COME DIVENNI BRIGANTE
(Carmine Donatelli Crocco)
«La Corte!» grida ad alta voce l'usciere, ed in mezzo ad un sepolcrale silenzio i
giudici vanno a sedersi al loro posto.
«Voi Carmine Donatelli Crocco, figlio del fu Francesco e della fu Maria Gerardo
di Santo Mauro, nato nella città di Rionero in Vulture, circondario di Melfi, provincia di
Basilicata, siete imputato di 75 omicidi, dei quali 62 consumati e 13 mancati, e di un
milione e duecentomila lire di guasti, danno, incendio ecc.».
il Presidente della giuria,rivolgendosi all’imputato,esclama: “Voi siete stato carcerato
sotto il governo passato,carcerato a Roma, carcerato ora, respinto dalla reazione,
respinto dai liberali, pare che per voi non vi è stata mai pace!”
A queste parole" il generale di francesco II"
replico': ”Mai pace in nessuna epoca e con nessun governo, cerchiamo di fare pace ora per carità…”
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Inviperito per la morte del suo levriero un signorotto locale,tal Vincenzo C,prese a calci mia madre incinta
.Per questa selvaggia violenza ella fu costretta a guardare il letto per tre anni.Poi, smarrita la ragione
venne rinchiusa nel manicomio di Aversa.
La giustizia abita i milioni e milioni di chilometri lontano dalle case dei ricchi e dei potenti.
Un bel mattino Don Vincenzo C. a tre miglia circa da Rionero venne accolto da una fucilata.
Per il suo tentato assassinio vennero ingiustamente arrestati mio padre e altri cinque disgrazziati
.Cosi',anche se all'ora del misfatto mio padre si trovava a nove miglia da Rionero,come testimoniarono
i suoi padroni di Venosa e quelli che lavoravano con lui,venne posto in nudo carcere e sottoposto
a procedimento penale.
"Disperazione e miseria sono con noi. La morte ed il carcere è serbata ai miseri!
Eppure abbiamo un padrone in cielo, Iddio, un signore in terra, il Re: in quei tempi
avevamo Francesco II per Re, Maria Cristina per Regina; i santa ed il Re buono dei
Napoletani; ma essi pensavano alle feste ed alla gloria, mentre, noi morivamo di fame."
Crebbi col veleno nel cuore,colla rabbia nell'animo,col vivo desiderio di offendere.
Non potevo comprende come mio padre,uomo gagliardo e forte,si fosse assoggettato
alle ingiustizie sociali e avesse accettato sommesso e tranquillo tutti gli insulti piu' crudeli,che la giustizia
degli uomini gli aveva infamamente gettati sul viso.
L'idea predominante in me divenne quella di vincere l'animo di mio padre,indurlo a scuotere
il giogo della servitu',togliere tutti dalla condizione di umilissimi pastori.
Ma mio padre,reo solo d'essere parente d'una vittima di un signorotto,chino'
rassegnato la fronte e non volle ribbellarsi.
Non io!Io crescevo coll'odio nel cuore,col desiderio vivissimo di vendicare
tutte le offese ricevute da mia madre e mio padre.
Il lavoro non mi faceva paura.Ma purtroppo a me non spettava la gioia dell'uomo onesto.
Era scritto che non avessi mai pace;mia madre nella sua lucida follia mi aveva
profetizzato serpente,ed io da rettile velenoso dovevo avvelenare il mio paese
con atti di brigantaggio.
finchè la partita mia si mantenne
nel bene fui buono anch'io, quando poi fu urtato dal male, adoperai il cattivo e di
peggio divenni il serpente mostruoso.
Le vittorie di Garibaldi ebbero per effetto di far insorgere i cosiddetti liberali di Basilicata.
Condannato a grave pena per aver ucciso un vile, che aveva cercato disonorare
l'unica mia sorella, io aveva con l'astuzia e con la forza, vinta la continua persecuzione dei gendarmi, guadagnandomi
la libertà con altro sangue, la vita con rapine ed aggressioni.
Credetti giunto il momento della mia riabilitazione e mi unii ai moti rivoluzionari.
Ma presto,nel novembre del 1860,scoprii di valere come un due di briscola;segretamente avvertito
esservi per me un mandato d'arresto,spiccato dalla regia autorita' giudiziaria
mi diedi alla macchia.Perduta ogni speranza di riabilitazione non mi rimaneva
che l'odio e il desiderio del sangue.
Mi unii con altri, che si trovavano presso a poco nelle mie condizioni, fuggitivi delle patrie galere,
i contumaci alla giustizia, i molti renitenti alla leva i non pochi disertori del Regio Esercito.
Protetto dal terreno boschivo,aiutato dalla gente derelitta del posto che
traeva un'esistenza miserissima,armato di fucile iniziai le nuove gesta colle aggressioni di viandanti.
Comandavo una ventina di briganti ben armati ed equipaggiati che avevano
brillantemente superato il battesimo del fuoco in uno scontro coi militi di Atella.
Capii che conveniva trarre vantaggio da tutto ciò che poteva essere utile alla nostra
esistenza, cercare per quanto era possibile l'ausilio dei pastori, dei poverelli,
; farsi paladini di un'idea, di un principio e con esso e per esso aver aiuto
materiale e morale di tutti coloro che,non contenti del loro stato, avevano nel cuore
un'amarezza e nella mente l'idea della ribellione.
Promettevo a tutti mari e monti, onore e gloria a bizzeffe; ai contadini facevo
balenare la certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza
d'impadronirsi degli armeti affidati alla loro custodia; ai signorotti decaduti il recupero
delle avite ricchezze e la gloria degli smantellati castelli, a tutti molto oro e cariche
onorifiche.
"E così mentre io facevo servire da puntello al mio potere tutto l'elemento infimo, ignorante ed ambizioso,
il clero ed i nobili borbonici si servivano dell'opera mia per avantaggiarsi nella reazione."
Il grido d'onore dei miei satelliti era un evviva pel caduto Francesco II (da me costantemente aborrito),
l'emblema una bandiera bianca con nastri azzurri...
Qualcuno mi dirà, e con ragione, come mai tu che conoscevi le infamie del Borbone,
dopo la caduta di questi, ti sei rimescolato nel fango ed hai messo tu ed i tuoi compagni alla mercè
d'una causa, che aveva destato in te tanto orrore.Non si parli di me, io allora mi ero già macchiato
le mani di sangue, la mia persona era cercata, lottavo per vivere, ero il serpente ricordato
dalla povera mia madre, morta pazza nel manicomio di Aversa.
A poco a poco io mi trovai quasi involontariamente a capo dei moti reazionari e
m'ingolfai in essi, sicuro di ricavarne guadagno e gloria.Abilmente preparato il moto reazionario
scoppiò il 7 aprile alla Ginestra.Contadini, pastori, cittadini di ogni età e condizione al grido «Viva Francesco II»,
corsero ad armarsi di fucile, di scure, di attrezzi colonici e in massa compatta avanzammo su Ripacandida.
Da Ripacandida a Barile breve è il cammino; numerose sollecitazioni mi
chiamavano colà a liberare la plebe dalle sozzure dei ricchi prepotenti, per cui mossi
tosto per quella volta, e, preso possesso del paese, ne ordinai il governo come avevo fatto per Ripacandida.
Col mio piccolo esercito di predatori mi mossi alla conquista di Venosa
dove a migliaia affluivano a me conle suppliche d'ogni genere e specie.
Prima mia cura fu di spalancare le carceri...
Dopo Venosa era stata decisa l'occupazione di Melfi.
Fra le non poche soddisfazioni ch'io pure provai nell'avventurosa mia vita, io ricordo
con viva compiacenza la maggiore, la più splendida, quella cioè che accompagnò
il mio ingresso nella città di Melfi.
fui accolto, al suono delle musiche, da un comitato composto delle persone più facoltose della città,
mentre suonavano a distesa le campane a festa, e dai balconi,
gremiti di persone e parati con arazzi variopinti, le donne lanciavano fiori e baci.
.Ma purtroppo non potetti godere a lungo gli ozii di Melfi inquantochè venni
informato che da Bari, da Potenza e da Foggia erano in marcia, contro di me dirette,
numerose colonne di truppe regolari.
Compresi ben tosto che, se mi era tornato facile
col mio esercito di predoni, affrontare le milizie civiche, ed attaccare città indifese e
preparate alla resa, mi sarebbe però stato impossibile combattere all'aperto contro
truppe regolari, munite di artiglieria e cavalleria.
Nel 1861 il rigore dei comandi militari,che con bandi avvertivano
delle gravi pene che andavano incontro tutti coloro che aiutavano
in un modo qualsiasi la reazione o gli sbandati reazionari,fece assottigliare la mia banda
e diminuire l'appoggio dei confidenti e delle spie.
Tuttavia ai primi del mese di giugno dovevano i riservisti presentarsi ai depositi per
essere vestiti della militare divisa, ma la maggior parte di essi preferirono darsi alla
campagna anziché seguire le sorti dell’esercito, e così ebbi campo di assoldare uomini
più provetti alle armi ed abituati alle fatiche de' campi ed alla disciplina.
Soffocati ovunque i moti reazionari, rientrati i vari paesi nella orbita della legge,
crebbe ne' vari centri l'audacia dei liberali, e nei pubblici Circoli parlando di noi,
già undì terrore della popolazione , ci trattavano da pastorelli, da gente dappoco,
facili a fuggire alla vista d'una canna da fucile.
Ma vi sono uomini che valgono tanto per quanto valgono gli altri uomini della terra;
per insegnare a cotesta gentaglia piemontese , che con motti arguti ci chiamano:
«testoni, codardi, cafoni, rozzi, ignoranti e bigotti», come anche noi
abbiamo del fegato e del cuore!».
A me che della reazione ero capo, sarebbe spettata certo la fucilazione alla
schiena, e poichè mi sentivo giovine ed amavo la vita, credetti prudente difendere
l'esistenza con tutte le forze che mi venivano da un fisico vigoroso, per cui lasciato da
un canto la politica ed i politicanti, ritornai qual'ero prima, brigante comune, costretto
ad assalire i viandanti, a imporre taglie per dar da vivere a me ed alla mia banda.
I moti reazionari soffocati in sul nascere non lasciarono tracce profonde nei vari
paesi.Molti di coloro che avevano gridato, «Viva Francesco II», « Viva Crocco »,
all'arrivo delle truppe gridarono «Viva Vittorio», «Viva Cialdini» e passarono per
liberali come furono da noi creduti dei reazionari.
Non si faccia adunque gran colpa se con tanta facilità io avevo voltato bandiera;
l'esempio mi veniva dall'alto, da coloro che dovevano essere d'esempio perchè allo
stipendio del Regio Governo.
Siamo al 10 agosto dell’anno 1861; mi presento a te, cortese lettore, non più
come capo riconosciuto dei moti reazionari, ma bensì come generale di formidabile
banda brigantesca.Ho il cappello piumato, la mia tunica ingallonata, un morello puro
sangue, sono armato sino ai denti, e quello che più conta, esercito il comando
su mille e più uomini, che muovono ed agiscono ad un mio cenno.
Avevo un piccolo esercito con quadri completi, un capitano, un luogotenente, un
medico, sergenti maggiori, caporali tutti appartenenti al disciolto esercito borbonico.
Avevo seicento soldati di tutti i corpi, cioè cacciatori, cavalleria, artiglieria,
volteggiatori, zappatori, minatori, granatieri della guardia e che so io. Che importa se
costoro erano pastori, contadini, cafoni? Forse che gli eserciti attuali non sono
composti tutti di figli della miserabile plebe?
Per la paga, i capi hanno una percentuale sulle taglie e sui ricatti, i gregari un
tanto al giorno, gli avventizi cinque scudi per cadauno all'atto che sono licenziati.
Ma io voglio con ciò conchiudere
che i Governi, generalmente parlando, non guardano mai dove nascono i figli della
miseria, né come essi fanno a vivere, né si occupano in un modo qualunque onde
alleviare in qualche maniere la miseria e toglierli dall’ignoranza. Invece li cercano
quando son fatti uomini capaci di vivere da sé e porgere qualche sollievo ai vecchi
genitori; allora ecco il signor governatore, senza dimenticarne uno solo, se li prende
come sua proprietà e ne fa quello che gli pare e piace.
Il pretesto è bello, la Patria, la Legge, la prima è una puttana, la seconda peggio ancora.
E Patria e Legge hanno diritti e non doveri e vogliono il sangue dei figli della
miseria. Ma vi è forse una legge eguale per tutti?
Non dirmi ciò, non parlare di questo gigante mostruoso,
poiché conosco che la legge leale non è mai esistita, nè esisterà
fin tanto che Iddio non ci sterminerà tutti.
Erano con me il feroce,compagni di mestiere,gia avvezzi alla musica del piombo, Ninco-Naco,
il sanguinario Giovanni Coppa, Agostino
Sacchetiello, suo fratello Vito, Giuseppe Schiavone, Michele Di Biase, Tortora Donato
Teschetta, Gambini, Palmieri, Cavalcante, Serravalle, Teodori, D'Amato, Caruso,Sorotonde ed altri...
Le campagne, non a torto terrorizzate dalle carneficine della mia banda, erano
spopolate, le strade erano deserte, vuote le masserie campestri. Rigorosi bandi
militari, imponevano a tutti i cittadini, pena la fucilazione, di non uscir dai paesi dopo
l’Ave Maria della seram di guisachè regnava ovunque uno squallore profondo, un
senso di tristezza e di desolazione.Tale condizione eccezionale di cose
nuoceva indirettamente alla mia banda,perchè veniva a mancare, come si suol dire, la merce al mercato...
Vivevo aggredendo, taglieggiando, uccidendo di tanto in tanto, quando da un
pastore di Tricarico ricevetti un biglietto del brigante Serravalle in cui mi si chiedeva
appuntamento nella masseria Carriera.
Fu qui, nell'ottobre del 1861, ch'io conobbi il Borjes generale spagnolo venuto
per ordine di Francesco II a tentare di sollevare i popoli delle Due Sicilie.
Quell'uomo forestiero che veniva da noi per arruolare proseliti e reclamava in
conseguenza l'ausilio della mia banda, destò sin dal primo momento nell'animo mio
una forte antipatia poichè compresi subito che a petto suo dovevo spogliarmi del
grado di generale comandante la mia banda, per indossare quello di sottoposto.
Egli, un povero illuso venuto dal suo lontano paese per assumere il comando di
un'armata, aveva creduto trovar ovunque popoli insorti, e dopo un primo colossale
fiasco dalla Calabria alla Basilicata, voleva convincere me ed i miei che non sarebbe
stato difficile provocare una vera insurrezione, dato il numero della mia banda.
L'esperienza, maestra della vita, mi consigliava a non far appoggio sull'aiuto dei
reazionari, se non volevo ripetere un'altra fuga come quella di Melfi; però era
d'incitamento per noi, a non rifiutare il chiesto aiuto, il pensiero che guidati da un
esperto uomo di guerra, avremmo potuto aver ragione sulla forza, conquistare paesi e
città, ove non sarebbe stato difficile arricchire col saccheggio e coi ricatti.
Dopo lunghe trattative e convenzioni verbali sull'uso della forza,
sull'ordinamento del comando, sulla mercede giornaliera, mi unii colla banda al
generale spagnuolo, e con lui iniziai nuove gesta brigantesche, sotto la tutela però di
movimento politico.
Quale sia stato l'itinerario stabilito dal Borjes nel suo piano d'invasione della
Basilicata, ora io non rammento con esattezza, egli aveva precisato essere sua
intenzione assoggettare i centri minori, dar loro nuovi ordinamenti di governo,
arruolare reclute, armi e cavalli e poscia gettarsi sulla città capoluogo di provincia
Da Craco dopo di aver guadato il fiume Agri
arrivammo ad Aliano.
Questo paese di circa 4 mila abitanti al mio giungere era quasi disabitato,
poichè i signori ed i borghesi erano fuggiti tutti verso Corleto, Perticara e Stigliano,
lasciando in paese la sola plebaglia. Fui accolto abbastanza bene da quella misera
gente; mi collocai nel palazzo d'un signore, fuggito colla famiglia a Montalbano Jonico,
ove venni trattato da vero sovrano dal fattore e dai suoi. E già cominciavo a credermi
padrone, e dicevo tra me e me che dopo tutto mi sarei accontentato di quel piccolo
ducato, purchè mi si lasciasse in pace, signore e padrone di riscuotere i frutti delle mie
terre, quando a disturbare le mie fantasticherie pensò il sottoprefetto di Matera, che
invidioso della mia felicità aveva raccolto 1200 uomini fra un battaglione di fanteria, di
bersaglieri e guardia nazionale, ed in due colonne, per strade convergenti, li aveva
indirizzati contro di me.
A Stigliano...
Giunto al palazzo Colonna, una casa veramente Reale (nei tempi del
vassallaggio la famiglia Colonna dominava per tutto il contado), venni ricevuto come
si suol ricevere un pezzo grosso. Ed in quel momento rappresentavo qualche cosa di
grosso ancor io, poichè dopo tutto a questo mondo per non restar piccoli bisogna aver
virtù di far macellar uomini.
Napoleone I era figlio di un povero cancelliere, eppure macellando milioni di
uomini, compreso mio zio Martino, arrivò ad essere un grand'uomo, ma finalmente,
per aver voluto troppo, perdè tutto, e, come me, finì la vita prigioniero, lui a S. Elena,
guardato a vista dai soldati inglesi, io nel bagno di S. Stefano, sotto la rigida
sorveglianza delle sentinelle dell'esercito italiano.
E pensare che io mi sarei accontentato della signoria di quel paesetto di Aliano,
e devo invece morire nel bagno penale! Ma pazienza, morrò benedicendo,
ringraziando la clemenza di S. M. Vittorio Emanuele, il quale firmò la grazia che
commutava la pena della morte in quella dei lavori forzati. Ringrazio, non perchè ho
potuto vivere di più, ma per avere liberato i miei parenti dall'obbrobrio di sentirsi dire:
«Siete nipoti dell'impiccato».
A Stigliano ci fermammo due giorni, il 10 e l'11 novembre. I signori erano
fuggiti tutti perciò decidemmo continuare la nostra avanzata tanto più che Borjes
aveva vivo desiderio di giungere presto su Potenza.
Il paese è posto a saccheggio, chi più può più ruba. Lasciamo il convento in
fiamme. Giorno 16 novembre. Siamo nella vallata di Potenza chiamati a liberare i
carcerati politici ivi rinchiusi.Siamo in sicuro che al nostro approssimarsi si avrà
un'insurrezione generale.In tutti vi è forte speranza di ricco bottino e di molti piaceri
Presiede il comitato segreto reazionario il signor..... un ex capopopolo del 1860,
liberale dalla sola fascia tricolore
Ma pur troppo codesto camaleonte politico, ancora una volta mutò colore,
avvertì il Comandante la piazza,
indicò il luogo ove eran deposte le armi, ch'egli aveva poco prima segretamente
ricevute, intascò i ducati del Borbone, e si vantò di poi di aver salvata la
Basilicata.Con mio dolore dovetti abbandonare l'impresa di soggiogare Potenza e
tornarmene con la coda fra le gambe come cane scornato.
Borjes è liquidato definitivamente, se ne parte co' suoi spagnuoli e con
pochissimi fedeli; in tutto una trentina. La sua partenza non ci commuove anzi
l'abbiamo voluta stanchi del suo comando.
L'inverno s'avanzava a gran passi, noi eravamo in tutti 2180 uomini e 340
cavalli. Ci dividemmo in sei frazioni principali, e costituii un'altra ventina di piccole
bande dai 12 ai 20 uomini; questi avevano ognuno il proprio capo, potevano bivaccare
a loro bell'agio, lavorare per conto proprio per buscarsi il pane ed in caso
d'inseguimento dovevano rientrare alla banda principale dalla quale erano usciti.
Tutte queste bande erano, così ben scaglionate che in poche ore si potevano
riunire; in pochi giorni costruirono ciascuna capanne, blinde, stalle, baracche, cucine
da mietitori e requisirono caldaie, barili, secchie.
Per vivere, requisizione forzata di buoi, capre, pecore, visita alle cantine delle
masserie limitrofe per provvedere il vino e per acqua quella dei pozzi e l'altra che ci
veniva dal cielo; chi pagava era il..... piombo
Col finire dell'inverno dovendo le terre essere lavorate, fu giocoforza permettere
ai contadini il ritorno ai loro campi; ma ordini severissimi proibivano a chiunque di
portare pane e viveri più del necessario al proprio sostentamento. Si credeva con ciò
farei arrendere per fame e non si sapeva, o meglio si fingeva non sapere, che i signori
per avere da noi meno male, avevano posto a nostra disposizione le ricche masserie
colla condizione «mangiate, bevete ma non distruggete».
coll'aumentare delle forze regolari e coll'ordinarsi delle guardie nazionali, si
dovette limitare l'azione nostra restringendola a più modeste proporzioni; non più
attacchi di paesi fatti a viva forza, non più larghi avvolgimenti di centri importanti
utilizzando numeroso stuolo di cavalieri, ma aggressioni di viandanti, assalti di corriere
postali, occupazione di piccolissimi villaggi, di masserie isolate, deludendo con astuzia
e con rapide fughe gli scontri colle truppe, salvo a provocarli quando l'enorme
disparità delle forze ci faceva sicuri d'una facile vittoria.
Ho percorso colla mia banda le deliziose pianure di Foggia, la terra di Bari, la
marina di Basilicata, mi sono spinto fin sotto a Lecce, a Ginosa, Castellaneta,
compiendo ovunque depredazioni e ricatti, talvolta sfuggendo le truppe, tal'altra
attaccando all'improvviso, spesso coll'agguato e coll'insidia. Ferito quattro volte, ho
visto cadere ad uno ad uno i miei più fidi, ebbi dolorosi abbandoni da compagni già
carissimi, che preferirono la vita sicura dell'ergastolo che la morte sul campo o la
fucilazione alla schiena e da ultimo fui tradito da quel Caino fratricida di Giuseppe Caruso.
Primadel1861, quando nel trono di Napoli regnava Franceschiello, molto
dell'elemento che costituiva la mia banda, proveniva dalle angherie sbirresche degli
sgherri di Del Carretto, da persone che non avevano voluto piegare la fronte dinanzi a
soprusi inauditi, che non vollero vendere l'onore delle loro mogli o delle giovane figlie
a signorotti prepotenti, e si videro perciò perseguitati, posti all'indice quali malviventi,
vagabondi, persone facili a delinquere.
Dopo il governo di Vittorio Emanuele concorsero invece ad aumentare le nostre
file i molti perseguitati dall'elemento cosiddetto controreazionario, che con
spradoneggiante spavalderia, sotto l'usbergo della legge, commetteva infamie di certo
non inferiori a quelle dei briganti, e con vendette basse e vigliacche denunziava
padroni e servi alla polizia per sbarazzarsi di nemici personali.
Posso affermare senza tema di
essere smentito, che la mia era la più ordinata e la meglio organizzata. Coppa, Ninco-
Nanco, Caruso, Tortora, Serravalle e molti altri che ebbero il comando di bande,
furono tutti miei dipendenti, ed ebbero in seguito sempre un sentimento di rispetto
per il loro generale.
Ebbi chiamate da Generali e da Prefetti ove mi si promise non dico la libertà,
perchè mentirei, ma assicurazione della vita, qualora mi fossi presentato; mi mostrai
sempre sordo ad ogni invito, convinto che sarei stato rinchiuso in perpetuo, essendo io
il capitano generale di tutti i briganti della Basilicata. Molti miei gregari allettati dalla
speranza di una lieve condanna, senza rendermi avvertito, si presentarono in Rionero
al generale Fointana e si ebbero condanne non gravi, in confronto ai compiuti delitti.
Costoro furono sempre da me detestati e citati di codardia all'ordine dei giorno.
Fra i codardi che ci abbandonarono per presentarsi alle Autorità, il più vile fu
certamente Giuseppe Caruso. Questo scellerato Caino, dopo di aver consumato il
fratricidio si presentava, con altri suoi perfidi compagni, e dopo pochi mesi veniva
liberato dal Governo. Quindi alla testa della truppa incominciò la caccia dei suoi
campagni, e in pochi mesi rese al governo quel servizio che non ebbe mai dal
poderoso esercito.
Caruso divenuto il consigliere del generale Pallavicini spiegò come doveva
essere fatta la guerra brigantesca; egli conoscitore intimo dei nostri più reconditi
ricoveri, delle abitudini nostre, dei confidenti, dei manutengoli, postosi a capo della
truppa contribuì alla nostra dissoluzione.
alla fine di giugno 1864, riuniti in dodici fidi amiconi contempliamo mesti
e rattristati il cadavere del nostro fiero compagno d'armi Pio Masiello. Egli giace
esamine sul ciglio di un fosso; ha l'occhio spento, le labbra livide, i denti stretti e le
mani rattrizzate.
Il suo petto è squarciato da diverse profonde ferite di pugnale. Ai piedi suoi sta
il suo fucile scarico. Caruso trionfa.
Ninco-Nanco, Masiello, Rocco Serra, Grippo, La Rocca sono morti, altri son
prigionieri, che ci rimane se non morte o galera!
Mi accorsi, con vivo cordoglio, come la mia stella fosse vicina al tramonto;
l'ombra minacciosa del Caino Caruso cominciava ad impensierirmi; il Melfese già
teatro della lotta e forte baluardo all'accanito inseguimento, era divenuto luogo
insicuro per me...
(Si sa che per le rivelazioni, il “pentito” Caruso avrà salva la vita e possibilità di
lavorare, sotto forma di un premio che le Autorità militari, d'intesa con quelle civili,
avevano pensato di stabilire nei confronti dei briganti che avessero deciso di parlare.
Non è da escludere che ci si trovi di fronte ad una forma pionieristica di legislazione
speciale sul pentitismo, nuova nei confronti di altre come il confino per banditi ed
alcuni briganti, già in uso ai tempi dei borboni.Arresti in massa, esecuzioni sommarie,
distruzione di interi paesi, persecuzione indiscriminata, introduzione nel diritto del domicilio coatto.
Taglie che creano “l’industria" della delazione, servizi giornalistico-fotografici primi esempi di "informazione deformante",
stato d'assedio, terrore. Così viene distrutto il "manutengolismo", vasto movimento pro-brigantaggio,
fenomeno tanto articolato socialmente da non poter essere stroncato con la legislazione ordinaria.
Perciò il Parlamento approva la prima normativa d’emergenza ,
che fa da fondamento a una lunga e perniciosa tradizione che arriva fino ad oggi.
Tutto ciò annienta la resistenza popolare, anche perché essa non riuscì mai ad
organizzarsi militarmente. L’estraneità allo stato unitario si manifesta
poi pacificamente, non certo meno drammaticamente, nell’emigrazione che ha spopolato e impoverito il Sud )
Per la difficoltà di stare raccolti in forte massa, senza
incappare continuamente nella forza, feci nota la irremovibile decisione presa di
ritirarmi in Roma lasciando ognuno libero di sè.
La sera del 28 luglio 1864 dodici uomini montati sopra superbi cavalli pugliesi...
si diressero verso Roma.
Che fece il gran Pio IX? ci seppellì alle carceri nuove di Roma, poscia ci trasferì
alle carceri di San Michele a Ripa sempre chiusi in cella di rigore.
Pio IX per non dar dispiacere al ex Re, che io avevo servito, e che mi aveva
suggerito di presentarmi a Roma traendo ragione ch'io ero suddito del Re Gioacchino
Murat, mi fece rilasciare dall'ambasciata francese un passaporto per l'Algeria e mi
spedì sul territorio francese.
In Francia fui arrestato e per tre mesi godetti le delizie del carcere straniero
tormentato da insetti comuni, e da un digiuno forzato. Dopo l'andirivieni di note
diplomatiche tra le Corti di Roma, Firenze, Parigi, sul diritto della mia persona,
Napoleone III, salvando capra e cavoli, da Marsiglia mi ritornò a Roma a disposizione
del Pontefice. Dopo poco tempo venni mandato alle carceri di Paliano, ove fui caricato
di catene e chiuso nella torre di quella Rocca, per dar principio al secondo digiuno, che
durò fino al settembre dei 1870.
Sapete perchè non fui consegnato al governo italiano? Perchè consegnando me
dovevano consegnare la somma di lire 19.800 che io avevo indosso all'atto
dell'arresto, e questa somma che non fu data a me come non fu data al governo,
come di dritto, finì nelle tasche di qualche monsignore ladrone.
È teatro per tutta la natura
Ognuno rappresenta la sua scena,
Napoleone con la sua bravura
Nell'isola morì di Sant'Elena
Così Crocco già umile pastore
Dai briganti promosso generale
Dopo lotte di sangue e di terrore
Sconta in galera lo già fatto male
Noi oggi leggiamo gli scritti di secoli
remoti e dalla narrazione dei fatti avvenuti si traggono ammaestramenti avvenire; chi
nol sa che fra mille anni questi miei scarabocchi possano servire a qualche cosa, che
ora noi neppure pensiamo. Che sorga qualcuno, fra tanto crescente progresso
intellettuale, che comprenda quello che io cercavo, e facendo la storia del duemila e
duecento circa uomini scannati per uno solo, trovi un efficace rimedio che valga a
rigenerare il genere umano.
Io non ho mai potuto comprendere come sia composto il consorzio sociale; so
che il disonesto nessuno lo può vedere, tutti lo fuggono, la legge non lo capisce….. e
poi si chiama scellerato colui che lo assassina….. e non si vuole affatto comprendere
come non tutti gli uomini siano degni di vivere.
Carmine Donatelli Crocco
Briganti si mora
Amu pusatu chitarre e tamburi
'ppe chista musica c'adda cangià
simu briganti e facimu paura
e ccu a scuppetta vulimu cantà
tutti i paisi d'a Basilicata
si su scetati e mo vonnu luttà
pure a Calabria mo s'è arrevotata
e stu nemicu facimu tremà
ehi ehi ah ah ah ah
e mo cantamu sta nova canzune
tutta la gente si ll'adda mparà
nun ce ne fotte d'u re d'i burbuni
sta terra nostra nun s'adda tucca
sta terra è nostra e nun s'adda tucca
chi ha vistu u lupu s'è misu paura
nun sape bbuono qual è a verità
lu veru lupu è chi magna e creature
è 'o piemontese c'avimm caccià
Fimmine belle rapiti lu core
Si nu brigante vuliti sarvà
Nun ci circati scurdatevi u nome
Chi ci fa guerra nun tena pietà
State a sentiri sta vecchia canzune
Ca è viva e sincera e bugie un vi dà
E mo sentiti stu gridu cu raggia
C'avimmu intru 'u core e ni porta cchiù 'i llà
E mo sentiti stu gridu cu raggia
C'avimmu intru 'u core e ni spinge cchiù 'i llà
Uomo se nasce e brigante se mora
Ma finu all'ultimu avimm'è lutta
E si murimu jettate nu fiore
E na bestemmia 'ppe sta libertà