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Discussione: Accadde tempo...

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    Predefinito Accadde tempo...

    ....fa.

    Oggi è lunedì 21 giugno 1993. Oggi abbiamo sentito il presidente dell’Iri, Romano Prodi, parlare di privatizzazioni. Ma noi, quando sentiamo Prodi dissertare attorno alle questioni economiche, non possiamo che pensare ad altro, a fatti che abbiamo già in parte ricostruito. All’interrogatorio che avrà fra un paio di settimane, per esempio. Quello di domenica 4 luglio. “Mi sembra ovvio che chi è stato presidente dell’Iri per sette anni venga sentito”, dirà quel pomeriggio un giornalista dell’Ansa. Si riferirà al periodo che va dal 1982 al 1989, la sua prima tornata all’Iri. Dal 1989 fino al maggio scorso, il presidente è stato Franco Nobili. Poi, Nobili è stato arrestato per tangenti. Né prima né dopo Nobili, l’Iri è mai stata coinvolta in affari illeciti. O, almeno, i magistrati non ne hanno scoperti, nonostante quell’interrogatorio del 4 luglio. Dovrà essere in gran segreto, secondo i propositi, e infatti verrà fissato di domenica, in procura, nell’ufficio di Paolo Ielo. Arriverà anche Antonio Di Pietro, e arriveranno i cronisti. Non si saprà chi li ha avvertiti. Loro sentiranno Di Pietro mettere sotto torchio Prodi, fare di tutto per costringerlo spalle al muro, di tutto per capire se davvero, con Nobili, l’Iri era una cloaca di tangenti, e invece con Prodi il luogo del rispetto sacerdotale delle regole e dell’etica. Lunedì 5 leggeremo sul Corriere: “E i soldi alla Dc? La voce di Antonio Di Pietro rimbomba nei corridoi deserti della procura. In un ufficio i magistrati stanno sentendo un testimone d’eccezione: Romano Prodi… I giudici lo hanno interrogato come persona informata sui fatti in merito alla situazione dell’Iri prima di Franco Nobili”.

    “Lui non aveva bisogno di essere innocente, era della sinistra Dc”. Franco Nobili a proposito di Romano Prodi, da “I giorni dell’Iri - Storie e misfatti da Beneduce a Prodi”, di Massimo Pini,
    editore Mondadori, 2000.

    Di quell’interrogatorio, sapremo qualcosa di più in un libro che uscirà nel 2002, “Mani pulite” del trio Barbacetto- Gomez-Travaglio. Leggeremo: “Di Pietro fa salire la tensione. Alza la voce. Toni duri, domande incalzanti”. Secondo i tre, Di Pietro gridò: “Allora, professore, i soldi alla Dc chi glieli dava?”. E ancora: “Ma lei era a capo dell’Iri, possibile che non mi sappia riferire niente?”. Possibile che potesse non sapere? Molti anni più tardi, nel 2002, Di Pietro racconterà ai tre: “E’ vero, strapazzai Prodi, come facevo con tanti altri nelle stesse circostanze.
    Parlando della mancata vendita della Sme dall’Iri a De Benedetti, nel 1985, gli domandai a brutto muso: ‘Non ho ancora capito se l’hanno fatta fesso o se lei sta facendo il fesso’…”.

    “Segnalo che nel corso degli anni ho ricevuto pressioni al fine do favorire talune nomine che non condividevo dai seguenti uomini politici….Quando queste pressioni furono chiaramente vincenti, rendendo difficile la gestione dell’IRI, decisi di non prolungare la mia permanenza”. Resistette sette anni.

    Fra due settimane, il pomeriggio del 4 luglio 1993, Ielo cercherà di tranquillizzare Prodi, scosso dai pugni di Di Pietro battuti sulle scrivanie: “Non si preoccupi, lei non è un indagato, è solo un testimone”. Poi, al momento del congedo, Di Pietro sarà nuovamente meno conciliante: “Ci rivediamo lunedì. Sappia però che potremmo essere costretti a farla continuare a riflettere lontano da casa”. Sarà forse per questa frase che, nei giorni successivi, si spargerà la voce che Prodi potrebbe essere arrestato. Il 5 luglio, Prodi ancora visibilmente turbato andrà dal presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Il 7 luglio, il procuratore Francesco Saverio Borrelli interverrà per smentire la diceria. E a Ielo (lo raccontano sempre Barbacetto, Gomez e Travaglio), Borrelli dirà: “La prossima volta è meglio che con Prodi ci sia soltanto tu”. La prossima volta, l’ultima di Prodi in procura, ci sarà soltanto Ielo.

    “Vorrei che fosse chiaro, una volta per tutte, che ho fiducia nell’operato dei giudici… Ho avuto modo, in tempi non sospetti, vale a dire prima di assumere l’incarico di presidente dell’Iri, di esprimere il mio parere sui riflessi positivi che le inchieste condotte a Milano possono determinare sul sistema delle imprese nazionali”.
    Romano Prodi ai giornalisti, 13 luglio 1993.

    E’ interessante rileggere la deposizione che Prodi concederà fra due settimane, il prossimo 4 luglio, a Ielo e a Di Pietro. Ci sono un paio di passaggi che non possiamo trascurare. Il primo: “Sin da ora segnalo che nel corso degli anni ho ricevuto pressioni al fine di favorire talune nomine che non condividevo dai seguenti politici: Gianni De Michelis, Paolo Cirino Pomicino, Carlo Fracanzani, Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani, Renato Altissimo, Clelio Darida, Antonio Gava, Riccardo Misasi. Ce ne sono altri di cui mi riservo di ricostruire le vicissitudini”. Poi: “Quando queste pressioni furono chiaramente vincenti, rendendo difficile la gestione dell’Iri, decisi di non voler prolungare la mia permanenza alla presidenza dell’Iri”. Resistette sette anni, non un minuto
    di più, a quelle pressioni.
    E di quei sette anni, Prodi negherà di “essere stato informato in alcun modo… dagli amministratori
    delle imprese controllate direttamente o indirettamente dall’Iri di pagamenti di tangenti”. Per anni, ma non sarà mai creduto, l’ex amministratore delegato della Stet, Giuliano Graziosi – indagato e
    condannato – dirà di aver parlato con Prodi che alla Sirti (gruppo Iri) venne chiesta una tangente in cambio di appalti. Anche su questo punto, Di Pietro insisterà, fra due settimane, il 4 luglio. Prodi negherà. La parola di Graziosi contro quella di Prodi, e peserà di più quella di Prodi. Ci viene poi in mente, infine, che Franco Nobili chiederà a lungo, durante i processi a suo carico, la testimonianza di Prodi. Nobili dirà che in almeno uno dei contratti di cui gli sarà contestata la correttezza, Prodi aveva avuto un ruolo rilevante, come suo predecessore. Il tribunale riterrà la circostanza “irrilevante”. A Prodi – cui per fortuna i magistrati riserveranno un trattamento molto garantista – verrà risparmiata anche la scocciatura di una pubblica testimonianza.

    Mattia Feltri su Il Foglio di sabato 20 giugno 2003-06-21


    saluti

  2. #2
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    Predefinito Il 1993 di....

    ....Goria.

    Accusato di corruzione, costretto alle dimissioni da ministro, venne prosciolto una settimana dopo.

    Oggi è venerdì 25 giugno 1993. Una notiziola di un paio di giorni fa ci ha fatto tornare a mente una storia, e ne abbiamo parlato un po’. La notiziola è di mercoledì 23 giugno: due imprenditori sprovveduti, che avevano tirato il democristiano Giovanni Goria dentro una storia di corruzione, hanno chiesto scusa e ritirato tutto. La storia, appunto, è quella di Giovanni Goria, ex presidente del Consiglio, ministro delle Finanze nel governo di Giuliano Amato dimissionario poche settimane fa. La storia
    è dell’anno scorso, del 1992. Si cominciò a malignare su di lui il primo luglio, giorno in cui la procura di Milano ottenne l’arresto,
    per tangenti, di un suo vecchio collaboratore.
    Allora, Goria era alle Finanze. Questo bastò ai Verdi per chiederne le dimissioni. Anche il segretario del Msi, Gianfranco Fini, disse che “sui ministri non possono esserci ombre morali”. D’accordo il leader della Rete, Leoluca Orlando, per via del “vincolo antico e strettissimo” dell’imputato col ministro. Il giorno dopo, il 2 luglio, dalla procura di Milano partì una richiesta di autorizzazione a procedere a carico
    di Goria per una vicenda del 1976, un falso in bilancio alla Cassa di risparmio di Asti, banca di cui Goria era stato sindaco. Goria, quel giorno, si difese con ardore. Raccontò che la truffa era stata scoperta e denunciata proprio da lui, che le richieste di proscioglimento si erano succedute e sempre si erano stranamente bloccate. Serve ben altro, in questi nostri tempi. Sergio Garavini, di Rifondazione comunista, rilanciò con le dimissioni: “Viviamo ormai in un sistema politico nel quale la corruzione è generalizzata”. Fini definì Goria “inaffidabile dal punto di vista morale”. I missini raccolsero ad Asti, la città di Goria,
    le firme per sostenere le dimissioni, pretese per “motivazioni politiche, economiche e giuridiche”. A Vigevano, in provincia di Pavia, l’usanza popolare del “rogo del diavolo” vide – il 5 settembre 1992 – il pupazzo di Goria bruciato in piazza. “Nulla di
    personale”, dissero gli organizzatori. “Che si tratti di una manovra lo capisce anche un bambino… Anche un bambino stupido”. Bettino Craxi, ai giornalisti, 4 luglio 1992.
    Oggi è il 25 giugno 1993. Quattro mesi fa, il 19 febbraio, Goria si è infine dimesso.
    Ha scritto una lettera al presidente del Consiglio: “Sono indicato, del tutto arbitrariamente, quale ministro inquisito… Ma se l’ingiustizia e la falsità delle accuse offendono, ciò che diviene, anche politicamente, intollerabile, è che ad esse non si riesce a reagire così che né il governo può allontanare da sé i sospetti né i partiti riescono a tutelare la dignità dei loro esponenti innocenti”.

    Molti hanno espresso la loro soddisfazione, quel giorno. Una
    settimana dopo, il 26 febbraio 1993, la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione. Questa volta, verrà accettata. Goria, però,
    non ha riavuto il posto al governo. Perché subito si è parlato di un suo coinvolgimento nelle tangenti per la costruzione, mai nemmeno avviata, dell’ospedale di Asti. In quella storia, è stata arrestata una donna, una democristiana locale, giudicata “molto vicina a Goria”. E un imprenditore ha raccontato di aver avvicinato Goria dicendosi interessato ai lavori. Goria, ha detto l’imprenditore, gli ha risposto che lui non se ne sarebbe interessato e di rivolgersi a Roma. Rivolgersi a Roma in che senso?, si sono chiesti i magistrati torinesi.
    C’era, secondo loro, quella puzza nota, la puzza della “corruzione ambientale”, come l’ha chiamata Antonio Di Pietro. E cioè, quella corruzione ormai insita nelle cose, nelle consuetudini di cui tutti sapevano e che tutti accettavano. Fra un mese, il 27 luglio 1993, i pm chiederanno il rinvio a giudizio di Goria. Sarà concesso nel gennaio del 1994. Goria esprimerà il suo rammarico perché aveva chiesto il giudizio abbreviato “sicuro della mia innocenza”.
    Aveva fretta di dimostrarla.

    “E’ morto stamane, nella sua abitazione di Asti, l’ex presidente del consiglio Giovanni Goria. Goria era affetto da un male incurabile e le sue condizioni di salute erano notevolmente peggiorate nell’ultimo mese”. Notizia Ansa, 21 maggio 1994.

    Mattia Feltri su Il Foglio di mercoledì 25 giugno 2003

  3. #3
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    Predefinito Il "Sabato" spiegò chi era davvero....

    ....Di Pietro, nessuno gli credette.

    Oggi è sabato 26 giugno 1993. Anche oggi l’inchiesta Mani pulite è proseguita con la sua quotidianità spaventosa, con i suoi drammi che fanno sempre meno notizia: si è costituito il manager, ha ottenuto gli arresti domiciliari il deputato repubblicano, sequestrati i beni di due assessori socialisti.
    Antonio Di Pietro è l’eroe stupendo di questa nostra estate. Si vengono a sapere cose così, in questi giorni di fine giugno: la Lega italiana per la lotta contro l’Aids chiede l’intervento di Di Pietro, Adriano Celentano dice che Di Pietro “è il buono che aggiusta le cose”, gli organizzatori del premio di poesia Città di Legnano annunciano che quest’anno molti poeti si sono ispirati alla figura di Di Pietro.
    In questi stessi giorni, lo sapremo presto, anche un giornalista sta lavorando su Di Pietro, ma non per raccontarne le gesta moderne. Il giornalista si chiama Roberto Chiodi, e scrive per il Sabato, settimanale cattolico. Sono settimane che lavora su Di Pietro, perché pensa che si possa tirare fuori qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. Ci riuscirà. La sua inchiesta, abbiamo saputo, sarà in edicola il 17 luglio 1993.
    Il titolo sarà: “Dossier Di Pietro - Materiali per un dibattito - Dubitare di alcuni atti dei giudici, senza buttare Mani pulite? Si può. Anzi, si deve”.
    Fra molti anni, nel loro “Mani pulite”, Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio definiranno ancora il dossier “la madre di tutti i veleni”. Il 17 luglio 1993, Chiodi scriverà nell’introduzione al suo dossier: “I meriti di questo magistrato sono innegabili. E quelli nessuno vuole metterli in discussione. Sono invece le storture, quella sensazione diffusa che non ci sia stato il sacrosanto rispetto di una legge davvero uguale per tutti a preoccuparci. I meccanismi delle confessioni a catena, dei privilegi accordati ad alcuni imputati indotti alle chiamate di correo, le competenze sempre milanesi anche se tutti i reati sono avvenuti altrove, le mancate verifiche processuali…”.

    Noi abbiamo letto quel dossier, e possiamo dire che non sarà proprio come dice Chiodi.
    Quel dossier ha poco a che vedere con le storture, le confessioni a catena, le chiamate di correo, le competenze eccetera. Il dossier si chiama “dossier Di Pietro” proprio perché si occupa di Di Pietro e soltanto di Di Pietro. Parla di amicizie sconvenienti, relazioni pericolose, benefici, inchieste monche. In sostanza, Chiodi parla, per primo, del Di Pietro di cui non sapevamo, del Di Pietro con qualche macchia e qualche paura.

    “Puntigliosa analisi di fatti meticolosamente documentati… contrassegnati da profili di rilevanza quantomeno disciplinare… in quel dossier ve n’era abbastanza per ottenere una qualche attenzione da parte di autorità disciplinari… nessuna di queste autorità si è attivata”. Dalla sentenza del giudice di Brescia, Francesco Maddalo (processo con Antonio Di Pietro parte lesa), 10 marzo 1997.

    Il 17 luglio 1993, il dossier sarà in edicola. Provocherà un po’ di bordello, qualche polemica, ma verrà gettato via come un cumulo di balle e tutto sommato passerà sopra all’eroe e alla sua reputazione come una nuvoletta estiva. Sarà seppellito e dimenticato, per un po’. Poi, quando verrà rispolverato, fra qualche anno, molti si renderanno conto che si trattava di un gran lavoro.
    Molti ripartiranno da lì per riraccontare l’eroe. Molti si accorgeranno quante cose erano già state scoperte e quante, tuttavia, se ne potevano aggiungere. Nel dossier del 17 luglio, leggeremo già dei legami di Di Pietro con gli avvocati Giuseppe Pezzotta e Giuseppe Lucibello, oggi celebri difensori di imputati di Mani pulite. Su Di Pietro leggeremo: “… si scambia i regali di Natale con Claudio Dini, presidente della Metropolitana; frequenta a Milano San Felice la villa in cui Maurizio Prada, presidente dell’Atm, gli fa conoscere l’ex presidente dell’Enel Valerio Bitetto. Dagli industriali Gorini della Maa assicurazioni ottiene un impiego per il figlio Cristiano…”. Quegli “industriali Gorini”, in realtà, non sono che Giancarlo Gorrini, quello dei cento milioni e della Mercedes. Ma sono tutte cose di cui oggi nessuno sa nulla. Si sa, soltanto, che tutti questi amici finiranno dentro
    Tangentopoli. Leggeremo di un altro amico del cuore: “… l’immobiliarista D’Adamo… per Di Pietro un amico prezioso, cui non difettano i contanti… Forse per questo, per un gesto di liberalità, D’Adamo ha fornito a Di Pietro un telefono cellulare che, tuttora, risulta intestato alla sua azienda, la Edilgest. Il telefonino del giudice Di Pietro, insomma, appartiene a un’azienda ampiamente coinvolta in Tangentopoli”.

    Leggeremo, il 17 luglio, della strana inchiesta “carceri d’oro”, epoca pre Mani pulite: “L’imprenditore Bruno De Mico era costretto a pagare tangenti sempre più salate per vincere gli appalti carcerari. I soldi che versava sottobanco, però, li annotava tutti. Aveva escogitato un codice alfabetico, relativamente semplice. Il cognome del corrotto veniva elencato in una lista apposita seguendo questo criterio: le ultime due lettere del cognome, un numero, le prime due lettere dello stesso cognome. Nicolazzi, per esempio: la sigla era ZI5NI. Dove il numero riguardava le lettere mancanti… Di Pietro è uno dei pubblici ministeri. Né lui né i suoi esperti informatici riescono a scoprire chi poteva celarsi dietro la sigla DA1PR. Preda? Proda? O magari Prada? E quel mistero celato dietro la sigla SA2CH?… Chiusa? Chiosa? O Chiesa? Chissà, forse allora i tempi per Tangentopoli non erano ancora maturi. Ma le sigle NA15DE (Democrazia cristiana), SE6DC (Dc milanese) non ci voleva tanto a scoprirle. E la sigla MI PSI SEGR… E infine: la sigla UNITA che mai poteva significare, se non il quotidiano del partito comunista? Di Pietro sorvola”.

    Una diligente raccolta di pettegolezzi, insinuazioni, calunnie” Francesco Saverio Borrelli, dopo aver letto le anticipazioni del dossier 13 luglio 1993

    Il 17 luglio 1993, leggeremo nel dossier di un’altra inchiesta dipietresca e premanipulitesca. Le tangenti all’Atm. Quella volta, racconterà Chiodi, Di Pietro trovò un quadernetto dove erano stati annotati i nomi di chi ha intascato le tangenti. Altre sigle. Chi si nascondeva dietro la sigla “Rad.li”? Forse Sergio Radaelli, dirigente socialista dell’Atm? Lo stesso Radaelli che era amico di Di Pietro e del sindaco Paolo Pillitteri? Forse sì, scriverà Chiodi, ma “Di Pietro vuole sapere quanti sono i dipendenti dell’Atm il cui cognome comincia per ‘Rad’ e, ancora, quanti sono i dipendenti che di cognome fanno Radaelli. La risposta arriva prontissima: in azienda ci sono 12 dipendenti i cui cognomi cominciano per ‘Rad’. E addirittura: ben 6 si chiamano Radaelli. C’è però da aggiungere che si stava indagando non sui poveri travet ma solo sui pesci grossi”. Leggeremo che ad aiutare Di Pietro nelle indagini c’era Eleuterio Rea, della Mobile, anche lui ospite fisso nelle cene con Pillitteri, Prada e gli altri.
    Leggeremo: “Di Pietro e Rea, in strettissimi rapporti di amicizia tra loro, sembrano fingere di non sapere che Riva è il segretario personale di Prada e Radaelli è Radaelli.
    Amici a loro volta e in rapporti di familiarità con gli investigatori”. Leggeremo che Di Pietro chiederà e otterrà l’archiviazione.
    Leggeremo: “Radaelli, a questo punto, deve avere buone ragioni per mostrare la sua gratitudine al magistrato. Il quale riesce ad avere dalla Cariplo un appartamento in via Andegari, a due passi dalla Scala. Affitto a equo canone”. Leggeremo, infatti, che nel frattempo Radaelli era passato alla Cariplo. Leggeremo della singolare inchiesta su “Lombardia informatica”. Di come Radaelli e Prada siano tornati nei guai nei primi mesi di Tangentopoli. Di come se la siano cavata tutto sommato alla grande. Leggeremo queste cose che negli anni saranno dette e ripetute, a cui si aggiungeranno dettagli su dettagli, e inchieste della magistratura bresciani da cui Di Pietro uscirà penalmente lindo, ma moralmente sputtanato.
    Succederà fra pochi giorni. Ma il 17 luglio 1993 saranno molto pochi quelli che daranno credito al dossier di Roberto Chiodi.

    “Solidarierà a Di Pietro e soprattutto l’auspicio che la trama, peraltro poco coperta, di cui il dossier pubblicato dal Sabato non è né il primo né l’ultimo episodio, sia prontamente smascherata… un ignobile attacco alla sua dignità personale e professionale… E’ evidente che si vanno ricompattando le aggregazioni tra le componenti occulte che hanno dominato la vita politica italiana e che si era ritenuto essere state spazzate via dal cambiamento in atto nel nostro paese proprio per merito di Di Pietro, in quanto espressione sintetica di pool di magistrati che hanno saputo esprimere giustizia e far raccogliere onestà a tutti noi… per un attimo si era pensato che fossero cessate ‘deviazioni’ e tecniche di isolamento dei galantuomini ovunque si trovassero e prima di tutto nella magistratura, ove con l’uccisione di Falcone e Borsellino si era toccato l’acme della strategia della delegittimazione… Occorre intervenire con immediatezza e con attestazione pubblica di ferma volontà di persistenza nel cambiamento; occorre colpire la mano cui il dossier del Sabato è dovuto, a cominciare da chi si è assunto la responsabilità della pubblicazione, se vogliamo interrompere una spirale che, con il travolgimento di un simbolo, farebbe piombare nuovamente nella economia della corruzione e nella politica dei dieci per cento”. Da una nota dell’avvocato Carlo Taormina, distribuita alla stampa il 16 luglio 1993.

    Anticipazioni del dossier saranno divulgate già prima di quel 17 luglio. I giornali le ignoreranno, sostanzialmente.
    La Repubblica, il 14 luglio, titolerà sui “veleni” del Sabato e riporterà le valutazioni di Borrelli: “Volgarità”.
    Enzo Biagi difenderà Di Pietro su Panorama, spiegando a Chiodi com’è che si fa il mestiere di giornalista.
    Il presidente della giunta per le immunità parlamentari, Giovanni Pellegrino, del Pds, si dirà solidale con Di Pietro, parlerà di “attacco che riecheggia corsivi estivi di infausta memoria” e di “una polemica personalistica di basso profilo”.
    Roberto Formigoni specificherà che il Sabato non fa riferimento a lui né a Cl, e che semmai Chiodi
    appartiene “all’area pidiessina”.
    Tutto si chiuderà lì.

    Mattia Feltri su Il Foglio di giovedì 26 giugno 2003

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    Predefinito Occhio al....

    ....telefonino.


    Oggi è lunedì 28 giugno 1993. Oggi, come pochi giorni fa, abbiamo pensato ad Antonio Di Pietro, all’eroe di questa Italia che si è scoperta sconcia, e ha trovato il cavaliere che la salverà. E abbiamo pensato a Roberto Chiodi, al giornalista che fra poche settimane pubblicherà sul Sabato la sua verità. Pubblicherà la prima controinchiesta, esprimerà i primi dubbi sull’eroe, racconterà per primo delle amicizie pericolose con i futuri inquisiti di Mani pulite, le inchieste chiuse forse frettolosamente, i telefonini: parte di tutto quello che, negli anni, si scoprirà su questo nostro grande moralizzatore. Abbiamo pensato che la curiosità dei più non sarà di verificare se il lavoro di Chiodi era un buon lavoro, ma chi glielo avesse commissionato, chi fosse il mandante.
    Nell’ottobre del 2000, Di Pietro illustrerà la sua tesi su Micromega: i mandanti furono sostanzialmente Massimo D’Alema e il costruttore romano (e vicino a D’Alema) Alfio Marchini. Smentiranno tutti, naturalmente. E fra dieci anni esatti, Chiodi ci dirà la sua: “Si va sempre alla ricerca di spiegazioni torbide, ma l’unica verità è che io lavorai sei mesi su quel dossier. Ci lavorai a cominciare dalla fine del 1992, quando ero ancora all’Espresso. Di Pietro era un mito, e a me sono sempre piaciuti i miti, mi è sempre piaciuto andare a vedere che altro si può dire, su di loro”.

    Tutto cominciò, ci racconterà Chiodi, quasi per caso. Chiodi, all’Espresso, era vicino di scrivania di Antonio Carlucci. “Carlucci si sentiva spessissimo con Di Pietro. Un giorno uscì dalla stanza lasciando l’agendina aperta. Io copiai il numero di Di Pietro. Non è bello, ma insomma, lo dovevo fare. Mi incuriosì che Di Pietro avesse un telefonino. E comunque per scrupolo controllai. Tramite una mia fonte ho scoperto che il telefonino era intestato a un’azienda che non conoscevo, la Edilgest. Poi scoprii che la Edilgest apparteneva a un imprenditore che non conoscevo, Antonio D’Adamo. Poi scoprii che D’Adamo era indagato in Mani pulite. Allora capii che il lavoro su Di Pietro doveva andare avanti”.

    “L’unica mezza verità riguarda il telefonino: ma era in uso a mia moglie , che con D’Adamo aveva dei regolari contratti di consulenza”. Di Pietro al telefono con Borrelli, 13 luglio 1993, secondo il racconto di Barbacetto-Gomez- Travaglio, in “Mani pulite”, Editori riuniti, 2002.

    Fra molti anni, il 27 giugno 2003, Roberto Chiodi si stupirà ancora della giustificazione di Di Pietro: se il telefonino era in uso alla moglie, perché Carlucci lo aveva in agenda? E si stupirà delle immediate e sdegnate smentite che riceverà il suo “dossier Di Pietro”: “Il dossier fu in edicola il 17. Ma uscì qualche anticipazione il 13. Sulla base di quelle anticipazioni, il procuratore Francesco Saverio Borrelli parlò di ‘pettegolezzi, insinuazioni e calunnie’. Ma dico, la calunnia è un reato grave. Non disse ‘diffamazioni’, disse ‘calunnie’, prima ancora di leggere l’inchiesta.
    Per dire la serenità che c’era in quei tempi”.
    Chiodi ci racconterà che il lavoro fu lungo, ma soprattutto perché dovette trovare le pezze d’appoggio. Le prove. “Il mio dossier non è mai stato querelato”, ci dirà Chiodi. Ma in quanto alle notizie, “be’, quelle le conoscevano tutti i cronisti. Molti, quantomeno. Erano cose di cui si parlava. Me le spiegarono nei dettagli colleghi che sui loro giornali non potevano sognarsi di raccontarle.
    Ho poi visto, per esempio, il gran lavoro fatto negli anni da Filippo Facci, e anche in quei mesi.
    Il suo ‘Omissis di Mani pulite’, molto bello, è stato evidentemente ispirato dalle stesse fonti cui poi mi sono rivolto anch’io”. Fra molti anni, infine, Chiodi ci dirà di avere un rimpianto: non esser
    potuto andare avanti. Fra pochi mesi, a novembre del 1993, il Sabato chiuderà, e per Chiodi comincerà un periodo di difficoltà. “Che rabbia. Penso a quando Pacini disse, senza sapere di essere intercettato, che se fosse stato in me sarebbe andato in Austria a cercare un certo conto… Ma io non avevo più un giornale per cui farlo”.

    Mattia Feltri su Il Foglio si sabato 28 giugno 2003

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    Predefinito E il Pool nazionale...

    ...Mani Pulite?

    Oggi è venerdì 2 luglio 1993, e oggi abbiamo saputo che i purificatori stanno studiando, cercano le soluzioni, intendono razionalizzare, ottimizzare. Hanno tracciato il solco, e vogliono che diventi un’autostrada scorrevole. Abbiamo ricevuto le anticipazioni del settimanale L’Espresso, che sarà in edicola lunedì 5 luglio. L’Espresso pubblicherà un documento elaborato dai tre più autorevoli pm della procura di Milano: Gherardo Colombo, Piercamillo Navigo e Antonio Di Pietro. Oggi già sappiamo che i tre stanno cercando il modo di superare i contrasti con le altre procure. Sono contrasti nati di recente, questioni di “competenza territoriale”. Per spiegare che cosa sia la competenza territoriale, è bastato ricordarci del caso di Pierfrancesco Pacini Battaglia. Ne abbiamo già parlato e ci siamo appena rinfrescati la memoria.
    Pochi mesi fa, nella primavera di quest’anno, del 1993, il sostituto procuratore romano, Vittorio Paraggio, indagando sulle ruberie della Cooperazione internazionale, ha allungato le sue mani su Pacini Battaglia. Lo stesso Pacini, naturalmente, che di questi tempi sta spiegando le tangenti dell’Eni a Di Pietro. L’1 giugno 1993, Paraggio ha mandato un fax a Di Pietro, per metterlo al corrente. Lo stesso giorno, Di Pietro ha mandato per fax a Paraggio la memoria difensiva di Pacini, memoria scritta dall’avvocato Giuseppe Lucibello, legale di Pacini l’accusato e amico di Tonino l’accusatore. Paraggio ha ricevuto da Di Pietro queste altre righe: “Ribadisco che, nei confronti del predetto Pacini, procede questo ufficio e che lo stesso sta rendendo ampia collaborazione, per cui sarebbero inopportune sovrapposizioni di indagini riguardanti la sua persona…”.
    Dunque, la competenza è di Di Pietro, che già si sta lavorando Pacini sulle tangenti, oppure di Paraggio, visto che i reati della Cooperazione sono stati commessi a Roma?

    “… pur riaffermando la tesi che, in base all’articolo 12 del codice di procedura penale, spetterebbero a Milano tutte le inchieste sul sistema delle tangenti…”.
    Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Antonio Di Pietro, dall’Espresso, 5 luglio 1993.

    Oggi, 2 luglio 1993, sappiamo già che Roma ha ceduto, e lasciato Pacini Battaglia alle cure di Di Pietro. Sappiamo anche che Pacini uscirà dall’inchiesta sulla Cooperazione, ma non è questo il punto. Il punto è che c’è un problema e che a Milano hanno riflettuto su come risolverlo.

    Un mese di intenso interventismo dei pubblici ministeri di Milano. Lo sarà anche il luglio 1994, quando alle 9,30 del giorno 14, Tonino e i suoi colleghi appariranno in televisione, in diretta sul
    Tg3, per bocciare il decreto Biondi minacciando le dimissioni
    L’Espresso ha parlato, nelle anticipazioni di oggi, di “una piattaforma programmatica per la nascita del pool nazionale Mani pulite”. Non nascerà mai. Questa specie di disegno di legge extraparlamentare pubblicato sull’Espresso, sull’Espresso si fermerà.
    E nessuno oggi ci ha trovato nulla di strano, né ci troverà nulla di strano domani.
    Forse fra qualche anno, rivedendo come vanno le cose adesso, a qualcuno verranno i brividi. Ma non soltanto ripensando al decreto Conso, con cui il governo, la scorsa primavera, intendeva depenalizzare il finanziamento illecito (non la corruzione o la concussione); il pool si ribellò e il decreto cadde. E non soltanto ripensando a quello che accadrà fra un anno, il 13 luglio 1994, quando il ministro della Giustizia del governo Berlusconi, Alfredo Biondi, presenterà un altro decreto, stavolta per restringere il ricorso alla carcerazione preventiva. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, firmerà il decreto. Il 14 luglio, alle 19,30, Di Pietro parlerà in diretta al Tg3, con tutto il pool schierato, fisicamente, al suo fianco.

    “L’odierno decreto legge a nostro giudizio non consente più di affrontare efficacemente i delitti sui cui abbiamo finora investigato. Infatti, persone raggiunte da schiaccianti prove in ordine a gravi fatti di corruzione non potranno essere associate al carcere… Abbiamo pertanto informato il procuratore della Repubblica della nostra determinazione a chiedere al più presto l’assegnazione
    ad altro e diverso incarico nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone….”
    Antonio Di Pietro – con Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo, al Tg3, la sera del 14 luglio 1994.

    Oggi, 2 luglio 1993, stiamo ripensando anche a quel decreto Biondi. Come poi sfumò, lo racconteremo. Ma sfumò. E ci sono venuti in mente, soprattutto, i mille casi di questi anni che a tutti sembrano normali, anzi giusti e utili. Uscirà un bel libro, fra cinque anni, nel 1998. Si chiamerà “Toga! Toga! Toga!”, di Giancarlo Lehner, editore Mondadori. Sarà solo una raccolta di frasi, di dichiarazioni, di proposte.
    Francesco Saverio Borrelli, settembre 1994: “Risveglio delle coscienze… E poi efficienza nella pubblica amministrazione… Trasparenza negli appalti, adeguamento alle normative europee… E poi vita impossibile per i corrotti nel futuro…”. Borrelli, marzo 1995: “Il problema non è di uscire da Tangentopoli, ma di penetrarvi fino al cuore per espugnarla, raderla al suolo, cospargervi il sale”. Borrelli, giugno 1996: “Il reato di abuso d’ufficio non può essere tolto…”.
    Colombo, maggio 1997: “Bloccate la prescrizione dei reati”. Borrelli, marzo 1993: “Riteniamo che il prevedibile risultato delle modifiche legislative approvate sarà la totale paralisi delle indagini…”. D’Ambrosio, aprile 1993: “Il Parlamento, si sa, è quello che è… l’espressione di una vecchia logica partitica”. Di Pietro, novembre 1993: “Colpi di spugna non ce ne possono essere”. Borrelli, luglio 1994, sul decreto Biondi: “Non c’erano le condizioni d’urgenza per un decreto di questo tipo”. Borrelli, febbraio 1997: “Mi auguro che la Bicamerale, prima di prendere decisioni su questa materia, voglia sentire il parere dell’Associazione nazionale magistrati”. D’Ambrosio, aprile 1997: “E’ assai singolare che, proprio mentre un sistema giudiziario comincia a funzionare, i legislatori decidano di modificarlo”.

    Mattia Feltri su Il Foglio di mercoledì 2 luglio 2003-07-02

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    Predefinito Storia del decreto Biondi, da...

    ...tutti voluto e da tutti rinnegato...per fifa.

    Oggi è lunedì 5 luglio 1993. Oggi ci siamo ridetti le cose a noi note: la gente in carcerazione preventiva finché non parla, l’autorità morale dei magistrati in grado di bloccare e indirizzare il Parlamento. Sono cose di cui discuteremo per anni. Abbiamo pensato alla fine fatta dal decreto Conso e a quella che farà il decreto Biondi, fra un anno o poco più. Abbiamo parlato dei giorni
    che andranno dal 13 al 19 luglio del 1994. Il ministro della Giustizia del governo Berlusconi, Alfredo Biondi, annuncerà le modifiche decise dal Consiglio dei ministri per rendere meno disinvolto l’uso della custodia cautelare: immediato soltanto per i reati più gravi, negli altri casi si dovranno privilegiare gli arresti domiciliari. Il 14 mattina, il decreto verrà firmato dal presidente
    della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Quel 14 luglio, sarà una bella giornata.
    Comincerà, a mezzogiorno, Francesco Saverio Borrelli: “E’ singolare che, nell’anniversario della presa della Bastiglia, si siano aperti questi squarci nelle mura di San Vittore… Si dice che il governo abbia preso questa decisione per riequilibrare la difesa rispetto all’accusa. Mi auguro che il prossimo passo non sia quello che consenta agli avvocati di incarcerare i pm… Una magistratura che evidentemente è stata troppo efficiente”.
    Poi, gli altri. Ferdinando Imposimato (Pds): “Un aiuto ai corrotti e ai tangentisti”.
    Giuseppe Ayala (Pri): “Straordinaria necessità di far uscire dal carcere chi o di non farci entrare chi?”.
    Anna Finocchiaro (Pds): “Indecenza”.
    Magistratura democratica: “La custodia cautelare sarà preclusa nei confronti di chi è indagato per concussione o corruzione, tangenti o pubbliche ruberie”.
    Giuseppe Giulietti troverà le parole magiche: “Colpo di spugna”.
    Fabio Mussi (Pds): “E’ il ‘Tutti a casa’, l’8 settembre di Tangentopoli”.
    Franco Bassanini (Pds): “Forse hanno paura che qualcuno che sta in carcere parli”.
    Diego Novelli (Rete): “E’ un decreto su misura”.
    Associazione nazionale magistrati: “Una grave lesione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”.
    I Verdi organizzeranno una manifestazione davanti a Palazzo Chigi.
    Luigi Manconi dirà: “Un’operazione grave che interferisce in maniera diretta contro l’attività giudiziaria in atto”.
    Willer Bordon (Ad): “E’ intollerabile”.
    Gianni Barbacetto, direttore di Società civile, terrà un presidio con Nando Dalla Chiesa davanti al Palazzo di giustizia di Milano.
    Sarà “colpo di spugna” anche per Rosy Bindi.
    Il gip Italo Ghitti: “Si è sottrattoal chirurgo il bisturi”.
    La Cgil: “Un provvedimento gravissimo”.
    Sergio Cofferati: “Il governo deve ravvedersi”.
    Massimo D’Alema: “E’ un’ordinanza di scarcerazione per gli imputati di Tangentopoli”. L’Associazione giornalisti giudiziari: “Col decreto, che di fatto vieta l’arresto dei responsabili di reati contro la pubblica amministrazione, il governo vuole imporre il bavaglio alla stampa”.
    .
    Si ricomincerà il giorno dopo.
    Fausto Bertinotti dirà: “Vogliono mettere fuori i responsabili della corruzione”.
    I presidenti dei guppi parlamentari dei progressisti, Cesare Salvi e Luigi Berlinguer, scenderanno in manifestazione davanti a Camera e Senato.
    Carla Fracci esprimerà “solidarietà ad Antonio Di Pietro”.
    Ventidue consiglieri comunali di Roma, tra cui gli attori Enrico Montesano e Massimo Ghini, chiederanno di essere arrestati per non “condividere lo status di liberi cittadini riconosciuto dal governo Berlusconi a corrotti e corruttori”.
    Ci sarà la sceneggiata in diretta tv di Di Pietro e degli altri sostituti, che annunceranno di voler lasciare il pool. I pm del pool Mani pulite di Genova seguiranno l’esempio, ma senza telecamere.
    Il 15 luglio 1994, saremo aggiornati ora dopo ora delle scarcerazioni.
    A Napoli un democristiano e un socialista, a Milano un Giancarlo Rossi e un Calogero Calì, indagati per tangenti.
    Umberto Bossi annuncerà che “la Lega Nord si impegnerà a modificare il decreto sulla custodia cautelare.
    I ministri della Lega hanno cercato di fare opposizione, ma le regole della maggioranza impongono certi comportamenti”.
    Alfredo Biondi dirà che i ministri della Lega erano d’accordo, e infatti il ministro dell’Interno, Bobo Maroni, aveva firmato il decreto. Maroni dirà di essere stato imbrogliato: “Avevo chiesto modifiche sostanziali, che mi erano state assicurate. Prima fra tutte l’esclusione dei reati di Tangentopoli”. Firmerà dunque un decreto senza leggerlo.

    “Il decreto riafferma la certezza del diritto”, Gianfranco Fini, segretario del Msi 14 luglio 1994.
    “Il decreto va cambiato”. Gianfranco Fini, segretario del Msi, 15 luglio 1994.

    Il 16 luglio 1994, il deputato del Msi, Maurizio Gasparri, confermerà l’impegno perché “la custodia cautelare torni a valere anche per gli imputati di concussione e corruzione”.
    Senza modifiche, dirà Maroni, mi dimetterò.
    Un gruppo di magistrati (fra cui Felice Casson, Libero Mancuso, Rosario Priore, Giovanni Salvi e Piero Vigna) scriveranno un documento per schierarsi al fianco dei colleghi milanesi.
    Quel giorno, andranno agli arresti domiciliari Duilio Poggiolini, Francesco De Lorenzo e Giulio Di Donato; il sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, dirà: “E’ stata offesa la coscienza civile di Napoli”.
    I partiti di sinistra organizzeranno manifestazioni di protesta a Roma, Milano, Firenze, Torino, Genova, Bologna. Sventoleranno manifesti con scritto “Forza ladri, tutti fuori”. Sui giornali si leggerà la notizia dell’arresto di uno spacciatore uscito dal carcere quattro ore prima per effetto del decreto. In tutto questo, il presidente Oscar Luigi Scalfaro, firmatario del decreto, deciderà di tacere. Il 17 luglio, dal Quirinale, uscirà un comunicato per smentire un articolo del Corriere della Sera in cui si racconterà di uno Scalfaro furente al telefono con Borrelli. Invece il colloquio telefonico era stato, secondo il Quirinale, “cordiale e affettuoso”.
    Il decreto sarà ritirato il 19 luglio.

    Mattia Feltri su il Foglio di sabato 5 luglio 2003

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    Predefinito Romiti e ....

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    Milano. “Ci ho riflettuto a lungo. E a distanza di dieci anni penso di poter sospettare che l’inchiesta Mani pulite non potesse essere del tutto naturale e del tutto spontanea”, dice oggi Cesare Romiti, presidente di Rcs. Dieci anni fa, nei giorni dei suicidi di Gabriele Cagliari e del suo amico Raul Gardini, era amministratore delegato della Fiat. E dieci anni fa, racconta adesso, non ebbe materialmente il tempo di riflettere sugli eventi. “Quando ripenso al 1993, ci sono tanti fatti dolorosi che mi tornano alla memoria. Però il ricordo più forte rimane quello della pesante depressione in cui cadde l’economia italiana. Il Pil risultò addirittura negativo. Tutti i miei sforzi erano concentrati nella difesa della Fiat: i consumi, e quindi per noi le vendite, erano in deciso calo. Era questo che mi preoccupava quotidianamente”.
    La crisi, dunque, e poi le inchieste a suo carico. Anche Romiti, nel 1993, dovette familiarizzare con la procura di Milano. Il 21 di aprile salì su un elicottero per raggiungere i pm Antonio Di Pietro,
    Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, e deporre spontaneamente su alcune società del gruppo. “Alcuni nostri manager erano indagati, un paio ebbero anche periodi di detenzione. Io cercavo di capire, di proteggere la Fiat. Non ebbi modo di pensare, allora, che quell’inchiesta era caratterizzata
    anche da alcune anomalie”.
    Anomalie che, nelle supposizioni di Romiti, risiedono nell’impossibilità che la rivoluzione possa essere semplicemente partita dalle mazzette di Mario Chiesa, per poi rovesciarsi progressivamente e inevitabilmente su tutto il paese.
    E dunque, dice, “secondo me una regia c’era”.
    Di chi fosse, questa regia, impossibile dirlo. Possibile, semmai, dire quale matrice avesse: “Ritengo che potesse avere una matrice politica. Le mie sono supposizioni, non certezze. Ma il risultato più evidente fu lo scompaginamento della situazione politica. E’ vero che il malcostume e i reati ci furono e furono scoperti. Ma è vero che c’era la voglia di scompaginare la situazione politica”.
    La voglia? A beneficio di chi? “Parti politiche valutarono con favore che le attenzioni della magistratura si concentrassero in particolare su certi settori politici e certi uomini. Senza magari calcolare che quell’onda avrebbe poi travolto anche loro”.
    E detto questo, non ci vuole molto a individuare chi, in definitiva, si salvò.

    Romiti crede di non dovere andare oltre.
    Si limita a dire che “i furbi erano molti. Alcuni si incaricarono di fare gli accusatori. Altri rimasero dietro le quinte per vigliaccheria o miopia. Difficile inquadrare i veri registi. E dico tutto questo facendo salva la buona fede dei magistrati. Ci mancherebbe”. E aggiunge di avere la sensazione che di Mani pulite, ancora, non si sappia tutto: “Ho proprio l’impressione di no. E quello che non sappiamo, forse non lo sapremo mai”.
    Tuttavia sono in molti a pensare che in mezzo a tanti sommersi, fra i salvati ci furono proprio i capi della Fiat. Romiti non si scompone: “Se siamo stati trattati in una maniera più blanda, non lo so. Non credo. Ma posso dire con certezza e con forza che nessuno si comportò come noi. Quando fummo coinvolti, provai un grande dispiacere. Mi informai. Parlai ai miei collaboratori. Dissi loro che erano liberi di comportarsi come credevano, ma era infinitamente meglio andare in procura e raccontare tutto. Chi altri lo fece? Ve lo dico io: nessuno. Nessuno andò dai magistrati per raccontare e spiegare. Oltretutto, si dimostrò che le nostre aziende coinvolte – tre o quattro su oltre mille – furono costrette a pagare per poter lavorare”.

    L’Italia di oggi non è migliore
    “Ci furono aberrazioni, certo. Di Gardini ero molto amico. Mi piaceva. Sono certo che non si è mai messo in tasca un soldo che non gli appartenesse. L’ho visto pochi giorni prima della sua morte. Era molto giù. Diceva di non essere in possesso delle carte con cui contava di difendersi: le aveva la famiglia Ferruzzi, con cui aveva rotto. Era demoralizzato.
    La mattina del suicidio, andai a casa sua. Vidi sua figlia, Eleonora. Mi disse: vedi, ha sempre voluto vivere al di fuori, vivere a modo suo; e così è morto. Io credo che non sopportasse quelle accuse e l’impossibilità di farvi fronte. Penso anche che i magistrati abbiano fatto un lavoro ampio ed egregio, ma che abbiano anche commesso tante ingiustizie e tante esagerazioni.
    Non è pensabile che, per liberare un campo di grano dalle cavallette, radi al suolo tutto il campo di grano. Con Gardini ci fu quantomeno un’esagerazione”.
    Ma a che portò dunque, quella inchiesta? Per Romiti portò a una “rivoluzione politica, è evidente.
    Quei partiti e quei leader non ci sono più. Poi uno si può chiedere se ne sia uscito un paese migliore. Ho dei dubbi. Rispondere non è facile”.


    Da il Foglio di lunedì 21 luglio 2003

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    Predefinito Schlesinger e....

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    Milano. Il 25 maggio del 1997, un mese e mezzo dopo le richieste di rinvio a giudizio avanzate dal pm milanese Riccardo Targetti, l’ex vicedirettore generale della Banca popolare di Milano, Roberto Solito, si impiccò.
    Quando si elencano i morti suicidi di Tangentopoli, il nome di Solito raramente salta fuori. Lui, alle prime ore di quel 25 maggio, lasciò un biglietto alla moglie e alla figlia: “Sono in cantina”. Andarono in cantina e lo trovarono morto. Lasciò anche una lettera, ma la moglie ha preferito tenerla per sé. Disse che suo marito viveva un periodo di depressione. Il caso fu dimenticato in fretta.
    Due giorni dopo, però, l’ex presidente della Bpm, Piero Schlesinger, scrisse una lettera ai giornali,
    prendendo spunto dalla morte dell’amico e definendo l’inchiesta sui falsi in bilancio della banca, “quattro anni di autentica persecuzione che un pm prevenuto ha dedicato alla banca e a me”.

    Di quel pm, Targetti, scrisse: “Di certo ha vissuto da ragazzo con comprensibile angoscia le vicende che, nel 1971, condussero i due vicepresidenti di allora (il padre ed io) ad un ben diverso destino: l’uno, io, promosso a presidente; l’altro, il padre dell’odierno pm Riccardo Targetti, escluso dal Consiglio d’amministrazione dopo ben venticinque anni di permanenza”.

    Allora, prima di allora e dopo di allora, Schlesinger si chiese quale potesse essere la serenità del pm. Per il procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, si trattava di una serenità fuori discussione.
    Il processo andò avanti. Un percorso piuttosto accidentato, e noioso da riassumere.
    Il 28 febbraio di quest’anno, il pm ha chiesto per Schlesinger quattro anni e sei mesi di reclusione. Condanne inferiori, ma non di molto, per gli altri imputati. Il 2 luglio, la sentenza: tutti assolti “perché il fatto non sussiste”.
    Dieci anni per arrivare a una sentenza simile, in primo grado.
    Oggi, Schlesinger dice: “Sono stato presidente della Bpm fino al 1994. Sono un professore universitario e un avvocato. Per dieci anni ho cercato di spiegare, da presidente di banca, da studioso e da giurista che si trattava di un’accusa senza capo né coda. Per dieci anni ho cercato di sollevare la stranezza di un magistrato che mi accusava, e che contemporaneamente era figlio di un
    uomo che perse la presidenza della banca a mio vantaggio. Non c’è stato verso.
    Quel magistrato continuava a dichiararsi sereno e a dichiarare le mie ‘sicure ed evidenti responsabilità’.
    Ora, finalmente, è finita”.

    Tutto, del resto, cominciò nel 1993, l’anno del grande terrore giudiziario. Schlesinger non vuole “accomunare la mia vicenda ad altre che non conosco a fondo. Ma certo che ci furono tragedie incomprensibili, come quella delle morti di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, che era un mio buon amico.
    Gardini avrà avuto le sue responsabilità, non voglio discuterne. Ma ho la netta sensazione che gli furono fatte pagare duramente. Ho la netta sensazione che non gli venne risparmiato nulla. Ricordo i giorni precedenti alla sua morte. Non venne fatto alcun tentativo che gli consentisse un approdo meno traumatico all’inchiesta. Si aveva l’impressione che volessero tenerlo sulla graticola, non so se fosse una dimostrazione di forza dei magistrati; forse ritenevano di dovergli far pagare un prezzo
    particolarmente caro”.

    I quattro mesi e mezzo di Cagliari
    Schlesinger dice di aver riflettuto spesso sugli avvenimenti di quel periodo. Di essersi posto molte domande: “Chi non se le è poste? Del resto quell’onda giudiziaria travolse il triangolo dominante: Craxi-Democrazia cristiana-imprenditoria di controllo.
    Certo che fa pensare. Però non sono riuscito a darmi una risposta precisa. Per essere obiettivi, quello precedente a Tangentopoli fu un periodo di scorribande incalcolabili.
    Mi riesce difficile individuare una anche generica assoluzione. Ma da lì alle enormità che abbiamo visto, c’è uno spazio incolmabile”.
    Ci si chiede, dunque, a chi abbiano giovato, quelle enormità. Perché ci furono. Chi le volle e perché non furono impedite.
    Schlesinger dice: “E’ difficile pensare razionalmente, furono fatti turbinosi, tragedie. Ma non riesco a credere ad altro che a un fiume in piena, che travolse tutto, che portò il caos. Quello che so è che le inchieste furono certamente parziali. La materia era così vasta e complessa, che l’inchiesta non poteva che essere condotta soltanto in certe direzioni. In questo modo, però, si è prodotta tanta ingiustizia. Non ci fu per nulla una distribuzione accettabile delle responsabilità.
    Una situazione tale che ci furono delle vittime e tanti profittatori. Quando ripenso ai quattro mesi e mezzo di detenzione preventiva sopportati da Cagliari, mi viene ancora male”.


    Da il Foglio di lunedì 21 luglio 2003


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    Predefinito Spazzali e...

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    Milano. Giuliano Spazzali fu l’avvocato di Sergio Cusani, il finanziere di Raul Gardini che fu arrestato il giorno stesso in cui Gardini si uccise: il 23 luglio 1993, la mattina dei funerali di Gabriele Cagliari, per di più.
    Il processo a Cusani fu quasi immediato: cominciò tre mesi dopo. Spazzali fu visto da tutta Italia in tv a duellare energicamente con Antonio Di Pietro. Quasi tutti facevano il tifo per il magistrato eroe, ma quando glielo si ricorda, Spazzali ride: “No, no, per carità, non parliamo più di Di Pietro, basta. E’ uno che si è legato troppo alla sua esistenza, al suo personaggio. E’ uno che ancora va in giro dicendo le cose di dieci anni fa, e intanto il mondo è cambiato e a lui non lo hanno detto. Mi sembra Little Tony, che ha i capelli cotonati e il giubbotto con le frange, come negli anni Sessanta. Solo che Little Tony è una simpatica figura, Di Pietro merita un controllo e magari una terapia d’urto”.

    Chiuso l’angolo della goliardia, Giuliano Spazzali riparla di quel processo, ma soprattutto di quegli anni, di quella lunga inchiesta. “Intanto io credo che non fu una rivoluzione. Fu un assestamento involontario e necessario del polo industriale-finanziario.
    Soltanto che alla magistratura, per una serie di motivi, toccò un ruolo particolare. E così quello che doveva essere un semplice assestamento, si rivelò molto più feroce di quanto non fosse necessario.
    Quei quattro giorni, dal suicidio di Cagliari a quello di Gardini, lo dimostrano. Quei quattro giorni sono il quadro tragico di una vicenda tragica”.
    Spazzali ricorda bene che cosa si diceva in procura in quel periodo: “Si parlava di rivoluzione. Si pensava di poterla fare o quantomeno di poterla gestire e indirizzare. Ci si confrontava su che fare dopo. Lo schema, nella loro testa, era questo: io supplisco alla politica, che non è più in grado di assolvere al suo ruolo; distruggo tutti i rami marci della società; sostituisco la classe dirigente infedele con una più giusta; riorganizzo lo Stato e lo restituisco al paese, finalmente purificato.
    Tutte balle! Una follia!”. Spazzali, che negli anni Settanta fu molto impegnato nei processi a carico dei terroristi rivoluzionari, nel 1993 riassaporò certi toni e certe prospettive: “Sì, i magistrati mi sembravano, in qualche modo, fare gli stessi ragionamenti delle avanguardie eversive.
    Le avanguardie delle masse che, siccome le masse erano inerti e passive, intendevano supplire in tutto e per tutto, senza limiti di tempo, finché lo Stato non fosse stato abbattuto e ricostruito. Questo la magistratura italiana, o una sua parte, dieci anni fa credeva di essere e credeva di fare.
    Oddio, per un certo periodo c’è pure riuscita. Basta pensare alle manifestazioni popolari, che furono parecchie e parecchio frequentate, davanti al palazzo di giustizia; quella gente, aveva delegato alla magistratura un potere che la magistratura non ha, e non deve avere. Una vera pazzia.

    Il più clamoroso errore che mai sia stato pensato. Che cosa resta di tutto ciò? Non c’è più niente”. Ancora oggi, Spazzali sostiene – soprattutto ripensando a quel processo, quello che ebbe per protagonisti anche Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Giorgio La Malfa – che la magistratura non seppe cogliere il nodo fondamentale: “E cioè che esisteva un sistema secondo cui i partiti si mantenevano attraverso i finanziamenti occulti delle imprese, e che le imprese si mantenevano attraverso gli appalti forniti dalla politica. Era un sistema. Sbagliato, illegale, ma un sistema. Che valeva per partiti di destra, di centro e di sinistra.
    E di sinistra.
    Quel sistema era andato in crisi perché le imprese erano costrette, ora, a confrontarsi su piani internazionali. Allora non si diceva ‘globalizzazione’, ma il succo era quello. Una parte cede, e il sistema va in crisi.
    Ma poi non ci voleva molto: di questo sistema, Craxi aveva parlato in Parlamento nel luglio del 1992. Ma nessuno raccolse. E Craxi venne a ripetere le stesse cose in aula (il 17 dicembre 1993, ndr). Non ci fu verso”.
    L’inchiesta Mani pulite, dunque, si mosse attraverso questo schema: “Intanto la gente pensava che il sistema fosse un altro, e cioè il sistema secondo cui la Democrazia cristiana e il Partito socialista, e specialmente nella persona di Craxi, avessero guadagnato e mantenuto il potere – a danno delle opposizioni – semplicemente attraverso odiose ruberie. E ci ha creduto a lungo. E qualcuno ci crede ancora.
    Ma quel che è peggio, è che gli stessi magistrati non avevano altro obiettivo che individuare e colpire quei settori malati che avevano provocato il declino del paese, concentrandosi, dunque, soltanto sui settori malati dei partiti di governo”. E dunque alcuni partiti vennero salvati; o meglio: non si riteneva utile colpire quei partiti.

    Il fascicolo virtuale
    Spazzali sfoglia il giornale e si imbatte nell’ultima polemica, quella sul fascicolo 9520/95, quello lungamente e vanamente reclamato dai difensori di Cesare Previti.
    Spazzali ride di nuovo: “Un vizio antico, quello di aprire un fascicolo e infilarci qualsiasi cosa. Ma ve lo ricordate il famoso Fascicolo unico o Fascicolo virtuale? Il mitico fascicolo 8655/92, che fu inaugurato con l’arresto di Mario Chiesa, e che per quasi tre anni contenne qualsiasi atto rientrasse nell’ambito di Mani pulite?
    Esattamente la stessa cosa. Lì ci finiva di tutto. In teoria, lì ci si poteva nascondere qualsiasi cosa. Non si trova un verbale? Per forza, è nel fascicolo 8655/92. A un certo punto, quel fascicolo occupava, da solo, una intera stanza della procura. Una quantità impressionante di faldoni, impilati per tutte le quattro pareti della stanza, dal pavimento al soffitto.
    Un vizio che la procura di Milano non ha perso, vedo. Anche io feci la mia brava denuncia, ma non servì proprio a niente”.

    Da il Foglio di lunedì 21 luglio 2003

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    Predefinito Pillitteri e....

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    Milano. Paolo Pillitteri, nel 1993, era un deputato del Partito socialista e, come il Partito socialista, era travolto dalle accuse e dalle indagini. Era amico di Raul Gardini, ma soprattutto di Gabriele Cagliari. Oggi ricorda di aver capito, in quei giorni, “che tutto era crollato, tutto finito. La partita, persa definitivamente. Non c’era più possibilità di venirne fuori”. Ci sono delle immagini che sono rimaste impresse, a Pillitteri.
    Un’immagine è quella del funerale di Cagliari, la mattina del 23 luglio, in piazza San Babila a Milano. Da pochi minuti, Gardini si era sparato nella casa di piazza Belgioioso, qualche centinaio di metri da lì.
    Pillitteri uscì dalla chiesa e vide Sergio Cusani, finanziere e amico di Gardini, appoggiato a una parete. “Era sconsolato, abbattutto. Mi sono avvicinato, e lui mi ha detto qualcosa come ‘sto aspettando il mio turno’, o addirittura ‘sto aspettando che vengano ad arrestarmi’. Stavamo dando l’addio a Cagliari, ci hanno detto che Gardini si era ucciso, Cusani aspettava di finire in carcere.

    Quei tre, quattro giorni furono la sintesi sanguinosa e sanguinaria di un triennio che è stato giustamente chiamato del Grande Terrore. E quella mattina fu da incubo.
    L’atmosfera, oltre che funerea, era apocalittica. Si capiva che si era all’apice, e che non sarebbe tutto finito lì”. Pillitteri, quella mattina, non andò in piazza Belgioioso.
    Rincasò. “Non avevo più la forza”. Pillitteri dice che avrebbe voluto andare in carcere a trovare Cagliari, ma Cagliari non voleva. “Avevamo lo stesso avvocato, Vittorio D’Aiello. Gli raccomandavo di mandare i miei saluti a Gabriele. Tutto lì. Non potevo fare di più. Fu un’infamia, questa che fecero a Gabriele. Aveva quasi settant’anni.
    Ma come si fa a tenerlo in galera quattro mesi e mezzo? Già tenerlo in galera senza condanna è uno schifo, nella città che fu di Cesare Beccaria. Ma tenerlo in galera perché non parlava, è un’infamia, per quanto ne dicessero i sostenitori della nouvelle vogue manettara. Oggi non succede più, per fortuna. Perché allora fu permesso?”.

    La mattina del 24, la Repubblica titolava “Sangue sul regime”. Pillitteri si altera ancora oggi, se ci ripensa: “Volevo anche chiamare Scalfari, ma per fortuna lasciai perdere. Sangue sul regime? Ma che titolo è? Veniva tutto ribaltato. Ma quale regime? L’unico regime che c’era allora era il regime delle manette. In Parlamento c’era il panico. Non c’era dichiarazione di politico che non fosse drammaticamente condizionata dalla paura dei magistrati e dal desiderio di compiacere le piazze affamate. E quelli titolavano ‘Sangue sul regime’.
    Mi pareva di vivere in un mondo tutto sottosopra.
    C’era Miglio che si rallegrava dei morti, pareva che per stare bene dovesse bersi il suo bicchiere di sangue quotidiano. E dire che l’avevo conosciuto come mite consulente di Cefis proprio in Montedison. Tutto da ridere. Insomma, ci rido poco anche adesso”.

    Pillitteri ritrovò Bruna Cagliari, la moglie di Gabriele, pochi mesi dopo, in una clinica lombarda. “Io ero ricoverato perché avevo il cuore malridotto. Lei fu ricoverata per un grave stato di depressione. Non ce la faceva più a camminare, un fantasma. Però la vidi imponente, con le spalle dritte, orgogliosa come sempre. Chiese di poter sedere vicino a me, a pranzo. Non è che avessimo molta voglia di parlare di quello che era successo, ma ogni tanto il discorso saltava fuori. Aveva coraggio, ma non riusciva a rassegnarsi. Era stata anche lei socialista, battagliera, femminista. E vedere tutto crollare così la rendeva inconsolabile”.
    Dice Pillitteri che tutto fu reso particolarmente insopportabile per il teatrino in cui quei drammi si consumarono.
    Tutto il contorno da tragedia all’italiana.
    “Mi spiego. Una mattina sono in tribunale con Carlo Tognoli. Arriva quello del Tg4, Paolo Brosio, e inverte i nostri nomi. Ci presenta alle telecamere come Carlo Pillitteri e Paolo Tognoli. E va beh, fin lì passi. Poi si avvicina a Bruna Cagliari e le dice: ‘Lei è la vedova Calvi?’… Ma in quel periodo andava tutto bene, anche fare le scenette al telegiornale”.

    Chi si pappò tutto?
    Quando si parla di Eni, di Cagliari, di Gardini, di Sergio Castellari, si sente sempre un po’ il sapore del complotto, del mistero, delle morti strane. Esce sempre la domanda: “Ma chi ci ha guadagnato?”. Pillitteri ci prova, con il suo piglio guascone:
    “Chi ci ha guadagnato? Ma i nostri amici poteri forti, no? Chi volete che ci abbia guadagnato?
    Si sono pappati tutto loro. Dov’è la chimica, oggi? Chi se l’è pappata? I poteri forti, chi sennò? Poi, però, la nemesi aspetta dietro l’angolo anche i poteri, per quanto forti siano. Magari adesso stanno affogando anche loro”. Possibile che a dieci anni di distanza non ci si riesca ancora a parlare chiaramente? Possibile che ci si debba sempre nascondere dietro il non detto, il sottinteso. Quando qualcuno dirà la sua senza accontentarsi di un “lasciamo perdere, a che serve ora?”.
    Pillitteri ridacchia: “Ma certo che si può parlare. Certo che si può. Sono trascorsi dieci anni. Era già chiaro allora, adesso lo è ancora di più. Anche il ruolo dei giornali, che non si posero un dubbio, allora, sulla bontà della Grande Inchiesta. Ma insomma, chi si è salvato?
    Eh? A Milano quelli che si appoggiavano al Corriere della Sera, a Torino quelli che si appoggiavano alla Stampa, a Roma quelli che si appoggiavano al gruppo Repubblica- L’Espresso. Io me lo ricordo Cesare Romiti a Santa Margherita dire ai giovani imprenditori che era tutto uno schifo, una vergogna, che per fortuna lui non aveva mai fatto niente del genere. Il giorno dopo gliene hanno arrestati quattro di manager.
    E Romiti? ‘Ah! Infedeli! Manager infedeli!’. Poi è dovuto andare in procura con le sue quattro paginette, e finita lì.
    Salvo.
    E i giudici eroi? ‘Coraggioso! Coraggioso Romiti…’. Ma per piacere”.

    Da il Foglio di lunedì 21 luglio 2003

    saluti

 

 
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