il suicidio e le malattie polmonari hanno distrutto questa proporzione. Fatto indicibilmente malinconico: a volte ho viaggiano molte notti per corridoi e scale pulite senza trovare un solo bibliotecario.

    3) Ripeto: perché un libro esista, basta che sia possibile. Solo l’impossibile è escluso. Per esempio: nessun libro è anche una scala, sebbene esistano sicuramente dei libri che discutono, che negano, che dimostrano questa possibilità, e altri la cui struttura corrisponde a quella d’una scala.

    4) Letizia Alvarez de Toledo ha osservato che la vasta Biblioteca è inutile; a rigore, basterebbe un solo volume, di formato comune, stampato in corpo nove o in corpo dieci, e composto d’un numero infinito di fogli infinitamente sottili. (Cavalieri, al principio del secolo XVII, affermò che ogni corpo solido è la sovrapposizione d’un numero infinito di piani.) Il maneggio di questo serico vademecum non sarebbe comodo: ogni foglio apparente si sdoppierebbe in altri simili; l’inconcepibile foglio centrale non avrebbe rovescio.

    Da Finzioni (Einaudi - traduzione di Franco Lucentini)





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    L'episodio del nemico

    Tanti anni a fuggire e ad aspettare, e adesso il nemico era lì, in casa mia. Dalla finestra lo vidi salire per l'erto sentiero del colle.
    Si aiutava con un bastone, un pesante bastone che in quelle vecchie mani non poteva essere un'arma, ma solo un sostegno.
    A fatica percepii quello che aspettavo: il debole colpo contro la porta. Guardai con un po' di nostalgia i miei manoscritti, il mio abbozzo semifinito e il trattato di Artemidoro sui sogni, strano libro in casa mia, visto che non so il greco.
    Un altro giorno perso, pensai. Dovetti armeggiare un po' con la chiave. Temetti che l'uomo crollasse per terra, ma mosse qualche passo incerto nella stanza, abbandonò il bastone, che da quel momento non vidi piú, e si lasciò cadere sul mio letto, esausto.
    La mia angoscia lo aveva immaginato molte volte, ma solo allora notai che somigliava quasi come un fratello a Lincoln. Saranno state le quattro del pomeriggio.
    Mi chinai su di lui perché mi sentisse. «Uno crede che gli anni passino solo per sé», dissi, «e invece passano anche per gli altri. Ecco che finalmente ci incontriamo e quello che è accaduto prima non ha piú senso. »
    Mentre parlavo, lui s'era slacciato il soprabito. La sua mano destra era nella tasca della giacca. Qualcosa puntava verso di me, e capii che era una pistola. Mi disse allora con voce ferma: «Per entrare in casa sua sono ricorso alla compassione. Adesso la tengo alla mia mercé e badi che non sono certo misericordioso».
    Tentai qualche parola. Non sono un uomo forte e solo le parole potevano salvarmi. Riuscii a dire:
    «È vero che tanto tempo fa io ho maltrattato un bimbo, ma ormai lei non è piú quel bambino e io non sono piú quell'insensato. E poi la vendetta non è meno vanitosa e ridicola del perdono».
    « Proprio perché non sono più quel bambino», ribatté lui, «la devo uccidere. Non si tratta di vendetta, ma d'un atto di giustizia. I suoi argomenti, caro Borges, sono semplici stratagemmi della paura, perché io non la uccida. Ma ormai non può farci più niente. »
    «Una cosa posso ancora farla», obiettai. «E quale? » mi chiese lui.
    « Svegliarmi. »
    E così feci.


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    LA CASA DI ASTERIONE

    E la regina dette alla luce un figlio che si chiamò Asterione.
    (Apollodoro - Biblioteca, III, I)


    So che mi accusano di superbia, lo so, e a volte anche di misantropia o di follia. Punirò al momento opportuno queste ingiurie, perché sono ridicole. Sì, non esco di casa, e con ciò? Il numero delle porte è infinito, e restano aperte agli uomini e alle bestie durante tutto il giorno e tutta la notte. Chi vuole può entrare. Non troverà in casa mia il lusso delle femmine o lo sfarzo dei palazzi, vi troverà quiete e solitudine. Di case così non ce n’è un’altra sulla terra (mente chi afferma che ce n’è una simile in Egitto). Lo riconoscono anche quelli che mi calunniano: nel mio appartamento non c’è nemmeno un mobile. Poi mentono – e mi fanno ridere – anche quelli che dicono che io, Asterione, sia un prigioniero. Mi tocca ripetere che non c’è una sola porta chiusa? E che nemmeno c’è una sola serratura? D’altronde, mi è capitato una volta al tramonto percorsi le strade. Sono tornato prima che facesse notte, per la paura che mi suscitarono i bronci della gente, delle facce pallide e spianate, come il palmo di una mano. Il sole già non si vedeva più, ma il triste pianto di un bambino e le incolte preghiere di un gregge annunciarono che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava. Alcuni si arrampicavano sul basamento della colonna del tempio delle Fiaccole, qualcuno ammucchiava pietre. Altri cercarono rifugio nel mare. D’altronde, sono figlio di una regina; non posso mischiarmi alla plebe, benché la mia modestia potrebbe anche permettermelo.
    Il fatto è che sono unico. Non ho interesse per quello che un uomo può comunicare ai suoi simili; come filosofo, ritengo che attraverso la scrittura non si possa trasmettere nulla. Il mio spirito è pronto ad accogliere soltanto ciò che è grande, non ha spazio per le piccolezze volgari e noiose: non sono mai riuscito a ricordare le differenza che distingue le lettere tra loro. Il mio slancio di vita e la mia impazienza mi hanno impedito di imparare a leggere. Talvolta di ciò mi rammarico, perché le notti e i giorni sono lunghi.
    È vero, le distrazioni non mi mancano. Non diversamente dal montone quando s’avventa sulla sua preda, corro lungo i corridoi di pietra finché crollo al suolo vittima della vertigine. Mi riparo all’ombra di una cisterna e all’angolo di un corridoio, e gioco a rimpiattino. Qualche volta mi lascio cadere da una terrazza, fino a ricoprirmi di sangue. In qualunque momento posso giocare a fare l’addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (accade che mi addormenti sul serio, e allora, quando riapro gli occhi, trovo che il giorno ha cambiato colore). Tra tutti i giochi, ne preferisco però uno, quello di un altro Asterione. Immagino che lui venga a trovarmi e che io gli mostri la casa. Facendo grandi inchini, dico cose di questo genere: «Ora ritorniamo all’angolo dove eravamo prima», «Ora entriamo in un nuovo cortile», «Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto il canale dell’acqua», «Va bene, adesso, ti mostro una cisterna piena di sabbia», «Ah, vedrai la cantina: si divide in due». Qualche volta mi sbaglio, e scoppiamo a ridere entrambi.
    Oltre ad avere inventato una miriade di giochi, ho riflettuto a lungo sulla casa. Ogni parte dell’appartamento si ripete, ogni luogo è se stesso e un altro luogo. Non ci sono una sola cisterna, un solo cortile, una sola fontana, una sola stalla; ci sono infinite stalle, infinite fontane, infiniti cortili, infinite cisterne. Una casa grande quanto il mondo. Ma a furia di andare avanti e indietro per i cortili e per i polverosi corridoi di pietra, raggiunsi la strada, e vidi il mare e il tempio delle Fiaccole. Inizialmente, non capii; poi una visione notturna mi spiegò che anche i mari e i templi sono infiniti. Ogni cosa esiste più d’una volta, infinite volte. Ci sono solo due cose al mondo che sembrano esistere soltanto una volta: il sole intricato in cielo e Asterione sulla terra. È possibile che sia stato io a creare le stelle, il sole e questa enorme casa. Ma non ricordo bene.
    Ogni nove anni, nove uomini entrano in questa casa perché io li liberi da ogni male. Quando in fondo ai corridoi di pietra sento i loro passi o la loro voce, corro loro incontro allegramente. La cerimonia non dura che pochi minuti. Senza che io mi macchi le mani di sangue, cadono uno dopo l’altro. E dove cadono rimangono: i cadaveri aiutano a distinguere i corridoi l’uno dall’altro. Non so chi siano, ma uno di essi, prima di morire, fece una profezia: disse che un giorno sarebbe arrivato il mio salvatore. Da allora non mi pesa più la solitudine, perché so che il mio salvatore esiste e che un giorno sorgerà dalla polvere. Potrei persino sentire i suoi passi, se solo il mio udito potesse distinguere tutti i rumori del mondo. Voglia il cielo che mi porti in un luogo con meno corridoi e meno porte! Che aspetto avrà il mio salvatore? Forse sarà un toro con la testa di un uomo? O forse sarà simile a me?

    Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non rimaneva più traccia di sangue. «Lo crederesti, Arianna? – disse Teseo – Il Minotauro non s’è quasi difeso».

    Da L'Aleph



  7. #7
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    LA ROSA DI PARACELSO

    DE QUINCEY, Writings, XIII, 345

    Nel suo laboratorio, che occupava le due stanze del seminterrato, Paracelso chiese al suo Dio indefinito, a qualunque Dio, di inviargli un discepolo. Cadeva la sera. Il fuoco languiva nel camino gettando intorno ombre regolari. Alzarsi per accendere la lampada di ferro era troppo faticoso. Distratto dalla stanchezza, Paracelo dimenticò la sua preghiera. La notte aveva cancellato i polverosi alambicchi e il fornello da alchimista quando bussarono alla porta.
    Assonnato, l'uomo si alzò, salì la breve scala a chiocciola e aprì il battente. Entrò uno sconosciuto. Era anche lui molto stanco. Paracelo gli indicò una panca; l'altro sedette e attese. Per un po' non scambiarono parola.
    Il primo a parlare fu il maestro.
    “Ricordo volti d’Occidente e volti d’Oriente”, disse, non senza una certa enfasi. “Non ricordo il tuo. Chi sei tu e che vuoi da me?”
    “Il mio nome non ha importanza”, replicò l’altro.
    “Ho camminato tre giorni e tre notti per entrare in casa tua. Voglio diventare tuo discepolo. Ti ho portato tutti i miei beni.”
    Tirò fuori una borsa e la rovesciò sulla tavola. Le monete erano molte, e d’oro. Lo fece con la mano destra.
    Paracelso, per accendere la lanterna, aveva dovuto voltargli le spalle. Quando tornò, notò nella sua mano sinistra una rosa. La rosa lo inquietò.
    Si chinò, giunse le estremità delle dita, e disse: “Tu mi credi capace di elaborare la pietra che trasmuta gli elementi in oro e mi offri oro. Non è l’oro ciò che cerco, e se è l’oro che ti interessa, tu non sarai mai mio discepolo.”
    “L’oro non mi interessa”, rispose l’altro.
    “Queste monete non sono altro che una prova del mio desiderio di apprendere. Voglio che tu mi insegni l’Arte. Voglio percorrere al tuo fianco la via che conduce alla Pietra.”
    Paracelso disse lentamente:
    “La via è la Pietra. Il punto di partenza è la Pietra. Se non comprendi queste parole, non hai ancora cominciato a comprendere. Ogni passo che farai è la meta.”
    L’altro lo guardò con aria diffidente. Disse, con voce chiara:
    “Ma, esiste una meta?”
    Paracelso si mise a ridere.
    “I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contrario, e mi accusano di essere un impostore. Non do loro ragione, ma non è impossibile che io sia un illuso. So che esiste una via.”
    Vi fu una pausa, e l’altro disse:
    “Sono pronto a percorrerla con te, anche se dovessimo viaggiare per molti anni. Lasciami attraversare il deserto. Lasciami intravedere almeno da lontano la terra promessa, anche se gli astri me ne vieteranno l’accesso. Ma prima di intraprendere il viaggio, io voglio una prova.”
    “Quando?” disse Paracelso, con inquietudine.
    “Subito”, rispose il discepolo con brusca determinazione.
    Avevano iniziato la conversazione in latino, ora parlavano in tedesco.
    Il giovane levò in alto la rosa.
    “Affermano”, disse, “che tu puoi bruciare una rosa e farla rinascere dalle ceneri, per opera della tua arte. Lascia che io sia testimone di questo prodigio. Ecco ciò che ti chiedo; poi la mia vita sarà tua.”
    “Sei molto credulo”, disse il maestro. “Non so che farmene della credulità; esigo la fede.”
    L’altro insistette.
    “È proprio perché non sono credulo che voglio vedere coi miei occhi l’annientamento e la resurrezione della rosa.”
    Paracelso l’aveva presa in mano, e parlando giocherellava con essa.
    “Sei credulo”, disse. “Tu dici che io sono capace di distruggerla?”
    “Nessuno è incapace di distruggerla”, rispose il discepolo.
    “Ti sbagli. Credi forse che qualcosa possa esser reso al nulla? Credi che il primo Adamo nel Paradiso abbia potuto distruggere un solo fiore, un solo filo d’erba?”
    “Non siamo nel Paradiso”, disse ostinato il giovane; “qui, sotto la luna, tutto è mortale.”
    Paracelso si era alzato in piedi.
    “E in quale altro luogo siamo? Credi che la divinità possa creare un luogo che non sia il Paradiso? Credi che la caduta sia altro dall’ignorare che siamo nel Paradiso?”
    “Una rosa può bruciare”, disse il discepolo in tono di sfida.
    “V’è ancora del fuoco nel camino”, rispose Paracelso. Se tu gettassi questa rosa fra le braci, crederesti che le fiamme l’abbiano consumata, e che sia la cenere a essere reale. Io ti dico che la rosa è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare. Mi basterebbe una parola perché tu la potessi vedere di nuovo.”
    “Una parola?” disse stupefatto il discepolo. “L’athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. Che farai per farla rinascere?”
    Paracelso lo guardò con tristezza.
    “L’athanor è spento”, ripeté, “e gli alambicchi sono coperti di polvere. In questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti.”
    “Non oso domandare quali”, disse l’altro con malizia o con umiltà.
    “Parlo di quello che usò la divinità per creare il cielo e la terra e l’invisibile Paradiso in cui ci troviamo e che ci è nascosto dal peccato originale. Parlo della Parola che ci insegna la scienza della Cabala.”
    Il discepolo disse freddamente:
    “Ti chiedo la grazia di mostrarmi la scomparsa e la ricomparsa della rosa. Poco m’importa che tu operi per mezzo del Verbo o degli alambicchi.”
    Paracelso rifletté. Infine disse:
    “Se lo facessi, tu diresti che si tratta di un’apparenza imposta ai tuoi occhi dalla magia. Il prodigio non ti donerà la fede che cerchi. Dunque lascia stare la rosa.”
    Sempre diffidente, il giovane lo guardò. Il maestro alzò la voce e gli disse:
    “E inoltre, chi sei tu per introdurti nella dimora di un maestro ed esigere da lui un prodigio? Che hai fatto per meritare simile dono?”
    L’altro replicò, tremando:
    “So bene che non ho fatto nulla. Ti chiedo, in nome dei molti anni in cui studierò alla tua ombra, di lasciarmi vedere la cenere e poi la rosa. Non ti chiederò altro. Crederò alla testimonianza dei miei occhi.”
    Bruscamente, afferrò la rosa rossa che Paracelso aveva lasciato sul leggìo e la gettò tra le fiamme. Il colore si perse e rimase solo un po’ di cenere. Per un istante infinito egli attese le parole e il miracolo.
    Paracelso era rimasto impassibile. Disse con strana semplicità:
    “Tutti i medici e tutti gli speziali di Basilea affermano che io sono un mistificatore. Forse essi sono nel vero. Qui riposa la cenere che fu rosa e che non lo sarà.”
    Il giovane si sentì pieno di vergogna. Paracelso era un ciarlatano o un semplice visionario, e lui, un intruso, aveva varcato la sua porta e ora lo costringeva a confessare che le sue famose arti magiche erano vane.
    Si inginocchiò, e disse:
    “Ho agito imperdonabilmente. Mi è mancata la fede che il Signore esigeva dai credenti. Lasciami ancora guardare la cenere. Tornerò quando sarò più forte e sarò tuo discepolo e in fondo al cammino vedrò la rosa.”
    Parlava con autentica passione, ma quella passione nasceva solo dalla pietà che gli ispirava il vecchio maestro, così venerato, così attaccato, così illustre e quindi così vuoto. Chi era lui, Johannes Grisebach, per scoprire con mano sacrilega che dietro la maschera non c'era nessuno?
    Lasciargli le monete d'oro sarebbe stata un'elemosina. Mentre usciva, le riprese. Paracelso lo accompagnò ai piedi della scala e gli disse che in quella casa sarebbe stato sempre il benvenuto. Sapevano entrambi che non si sarebbero rivisti mai più.
    Paracelso rimase solo. Prima di spegnere la lampada e di sedersi nella logora poltrona, raccolse il lieve pugno di cenere nel cavo della mano e sussurrò piano una parola. La rosa risorse.

    Da Ultimi racconti (raccolti nell'appendice de Il Libro di sabbia – Adelphi)



    Salvador Dalí - Rosa meditativa (1958)

  8. #8
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    Predefinito I rapporti

    E' implicito che mi congratulo dei tuoi artico, fonte di una elaborata conoscenza. Sono felice di constatare che esistono persone di cultura e di valore che si cimentano nel divulgare vero sapere. Con l'occasione approfitto per chiederti.
    Ci fu uno scambio epistolare fra Borghes e Pesoa.

  9. #9
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    Predefinito

    Non ne so assolutamente nulla. Lei mi sopravvaluta, caro Sideros…

    Comunque, grazie per l'apprezzamento (del tutto immeritato).

  10. #10
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    Predefinito é una qualità

    Troppo modesta!

 

 
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