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Discussione: Insorgenti a Sud!!!

  1. #1
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    Predefinito Insorgenti a Sud!!!

    pagine dedicate alla storia del sud....



    per risorgere bisogna insorgere

  2. #2
    cattolico refrattario
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    Predefinito

    1799, insorgenze negli abruzzi contro i francesi
    ( dal PeriodicoDueSicilie 09/1999)

    Sta per finire l’anno 1999, l’anno in cui sono stati spesi (e … incassati, ovviamente, da quelli del "giro") molti miliardi per festeggiare il secondo centenario dell’avvento dell’effimera "repubblica partenopea" e dell’invasione francese. Festeggiamenti che ci fanno riflettere su come questa gente, vero cancro sociale, intende il mondo, cioè alla rovescia: gli invasori diventano "liberatori", i traditori diventano eroi, i ladrocini diventano finanziamento alle truppe "liberatrici" e gli assassini, gli stupri ed ogni genere di violenza diventano "atti liberatori". Il 1799 fu, invece, un anno tristissimo, non solo per l’Abruzzo, ma per tutto il centro-meridione d’Italia. Ancora piú triste perché questa mala pianta, dopo duecento anni, non è stata ancora estirpata. Per tali motivi, ancora una volta, mediante le preziose ricerche dell’autore di questo inserto, LUIGI TORRES, vogliamo ricordare quegli avvenimenti, che furono l’inizio di altri ben piú gravi, che culminarono nel 1860, quando perdemmo la nostra indipendenza e fummo trasformati in una ormai silente colonia di quello che oggi è chiamato "triangolo industriale".

    Altra nota interessante è, inoltre, la conferma del tradizionale sistema di difesa attuato nelle Due Sicilie, cioè quello dell’organizzazione spontanea delle "masse" dei cittadini in caso d’invasione da parte di truppe nemiche, fatto che dimostra la malafede degli attuali libri scolastici sul cosiddetto "brigantaggio", che nel 1860 (poiché riguardava la conquista delle Due Sicilie) veniva chiamato tale, allo stesso modo degli invasori francesi, mentre le insurrezioni popolari contro le truppe tedesche avvenute negli anni 1944 – 45 venivano chiamate "resistenza".

    Come sempre la storia "ufficiale" è quella scritta dai vincitori, ma … "adda passà sta nuttata". (a.p.)

    I ladroni e assassini francesi invadono gli Abruzzi

    A contrastare l’invasione si svilupparono movimenti insorgenti antifrancesi, formati per la prima volta da ingenti masse popolari, a reclutamento volontario regionale. Non poteva mancare perciò, su tali eventi, un momento di riflessione per giustificare le legittime reazioni del popolo meridionale ed abruzzese in particolare, prime di una lunga serie di insorgenze popolari contro i molti tentativi di occupazioni e aggressioni del nostro patrio suolo. Le truppe di Championnet dilagano in Italia, occupando città e castelli, travolgendo tutto con incendi, depredazioni e morti. I "frutti" dello sconvolgimento erano evidenti su tutte le terre che i francesi andavano occupando e che consistevano, in Abruzzo e altrove, nello spogliare di denaro l’erario, d’armi le armerie, i granai delle vettovaglie, e nel vestire, pascere, alloggiare e pagare i soldati francesi.

    La conferma ce la dà lo storico B. Giardetti (Memoria su Matteo Manodoro, generale dei briganti) : i francesi "… facevano la guerra vivendo alle spalle dei popoli conquistati, requisendo denaro, viveri e quant‘altro fosse loro necessario. E non solo detraevano i raccolti e il bestiame dalle campagne, ma doveva essere fornito loro anche il vestiario e le calzature".

    Ampia conferma dei tanti significativi episodi ladreschi compiuti dagli invasori è possibile attingerla dal libro di Coppa Zuccari, dal quale si va ad estrapolare qualche significativo episodio. "In una situazione veramente gravosa erasi trovato il Duhesme nel momento della marcia da Chieti a Sulmona: quasi tutti gli uomini della sua Divisione erano sforniti di scarpe." Il generale Paolo Thiébault, capo di S.M. e poi comandante di una Brigata del Duhesme, escogita subito il rimedio d’inviare commissari per tutte le case dei Comuni attraversati "… cominciando dalle piú agiate, ma senza eccezione di classe e d‘impiego", fintantoché non si riesce a recuperare, in soli cinque giorni, diecimila paia di scarpe con cui vestire i suoi soldati, "denudando nei piedi" la povera gente. Cosicché, in soli cinque giorni, le truppe con le quali operavano i generali Rusca e Monnier vengono calzate, anticipando cosí la marcia.

    Il gen. Filippo Guglielmo Duhesme in queste attività supera tutti, perché, ovunque è presente, sotto la parvenza di una legittima perquisizione, egli taglieggia, ruba, sequestra denaro e oggetti preziosi alle popolazioni sottomesse, in nome di una sua fantasiosa pubblica necessità. Oltre all’episodio della requisizione delle scarpe, il Duhesme è rimasto in triste memoria presso le genti abruzzesi per altri analoghi episodi, riportati sempre dal Thiébault nel suo "Diario". Si narra che, dopo la resa di Pescara, il Duhesme, prima di lasciare il suo quartier generale di Moscufo, avesse impartito istruzioni al suo staff di scegliere dodici ufficiali "intelligenti ed onesti" - si noti bene la precisazione "intelligenti ed onesti" - da mandare a riscuotere presso ogni Comune conquistato cinquecentomila franchi con la meschina giustificazione che "lo stipendio è arretrato e mancano i fondi a varii esercizi; io ne ho bisogno pel mio spionaggio. Inoltre ho un rango e una famiglia che mi costano duecentomila franchi". Al che Thiébault, con i modi garbati, gli risponde che il denaro sarebbe stato reperito, ma per giusta causa e giammai per le finalità private da lui esposte, aggiungendo: "Dove volete che io prenda ufficiali degni di una tal fiducia? Come impedire che essi facciano per loro stessi quello che voi volete fare per voi stesso? Come impedire che, seguendo il vostro esempio, altri capi non s‘aggiudicheranno simili gratificazioni? Qualunque cosa noi tentiamo, questi ufficiali faranno di tutto per esigere il doppio della somma che dichiareranno; per mancanza di tempo ricorreranno alle misure spicce piú odiose, commetteranno ogni sorta di esazioni, finiranno per fare ribellare il paese e macchieranno cosí in mille guise il vostro nome, che essi copriranno d‘infamia in questo modo ...". Le parole forbite e moderate del Thiébault a nulla valgono, tant’è che il Duhesme, dopo averlo ascoltato, in tutta risposta mette in libertà il suo subordinato con un ordine perentorio dando ad intendere che gli andava tutto bene quello che gli aveva riferito, ma di darsi comunque da fare per trovare un mezzo migliore di quello proposto, purché provvedesse a reperire il denaro richiesto: "… non posso darvi che due ore di tempo".

    L’inizio delle insorgenze

    Perciò le masse si armano e, in nome del Re, della religione e della Patria, a far data dal 15 dicembre 1798 danno vita ad un movimento "insorgente antigiacobino", iniziato con ribellioni spontanee all’invasore, che si propagheranno come rivolta nazionale sostenuta dal clero, dalla borghesia e dalla nobiltà. Il gen. Lemoine, sconfitte le truppe del gen. Sanfilippo presso Terni, procede verso l’Abruzzo, dalla parte di Cittaducale, senza incontrare alcuna resistenza; vi fa ingresso il giorno dell’Immacolata. La notizia, divulgata con apposito manifesto del Re, induce il Camerlengo dell’Aquila Giovanni Pica a indire pubblica riunione nella Cattedrale di S. Massimo, per incitare la popolazione ad armarsi ed accorrere verso le gole di Antrodoco per ostacolare l’avanzata del nemico prima che questo fosse riuscito a sorpassare i confini abruzzesi. L’appello è accolto benevolmente da molti giovani che, armatisi, accorrono verso Antrodoco, ma a causa della loro inesperienza combattiva, al semplice impatto con le agguerrite truppe d’oltralpe, rimangono immantinentemente sconfitti. Umiliati e delusi per il tragico epilogo, quegli avventurosi volontari si danno alla macchia per poi far rientro clandestino ai loro paesi. Nonostante i reiterati tentativi di resistenza, il 16 dicembre il gen. Lemoine fa il suo ingresso in L’Aquila, che conquista facilmente col ferro e col fuoco, strada per strada, casa per casa. "Generale inesperto" – lo definisce Thiébault nelle sue "Memorie" - "aveva commesso numerosi errori, i suoi maggiori successi furono dovuti all‘eroismo delle sue truppe, col coraggio indicibile del Gen. Point ..." che, come si andrà a raccontare fra poco, pagherà il suo ardore con la vita nell’attacco di Popoli.

    Il giorno dopo i francesi conquistano il Castello. Prontamente provvedono alla soppressione del Magistrato cittadino e, in sua vece, nominano una Commissione amministrativa provvisoria, composta dai collaborazionisti Alfonso Micheletti, Vittorio Ciampella, Alessandro Colucci, Gennaro Mari, Michele Rotondo e Carlo Leoni. Tale commissione sarà sostituita nel febbraio 1799 da una "Municipalità", piú stabile, composta da Giuseppe Picella, Luigi Ienca, Giuseppe Fiorilli e Bernardino Muzii, presieduta da Francesco Guelfi.

    Il 19 dicembre il gen. Lacombe emette un "proclama", tendente a placare gli animi dei cittadini Aquilani, addossando la colpa dei funesti avvenimenti esclusivamente al comandante e ai magistrati borbonici "...tanto vili quanto prima erano stati insolenti". Poi aggiunge: "io ho impedito il disordine per quanto mi è stato possibile...", cui fa seguire l’invito:

    "Abitanti intimoriti ritornate alle vostre Case; Mercanti riaprite i vostri Magazzini: Artisti restituitevi al lavoro e voi utili Agricoltori riprendete i vostri Aratri e le vostre nuove fatiche vi renderanno quel frutto dai terreni negletti e calpestati pel solo vostro colpevole errore. Deponete le armi e la tranquillità rinascerà nelle vostre fertili Contrade: non ascoltate piú le voci di chi vi seduce e vi inganna, la vostra Religione, i vostri Altari, le vostre Persone, le vostre Proprietà saranno rispettate: io ne impegno la mia parola d‘onore. Nell‘abbandonare i vostri Lari, voi esponete i vostri beni, mentre li salvate al contrario col rimanervi pacificamente. Oggi ancora il paese conquistato di Arischia ha sonato le campane a martello all‘avvicinarsi di alcuni francesi incaricati dell‘approvvigionamento dell‘armata; ed ha fatto fuoco contro di essi. Io vi dichiaro che se mai simili eccessi verranno altra volta commessi io non ascolterò piú che la giusta indignazione che devono inspirare, e che vendicherò col ferro e col fuoco gli oltraggi fatti ai Soldati Francesi" (sembra di leggere il bando del famigerato Pinelli, n.d.r.).

    Questo "bando di guerra" viene fatto pervenire al Duhesme, avvisandolo dei suoi movimenti verso Sulmona. Il messaggio viene ricevuto, a Tocco da Casauria, dalcapitano Girad, della Brigata Monnier, che provvede di conseguenza al successivo inoltro. Sulla base del dettato del "proclama", il Gen. Duhesme ha cosí il permesso di adeguare il dispositivo offensivo nel modo piú conveniente.

    Gli invasori francesi distruggono e rubano

    Il gen Lemoine, lasciato un consistente presidio in L’Aquila, procede verso il Centro Abruzzo per portarsi a Popoli, ove l’attendeva il gen. Duhesme, che aveva intanto invaso la Regione dalla parte del Tronto. Superate le varie resistenze opposte all’avanzata, il 24 dicembre le truppe francesi occupano Popoli che conquisteranno soltanto cinque giorni dopo. Entrambe le divisioni, cosí riunite, procedono verso la Valle Peligna e l’Alto Sangro, per portarsi a Capua, secondo il programmato piano d’invasione. Il 23 cade la Fortezza di Pescara. La cittadina della Valle Peligna piú seriamente provata dal vandalismo dei francesi del gen. Lemoine fu, come si è accennato, Popoli.

    Le truppe d’oltralpe, nel dicembre 1798, dopo aver saccheggiato L’Aquila (16 dicembre) e discese le svolte popolesi (oggi meglio conosciute per l'annuale cronoscalata automobilistica di ferragosto), la mettono a ferro e a fuoco. Il danno provocato in quelle giornate è ingente: solo i danni materiali ammontano a duecentomila ducati, "… un danno insopportabile e dissanguatore", senza considerare il bilancio dei caduti, che, come di consueto, non costituiscono cifra economicamente computabile. Al sopraggiungere delle truppe francesi, la popolazione peligna reagisce con diffidenza, con ostilità e, in diversi casi, analogamente ad altre città italiane, con rivolte.

    Per Popoli stava per sopraggiungere il periodo piú freddo e oscuro della sua storia. Le truppe di occupazione di Lemoine si rivelano oltremodo violente e spietate. Per ridurre gli effetti devastanti dell’occupazione militare, vengono loro offerti trattamenti di tutto rispetto, ma al cadere dei primi morti, esse reagiscono in modo violento e sproporzionato. Delle turpi violenze usate verso la cittadina di Popoli, ci serviamo di due fonti documentarie: una preminentemente storica, l’altra tratta dagli atti notarili dell’epoca.

    Il documento CCCLXX, raccolto da Coppa-Zuccari in Popoli, presso l’archivio privato della famiglia Tesone, in merito alla presa di Popoli, cosí riferisce: "… è facile immaginare lo sgomento, la paura e la disperazione dei cittadini quando gli stranieri, con orribile fracasso, irruppero nell‘abitato. I difensori fuggirono e i francesi diluviarono nella case, ed essendo affamati, molli d‘acqua e intirizziti dal freddo, vi fecero terribili cose. In questo mezzo vennero in Popoli le Colonne condotte da Monnier e Duhesme e crebbero i gridi e i tumulti, i danni dei cittadini e molti stettero in grave pericolo di vita" (Coppa-Zuccari, L’invasione francese negli Abruzzi, 1798 – 1810, L’Aquila 1993). Ecco il passo specifico dell’entrata dei francesi in Popoli, ripreso dalla raccolta degli atti notarili del Notaio Michele Antonio Carosi, conservati nell’Archivio di Stato di Sulmona:

    "… Il giorno memorabile de‘ ventiquattro del mese di dicembre del caduto anno millesettecentonovant’otto, vigilia di Natale, fu questa miseranda, disgraziata Terra sopraffatta ed invasata dalle Nemiche Truppe Francesi ch‘entrarono come cani arrabbiati, e tigri stizzite, ed inferocite, e posero a fuoco ed a sacco tutto il paese senza eccezione, e senza rispetto (neanche) alle chiese … quel saccheggio durò cinque giorni e cinque notti … fra l‘altro (venne saccheggiata anche) l‘Osteria Ducale, ora confiscata dalla Maestà del Nostro Sovrano D. Ferdinando IV, che Iddio sempre Feliciti, che dopo essere stata saccheggiata in tutte le parti, bruciavano anche tutte le porte … al numero di sette, un grosso stipone con pancone ch‘esiste nella cucina e tutte le tavole da mangiare, tanto da ridurla a una spelonca".

    Altrettanto accadeva in casa di Don Vincenzo De Vera, dopo che con la famiglia era riuscito a mettersi in salvo, alla notizia dell’infuriare degli animaleschi invasori d’oltralpe. Questi ultimi, infatti, occupano militarmente la casa trasformandola in loro quartiere e dopo averla utilizzata, rubano e fracassano i mobili e gli arredi, tanto quelli di pregio che quelli usuali, consumando tutte le provviste alimentari immagazzinate. Nell’abbandonare la casa, lasciano aperte le botti di vino, danno da mangiare ai loro cavalli le provviste di grano, e, come se non bastasse tutto quello scempio, danno alle fiamme gli infissi e i mobili ingombranti che non erano riusciti a trasportare. (V. Moscardi, L’invasione francese nell’Abruzzo aquilano, Polla, 1998)

    La coraggiosissima reazione abruzzese

    In quel giorno rimasto memorabile, una forte tormenta di neve e ghiaccio avvolge tutta la valle. Quattro donne, fuggite nella campagna circostante per evitare il fuoco delle armi francesi, vanno incontro a morte ben piú atroce: l’indomani mattina saranno ritrovate assiderate dal gelo. La reazione dei Popolesi diventa decisa, sostenuta, grazie ad uno sparuto gruppo di audaci soldati napoletani, i quali riescono ad incitare tutta la popolazione e ad opporsi alla furia devastatrice degli uomini-belva del gen. Lemoine. Il popolese Pietro Rico, giovane e coraggioso, di umili origini, appostato tra le rovine fumanti del Lanificio Cantelmo, con un sol colpo di archibugio riesce ad abbattere il gen. Point. Oltre al Point, al Lemoine Popoli costa la perdita di ben trecento uomini. Allora la battaglia divampa in tutta la sua crudezza da parte degli assalitori, inviperiti per l’uccisione del loro comandante, con intensità crescente. Al frastuono delle armi da fuoco, fanno eco i lenti rintocchi delle campane mezzane di tutte le chiese e, in particolare, di quella grande della Chiesa di S. Lorenzo, posta nella parte alta del paese, per riunire i cittadini a consiglio e gli uominivalidi per l’approntamento alla difesa.

    Quella giornata, iniziata all’insegna della preparazione della venuta del Salvatore, portatore di pace e di amore, si chiude con un triste bilancio di morte. Da ambo le parti in lotta le perdite sono ingenti. I soldati dell’esercito regolare napoletano, che per primi avevano organizzato la resistenza armata, vistisi ormai perduti, cercano la salvezza dandosi alla fuga verso sud, per ricongiungersi all’esercito borbonico ormai in rotta. Ed è la tragedia!

    "I cittadini furono derubati, percossi, feriti – rievoca lo storico popolese Di Donato – molti passati a fil di spada. Ottocento soldati ebbero il permesso del casso e del fuoco, durato sei (cinque) giorni. Furono depredate case, chiese, abitazioni private. Incendiati i conventi. Fu rapita anche la grande urna d‘argento, tempestata di pietre preziose, di S. Bonifacio. Pagò anche il protettore la parte sua. Vennero incendiate le due Taverne e la casa comunale, che perse il suo archivio. Ma si continuò la lotta sporadica per le strade… Una donna uccise un capitano francese con una pietra e venne messa al muro ...".

    Quelle di Popoli sono ricordate come le festività natalizie piú gelide e squallide che essa ricordi in tutta la sua storia. E, dopo Popoli, è la volta dei restanti comuni della valle. (Di Donato, Popoli e i Popolesi, Popoli, 1976). Leggiamo, in tal contesto, un altro brano della cronaca, tratta anch’essa dagli atti notarili del Dott. Perrotti:

    "...essendo nel giorno 5 gennaio del corrente anno, venuta in questa città la seconda colonna delle truppe francesi, che avea giorni prima invaso l‘Abruzzo; siccome da vari cittadini insieme con molti Introdacquesi si fece fronte a detta truppa, e non solo restarono in detta città morti molti francesi, ma restò anche ferita in essa il gen. Duhesme, che era Capo di detta colonna; cosí detta truppa saccheggiò in detto giorno varie Chiese, case e botteghe di essa Città. Essi costituiti De Felicis Trippitella (Luigi), Pansa (Panfiloantonio) e d‘Alessandro (Loreto) attestano inoltre, che tra le botteghe saccheggiate vi fu quella di scarperia tenuta dai fratelli De Crescentis della Terra di Scanno … E siccome nel susseguente giorno di lunedí sette di detto mese di gennaio esso D. Vincenzo De Felicis vedendo non intieramente saccheggiata la bottega predetta, stimò di togliere la roba rimastavi, essi De Crescentis di lui cognati, liberandola da altro saccheggio che poteva tenersi, motivocché tuttavia dimorava in essa Città detta truppa francese; cosí per non trasportare molto lontano detta roba consistente in cuoi e scarpe, pensò il medesimo far riportare tutto nella bottega ossia nell‘offizio della Regia Posta di questa stessa città, mentre detto offizio si trova pochi passi distante da detta bottega di scarperia".

    Ma i danni cagionati dai francesi in L’Aquila e Popoli non rimangono fatti isolati. Altrettanto si verificava in tutti i paesi della Marsica: da Collarmele ad Avezzano, da Capistrello a Celano, a Cappelle e poi a Carapelle, a Barisciano, tanto a S. Demetrio che a Capestrano e via via in tutti i luoghi attraversati dalla loro criminale avanzata.

    I francesi si dirigono verso Napoli

    Alla fine di dicembre, il Duhesme riceve ordini di lasciare in Abruzzo le guarnigioni necessarie a mantenere l’ordine pubblico e di riunirsi con le restanti forze a Sulmona con il gen. Lemoine per poi muovere congiuntamente verso Capua. In esecuzione di tali ordini, il gen. Duhesme divise le forze in tre colonne, rispettivamente al comando dei generali Rusca, Monnier e Thiébault, prescrivendo alle prime due di trovarsi riunite entro il 15 gennaio a Sulmona, dove anch’egli si sarebbe fatto trovare. Lungo la strada, la colonna "Rusca" viene attaccata da una banda di realisti comandata dal pratolano Sante Rossi, che riesce a ritardare la marcia di ventiquattrore. Il Rusca, di rimessa, incita i suoi a vendicare il gesto "attaccando due villaggi alla baionetta" all’incrocio di Pratola – Corfinio (allora denominato ancora Pèntima) - Roccacasale.

    Un atto del Notar De Vincentis Giovanni Stefano (29.12.1799) cosí attesta:

    "Essendo stata la truppa francese attaccata il 24.12.1798 dalle Armate del Sovrano a Popoli, il Rev. Don Gennaro Santoro di Pratola, con circa 70 e piú persone venuto, raggiunge le vicinanze di Popoli e proprio sotto Terenziano dovette ritirarsi anche perché la truppa reale si ritrova. Il Sacerdote recuperò un cannone lasciato dai reali che fu usato contro i francesi in seguito ad attacchi delle masse di Pratola e del Gen. Pronio (…). Detto Sacerdote riforniva tutti di armi e munizioni, non curante degli ordini del generale francese e fu costretto ad andare fuggiasco. Nonostante fosse invitato a rifornire di vettovaglie e di altri generi le truppe francesi, si rifiutò sempre (…). Di nuovo con il Gen. Pronio attaccò i francesi sul ponte Pentima. I francesi poi saccheggiarono la casa del prete e per sfuggire ad essi questi abbandonò tutto per un periodo di mesi due" (Archivio di Stato, Sez. di Sulmona).

    L’azione antifrancese messa in atto dalla banda partigiana realista inizia dall’alto del bosco circostante l’attuale diruto Complesso Chiesa-Convento di S. Terenziano, ubicato in posizione dominante sulla sottostante valle (a prima vista sembra piú una casa fortificata o una torre di avvistamento-castello) dove si era appostata su una collinetta, tra la fitta vegetazione, che domina la strada Popoli – Sulmona. Da lí i realisti fanno rovinare a valle una nutrita sassaiola, accompagnandosi con i pochi fucili a disposizione, uccidendo un capitano francese col suo cavallo; quell’incidente innescava ancora una volta la pronta reazione della colonna francese del Rusca persaccheggiare la cittadina di Roccacasale e procedendo ad alcune fucilazioni.

    Pronio respinge i francesi a Roccacasale

    Nel castello di Roccacasale abitavano nel periodo considerato il barone Giuseppe Maria De Sanctis, di anni 69, figlio primogenito di Giambattista, figlio di Francescantonio, secondogenito, la moglie Donna Giacinta, il fratello Diamante, i servi Saturnino Trotta, di anni 28 e Maria Anna. Il barone Giuseppe Maria, dopo la tremenda sconfitta subita, stava appunto rientrando coi suoi cavalieri, quando giunto a Popoli, veniva avvicinato dal capomassa Giuseppe Pronio, con circa settecento uomini racimolati alla men peggio nei paesi della vallata, che, in nome del Re, gli offre il comando della sua banda, posta a difesa della Gola d’Intramonti (il passo a monte dell’abitato di Popoli), ultimo baluardo contro l’avanzata francese verso la capitale Napoli. La resistenza che i francesi incontrano in quella località dura cinque giorni, al termine dei quali, il 14 gennaio 1799, col sopraggiungere dei rinforzi degli uomini del gen. Duhesme, gli invasori riescono a sbaragliare le forze condotte dal De Sanctis e dal Pronio, purtroppo male addestrate, poco armate e scarsamente organizzate. Il giorno dopo le truppe francesi irrompono nella valle ed assaltano il Castello menzionato, a difesa del quale si trovano, al momento, il capitano Giambattista De Sanctis e suo fratello Pietro con le rispettive famiglie e i tre figli di Giambattista. Per tre giorni i francesi combattono accanitamente, ma attaccati di fronte e alle spalle, con frequenti imboscate, da gruppi di artiglieri ritiratisi dalla difesa di Popoli, vengono respinti con gravi perdite e costretti a ritirarsi a Pescara. Pietro, durante quel combattimento, postosi a difesa della torre, perde la vita.

    "Il 5 gennaio 1799, il giorno di sabato e propriamente alla vigilia dell‘Epifania, furono uccisi dai Galli – con nostra rabbia e paura per cui fummo costretti a prendere la fuga sui monti e per questo siamo rimasti incolumi – i seguenti uomini: - Reverendo Don Donato Taddei, curato, 77 anni; Sante Colarocco, marito di Di Marco Domenica, di Alessio, 60 anni circa; Donantonio Colarocco, marito di Sclocco Apollonia, 44 anni; Crescenzo d‘Eliseo, marito di Manini Rosa, 38 anni; Francesco Anzellotti di Donantonio, 21 anni; Giovanni Battista di Giambattista, di anni 70 e sua moglie Caterina Silla, anni 60; Rocco Marotta, 72 anni; Felice Amabile, figlia di Rocco, marito di Anzelotti Palma, di Bernardino, 30 anni; Valentino Marotta, 24 anni; Angelo Sclocco, marito di D‘Ascanio Angela, figlia di Domenico, 40 anni; Matteo D‘Eliseo, 24 anni; Andrea Casasanta, 'combustus fuit' (fu trovato bruciato), 79 anni; Giuseppe Di Dionisio, marito di Marotta Geltrude, anni 63; Andrea D‘Ascanio, marito di D‘Isidoro Serafina, anni 35; Giovanni Di Vico, marito di Gizzoni Lucia, anni 64; Andrea D‘Angelo, anni 35. Lo stesso giorno il Paese fu evacuato e dato alle fiamme dai sopraddetti Galli e ai morti è stata data sepoltura perché morti per la fede Cristiana e propriamente sepolti nella Chiesa della Madonna delle Grazie. Firmato: Don De Vincentis Costantino" (Archivio Parrocchiale – Roccacasale).

    In quegli stessi giorni, Giovanni Raffaele d’Espinosa e il sacerdote D. Gaetano Gatta di Anversa degli Abruzzi si recano di casa in casa per preparare gli uomini alle armi e mettere d’accordo i capi delle masse ivi raccolte. Si costituisce una lega armata dei Comuni di Anversa, di Bugnara, d’Introdacqua e di altri paesi della Marsica e dei dintorni di Celano e di Pescina. Quando poi i francesi, il 15 marzo 1799, faranno ritorno a Roccacasale, per ritorsione cingeranno nuovamente d’assedio il Castello attaccandolo dall’alto della rocca. La furibonda battaglia che ne conseguirà in quell’altrettanto terribile giornata ci è stata tramandata da uno degli eredi, A. De Sanctis, in una specifica monografia che racconta passo passo gli assassinii, le violenze e le ruberie dei lerci francesi.

    I francesi a Sulmona

    Il 24 dicembre è anche la volta di Sulmona. Le truppe di Lemoine vi fanno ingresso senza che i Sulmonesi oppongano alcuna resistenza. Vi rimarranno alcuni giorni. Si dice che Sulmona, per ragioni di opportunità militari, viene risparmiata dal sacco e dall’incendio, anche se nelle prime azioni si contano una trentina di fucilati. Il 29, Lemoine, fattosi sostituire dal Rusca, ripassa per Popoli perché chiamato a S. Germano. Approfittando dell’assenza, sorge Pronio con la sua banda in ritiro da alcuni giorni ad Introdacqua, che viene a contrastare le truppe francesi a Pentima (oggi Corfinio), rinforzato dalle masse di Francesco Giacchesi, opponendo energica resistenza. I francesi in quella circostanza hanno la meglio e, per vendicarsi dell’atto di ribellione, sottopongono la stessa Pentima ad un crudele saccheggio. Il Rusca, conclusa la vicenda operativa in Popoli, riprende la marcia per Sulmona che occupa militarmente il 2 gennaio, seguito di lí a poco da Duhesme. La città, questa seconda volta, si ribella, scatenando tutto il suo furore contro l’invasore.

    Giuseppe Pronio, alle prime luci dell’alba del 4 gennaio, con la sua banda, per lo piú composta di contadini e pastori reclutati nei giorni precedenti nelle campagne e sui monti del comprensorio peligno, giunge nelle vicinanze dell’allora Convento dei Domenicani, oggi Caserma "Umberto Pace" ospitante le truppe francesi del gen. Duhesme. In quell’azione le masse del Pronio sono coadiuvate da quelle di Gio. Raffaele d’Espinosa, provenienti da Bugnara ed Anversa, e dai sacerdoti D. Pelino Rossi di Pratola Peligna, D. Gaetano Susi d’Introdacqua, D. Gaetano Gatta di Anversa, i quali si erano dimostrati molto solleciti nei giorni precedenti a reclutare masse popolari, armi e munizioni. Quegli stessi uomini, simulando di nascondere le zappe sotto i lunghi pastrani e mantelle, indossati per la circostanza, al segnale convenuto tirano fuori i fucili a pietra focaia e aprono il fuoco. Il quartiere viene presto cinto d’assedio e contro di esso la lotta divampa furibonda. I francesi, barricati all’interno dell’edificio, sono costretti a resistere impotenti, opponendosi con tutte le loro forze, fintantoché gli uomini della banda Pronio non riescono ad appiccare il fuoco, costringendoli ad uscire. La lotta prosegue ancor piú cruenta per l’intera giornata per le vie cittadine. Ecco la cronaca degli avvenimenti che ne fa lo storico introdacquese R. Mampieri, in un suo saggio di qualche ventennio fa:

    "Il combattimento divampò per tutto il giorno, verso sera il Pronio alla testa dei suoi sferra un attacco decisivo scontrandosi col generale francese, con due pistolettate lo ferisce gravemente, i suoi, incitati dall‘esempio del loro capo, caricano furiosamente mentre la gente del luogo getta sugli invasori acqua bollente, tegole, sedie, ed altri oggetti varii, i francesi furono costretti ad abbandonare Sulmona. Pronio con la sua banda si attestò sulla collinetta dove ora si trova l‘attuale villa e là attese che i francesi tornassero all‘attacco. I francesi ricevettero i rinforzi da un‘altra colonna proveniente dall‘Aquila ed attaccano di nuovo. Pronio tiene duro, ma i francesi sono decisi e perciò il generale ordina la ritirata sui monti d‘Introdacqua facendo abbattere molti alberi per interrompere la strada e coprire la ritirata".

    "Meritava" la città di Sulmona di essere saccheggiata e poi data alle fiamme. "Tale giusto castigo – scrive il gen. Thiébault nel suo "Diario", piú volte menzionato, - non poté infliggersi, perché essa doveva servire come luogo di tappa per la mia brigata, e, poiché era piena di feriti lasciativi dal gen. Lemoine", il quale, dopo aver definito briganti gli individui delle masse del Pronio, non può disconoscere, nel contempo, il loro fiero spirito combattivo. Per dare un giusto esempio – riferisce sempre il Thiébault – il Duhesme fa fucilare trenta abitanti della città con giudizio sommario, accusandoli di essere partigiani del Pronio, quantunque la mancanza di fonti archivistiche non abbiano confermato il fatto come effettivamente accaduto. A Sulmona le truppe francesi sono solo di passaggio o, tutto al piú, vi restano pochi giorni, appena sufficienti per risolvere questioni logistiche connesse con i rifornimenti ed il riassetto. Il Rusca rimane a Sulmona fino all’indomani notte (alle tre del 5 gennaio); eludendo la vigilanza del Pronio, parte alla volta di Isernia, seguito il 9 dalle truppe del Duhesme, costretto, invece, a combattere con le masse poste a contrastare il passo dei francesi nelle Gole di Castel di Sangro.

    Combattimenti a Castel di Sangro

    Il passaggio per Rocca Valle Oscura (l’odierna Rocca Pia), dopo Sulmona – Pettorano sul Gizio, avvenne tra il 9 e il 10 gennaio 1799, fortunatamente senza che si verificasse quel disastro preannunziato di incendi e fucilazioni, dato che nelle fonti documentarie locali del tempo non è fatta alcuna menzione. Questo "scampato pericolo" secondo taluni studiosi è attribuibile, molto probabilmente, al merito del capomassa Pronio, il quale per evitare una occupazione militare del suo paese natale di Introdacqua, come avevano minacciato i francesi, con prevedibili ingenti danni, pattuisce di non attaccarli in Rocca Valle Oscura. Ipotesi, questa, che si potrebbe accettare per buona, se si considera che nel tratto Pettorano – Rocca Valle Oscura, il Pronio, con la sua banda avrebbe potuto provocare un vero massacro, con ripetute azioni di guerriglia, come aveva già operato precedentemente nelle Gole d’Intramonti, a monte di Popoli e di S. Terenziano.

    Il trasferimento da Sulmona avviene lungo l’Altopiano delle Cinque Miglia – definito dal "corrispondente di guerra" francese Thiébault nell’opera citata "una delle gole piú belle che esistono … per le quali il vento del nord vi arriva e vi si ingolfa". Giunti a Castel di Sangro, i francesi trovano un consistente sbarramento stradale composto da alte barricate e uomini armati con il compito precipuo di ostacolare loro il passo per l’accesso ad Isernia.

    Infatti – continua Thiébault - "avvertiti dal passaggio del gen. Lemoine, che arrivavano altre truppe francesi, gli abitanti avevano atterrate le porte, merlate le case, trasformato i conventi e sinanco le chiese in vere fortezze, ove corsero a pigliar la difensiva molti degli insorti scampati al combattimento di Miranda. Furono prese a cannonate le porte, ma senz‘alcun frutto, cosicché si dovette ordinare la scalata delle mura di cinta. Grazie alla loro invitta bravura, le truppe penetrarono nella città, dove le aspettava tutto quello che il furore e la disperazione hanno sempre suggerito contro un nemico. Sui nostri prodi si faceva piovere il fuoco dai merli e dalle crociere; da sopra le case si gettavano i sassi, i mattoni, e ancora le travi. Le quali ultime contribuivano a sbarrare le vie, insieme con le barricate fatte appositamente. S‘aggiunga una pioggia di tizzoni accesi, d‘olio, e, in mancanza di questo, di acqua bollente. Ogni passo necessitava un nuovo assalto o un nuovo atto di eroismo: infatti non si poté spegnere il fuoco delle case che l‘impadronirsi di esse, e non fu possibile impadronirsene se non sfondando le porte a colpi di scure. Questa poco lieta vittoria costò il sacrificio di molti uomini al battaglione della 64ma e alla legione cisalpina; meno male che furono vendicati quanto piú fu possibile. E il massacro non si limitò alla città; l‘11° reggimento essendo riuscito con rapida marcia a passar di molto avanti a loro, quegli insorti che tentavano di fuggire, furono presi a sciabolate, e tutti gli uomini trovati con le armi in mano, o riconosciuti d‘aver preso parte alla resistenza, furono passati a fil di spada. In questa specie di linciamento militare ne perirono quindicimila, il che però non poté impedire che due delle nostre scolte non fossero sgozzate la notte seguente. Quanto alla città, essa avrebbe meritato di essere messa a fuoco e fiamme, o d‘essere rasa al suolo; ma, non altrimenti di Sulmona, essa fu conservata perché dovevano ivi pernottare la brigata Monnier e la mia: fu saccheggiata e piú che decimata".

    Nonostante tutto il gen. Monnier non giunge nei tempi previsti perché colpito da un incidente dovuto all’inclemenza del tempo, per il quale motivo era stato costretto a permanere a Sulmona, fino a quando cioè la perturbazione non fosse cessata. Intanto tutti gli uomini componenti il nucleo esplorante, sorpresi da una furiosa bufera di neve nelle gole di Pettorano sul Gizio, dispersi tra i monti, vengono trovati morti per assideramento.

    Giuseppe Pronio, un eroe del popolo

    Benché il 23 gennaio venisse instaurata l’effimera "repubblica partenopea", Giuseppe Pronio continua a svolgere il suo ruolo. Egli resta, infatti, ancora l’esclusivo dominatore di queste terre, il capo indiscusso del movimento "insorgente" antigiacobino per eccellenza, e gli sarà attribuito il grado di colonnello, elevato poi a generale con nomina regia. Egli impartisce indiscriminatamente i suoi ordini a tutte le truppe a massa della vallata, cioè in quella specifica zona nei cui confini è compreso l’Alto Sangro. Il 6 settembre 1800, il capitano D. Samuele di Salle, a nome di Ferdinando IV (da pochi mesi ritornato a Napoli) e di D. Giuseppe Pronio, presiede all’allistamento delle nuove masse in Abruzzo, portando a conoscenza della popolazione un proclama del Pronio del seguente tenore:

    "Il principale oggetto della mia nuova spedizione in queste patrie contrade si è appunto in adempimento di sovrano comando, quello cioè del nuovo allistamento delle Masse negli Abruzzi da porsi in attività semmai quod absit venissero le frontiere del Regno minacciate da qualche altra invasione di gente nemica. Parlando di Sanniti mi lusingo di non aver bisogno alcuno di elettrizzare il loro natio entusiasmo … e quella fedeltà e coraggio che gli … ha sempre distinti, massimamente nelle prossime passate vicende. Quindi mi auguro … che rendendomi sempre segni del glorioso nome de‘ Sanniti, farà ognuno di essi a gara per sollecitamente ascriversi nell‘onorevole rollo delle Masse apruzzesi … che dovranno ad ogni ordine essere pronte ad armarsi in difesa della Religione, dello Stato e delle proprie famiglie. Dato in Introdacqua lí 22 agosto 1800. Giuseppe Pronio Colonnello" (Archivio di Stato – Sulmona)

    Vi furono anche dei traditori. Tra quei giovani che sposarono la causa filofrancese si ricordano Angelo Pasquale, Ludovico Rosatore, Filippo Iuliano e Venanzio Pietroleonardo, tanto per citare alcuni nomi di Prezzani scelti da un vasto campionario di vili nostrani. Con il ritorno alla normalità, anch’essi subirono le pene riservate ai traditori e ai sovversivi, come la fucilazione e lo squartamento.

    Anche Pacentro in quell’occasione diede molte prove d’irrequietezza, come l’aveva già dimostrata ad ogni trapasso tra feudatari diversi in frequenti avvicendamenti, osteggiando generalmente l’ultimo arrivato, perché considerato l’usurpatore del comune bene e della pace pubblica. E durante l’occupazione francese darà l’ennesima prova di risentita maltolleranza verso i nuovi occupanti, prendendo parte attiva nell’azione antifrancese, grazie alla presenza di valorosi agitatori, in grado di organizzare e condurre ampie masse popolari; tra i piú noti esordienti figurano: Bernardino Avolio, D. Pietro De Angelis e D. Lorenzo Massa. Ebbene, in quel contesto storico-politico, i Pacentrani reagiscono energicamente con un’insurrezione armata contro le autorità occupanti; l’azione viene purtroppo vanificata con la pronta repressione, ascrivendosi, per tali fatti, anche la bruttanomea di popolazione "assai feroce", attribuita dagli stessi francesi. Anzi, la Giunta del Governo di Napoli, nella risoluzione del 14 settembre 1799, consiglierà il capomassa Pronio che rispetto alle "… tre feroci popolazioni di Introdacqua, Pratola e Pacentro faccia uso di tutta la destrezza e prudenza per togliere gli sconcerti che vi regnano e per stabilirvi la tranquillità e la subordinazione facendo uso, ad effetto di ottenere il disarmo, anche nel mezzo di consegnar le armi per conto di Sua Maestà".

    Non mancano, in tale circostanza, volontari pacentrani che si portano ai confini adducenti alla "Rocchetta" e a Caramanico, per ostacolare il movimento all’invasore d’oltralpe. Lo scontro tra il Rusca e le masse popolari prosegue fino a portarsi nel villaggio di Miranda, nel Molise. A Isernia era giunta nel frattempo la notizia del movimento delle truppe francesi e si preparavano celermente ad accoglierle nel modo dovuto, come avevano fatto i Sulmonesi nella giornata del 4 con lanci di pietre, tegole, mattoni, fuoco acqua ed olio bollente. Questo strano ricevimento costerà molto caro alla città d’Isernia, che registrerà – a detta del Rivera – circa quindicimila morti.

    Entra in azione Michele Pezza, Fra’ Diavolo

    Dopo quei fatti, il Duhesme ed il Lemoine raggiungono Venafro, dove si congiungono con il Comandante della spedizione il gen. Championnet per proseguire la manovra di avvicinamento verso Napoli. Anche qui all’opposizione delle masse abruzzesi-molisane, ardite e feroci, subentrano altre ancora piú fiere, prime tra tutte quelle di Michele Pezza, alias "Fra’ Diavolo", maestro della guerriglia, la nuova forma di lotta da lui inventata e che da allora sarà tenuta sempre presente in qualsiasi manifestazione di opposizione allo straniero.



    In questo trapasso di poteri, tra l’abruzzese Giuseppe Pronio, alias "Gran Diavolo", e Michele Pezza, alias "Fra’ Diavolo", i generali Duhesme e Lemoine avranno vita difficile e – come ci ricorda il Colletta nella sua opera – essi, ricongiuntisi col generale in capo Championnet, "… riferirono i sostenuti travagli e gli impedimenti e gli agguati, la nessuna fede degli abitanti, le morti de‘ Francesi, troppe e spietate; il gen. Duhesme portava ancor vive due ferite sul corpo; e narrando le maggiori crudeltà, citava i nomi spaventevoli di Pronio e di Rodio. E poi che il generale Championnet v‘ebbe aggiunto la storia de‘ tumulti e de‘ fatti popolari di Terra di Lavoro, e ricordato i nomi già conti per atrocità di Fra‘ Diavolo e di Mammone, viddero i generali francesi (adunati a consiglio nella città di Venafro) stare essi in mezzo a guerra nuova ed orrenda; essere stato miracolo di fortuna la viltà de‘ comandanti delle cedute fortezze; e non avere altro scampo per lo esercito che a tenerlo unito, e per colpi celeri e portentosi debellar le forze e l‘animo del popolo" (P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, III, 38).

    Luigi Torres

    per risorgere bisogna insorgere

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    1848: un anno terribile
    ( dal PeriodicoDueSicilie 07/2001)
    In quest’anno viene pubblicato il "Manifesto del Partito Comunista", elaborato da Marx ed Engels, con il finanziamento dei massoni Clinton Roosevelt e Horace Greely, membri della Loggia Columbia, fondata a New York dagli Illuminati di Baviera. Successivamente allo stesso Marx, in collaborazione col Mazzini, è affidato dagli Illuminati l’incarico di preparare l’indirizzo e la costituzione della "Prima Internazionale" Comunista. L’anno prima, infatti, il direttorio della setta degli "Illuminati Inglesi" aveva affidato a Carlo Marx, vero nome Kiessel Mordechai (affiliato della setta "Lega dei Giusti") e ad Engels, il compito di rielaborare i principi settari in forma nuova e scientifica. Nasce cosí a Londra la "Lega dei comunisti" come organizzazione rivoluzionaria internazionale.

    Le sette massoniche spingono alcuni affiliati, i sovversivi siciliani La Farina e La Masa, a sbarcare il 3 gennaio a Palermo, dove, era stato loro detto, si era costituito un comitato rivoluzionario. Questo comitato in realtà non esiste, ma vi trovano invece gli altri massoni Rosolino Pilo e Francesco Bagnasco, che al loro arrivo mobilitano tutti i loro seguaci per iniziare una rivolta. La Masa, per poter avere l’appoggio delle popolazioni, convince il principe Ruggero Settimo a porsi a capo della rivolta per l’indipendenza della Sicilia.

    Le titubanze del principe sono presto superate quando lord Minto, con la flotta inglese nella rada del porto di Palermo, gli assicura il suo appoggio. I rivoltosi, poi, certi che il comandante borbonico, De Majo, non avrebbe opposto che una simbolica resistenza, insorgono il 12 gennaio a Palermo, concentrandosi alla Fieravecchia. La gente si chiude nelle case, le botteghe serrano le porte. Le truppe, poiché vi erano stati atroci episodi di violenza e di saccheggi, si rinchiudono invece nel forte di Castellammare e da lí bombardano i rivoltosi.

    Il 15 gennaio arriva la flotta duosiciliana comandata dal generale De Sauget con circa 5.000 uomini, che si accampano fuori della città ai Quattro Venti. Nel frattempo, la setta fa affluire in Palermo rivoltosi da tutta la Sicilia. Il giorno 24 sono assaltati e saccheggiati i conventi di Santa Elisabetta, il monastero dei Sette Angeli, l’Arcivescovado e la caserma di S. Giacomo. Nello stesso giorno il De Majo abbandona la Fortezza di Castellammare e si imbarca per Napoli, vista anche l’inazione del de Sauget. Appena sgombrata la città dalle truppe, i rivoltosi si scatenano con furia penetrando nella Reggia. Sono asportate le suppellettili, le masserizie, i mobili e le argenterie. Sono liberati dalle carceri tutti i delinquenti comuni che sono aggregati alle bande degli insorti. Successivamente vi sono saccheggi e violenze indiscriminate in tutta la città.

    L’incomprensibile comportamento del De Sauget, che addirittura il 31 gennaio si ritira, senza aver mai tentato di riportare l'ordine, dà via libera ai sovversivi, che riforniti di armi e munizioni dagli Inglesi, armano gli avventurieri. Vista la piega degli avvenimenti, Ruggero Settimo dichiara la Sicilia indipendente, convocando la riunione del Parlamento siciliano. Nel frattempo avvengono numerosi assassini, saccheggi e atroci violenze e vendette di ogni genere. La Sicilia cosí resta abbandonata nelle mani degli insorti, ad eccezione della cittadella di Messina. Avviene che, a seguito di questi avvenimenti, si affermeranno, quasi come una istituzione, i cosiddetti "uomini d’onore", i quali nella massoneria trovarono il punto d’incontro totale, ed ideale.

    A Napoli, intanto, le prime notizie sugli avvenimenti di Sicilia incoraggiano i carbonari a nuove azioni dimostrative. Nel Cilento il 18 gennaio sono assassinati alcuni noti personaggi fedeli allo Stato e si compiono numerosi saccheggi. I moti, compiuti da poche persone, sono però rapidamente sedati dalle truppe del colonnello Lahalle, ma al Re sono fatti credere gravissimi. Ferdinando II, allora, allo scopo di evitare ulteriori disordini, e sorprendendo tutti gli altri Stati della penisola, annuncia il 29 gennaio la concessione della Costituzione, ispirata a quella francese del 1830. La Costituzione, la prima in Italia, viene pubblicata l’11 febbraio. Viene formato un nuovo governo con il barone Carlo Poerio e l’avvocato Francesco Bozzelli. Il convento annesso alla chiesa di Monteoliveto viene destinato a sede del futuro Parlamento. Viene itituita anche la Guardia Nazionale, formata da elementi carbonari, i cui primi 4 battaglioni sono passati in rassegna dallo stesso Re il 19 febbraio.

    Il 24 febbraio Ferdinando II nel recarsi a piedi nella Chiesa di S. Francesco di Paola, che è di fronte alla Reggia, per giurare solennemente sulla Costituzione, alla vista di un giovane, Michele De Chiara, che aveva la coccarda tricolore, gli dice: "Levati codesta coccarda, non sono colori napolitani".

    La concessione della costituzione scatena la nascita di numerose testate giornalistiche (circa 130 fino al 1849), moltissime di proprietà della massoneria, che propagandano idee sull’indipendenza italiana. Gli scritti erano di Silvio Spaventa, Alessandro Poerio, Trevisani, Capuano ed altri.

    In realtà non è affatto una rivoluzione "unitaria", come poi si cercherà di far credere. In Sicilia, infatti, l'indipendenza dell'isola rimaneva l'obiettivo prioritario, come si evince dall'articolo 2 del Titolo I dello "Statuto Costituzionale del Regno di Sicilia" approvato dal parlamento siciliano: "LA SICILIA SARÀ SEMPRE STATO INDIPENDENTE" ed ancora: "II re dei Siciliani non potrà governare su verun altro paese. Ciò avvenendo, sarà decaduto ipso facto. La sola accettazione di un altro principato o governo lo farà anche incorrere ipso facto nella decadenza".

    Gli avvenimenti di Napoli incoraggiano i sovversivi a scatenare altre sommosse nel resto d’Italia ed in tutta l’Europa. In Francia, il Re Luigi Filippo d’Orleans, che tentava di ripristinare una politica di assolutismo per liberarsi del potere massonico di cui era in pratica prigioniero, è accusato di tradimento. Per questo la setta provoca il 24 febbraio una violenta rivolta che costringe il Re a rifugiarsi in Inghilterra. Viene proclamata la "Seconda Repubblica" con un governo provvisorio che approva il suffragio universale, però su base censitaria.

    Anche in Germania, il 2 marzo, negli Stati di Renania, Baden e Slesia, si hanno delle sommosse da parte della borghesia, che chiede di formare Stati repubblicani. Si nominano dei governi liberali e una Assemblea si riunisce ad Heidelberg il 5 marzo per creare un nuovo parlamento unitario.

    In Piemonte Carlo Alberto, con riluttanza e dopo molte esitazioni, è costretto il 4 marzo 1848 a concedere anche lui la costituzione, da lui chiamata "Statuto", sembrandogli la parola "costituzione" troppo spropositata. Viene concessa anche la libertà di stampa, ma è vietato "tutto ciò che può offendere la religione, la morale, l’ordine pubblico, il re ...". Nello stesso mese di marzo le costituzioni sono concesse anche in Toscana e nello Stato Pontificio.

    Mentre i carbonari facevano espellere i Gesuiti, lord Palmerston, capo del governo inglese, suggerisce al governo duosiciliano di riconoscere l’indipendenza della Sicilia e nello stesso tempo esalta la liberazione d’Italia dagli stranieri. Insomma l’Inghilterra vuole unire l’Italia e separare il Regno, per appropriarsi della Sicilia. L’isola, infatti, dopo l’occupazione francese dell’Algeria, è diventata per gli Inglesi molto interessante. In Sicilia, intanto, poiché le finanze sono in completa bancarotta, vengono imposte numerose nuove tasse.

    In Austria i massoni il 13 marzo approfittano per promuovere una grave insurrezione a Vienna, causando numerosi morti. L’imperatore Ferdinando I, dopo aver convocato gli Stati Generali, è costretto anch’egli a concedere la Costituzione. Il primo ministro Metternich è costretto a fuggire in Inghilterra. La setta, tuttavia, continua nei suoi intrighi fomentando disordini in Boemia, in Ungheria e nel Lombardo-Veneto.

    Anche a Berlino nei giorni 14 - 18 marzo si ha un’insurrezione che provoca 230 morti. Guglielmo IV forma un governo liberale e promette la Costituzione.

    I fatti di Vienna e Berlino hanno immediate ripercussioni in Italia. Il 17 marzo, a Venezia, sono inscenate delle sommosse. Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, in prigione dal gennaio dello stesso anno, sono liberati. Viene costituito un governo provvisorio presieduto dallo stesso Manin.

    A Milano, giunta la notizia dell’insurrezione di Vienna, si verifica l’episodio delle "Cinque Giornate", che dura dal 18 al 22 marzo. Gli Austriaci sono costretti a ritirarsi nella Cittadella e sui bastioni. Il giorno 20 Carlo Cattaneo a capo di un governo provvisorio respinge una proposta d'armistizio e il 22 gli insorti, guidati da Luciano Manara, conquistano Porta Tosa (oggi Porta Vittoria, ndr), mentre a Venezia, lo stesso 22 marzo Daniele Manin proclama la Repubblica di San Marco.

    In Ungheria il 23 marzo scoppia un movimento a carattere indipendentistico, guidato da Lajos Kossuth. Contro il centralismo di Vienna insorgono pure la Boemia e gli Slavi della Croazia. Tutti questi avvenimenti costringono le truppe austriache a ritirarsi verso il "quadrilatero", sistema difensivo costituito dalle città di Mantova, Peschiera, Verona e Legnago.

    Insomma si ripete in tutta l’Europa cattolica, tranne cioè nei paesi protestanti, quanto era successo in Sicilia. I massoni avevano fomentato le rivolte al solo scopo di sconvolgere l’equilibrio della politica europea ai danni delle potenze conservatrici: Due Sicilie, Austria, Prussia e Russia, garanti dello statu quo nato dal Congresso di Vienna. Chi dirige tutte queste rivolte è il governo inglese del Palmerston che ritiene "benefico" per l’Inghilterra il disordine politico dell’Europa.

    Nel frattempo, il Garibaldi, chiamato dal Mazzini, il 15 marzo partiva da Montevideo, con 150 uomini sulla nave Speranza. Carlo Alberto, eccitato dalla setta, tra cui primeggiava Camillo Benso di Cavour, dichiara il 23 marzo la guerra all’Austria. Solo il giorno 26, però, i primi reparti piemontesi raggiungono Milano, mentre il re entra in Pavia il 29. La lentezza dei primi movimenti favorisce cosí la composta ritirata del Radetzky.

    I massoni, appoggiati dai governi liberali, che essi erano riusciti a insediare negli altri Stati italiani, fanno inviare dei corpi di spedizione contro l’Austria. A Roma il 27 marzo giunge da Torino il conte Rignon per chiedere al Papa un appoggio materiale e morale per la guerra. Pio IX invia le truppe pontificie sotto il comando del generale Durando e di d’Azeglio, ma con l’ordine di fermarsi sul Po e solo per scopo difensivo. Anche Leopoldo II di Toscana invia contingenti agli ordini di De Laugier e di Giuseppe Montanelli.

    Il 31 marzo in Germania Guglielmo IV riunisce il Parlamento a Francoforte per eleggere un’Assemblea Costituente.

    Il Rignon si reca anche a Napoli, dove i liberali già erano all’opera per arruolare volontari. Ferdinando II, tuttavia, aveva già deciso che cosa fare. Egli, infatti, si era reso conto che il movimento, non avendo l’appoggio del popolo, si sarebbe esaurito da solo nelle gravi agitazioni che esso stesso provocava. Concluse che l’unico modo per estinguerlo, era quello di accelerarne gli effetti. Dichiara cosí inaspettatamente il 7 aprile guerra all’Austria, inviando 16.000 uomini al comando del generale Guglielmo Pepe, che il 4 maggio parte, anche lui con l’ordine di attestarsi sul Po. L'accordo è, tuttavia, di breve durata in quanto sia Pio IX che Leopoldo II, resisi conto delle mire del Savoia di turno, cui interessava solo ingrandire i propri possedimenti, ritirano le truppe il 29 aprile.

    In Austria, intanto, viene proclamata il 25 aprile una nuova Costituzione.

    Alla fine di aprile nella parte continentale del regno sono indette le elezioni che vedono scarsa partecipazione popolare. I liberali, usciti vincitori delle elezioni, pretendono che la costituzione promulgata il 10 febbraio venga modificata, limitando ulteriormente i poteri della corona e le sue facoltà di controllo sull’attività politica interna. Ferdinando II però si mostra giustamente inflessibile sulla scelta costituzionale, dichiarando di non poter venire meno al giuramento di fedeltà da lui già solennemente pronunciato il 24 febbraio. I carbonari inscenano una minacciosa dimostrazione, chiedendo che l’ordine pubblico sia affidato alla Guardia Nazionale e che metà dell’esercito sia inviato in Lombardia contro gli Austriaci.

    Nel frattempo nel Ducato di Parma le sette massoniche, costretto alla fuga il Duca Carlo II, avevano costituito un governo provvisorio e avevano organizzato una farsa di elezioni che decretava l'annessione al regno sardo-piemontese.

    Il popolo duosiciliano, tuttavia, incomincia a manifestare in varie occasioni contro questi mutamenti di regime. Il malcontento popolare, infatti, scoppia con episodi di particolare gravità in rapida successione in Sicilia, nelle Puglie, nelle Calabrie e negli Abruzzi.

    Significativo quello di Pratola Peligna, negli Abruzzi, dove tra il 7 e l'8 maggio tutta la popolazione si solleva contro la Guardia Nazionale al grido di "Viva il Re! Abbasso la costituzione!". Sono bruciate la Casa Comunale e le case dei maggiori esponenti liberali, sono uccisi l'Intendente dell'Aquila e il cancelliere Fiore.

    In Germania, mentre le sommosse continuano, si riunisce il 10 maggio l’Assemblea Costituente formata da membri della piccola borghesia. Tale assemblea viene contestata violentemente dai comunisti, sí che l’esercito deve intervenire per difenderla. Guglielmo IV concede una Costituzione autoritaria basata sul censo.

    Il 15 maggio a Vienna si ha una seconda insurrezione con la richiesta di altre riforme sulla libertà dei contadini e sul suffragio universale.

    Lo stesso 15 maggio, a Napoli, mentre Re e deputati stanno cercando un compromesso, i dimostranti, che avevano costruito anche barricate, aprono provocatoriamente il fuoco contro alcuni ufficiali svizzeri. Divampa quasi una battaglia che in mezza giornata fa piú di duecento vittime. A questi episodi il popolo non partecipa, anzi manifesta con molta evidenza il suo attaccamento al governo di Ferdinando. Nelle altre regioni vi sono anche alcune manifestazioni, attivate dai soliti sovversivi, che lo stesso popolo reprime. Per questi motivi Ferdinando II, avendo compreso che non erano le riforme che in realtà volevano i carbonari, ma solo creare disordini per destabilizzare lo Stato, decide personalmente la formazione del governo e, senza abrogare la costituzione, scioglie la Guardia Nazionale.

    In Germania i liberali aprono la via dell'unificazione nazionale, con un'Assemblea Costituente Tedesca, che si riunisce a Francoforte il 18 maggio.

    Le truppe piemontesi, che avevano adottato una nuova bandiera con i colori verde, bianco e rosso, colori che identificavano la massoneria dell’Emilia, il 30 maggio 1848 hanno un primo successo a Goito contro gli Austriaci, grazie alla resistenza delle truppe duosiciliane e di alcuni volontari toscani che avevano fermato a Curtatone e a Montanara il nemico. Il 29 maggio, infatti, ventimila Austriaci, appoggiati dal fuoco di cinquantadue pezzi di artiglieria, si erano scontrati contro cinquemilaquattrocento tosco-napolitani. I soldati delle Due Sicilie erano costituiti da 1.516 combattenti del 10° Reggimento di fanteria di linea "Abruzzi" e da un battaglione di volontari. Malgrado la forte inferiorità numerica, le truppe duosiciliane si battono con grandissima animosità. A Montanara gli Austriaci avevano occupato il cimitero, dove avevano posto quattro cannoni in batteria che sparava a mitraglia con alzo zero. I Duosiciliani contrattaccano alla baionetta numerose volte per la conquista della posizione. Sono guidati dal maggiore Spedicati, comandante del II/10°, e dopo che questi viene ferito, dal capitano Catalano. Cadono 183 uomini, tra i quali 5 ufficiali e un portastendardo (ma la bandiera del battaglione è salva). Da ricordare che anche le truppe toscane avevano mutato la bandiera del Granducato con un tricolore nel cui centro era sovrapposto lo stemma granducale.

    Il successivo giorno 30 i nostri soldati combattono anch'essi da protagonisti a Goito. Il colonnello Rodriguez, comandante del 10° "Abruzzi", riceve l’ordine di tenere la posizione ad ogni costo ed è cosí che, arginando valorosamente l’avanzata austriaca, consente la vittoria dei Piemontesi. Gli Austriaci sono costretti a ritirarsi verso il quadrilatero, fatto che consente ai liberali l’annessione di Milano ai Savoia e, a Venezia, la proclamazione della repubblica. Numerose sono le decorazioni e le onorificenze concesse ai Duosiciliani, ma sull’obelisco, eretto nei luoghi della battaglia, vi sono solo i nomi dei toscani. In questi giorni il Savoia approfitta subito per annettere Milano, Parma e Modena al Piemonte, cui si aggiunge il 4 giugno, il Veneto. Solo Venezia resiste alle sue mire con un governo indipendente e continua a combattere contro gli Austriaci.

    Ferdinando II, resosi definitivamente conto dei veri propositi savoiardi ed anche delle vere motivazioni che li favorivano, richiama in Patria il suo corpo di spedizione, anche per ragioni di ordine pubblico. In Calabria, infatti, la massoneria aveva fomentato alcune sommosse, approfittando del fatto che l’esercito duosiciliano era impegnato in Lombardia. La diplomazia inglese, inoltre, aveva spinto il governo rivoluzionario della Sicilia ad offrire la corona al savoiardo duca di Genova, che però declinava l’offerta non sentendosi sicuro di mantenerla.

    In Francia, nel frattempo, il ministro della guerra Louis Cavaignac assume i pieni poteri e, per reprimere le rivolte, compie delle vere e proprie stragi uccidendo circa 10.000 rivoltosi e incarcerando circa 13.000 persone.

    Altre insurrezioni con richieste di autonomia si hanno il 17 giugno a Praga, ma vengono sedate a cannonate dall’esercito austriaco. L’esercito austriaco marcia successivamente contro i rivoltosi ungheresi incontrando però una forte resistenza.

    In giugno, in esecuzione dell’ordine del Re Ferdinando, tutte le truppe duosiciliane rientrano a Napoli, tranne il traditore Pepe e circa mille soldati che, plagiati dai settari, si recano a Venezia.

    Nel frattempo il Garibaldi, sbarcato il 21 giugno a Nizza con i suoi avventurieri, si reca il 5 luglio a Roverbella, nei pressi di Mantova, per offrirsi volontario al re Carlo Alberto Respinto, il nizzardo si reca a Milano, dove il governo provvisorio lombardo, presieduto dal conte massone Casati, lo nomina il 14 luglio generale di brigata.

    I Piemontesi, senza l’aiuto delle truppe duosiciliane, il 25 luglio sono ignominiosamente sconfitti a Custoza dalle poche truppe austriache e il 9 agosto costretti da Radetzky a un armistizio, firmato dal capo di stato maggiore Carlo Canera di Salasco. Alle battaglie avevano tentato di partecipare anche i volontari del Garibaldi, ma il 4 agosto, senza neanche affrontare le avanguardie austriache incontrate a Merate, i piú incominciano a disertare. I resto, con Garibaldi, travestito da contadino, fugge in Svizzera, dove già si era rifugiato il prudente Mazzini. Tranne la città di Venezia, rimasta assediata, tutto il territorio occupato dai savoiardi ritorna all’Austria. A queste vicende non vi è stata alcuna partecipazione popolare. Anzi le masse sono per lo piú favorevoli agli Austriaci, come dimostrano le manifestazioni della maggior parte del popolo che, al loro ritorno, aveva gridato "Viva Radetzky".

    Il 12 agosto 1848 entrano in Bari 4.000 nostri soldati, comandati dal maresciallo Marcantonio Colonna di Stigliano, per reprimere le rivolte che erano state fomentate ancora una volta dai sovversivi carbonari.

    Il 30 agosto un Corpo di spedizione agli ordini del Tenente Generale Carlo Filangieri viene imbarcato per la Sicilia con l’ordine di ristabilire in Sicilia il legittimo governo. La squadra navale è composta da circa trenta navi ed è comandata dal Brigadiere Pierluigi Cavalcanti. La flotta si componeva di tre fregate a vela (Regina, Isabella, Amalia), sei a vapore (Sannita, Roberto il Guiscardo, Ruggero il Normanno, Archimede, Carlo III, Ercole), due corvette a vapore (Stromboli e Nettuno), sette piroscafi per il trasporto truppe, otto cannoniere e altro naviglio minore per complessivi 246 cannoni dei vari calibri.

    Il 1° settembre le navi sono ancorate presso Catona (Reggio Calabria). Al mattino del 2 la pirofregata Roberto inizia il bombardamento della batteria "delle Moselle", situata poco fuori Messina, mentre quattro compagnie di pionieri l’assaltano e la conquistano. È proprio a causa di questo episodio che in seguito i carbonari, per denigrarlo, diedero a Ferdinando il soprannome di "re bomba". La mattina del giorno 5 sono sbarcati su una spiaggia a tre miglia da Messina 250 ufficiali e circa 6.500 uomini di truppa. Tra di essi vi è il Reggimento di Real Marina (i marines duosiciliani), comandato dal colonnello Giustino Dusmet, il 3° battaglione cacciatori e tre battaglioni del 3° di linea. Dopo tre giorni di aspri combattimenti Messina viene liberata dai sovversivi, mentre le navi duosiciliane catturano sedici cannoniere dei ribelli.

    Caduta Messina, gli avanzi dei facinorosi infestano le campagne compiendo numerosi misfatti e violenze sulle popolazioni e sulle loro proprietà, attribuendone la responsabilità alle truppe "borboniche". Il giorno 9 è liberata anche Milazzo.

    Il giorno successivo, 8 navi duosiciliane bloccano il porto di Palermo, mentre la pirofregata Ruggiero ristabilisce l’ordine a Lipari. Nel frattempo l’esercito è avviato verso Palermo. L’intervento della diplomazia inglese (ammiraglio Parker) e francese (ammiraglio Baudin) ferma, tuttavia, le forze duosiciliane il giorno 18 con lo scopo di intavolare delle trattative, ma in realtà per far riorganizzare le forze rivoluzionarie.

    A Firenze Montanelli, non avendo una maggioranza "sicura", scioglie il Consiglio generale e indice le elezioni. Nello stesso tempo fa provocare dai suoi settari dei tumulti (appoggiato dal Piemonte), che causano la distruzione delle urne e delle schede, dato che la maggior parte del popolo toscano era favorevole al Granduca.

    A Vienna continuano le insurrezioni. Il 6 di ottobre viene occupato il ministero della guerra dove viene ucciso lo stesso ministro, generale Latour. Il governo austriaco cerca di organizzare un esercito per reprimere le rivolte in Ungheria, ma i rivoltosi ne impediscono la formazione e costringono la Corte austriaca a fuggire a Olmütz. Vienna rimane nelle mani dei rivoluzionari, che però il 31 ottobre sono sconfitti da un esercito formato da cechi e croati che compiono fucilazioni sommarie.

    Il 4 novembre 1848, in Francia, i maggiori esponenti della massoneria si impossessano del potere e viene promulgata la costituzione repubblicana.

    A Roma, falliti i ministeri di T. Mamiani, O. Fabbri e P. Rossi, dopo l'assassinio di questo ultimo, avvenuto il 15 novembre durante una tumultuosa dimostrazione compiuta dai carbonari davanti al Quirinale, Pio IX si vede costretto a chiamare al potere i democratici G. Galletti e P. Sterbini, ma dopo l’uccisione a tradimento, avvenuta nello stesso palazzo del Quirinale, anche del suo prelato domestico monsignor Palma, al Papa non resta altra scelta che abbandonare il 24 novembre Roma per rifugiarsi a Gaeta, sotto la protezione di Ferdinando II. Da Gaeta Pio IX destituisce il ministero e proroga il parlamento. Questo, invece, nomina una giunta governativa, che indice le elezioni per la costituente, riuscite poi favorevoli alla parte liberale.

    Il 2 dicembre in Austria, dopo l’abdicazione di Ferdinando I, sale al trono il nipote diciottenne Francesco Giuseppe. In Germania il 5 dicembre Guglielmo IV scioglie d’autorità l’Assemblea senza alcuna reazione da parte del popolo. Il 10 dicembre in Francia viene eletto a presidente della repubblica francese il massone Luigi Napoleone Bonaparte.

    Antonio Pagano
    per risorgere bisogna insorgere

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    1862, la pulizia etnica piemontese
    ( dal PeriodicoDueSicilie 05/1999)
    Fu questo il primo anno in cui il vessillo borbonico dello Stato indipendente delle Due Sicilie non sventolava piú nelle nostre terre, che, avviluppate in un plumbeo sudario di morte, cercavano di liberarsi dai nuovi barbari invasori: i predoni e assassini piemontesi. Gli avvenimenti, di cui siamo certi, elencati cronologicamente, volutamente scarni di ogni commento, fanno inequivocabilmente comprendere cosa deve essere stato per le nostre popolazioni vivere in quegli anni.
    Non dimentichiamolo. Non dimentichiamolo mai.
    Alla fine dell’anno 1861, la statistica, fatta dagli occupanti piemontesi, indicò che nel solo secondo semestre vi erano stati 733 fucilati, 1.093 uccisi in combattimento e 4.096 fra arrestati e costituiti. Le cifre fornite, tuttavia, furono molto al disotto del vero, in quanto non comprendevano quelle delle zone della Capitanata, di Caserta, del Molise e di Benevento, dove comandava il notissimo assassino Pinelli.
    Al Senato di Torino, il ministro della guerra Della Rovere, dichiarò che 80.000 uomini dell'ex armata napoletana, imprigionati in varie località della penisola, avevano rifiutato di servire sotto le bandiere piemontesi. Vi erano state migliaia di profughi, centinaia i paesi saccheggiati, decine quelli distrutti. Dovunque erano diffuse la paura, l’odio e la sete di vendetta. L’economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche erano state chiuse e il commercio si era inaridito in intere provincie. La fame e la miseria erano diventate un fatto comune tra la maggior parte della popolazione, che trovò nell’emigrazione l‘unica possibilità di sopravvivenza alla pulizia etnica fatta dai piemontesi.
    Antonio Pagano


    GENNAIO
    Il 1°, in Sicilia, insorse Castellammare del Golfo al grido di «fuori i Savoia. Abbasso i pagnottisti. Viva la Repubblica». Furono uccisi il comandante collaborazionista della guardia nazionale, Francesco Borruso, con la figlia e due ufficiali. Case di traditori unitari vennero arse. Strappati i vessilli sabaudi, spogliati ed espulsi i carabinieri. Le guardie e i soldati accorsi da Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi in fuga dai rivoltosi.
    Il 3 gennaio arrivarono nel porto di Castellammare la corvetta «Ardita» e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma con lo sbarco dei bersaglieri del generale Quintini i rivoltosi furono costretti alla fuga. I piemontesi subito incominciarono a fucilare centinaia di insorti catturati, tra cui alcuni preti. A Palermo comparirono sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una bandiera gigliata.
    In quei giorni il generale borbonico Tristany, accompagnato da una decina di ufficiali Spagnoli e Napolitani, ebbe un nuovo abboccamento con il comandante partigiano Chiavone, al quale ripeté la richiesta di subordinare le sue forze alla sua azione di comando affidatogli dal Re Francesco II.
    A Marsala, durante la caccia ai patrioti siciliani, le truppe piemontesi circondarono la città e arrestarono oltre tremila persone, per lo piú parenti dei ricercati, comprese donne e bambini, che furono ammassate per settimane nelle catacombe sotterranee vicine alla città, in condizioni disumane, dove furono lasciate prive di luce e di aria, senza possibilità di sfamarsi.
    Al ponte di Sessa un plotone di lancieri cadde in un agguato dei partigiani napolitani e sedici soldati furono uccisi. A Napoli si ebbero tumulti per l’applicazione della legge che aveva imposta la nuova tassa detta il decimo di guerra.
    Proprio in gennaio furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell’ex Reame provocando il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio. Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia. Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa e incominciarono le prime emigrazioni verso l’estero, l’inizio di una vera e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già devastate Terre Napoletane e Siciliane soprattutto le forze umane piú intraprendenti.
    A questo grave disastro si aggiunse l’affidamento degli appalti (e le ruberie) per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in Sicilia ad imprese lombardo-piemontesi che furono pagate con il drenaggio fiscale operato dai piemontesi nelle Due Sicilie. La solida moneta aurea ed argentea borbonica venne sostituita dalla carta moneta piemontese, provocando la piú grande devastazione economica mai subita da un popolo.
    Il 22 gennaio sul Fortore, nel Foggiano, una banda di 140 patrioti a cavallo attaccò una compagnia di fanti piemontesi che furono decimati. A Napoli militari piemontesi isolati caddero vittime di attentati. A Mugnano, la banda partigiana di Angelo Bianco, caduta in un agguato, fu completamente assassinata dai bersaglieri e dalle vigliacche guardie nazionali.

    FEBBRAIO
    Il 1°, nei boschi di Lagopesole, due compagnie di bersaglieri e fanti assaltarono i patrioti di Ninco-Nanco e Coppa, uccidendone 11 e catturando una donna. Proprio in quel giorno il turpe traditore Liborio Romano, quale deputato, propose nel parlamento piemontese di vendere tutti i beni demaniali e degli istituti di beneficenza delle Due Sicilie a prezzo minore del valore reale, a rate fino a 26 anni, pagabile con titoli di Stato al 5%.
    Il giorno dopo la banda di Giuseppe Caruso sgominò un reparto del 46° fanteria nel bosco di Montemilone.
    A Reggio Calabria, il 5 febbraio, vennero imprigionati tutti quelli "sospettati" di essere filoborbonici. Sul confine pontificio, lo stesso giorno, alcuni gruppi patrioti comandati dal Tristany furono sconfitti dalle truppe piemontesi nei pressi di Pastena. Pilone, invece, a Scafati sfuggí ad un agguato tesogli dalle collaborazioniste guardie nazionali di Castellammare.


    Il criminale di guerra piemontese generale Alfonso La Marmora
    A Vallo di Bovino furono catturati e fucilati dai patrioti due ufficiali piemontesi. Il generale La Marmora, in visita a Pompei, sfuggí ad un attentato da parte della banda di Pilone. A Napoli venne minacciata da Pilone la stessa duchessa di Genova, cognata di Vittorio Emanuele, a cui Pilone intimò con una lettera di non uscire da Napoli, pena la cattura.
    I terrorizzati piemontesi, in quei giorni, persero completamente il controllo della situazione, emanando dei bandi e ordinanze feroci, soprattutto nel Gargano e in Lucera, dove furono eseguite pene di morte per la violazione dei piú piccoli divieti. Il col. Fantoni in terra di Lucera, dopo aver vietato l’accesso alla foresta del Gargano, fece affiggere un editto che disponeva che: «Ogni proprietario, affittuario o ogni agente sarà obbligato immediatamente dopo la pubblicazione di questo editto a ritirare le loro greggi, le dette persone saranno altresí obbligate ad abbattere tutte le stalle erette in quei luoghi ... Quelli che disobbediranno a questi ordini, i quali andranno in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza avere riguardo per tempo, luogo o persona, considerati come briganti e come tali fucilati».
    L’8 febbraio evasero dalle carceri di Teramo 55 patrioti, che si rifugiarono sui monti sotto il comando di Persichini. Inseguiti da un reparto del 41° fanteria, cinque furono uccisi e tredici catturati, ma anche questi furono fucilati dopo qualche giorno. Durante una riunione in una masseria di S. Chirico in Episcopio, la banda di Cioffi, tradita da un tal Lupariello, fu circondata ed assalita da ingenti forze piemontesi, ma l’inattesa e violentissima reazione dei patrioti causò uno sbandamento degli assedianti. Pur subendo due morti e molti feriti, Cioffi riuscí a sganciarsi con tutti i suoi uomini. I cadaveri dei due patrioti morti in combattimento furono esposti dai piemontesi nella piazza della Maddalena a Sarno.
    Qualche giorno dopo il Lupariello fu catturato dai partigiani e, sottoposto ad un giudizio, fu giustiziato; poi la sua testa fu apposta su una pertica vicino a una sorgente frequentata dalla popolazione.
    Il 12 febbraio il colonnello della guardia nazionale di Cosenza, Pietro Fumel, emanò un bando da Cirò veramente raccapricciante : «Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che, in onta degli ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente fucilati ... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati ... È proibito di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice dei briganti.» Costui, un sanguinario assassino, praticò metodicamente il terrore e la tortura contro inermi cittadini e le loro proprietà per distruggere ogni possibile aiuto ai patrioti.
    Questi orrendi misfatti ebbero un’eco perfino alla camera dei Lords di Londra, dove nel maggio del 1863, il parlamentare Bail Cochrane, a proposito del proclama del Fumel, affermò : «Un proclama piú infame non aveva mai disonorato i peggiori dí del regno del terrore in Francia», per cui gli ufficiali che avevano emanato quegli ordini furono allontanati dai propri reparti.
    Il famoso comandante Crocco, aveva diviso la sua banda di circa 600 uomini in sei gruppi, e l’aveva disseminata nei boschi di Monticchio, Boceto, San Cataldo e Lagopesole. I suoi gruppi patrioti con rapide scorrerie misero a sacco le masserie dei traditori nella zona di Altamura. Poi, il 24 febbraio, Crocco assaltò la guardia nazionale di Corato e batté i cavalleggeri del generale Franzini in uno scontro presso Accadia, dove però perse dodici uomini.





    MARZO

    L'eroico ed imprendibile Comandante Partigiano Generale Carmine Donatelli detto Crocco


    Il 1°, Crocco riuní nel bosco di Policoro, presso la foce del Basento, i suoi patrioti a quelli di Summa, Coppa, Giuseppe Caruso e Cavalcante, in previsione del piano elaborato dal Comitato Borbonico in Roma (Clary e Statella) di attaccare Avezzano con duemila uomini comandati da Tristany. L’operazione aveva il fine tattico di allontanare le truppe piemontesi dal confine pontificio per lunghi tratti, onde permettere ad altre forze borboniche di invadere gli Abruzzi con la contemporanea sollevazione di tutti i patrioti del Reame. Era previsto anche uno sbarco, sul litorale ionico, di elementi legittimisti spagnoli e austriaci. Una spia infiltrata, Raffaele Santarelli, fece conoscere in tempo il piano ai piemontesi, che presero contromisure sia navali, con la flotta di Taranto, sia per via terrestre con un concentramento di bersaglieri e cavalleggeri.
    Il 3 e il 4 marzo Crocco si scontrò al ponte S. Giuliano, sul Bradano, con il 36° fanteria e lo mise in fuga, ma subendo alcune perdite. Nei giorni successivi, l’8 marzo, a S. Pietro di Monte Corvino, si ebbe un altro scontro di patrioti contro piemontesi, che subirono numerose perdite. Il giorno dopo Crocco sconfisse alcuni reparti di guardie nazionali alla masseria Perillo, nei pressi di Spinazzola, uccidendone dieci, compreso il comandante, maggiore Pasquale Chicoli, un traditore che aveva formato il governo provvisorio di Altamura ancora prima dell’arrivo dei garibaldini.
    Il 10 marzo Pilone occupò Terzigno, dove, dopo aver requisito armi e munizioni, fucilò i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Il governatore piemontese dispose che tutto il 7° reggimento di fanteria venisse destinato a catturare Pilone.
    A Baiano, il 12 marzo, venne fucilato un contadino di 16 anni, Antonio Colucci, che, stando su un albero in una masseria di Nola, aveva segnalato ai patrioti l’arrivo di piemontesi. Il ragazzo era stato catturato e processato da un tribunale di guerra che lo condannò alla pena capitale.
    Nel frattempo continuarono numerosi gli attacchi dei partigiani napoletani, vere e proprie azioni di guerra, contro le truppe piemontesi. Tra gli episodi piú importanti sono da ricordare quello del 17 marzo, quando la banda di Michele Caruso sterminò alla masseria Petrella (Lucera) un intero distaccamento di 21 fanti dell’8° fanteria, comandato dal capitano Richard. Il 31 marzo ad Ascoli di Capitanata i patrioti sconfissero, procurando centinaia di morti, i bersaglieri e i cavalleggeri del colonnello Del Monte. Lo stesso giorno, a Poggio Orsini, presso Gravina, i piemontesi misero in fuga un centinaio di patrioti, ma a Stornarella furono massacrati 17 lancieri del «Lucca», che ebbe anche 4 dispersi. La provincia di Bari, la terra d’Otranto ed il Tarantino erano tuttavia controllate dalle forze partigiane. In questi avvenimenti vi furono molti garibaldini ed anche regolari piemontesi che disertarono e si unirono ai briganti. Tra questi disertori è da ricordare come esempio quello dell’operaio biellese Carlo Antonio Gastaldi, decorato con medaglia d’argento al valor militare nella battaglia di Palestro del 1859. Inviato nelle Puglie a combattere i «briganti», fu talmente schifato delle nefandezze piemontesi, che divenne addirittura luogotenente del Sergente Romano, insieme ad un altro piemontese, Antonio Pascone.
    Alla fine di marzo, nel parlamento di Torino fu istituita un Commissione con il compito di studiare le condizioni delle provincie meridionali. Tale Commissione, presieduta dai massoni Giuseppe Montanelli e Luigi Miceli, suggeriva, tra l’altro, di iniziare numerosi e svariati lavori pubblici, istituire nuove scuole comunali per «illuminare» la gioventú, l’incameramento totale dei beni religiosi, la divisione e vendita dei beni demaniali e comunali. Per la risoluzione del «brigantaggio» la commissione proponeva anche l’invio di Garibaldi a Napoli e l’aumento delle guardie nazionali.


    APRILE
    Il giorno 4, la legione ungherese, già "usata" da Garibaldi nella sua spedizione, riuscí ad infliggere alcune perdite a Crocco tra Ascoli e Cerignola.
    Il 6 aprile 200 patrioti assalirono Luco de’ Marsi dove si era asserragliato un reparto del 44° fanteria, che si difese efficacemente.
    Poi il 7 aprile Crocco sconfisse due drappelli del 6° fanteria a Muro, Aquilonia e Calitri, uccidendo una ventina di piemontesi e facendo numerosi prigionieri.
    A Torre Fiorentina, presso Lucera, l’8 aprile, i lancieri di Montebello uccisero trenta patrioti. Il giorno dopo circondarono i rimanenti patrioti di Coppa e Minelli, che furono quasi completamente distrutti: 40 morti, 21 fucilati dopo la cattura ed altri 42 uccisi mentre «tentavano la fuga». In Sicilia, ad Apaforte, Stincone, S. Cataldo e Boccadifalco, la popolazione insorse dando alle fiamme le cataste di zolfo. Furono distrutte tutte le piantagioni e gli animali per protesta contro le vessazioni dei piemontesi.
    Le truppe francesi di stanza nello Stato Pontificio sequestrarono il 10 aprile le armi e munizioni borboniche a Paliano, a Ceprano, a Falvaterra. Le armi avrebbero dovuto servire per il piano d’invasione capeggiato dal Tristany.
    Con una delibera del 13 aprile la piazza nota come «Largo di Castello», dov’è situato il Maschio Angioino, fu fatta chiamare Piazza Municipio dal sindaco massone Giuseppe Colonna.
    In quei giorni la banda di Pagliaccello, di Cerignola, fu dispersa dai cavalleggeri «Lucca», che fucilarono 21 patrioti.
    Duro colpo anche alla banda di Crocco che il 25 aprile 1862, alla masseria Stragliacozza, subí un improvviso attacco dai piemontesi che riuscirono a metterla in fuga, uccidendone 25 uomini.
    Alla fine del mese, il 28 aprile, Vittorio Emanuele si recò a Napoli a bordo della nave «Maria Adelaide» e fece un donativo alla statua di S. Gennaro per ingraziarsi i Napoletani.
    Ma S. Gennaro non abboccò e non fece il «miracolo».


    MAGGIO
    Crocco, nonostante le dure sconfitte, continuò eroicamente le sue azioni di guerra e il 7 maggio sterminò a Zungoli un distaccamento del 37° fanteria. Tuttavia il giorno dopo, tra Canosa e Minervino, i patrioti di Summa persero 15 uomini per un fortunoso attacco dei cavalleggeri. Nell’occasione fu ferito Ninco-Nanco. Nel prosieguo dell’azione alcune guardie nazionali catturarono una donna, la quale portava in campagna un pezzo di pane al figlio che essi ritenevano un patriota. La legarono, la fecero inginocchiare e la fucilarono.
    Il 7 maggio esplose anche lo scandalo riguardante la concessione degli appalti per la costruzione delle ferrovie meridionali al massone Adami. Il direttore del giornale «Espero» di Torino che aveva avuto il coraggio di denunciare alla pubblica opinione le speculazioni commesse da Bertani e dall’Adami, fu condannato per diffamazione e per ingiurie a due mesi di carcere e a 300 lire di multa. Naturalmente lo scandalo, che cointeressava anche una trentina di deputati piemontesi, fu insabbiato alla maniera savoiarda.
    Chiavone invase e saccheggiò Fontechiari il 10 maggio.
    Intanto, allo scopo di impossessarsi dell’industria napoletana del gas per ricompensare gli inglesi dell’aiuto ricevuto, i governanti piemontesi avevano subdolamente fatte fare numerose critiche per la qualità del servizio, indicendo una gara per una nuova concessione. Alla gara si presentarono numerosi concorrenti, ed il 12 maggio 1862 venne firmato il nuovo contratto di appalto dell'illuminazione a gas con la ditta Parent, Shaken and Co. La nuova Società venne costituita il 18 ottobre dello stesso anno con il nome di «Compagnia Napoletana d'Illuminazione e Scaldamento col Gaz», che verso la fine dell'anno seguente inaugurò un nuovo opificio nella zona dell'Arenaccia lungo il fiume Sebeto.
    Il 18 maggio le collaborazioniste guardie nazionali di Ariano, incontrati presso Sprinia i patrioti di Parisi, si rifiutarono di battersi e si diedero alla fuga, ma ne furono catturate 14. A Catania vi fu un’insurrezione lo stesso 18 maggio, ma fu rapidamente repressa dalle truppe piemontesi che massacrarono 49 civili. Il giorno dopo Chiavone conquistò Fontechiari e Pescosolido, riunendosi con i patrioti di Tamburini e Pastore. Con tutte queste forze tentano di assalire anche Castel di Sangro, ma vennero respinti e costretti a rifugiarsi nel territorio pontificio.
    A Roma, intanto, erano avvenute le nozze tra Maria Annunziata, una delle prime figlie di Ferdinando II, e l’arciduca Carlo Lodovico, fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe. Da questo matrimonio nacque l’erede al trono dell’Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando, che fu sempre uno strenuo nemico dell’Italia dei Savoia. L’uccisione di Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1914 fu la causa determinante dello scoppio della I guerra mondiale.
    Il 29 maggio a Mola di Gaeta fu catturato, e poi fucilato dai piemontesi, il conte rumeno Edwin Kalchreuth, il famoso capo patriota «conte Edwino», ex ufficiale della cavalleria borbonica che aveva agito unitamente a Chiavone nella Terra del Lavoro e negli Abruzzi.


    GIUGNO
    In giugno i patrioti non diedero tregua ai piemontesi. Il giorno 2, il 44° fanteria fu attaccato al confine tra Abruzzi e Terra del Lavoro, perdendovi cinque uomini. Il 7 giugno Chiavone invase Pescosolido, dove fece rifornimenti per il suo raggruppamento. Ad Acqua Partuta, nel beneventano, il 14 giugno, i patrioti uccisero 11 guardie nazionali e 4 carabinieri che li avevano assaliti. Numerosi patrioti di Guardiagrele attaccarono Gamberale, ma furono respinti da reparti del 42° fanteria.
    Il giorno 15, la legione ungherese, in un drammatico ed imprevisto scontro, distrusse nel bosco di Montemilone una banda partigiana di 27 uomini. Presso Ginestra la banda Tortora in uno scontro con gli stessi ungheresi perse 13 uomini. Poi, il giorno dopo, alla masseria La Croce la 4ª compagnia del 33° bersaglieri fu assalita da Crocco e da Coppa, subendo molte perdite. A S. Marco in Lamis fu catturato il capo patriota Angelo Maria del Sambro e quattro suoi compagni, tra cui il dottor Nicola Perifano, già chirurgo del 3° Dragoni napoletano, piú volte decorato. Furono tutti immediatamente fucilati.
    Numerosi furono gli scontri contro i piemontesi, particolarmente tra il 61° ed il 62°, e i patrioti che presidiavano i boschi di Monticchio, di Lagopesole e di S. Cataldo. Il 17 giugno Chiavone, dopo essersi riunito con i patrioti abruzzesi di Luca Pastore e di Nunzio Tamburini sull’altopiano delle Cinque Miglia, invase Pietransieri e attaccò Castel di Sangro, dove però fu respinto. Rientrato nel territorio pontificio, tuttavia, il Tristany il 28 giugno lo fece arrestare e processare da un consiglio di guerra, che lo condannò a morte per rapina e omicidio. La fucilazione di Chiavone volle essere anche un esempio per far attenere i patrioti alle direttive impartite dal Comitato Borbonico.
    Tutta la penisola sorrentina intanto veniva continuamente rastrellata da numerosi reparti piemontesi, ma senza alcun esito. A Torre del Greco il 7° fanteria, rinforzato da colonne mobili della guardia nazionale, riuscí a circondare sulle alture della cittadina il gruppo di combattimento di Pilone. Dopo un furioso combattimento, il grosso dei patrioti di Pilone, riuscí a sganciarsi, ma con numerose perdite e molti prigionieri, che il giorno dopo furono fucilati dai piemontesi. Dopo qualche giorno Pilone attaccò temerariamente in località Passanti una colonna di truppe piemontesi, liberando anche alcuni prigionieri che stavano per essere fucilati.
    Garibaldi, nel frattempo, che era comparso nuovamente in Sicilia il 20 maggio per fomentare una rivolta diretta alla conquista di Roma, si recò il 29 giugno a Palermo, dov’erano in visita i principi Umberto e Amedeo. Il giorno dopo, al Teatro «Garibaldi», pronunciò uno sconclusionato discorso, affermando che se fosse stato necessario avrebbe fatto un altro Vespro Siciliano. All’indomani si recò alla Ficuzza per arruolare volontari da impiegare per la conquista di Roma e di Venezia.
    La Capitanata, il Gargano e la Terra di Bari erano in concreto nelle mani dei patrioti. Lo stillicidio delle continue perdite subite in luglio dai piemontesi indusse il governo piemontese a sostituire il comandante della zona, generale Seismit-Doda, con il generale massone Gustavo Mazé de la Roche. Costui, per tagliare i rifornimenti ai gruppi patrioti, fece incendiare i pagliai, murare le porte e finestre delle masserie e arrestare tutte le persone che circolavano fuori degli abitati. La reazione dei patrioti fu immediata con la rapida invasione di grossi paesi, come Torremaggiore, con la razzia di molte mandrie, con l’incendio di masserie dei traditori collaborazionisti e con ripetuti attacchi, nei pressi di S. Severo, ai cantieri della ferrovia Pescara-Foggia allora in costruzione.
    Il 30 giugno 1862 il generale Tristany, per dare un esempio, fece fucilare due capi patrioti, Antonio Teti e Giuseppe de Siati, che, quali armati per la lotta di liberazione delle Due Sicilie, avevano commesso illegittimamente alcuni furti durante azioni di guerriglia. Il Tristany aveva voluto, con quest'episodio, dare carattere esclusivamente militare alle azioni guerrigliere dirette soprattutto contro le pattuglie piemontesi in perlustrazione nelle campagne. Lo stesso giorno la banda dei patrioti comandata dai fratelli Ribera partí da Malta e sbarcò a Pantelleria, allo scopo di liberare l’isola dai piemontesi e per ripristinare il governo borbonico. Con l’aiuto di tutta la popolazione, i patrioti compirono numerose azioni contro i traditori collaborazionisti e le guardie nazionali che prevaricavano sulla gente.


    LUGLIO
    Il 1° luglio, da Roma, il Re Francesco II elevò formale protesta diplomatica presso le cancellerie europee che avevano riconosciuto i Savoia re d’Italia.
    Nei primi giorni di luglio, il famoso comandante patriota Giuseppe Tardio, uno studente di Piaggine Soprano, che aveva organizzato il suo gruppo di combattimento nell’ottobre del 1861 nella zona di Agropoli, dopo aver eliminate le guardie nazionali che incontrava, invase con i suoi uomini prima Futani e poi Abatemarco, Laurito, Foria, Licusati, Centola e Camerota. Nella sua avanzata gli si aggregarono molte centinaia di patrioti, che in seguito dovettero tuttavia disperdersi per i continui attacchi di migliaia di truppe piemontesi.
    Il 6 luglio Garibaldi, in occasione di una rivista alla guardia nazionale a Palermo, pronunziò davanti alle autorità un violento discorso contro Napoleone III che riteneva responsabile del brigantaggio.
    Altro scontro dei patrioti di Crocco avvenne il 14 luglio a Lacedonia con i bersaglieri, che persero cinque uomini. Si ebbero nel mese ancora numerosi scontri tra piemontesi e patrioti, che attaccavano all’improvviso ed improvvisamente sparivano. Il 16 luglio un reparto del 17° bersaglieri, in un durissimo e prolungato combattimento, uccise il comandante partigiano Malacarne (fratello del famoso Sacchettiello) ed altri sei patrioti. Il 19 luglio molti patrioti abruzzesi attaccarono presso Fossacesia il magazzino degli imprenditori ferroviari Martinez, uccidendo alcuni tecnici, e invasero l’abitato che fu saccheggiato. Ad Amalfi però la superiorità partigiana si manifestò in tutta la sua evidenza quando il 22 luglio i partigiani occuparono la città, tenendola addirittura per due giorni. Lo stesso giorno, tuttavia, la legione ungherese uccise 12 patrioti a Tortora. Alla fine di luglio, sui monti del Matese, nelle zone di Piedimonte d’Alife e di Cerreto Sannita, i gruppi di combattimento patriottici di Cosimo Giordano, Padre Santo e De Lellis contrastarono ferocemente e vittoriosamente i rastrellamenti effettuati dai reparti del 39° e 40° fanteria.
    Il 26 luglio, dopo un lungo silenzio, i patrioti del sergente Romano invasero Alberobello, dove, eliminate le guardie nazionali, si rifornirono di tutte le loro armi e munizioni.


    AGOSTO
    Agli inizi di agosto i gruppi patrioti del Pizzolungo e dello Scenna, in numero di 200, invasero nel Vastese le cittadine di Villalfonsina, Carpineto, Guilmi, Roio, Monteferrante, Colle di Mezzo, Pennadomo e Roccascalegna, dove saccheggiarono le case dei collaborazionisti dei piemontesi e li trucidarono.
    In Pantelleria la banda Ribera non riuscí in un tentativo di giustiziare il sindaco, connivente dei piemontesi, ma inflisse numerose perdite ai reparti piemontesi che li inseguivano. L’imprendibilità e le quasi sempre vittoriose azioni dei patrioti di Ribera indussero i piemontesi ad inviare nell'isola altri 500 soldati sotto il comando del feroce colonnello Eberhard, già sperimentato in azioni di controguerriglia nel continente.
    La continua opera di reclutamento e di propaganda di Garibaldi, finalizzata a conquistare anche Roma, indusse Vittorio Emanuele ad emanare il 3 agosto un proclama con cui, senza mai nominare il nizzardo, condannava la sua iniziativa.
    Il 4 agosto il gruppo patriota di Abriola invase e saccheggiò le case di alcuni traditori di Campomaggiore. Fra il 3 ed il 5 agosto, disgustati per l’ingrata opera di repressione, gli ussari e la fanteria ungherese stanziati a Lavello, Melfi e Venosa si misero in movimento per concentrarsi a Nocera, ma, bloccati e disarmati dai piemontesi, furono imbarcati a Salerno il 13 agosto per ordine di La Marmora, che li fece trasportare in piemonte. 150 ungheresi tuttavia riuscirono a fuggire con lo scopo di raggiungere Garibaldi.
    Sulle montagne tra Castro e Falvaterra, i patrioti, approfittando del marasma causato da Garibaldi, si erano lanciati in una cruenta offensiva e invasero i comuni di Campomaggiore, nel potentino, e Flumeri, nell’avellinese. La cittadina di Sturno fu occupata e tenuta fino al 7. Intensi combattimenti vi furono per tutto il mese nell’Alta Irpinia: a Bisaccia, Guardia Lombardi, Monteleone, Pescopagano, Avigliano, S. Sossio, Ariano, Genzano, Frigenti. Ogni piemontese scovato era immediatamente fucilato.
    Il 6 agosto Garibaldi si scontrò a S. Stefano di Bivona con le truppe piemontesi e si ebbero alcuni morti da ambo le parti. A Fantina, in Sicilia, sette volontari per Garibaldi della colonna Tasselli, dei quali cinque disertori piemontesi, vennero catturati da un reparto del 47° fanteria, comandato dal maggiore De Villata, e fucilati sul posto. Trentadue ufficiali della brigata «piemonte», che avevano dato le dimissioni nei pressi di Catania, furono arrestati e privati del grado dal Consiglio di disciplina di Torino, per «mancanza contro l’onore». A Torino, fu varata una legge che disponeva una «spesa straordinaria» di lire 23.494.500 per l’acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da destinarsi alle guardie nazionali.
    Verso la metà del mese, dal carcere di Granatello di Portici, vi fu un’evasione in massa di detenuti politici, che andarono ad ingrossare le bande partigiane.
    Nel frattempo, mentre il 13 agosto in Capitanata i patrioti avevano occupato Zapponeta ed otto comuni del Vastese, Garibaldi scorrazzava per la Sicilia, entrando in Catania il 18 agosto. La Marmora proclamò il 20 lo stato d’assedio in tutta la Sicilia e dichiarò ribelle Garibaldi, che si accingeva a risalire la penisola con il suo Corpo di Volontari.
    Il 22 agosto al massone Bastogi fu concesso l’appalto per la costruzione delle ferrovie nel sud dell’Italia, per cui fu costituita la società delle Strade Ferrate Meridionali. Nel consiglio d'amministrazione della società facevano parte ben 14 deputati piemontesi, che erano stati anche ricompensati con 675.000 lire per il loro «interessamento». Vice presidente della società fu nominato Bettino Ricasoli. Lo Stato accordò un sussidio a Bastogi di 20 milioni di lire e lo sfruttamento per 90 anni dei 1.365 chilometri di ferrovia da costruire. Tra i finanziatori vi erano la Cassa del Commercio di Torino, i fratelli massoni Isaac e Emile Pereire di Parigi, e la società di Credito mobiliare spagnolo (di cui Nino Bixio era consigliere di amministrazione). Tra i vari possessori delle azioni della società figuravano molti massoni, tra cui il fratello di Cavour, il marchese Gustavo, Nigra, Tecchio, Bomprini, Denina, Beltrami.
    Dopo lo sbarco di Garibaldi, il 24 a Pietra Falcone, sulla spiaggia tra Melito e Capo d’Armi, lo stato d’assedio fu esteso il 25 agosto a tutto il Mezzogiorno. Approfittando dello stato d’assedio i piemontesi saccheggiarono moltissime chiese, rubando ogni oggetto prezioso. Fu soppressa la libertà di stampa e di riunione. Anche la posta fu censurata. Fu instaurata una feroce dittatura militare. I principali comandanti patrioti di Terra d’Otranto, allora, si riunirono nel bosco di Pianella, a nord di Taranto, per concordare l’unità del comando e la condotta delle operazioni, con lo stabilire le zone di competenza. Il sergente Romano ebbe a disposizione oltre 300 uomini a cavallo, suddivisi agli ordini dei luogotenenti Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola La Veneziana, F.S. L’Abbate, Antonio Lo Caso (il capraro), Riccardo Colasuonno (Ciucciariello), Francesco Monaco (ex sottufficiale borbonico) e Giuseppe Valente (Nenna-Nenna, ex ufficiale garibaldino).
    In quei giorni, tutta la Terra d’Otranto rimase sotto il totale controllo dei patrioti.
    Sull’Aspromonte il 29 agosto, a seguito di un brusco voltafaccia del governo savoiardo (che fino allora l’aveva nascostamente appoggiato), vi fu uno scontro tra le truppe piemontesi e gli avventurieri di Garibaldi, che fu intenzionalmente ferito e fatto prigioniero. I piemontesi subito dopo gli scontri fucilarono a Fantina, senza alcun processo, sette disertori piemontesi che erano con Garibaldi, che a seguito della cattura fu rinchiuso per qualche tempo nel forte di Verignano. Pochissimi popolani l’avevano seguito nell’avventura, la maggior parte erano piemontesi disertori. Il Tribunale Militare degli invasori piemontesi emise in seguito 109 condanne a morte, 19 ergastoli e 93 condanne ai lavori forzati. Il Savoia, per questi fatti, concesse anche 76 medaglie al valore.
    Il 31 agosto un reparto del 18° bersaglieri uccise tredici patrioti ad Apice, in provincia di Benevento. I patrioti di Tristany ebbero uno scontro a fuoco con gli zuavi pontifici nei pressi di Falvaterra e a Castronuovo.


    SETTEMBRE
    Numerosi patrioti a cavallo attaccarono agli inizi di settembre reparti piemontesi di stanza nell’Irpinia a Flumeri, a S. Sossio ed a Monteleone, alla masseria Franza (Ariano) e nei boschi di S. Angelo dei Lombardi. Il 6 settembre i patrioti riuscirono a disarmare la guardia nazionale di Colliano, nelle terre di Campagna (Salerno). Notevole, il 7 settembre, lo scontro alla masseria Canestrelle, nel Nolano, di bersaglieri e cavalleggeri che attaccarono un gruppo di duecento patrioti, che furono costretti a disperdersi, perdendo tuttavia 15 uomini. Dopo qualche giorno, l’11 settembre, i patrioti di Crocco e di Sacchetiello si vendicarono alla masseria Monterosso di Rocchetta S. Antonio (Foggia) attaccando un drappello di venti bersaglieri del 30° battaglione che furono tutti uccisi. A Carbonara i patrioti di Sacchetiello massacrarono 25 bersaglieri del 20° battaglione, comandati dal sottotenente Pizzi. Aliano e Serravalle furono liberate dai patrioti che minacciarono di invadere anche Matera.
    In Pantelleria, nel frattempo, i piemontesi, che avevano instaurato in tutta l’isola una feroce legge marziale, riuscirono a convincere con la minaccia di ritorsioni quasi quattrocento isolani a collaborare con le truppe savoiarde. Formate tre colonne, il colonnello Eberhard, governatore militare dell’isola, fece avanzare il 18 settembre le truppe a raggiera per setacciare tutta l’isola. I patrioti erano nascosti in una profonda caverna posta quasi sulla sommità della Montagna Grande a 848 metri si altezza, in una posizione imprendibile, ma traditi da un pecoraio furono circondati e dopo una sparatoria, in cui morirono alcuni piemontesi, furono costretti ad arrendersi a causa del fumo di zolfo acceso davanti alla caverna che aveva reso l’aria irrespirabile. I patrioti ammanettati, laceri e smunti, furono fatti sfilare nelle strade di Pantelleria al suono di un tamburo e col tricolore spiegato, tra ali di gente commossa fino alle lagrime. Tutte le spese dell’operazione, lire 637, furono a carico del comune. Furono incarcerati a Trapani, ma alcuni, tra cui due fratelli Ribera, riuscirono a evadere dalle carceri della Colombaia. Dei rimanenti 14, processati il 14 giugno 1867, 10 furono condannati a morte per impiccagione e gli altri ai lavori forzati.
    A Roma, in quei giorni, Francesco II si trasferí con tutta la sua corte nel Palazzo Farnese, che era di proprietà dei Borbone, dopo averlo fatto ristrutturare, poiché erano secoli che non era stato abitato.



    OTTOBRE
    Il 1° ottobre a Palermo furono accoltellati simultaneamente, in luoghi diversi, tredici persone. Uno degli accoltellatori, inseguito e arrestato, confessò che gli era stato ordinato da un «guardapiazza» (quello che oggi viene chiamato mafioso) di colpire alla cieca e che erano stati pagati con danaro proveniente dal principe Raimondo Trigona di Sant’Elia, senatore del regno, delegato da Vittorio Emanuele II. Da successivi controlli fatti dal piemontese sostituto procuratore del re Guido Giacosa, evidentemente all’oscuro delle criminali intenzioni del governo piemontese, venne accertato che i moltissimi omicidi, avvenuti anche prima e molti altri dopo, avevano il solo scopo di «sconvolgere l’ordine» per poter permettere e giustificare la feroce repressione cosí da eliminare impunemente la resistenza siciliana antipiemontese. L’indagine, che portò a riconoscere la responsabilità di quei sanguinosi crimini al reggente della questura palermitana, il bergamasco (ma messinese di nascita) Giovanni Bolis, antico affiliato carbonaro con La Farina, fu, comunque, subito chiusa.
    In quel mese di ottobre vi furono moltissime, alcune violente, manifestazioni di quasi tutte le popolazioni delle Puglie e della Basilicata. I contadini si rifiutarono di eseguire i lavori nei campi per protestare contro gli abusi e le violenze dei soldati piemontesi. Alcuni contadini furono fucilati "per dare l'esempio".
    Un gruppo di patrioti di Romano, comandato da Valente, riunitisi nella masseria S. Teresa, decisero di attaccare la guardia nazionale e i carabinieri di Cellino e S. Pietro Vernotico, che li braccavano. Tre militari furono uccisi «perché portavano il pizzo all’italiana» e nove, furono sfregiati con l’asportazione di un lembo dell’orecchio, per essere cosí «pecore segnate». I gruppi di Tardio invasero i paesi di S. Marco La Bruna, Sacco e S. Rufo, dove sgominarono le guardie nazionali e ne saccheggiarono le case.
    Il 24 ottobre Tristany si scontrò sul confine pontificio con le truppe francesi e subí la perdita di due ufficiali.
    Nel mese di ottobre, essendosi fatta insostenibile la sistemazione dei prigionieri di guerra e dei detenuti politici, con la deportazione degli abitanti d'interi paesi, con le "galere" piene fino all'inverosimile, il governo piemontese diede incarico al suo ambasciatore a Lisbona di sondare la disponibilità del governo portoghese a cedere un'isola disabitata dell'Oceano Atlantico, al fine di relegarvi l'ingombrante massa di molte migliaia di persone da eliminare definitivamente. Il tentativo diplomatico, tuttavia, non ebbe successo, ma la notizia riportata il 31 ottobre dalla stampa francese suscitò una gran ripugnanza nell'opinione pubblica.



    NOVEMBRE
    Il maggiore piemontese Aichelburg con fanti e bersaglieri attaccò il 2 novembre a Tremoleto i patrioti di Petrazzi, uccidendo 9 guerriglieri. Tutto il Sud fu diviso in zone e sottozone con posti fissi di polizia e fu raddoppiato il numero dei carabinieri. I guerriglieri di Romano subirono una pesante sconfitta il 4 novembre presso la masseria Monaci. Per quest'avvenimento Romano divise le sue bande in piccoli gruppi piú manovrabili, seguendo la tattica di Crocco. A S. Croce di Magliano duecento patrioti di Michele Caruso attaccarono il 5 novembre la 13ª compagnia del 36° fanteria, massacrando il comandante ex garibaldino dei «mille», capitano Rota, e ventitré piemontesi. Il giorno dopo, inseguiti da un battaglione del 55° fanteria, gli stessi patrioti tesero loro un agguato e uccisero un sergente e tre soldati, senza subire perdite. A Torre di Montebello una compagnia di bersaglieri del 26° e cavalleggeri del «Lucca» in un furibondo combattimento distrusse l’8 novembre l’intera banda di Pizzolungo. Quelli che erano stati fatti prigionieri furono immediatamente fucilati.
    Il 16 novembre, nonostante l’opposizione di La Marmora, fu revocato da Rattazzi lo stato d’assedio nelle provincie meridionali, ma in realtà rimasero ancora in vigore la soppressione ed il divieto di introdurre nel Mezzogiorno tutta la stampa non governativa e la sospensione delle libertà d'associazione e di riunione. Addirittura furono intensificati gli arresti di semplici cittadini solo per il fatto di essere «sospetti» patrioti borbonici. In Capitanata, per ordine del generale Mazé de la Roche e del prefetto De Ferrari, furono compilate liste d'assenti dal domicilio e dei sospetti, furono istituiti fogli di via senza dei quali nessuno poteva uscire dagli abitati, imposero l’abbandono delle masserie e il divieto di portare generi alimentari nelle campagne. Cosí nell’avellinese furono perquisite e saccheggiate le case degli assenti, ai contadini fu ordinato di trasferirsi nei paesi con le masserizie, il bestiame ed il raccolto. Divenne sistematico l’arresto dei parenti dei patrioti fino al terzo grado. Le popolazioni, che già vivevano nel terrore e nei soprusi dei piemontesi, vissero in quei lunghi mesi in modo veramente tragico, anche perché ogni attività lavorativa fu in pratica soppressa e la vita economica e sociale ne fu paralizzata.
    Il 17 novembre, per reazione, vi furono in vari paesi molti attentati a esponenti liberali da parte dei patrioti. A Grottaglie i patrioti di «Pizzichicchio» s'impadronirono addirittura della cittadina, dove liberarono i detenuti dalle carceri e eliminarono tutti i possidenti liberali, che erano stati particolarmente oppressivi con i loro braccianti, devastandone e saccheggiandone le abitazioni. Furono abbattuti gli stemmi sabaudi e ripristinati le insegne borboniche tra le grida di esultanza di tutta la popolazione e financo del sindaco, che però giorni dopo fu arrestato dai piemontesi.
    Il generale Franzini fece uccidere il 20 novembre alla masseria Lamia nove patrioti delle bande di Petrozzi e Schiavone, catturati di sorpresa. L’indomani a Rapolla, nei pressi di Ponte Aguzzo, uno squadrone cavalleggeri «Saluzzo» attaccò un centinaio di patrioti di Crocco che perdette nove uomini. Altri venti, tra feriti e catturati, furono subito fucilati. I patrioti di Romano, in quel giorno, invasero le cittadine di Carovigno ed Erchie, disperdendone la guardia nazionale e saccheggiando le abitazioni dei liberali conniventi dei piemontesi.
    Il giorno 27 furono sorpresi a Casacalenda in una chiesa due patrioti che, dopo essere stati incarcerati a Larino, furono fucilati «per tentata fuga» due giorni dopo.
    Alla fine di novembre, morto il generale borbonico Statella, che da Roma ne coordinava le azioni, nonostante gli appoggi forniti dal generale Bosco, il gruppo di combattimento del colonnello Tristany si dissolse. Gli ufficiali stranieri se ne tornarono ai loro paesi e i gregari si riversarono in altri gruppi patrioti.


    DICEMBRE

    Bersagliere che si fa fotografare tenendo per i capelli un partigiano da lui assassinato (I piemontesi. Dopo aver assassinato i partigiani napoletani, spesso si facevano fare delle foto ricordo, che spedivano alle famiglie per mostrare il loro "eroismo")


    Il primo dicembre un reparto del 10° fanteria, per effetto di una delazione, riuscí a sorprendere alla masseria Monaci, nei pressi d'Alberobello, alcuni gruppi patrioti di Romano, di cui fucilò 14 uomini, compreso il capo partigiano La Veneziana.
    Il giorno 11 dicembre i patrioti a cavallo di Michele Caruso assaltarono vittoriosamente a Torremaggiore la 13ª compagnia del 55° fanteria, che tornava da Castelnuovo Daunia, dove aveva compiuto operazioni di leva. La compagnia ebbe molte perdite.
    A Ururi i piemontesi con uno stratagemma arrestarono il sindaco, tutti i consiglieri ed il prete come «sospetti» e li fecero incarcerare a Larino. A S. Croce di Magliano, su segnalazione del sindaco massone De Matteis, furono inviate truppe piemontesi a circondare le masserie Verticchio, De Matteis e Mirano, dove furono sorpresi e fucilati quattro patrioti. Nella stessa zona il comandante della guardia nazionale di S. Martino, il massone conte Bevilacqua, con cento uomini e una compagnia di fanti piemontesi riuscirono a catturare in un bosco circa 47 patrioti, che furono tutti fucilati a Larino.
    Il 14 dicembre, a Napoli, nel carcere di S. Maria Apparente vi furono violenti tumulti per le condizioni inumane in cui erano tenuti i prigionieri. Vivevano in fetore insopportabile. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva profferito ingiurie contro i Savoia. Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusate ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano imprigionate era solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti detenuti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.
    Questo era il governo dei Savoia, «vera negazione di Dio».
    A Torino, per acquietare l’opinione pubblica, fu nominata il 15 dicembre una Commissione d’inchiesta sul «brigantaggio», dopo che vi erano state numerose denunce contro le barbarie commesse dalle truppe piemontesi contro patrioti che difendevano la libertà delle loro terre. Un deputato, Giuseppe Ferrari, federalista convinto, aveva detto «...potete chiamarli briganti, ma i padri di questi briganti hanno per due volte rimesso i Borbone sul trono di Napoli... Ma in che consiste il brigantaggio? nel fatto che 1.500 uomini tengono testa a un regno e ad un esercito. Ma sono semidei, dunque, sono eroi! ...Io mi ricordo che vi dissi che avendo visitato le province meridionali avevo veduto una città di cinquemila abitanti distrutta, e da chi ? dai briganti ? NO!» La città era Pontelandolfo, rasa al suolo con orrende stragi, insieme a Casalduni, il 14 e 15 agosto 1861 per opera dei bersaglieri di Cialdini.
    Il 17 dicembre i bersaglieri del 29° battaglione riuscirono a sgominare i patrioti dell’avvocato Giacomo Giorgi presso Palata, nel Molise, dove uccisero 5 uomini, catturando anche una partigiana.
    La banda partigiana di Carbone fu accerchiata il 20 dicembre da fanteria, cavalleria e guardie nazionali nella masseria Boreano, nei pressi di Melfi. Furono tutti uccisi appena catturati.
    Il 21 dicembre cavalleggeri piemontesi sorpresero nella cascina Barcana, nei pressi di Venosa, una ventina di patrioti che fecero morire atrocemente tra le fiamme.
    Il 23 dicembre, migliaia di cittadini di Napoli inviarono una petizione al Re Francesco II con la quale, nell’indicare le barbarie degli invasori piemontesi, riaffermavano la fedeltà alla monarchia dei Borbone e la speranza di un prossimo ritorno sul trono delle Due Sicilie.
    Il giorno 29 lo squadrone cavalleggeri «Saluzzo», stanziato a Gioia del Colle, salvò un drappello di guardie nazionali di Acquaviva che erano stati circondate dai patrioti. In Capitanata, reparti dell’8°, del 36° e del 49° fanteria, comandati dal colonnello Favero, attaccati il 31 dicembre da un consistente numero di patrioti vennero sterminati con perdite superiori ai 150 morti.
    L’anno si chiuse con una relazione alla Camera di Torino sulla situazione nell’ex Regno delle Due Sicilie con i dati ufficiali di 15.665 fucilati, 1.740 imprigionati, 960 uccisi in combattimento. Gli scontri a fuoco di una certa consistenza nell’anno furono 574. I Duosiciliani emigrati all’estero furono circa 6.800 persone. Le forze piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti di fanteria, 51 «quarti» battaglioni di altri reggimenti, 22 battaglioni bersaglieri, 8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di artiglieria. Nei territori delle Due Sicilie si contavano circa 400 bande di patrioti legittimisti, comandate per la maggior parte da ex militari borbonici.
    Il piemonte, che era lo Stato piú indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta disponendo alla fine dell'anno l’unificazione del «suo» debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, ai traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la «liberazione» e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate proprio alle regioni «liberate». Anche l’arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, semplice e soprattutto efficace nell’imposizione e nella riscossione, indubbiamente tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza «italiana».
    Antonio Pagano
    per risorgere bisogna insorgere

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    1862, la pulizia etnica piemontese
    ( dal PeriodicoDueSicilie 05/1999)
    Fu questo il primo anno in cui il vessillo borbonico dello Stato indipendente delle Due Sicilie non sventolava piú nelle nostre terre, che, avviluppate in un plumbeo sudario di morte, cercavano di liberarsi dai nuovi barbari invasori: i predoni e assassini piemontesi. Gli avvenimenti, di cui siamo certi, elencati cronologicamente, volutamente scarni di ogni commento, fanno inequivocabilmente comprendere cosa deve essere stato per le nostre popolazioni vivere in quegli anni.
    Non dimentichiamolo. Non dimentichiamolo mai.
    Alla fine dell’anno 1861, la statistica, fatta dagli occupanti piemontesi, indicò che nel solo secondo semestre vi erano stati 733 fucilati, 1.093 uccisi in combattimento e 4.096 fra arrestati e costituiti. Le cifre fornite, tuttavia, furono molto al disotto del vero, in quanto non comprendevano quelle delle zone della Capitanata, di Caserta, del Molise e di Benevento, dove comandava il notissimo assassino Pinelli.
    Al Senato di Torino, il ministro della guerra Della Rovere, dichiarò che 80.000 uomini dell'ex armata napoletana, imprigionati in varie località della penisola, avevano rifiutato di servire sotto le bandiere piemontesi. Vi erano state migliaia di profughi, centinaia i paesi saccheggiati, decine quelli distrutti. Dovunque erano diffuse la paura, l’odio e la sete di vendetta. L’economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche erano state chiuse e il commercio si era inaridito in intere provincie. La fame e la miseria erano diventate un fatto comune tra la maggior parte della popolazione, che trovò nell’emigrazione l‘unica possibilità di sopravvivenza alla pulizia etnica fatta dai piemontesi.
    Antonio Pagano


    GENNAIO
    Il 1°, in Sicilia, insorse Castellammare del Golfo al grido di «fuori i Savoia. Abbasso i pagnottisti. Viva la Repubblica». Furono uccisi il comandante collaborazionista della guardia nazionale, Francesco Borruso, con la figlia e due ufficiali. Case di traditori unitari vennero arse. Strappati i vessilli sabaudi, spogliati ed espulsi i carabinieri. Le guardie e i soldati accorsi da Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi in fuga dai rivoltosi.
    Il 3 gennaio arrivarono nel porto di Castellammare la corvetta «Ardita» e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma con lo sbarco dei bersaglieri del generale Quintini i rivoltosi furono costretti alla fuga. I piemontesi subito incominciarono a fucilare centinaia di insorti catturati, tra cui alcuni preti. A Palermo comparirono sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una bandiera gigliata.
    In quei giorni il generale borbonico Tristany, accompagnato da una decina di ufficiali Spagnoli e Napolitani, ebbe un nuovo abboccamento con il comandante partigiano Chiavone, al quale ripeté la richiesta di subordinare le sue forze alla sua azione di comando affidatogli dal Re Francesco II.
    A Marsala, durante la caccia ai patrioti siciliani, le truppe piemontesi circondarono la città e arrestarono oltre tremila persone, per lo piú parenti dei ricercati, comprese donne e bambini, che furono ammassate per settimane nelle catacombe sotterranee vicine alla città, in condizioni disumane, dove furono lasciate prive di luce e di aria, senza possibilità di sfamarsi.
    Al ponte di Sessa un plotone di lancieri cadde in un agguato dei partigiani napolitani e sedici soldati furono uccisi. A Napoli si ebbero tumulti per l’applicazione della legge che aveva imposta la nuova tassa detta il decimo di guerra.
    Proprio in gennaio furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell’ex Reame provocando il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio. Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia. Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa e incominciarono le prime emigrazioni verso l’estero, l’inizio di una vera e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già devastate Terre Napoletane e Siciliane soprattutto le forze umane piú intraprendenti.
    A questo grave disastro si aggiunse l’affidamento degli appalti (e le ruberie) per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in Sicilia ad imprese lombardo-piemontesi che furono pagate con il drenaggio fiscale operato dai piemontesi nelle Due Sicilie. La solida moneta aurea ed argentea borbonica venne sostituita dalla carta moneta piemontese, provocando la piú grande devastazione economica mai subita da un popolo.
    Il 22 gennaio sul Fortore, nel Foggiano, una banda di 140 patrioti a cavallo attaccò una compagnia di fanti piemontesi che furono decimati. A Napoli militari piemontesi isolati caddero vittime di attentati. A Mugnano, la banda partigiana di Angelo Bianco, caduta in un agguato, fu completamente assassinata dai bersaglieri e dalle vigliacche guardie nazionali.

    FEBBRAIO
    Il 1°, nei boschi di Lagopesole, due compagnie di bersaglieri e fanti assaltarono i patrioti di Ninco-Nanco e Coppa, uccidendone 11 e catturando una donna. Proprio in quel giorno il turpe traditore Liborio Romano, quale deputato, propose nel parlamento piemontese di vendere tutti i beni demaniali e degli istituti di beneficenza delle Due Sicilie a prezzo minore del valore reale, a rate fino a 26 anni, pagabile con titoli di Stato al 5%.
    Il giorno dopo la banda di Giuseppe Caruso sgominò un reparto del 46° fanteria nel bosco di Montemilone.
    A Reggio Calabria, il 5 febbraio, vennero imprigionati tutti quelli "sospettati" di essere filoborbonici. Sul confine pontificio, lo stesso giorno, alcuni gruppi patrioti comandati dal Tristany furono sconfitti dalle truppe piemontesi nei pressi di Pastena. Pilone, invece, a Scafati sfuggí ad un agguato tesogli dalle collaborazioniste guardie nazionali di Castellammare.


    Il criminale di guerra piemontese generale Alfonso La Marmora
    A Vallo di Bovino furono catturati e fucilati dai patrioti due ufficiali piemontesi. Il generale La Marmora, in visita a Pompei, sfuggí ad un attentato da parte della banda di Pilone. A Napoli venne minacciata da Pilone la stessa duchessa di Genova, cognata di Vittorio Emanuele, a cui Pilone intimò con una lettera di non uscire da Napoli, pena la cattura.
    I terrorizzati piemontesi, in quei giorni, persero completamente il controllo della situazione, emanando dei bandi e ordinanze feroci, soprattutto nel Gargano e in Lucera, dove furono eseguite pene di morte per la violazione dei piú piccoli divieti. Il col. Fantoni in terra di Lucera, dopo aver vietato l’accesso alla foresta del Gargano, fece affiggere un editto che disponeva che: «Ogni proprietario, affittuario o ogni agente sarà obbligato immediatamente dopo la pubblicazione di questo editto a ritirare le loro greggi, le dette persone saranno altresí obbligate ad abbattere tutte le stalle erette in quei luoghi ... Quelli che disobbediranno a questi ordini, i quali andranno in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza avere riguardo per tempo, luogo o persona, considerati come briganti e come tali fucilati».
    L’8 febbraio evasero dalle carceri di Teramo 55 patrioti, che si rifugiarono sui monti sotto il comando di Persichini. Inseguiti da un reparto del 41° fanteria, cinque furono uccisi e tredici catturati, ma anche questi furono fucilati dopo qualche giorno. Durante una riunione in una masseria di S. Chirico in Episcopio, la banda di Cioffi, tradita da un tal Lupariello, fu circondata ed assalita da ingenti forze piemontesi, ma l’inattesa e violentissima reazione dei patrioti causò uno sbandamento degli assedianti. Pur subendo due morti e molti feriti, Cioffi riuscí a sganciarsi con tutti i suoi uomini. I cadaveri dei due patrioti morti in combattimento furono esposti dai piemontesi nella piazza della Maddalena a Sarno.
    Qualche giorno dopo il Lupariello fu catturato dai partigiani e, sottoposto ad un giudizio, fu giustiziato; poi la sua testa fu apposta su una pertica vicino a una sorgente frequentata dalla popolazione.
    Il 12 febbraio il colonnello della guardia nazionale di Cosenza, Pietro Fumel, emanò un bando da Cirò veramente raccapricciante : «Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che, in onta degli ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente fucilati ... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati ... È proibito di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice dei briganti.» Costui, un sanguinario assassino, praticò metodicamente il terrore e la tortura contro inermi cittadini e le loro proprietà per distruggere ogni possibile aiuto ai patrioti.
    Questi orrendi misfatti ebbero un’eco perfino alla camera dei Lords di Londra, dove nel maggio del 1863, il parlamentare Bail Cochrane, a proposito del proclama del Fumel, affermò : «Un proclama piú infame non aveva mai disonorato i peggiori dí del regno del terrore in Francia», per cui gli ufficiali che avevano emanato quegli ordini furono allontanati dai propri reparti.
    Il famoso comandante Crocco, aveva diviso la sua banda di circa 600 uomini in sei gruppi, e l’aveva disseminata nei boschi di Monticchio, Boceto, San Cataldo e Lagopesole. I suoi gruppi patrioti con rapide scorrerie misero a sacco le masserie dei traditori nella zona di Altamura. Poi, il 24 febbraio, Crocco assaltò la guardia nazionale di Corato e batté i cavalleggeri del generale Franzini in uno scontro presso Accadia, dove però perse dodici uomini.





    MARZO

    L'eroico ed imprendibile Comandante Partigiano Generale Carmine Donatelli detto Crocco


    Il 1°, Crocco riuní nel bosco di Policoro, presso la foce del Basento, i suoi patrioti a quelli di Summa, Coppa, Giuseppe Caruso e Cavalcante, in previsione del piano elaborato dal Comitato Borbonico in Roma (Clary e Statella) di attaccare Avezzano con duemila uomini comandati da Tristany. L’operazione aveva il fine tattico di allontanare le truppe piemontesi dal confine pontificio per lunghi tratti, onde permettere ad altre forze borboniche di invadere gli Abruzzi con la contemporanea sollevazione di tutti i patrioti del Reame. Era previsto anche uno sbarco, sul litorale ionico, di elementi legittimisti spagnoli e austriaci. Una spia infiltrata, Raffaele Santarelli, fece conoscere in tempo il piano ai piemontesi, che presero contromisure sia navali, con la flotta di Taranto, sia per via terrestre con un concentramento di bersaglieri e cavalleggeri.
    Il 3 e il 4 marzo Crocco si scontrò al ponte S. Giuliano, sul Bradano, con il 36° fanteria e lo mise in fuga, ma subendo alcune perdite. Nei giorni successivi, l’8 marzo, a S. Pietro di Monte Corvino, si ebbe un altro scontro di patrioti contro piemontesi, che subirono numerose perdite. Il giorno dopo Crocco sconfisse alcuni reparti di guardie nazionali alla masseria Perillo, nei pressi di Spinazzola, uccidendone dieci, compreso il comandante, maggiore Pasquale Chicoli, un traditore che aveva formato il governo provvisorio di Altamura ancora prima dell’arrivo dei garibaldini.
    Il 10 marzo Pilone occupò Terzigno, dove, dopo aver requisito armi e munizioni, fucilò i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Il governatore piemontese dispose che tutto il 7° reggimento di fanteria venisse destinato a catturare Pilone.
    A Baiano, il 12 marzo, venne fucilato un contadino di 16 anni, Antonio Colucci, che, stando su un albero in una masseria di Nola, aveva segnalato ai patrioti l’arrivo di piemontesi. Il ragazzo era stato catturato e processato da un tribunale di guerra che lo condannò alla pena capitale.
    Nel frattempo continuarono numerosi gli attacchi dei partigiani napoletani, vere e proprie azioni di guerra, contro le truppe piemontesi. Tra gli episodi piú importanti sono da ricordare quello del 17 marzo, quando la banda di Michele Caruso sterminò alla masseria Petrella (Lucera) un intero distaccamento di 21 fanti dell’8° fanteria, comandato dal capitano Richard. Il 31 marzo ad Ascoli di Capitanata i patrioti sconfissero, procurando centinaia di morti, i bersaglieri e i cavalleggeri del colonnello Del Monte. Lo stesso giorno, a Poggio Orsini, presso Gravina, i piemontesi misero in fuga un centinaio di patrioti, ma a Stornarella furono massacrati 17 lancieri del «Lucca», che ebbe anche 4 dispersi. La provincia di Bari, la terra d’Otranto ed il Tarantino erano tuttavia controllate dalle forze partigiane. In questi avvenimenti vi furono molti garibaldini ed anche regolari piemontesi che disertarono e si unirono ai briganti. Tra questi disertori è da ricordare come esempio quello dell’operaio biellese Carlo Antonio Gastaldi, decorato con medaglia d’argento al valor militare nella battaglia di Palestro del 1859. Inviato nelle Puglie a combattere i «briganti», fu talmente schifato delle nefandezze piemontesi, che divenne addirittura luogotenente del Sergente Romano, insieme ad un altro piemontese, Antonio Pascone.
    Alla fine di marzo, nel parlamento di Torino fu istituita un Commissione con il compito di studiare le condizioni delle provincie meridionali. Tale Commissione, presieduta dai massoni Giuseppe Montanelli e Luigi Miceli, suggeriva, tra l’altro, di iniziare numerosi e svariati lavori pubblici, istituire nuove scuole comunali per «illuminare» la gioventú, l’incameramento totale dei beni religiosi, la divisione e vendita dei beni demaniali e comunali. Per la risoluzione del «brigantaggio» la commissione proponeva anche l’invio di Garibaldi a Napoli e l’aumento delle guardie nazionali.


    APRILE
    Il giorno 4, la legione ungherese, già "usata" da Garibaldi nella sua spedizione, riuscí ad infliggere alcune perdite a Crocco tra Ascoli e Cerignola.
    Il 6 aprile 200 patrioti assalirono Luco de’ Marsi dove si era asserragliato un reparto del 44° fanteria, che si difese efficacemente.
    Poi il 7 aprile Crocco sconfisse due drappelli del 6° fanteria a Muro, Aquilonia e Calitri, uccidendo una ventina di piemontesi e facendo numerosi prigionieri.
    A Torre Fiorentina, presso Lucera, l’8 aprile, i lancieri di Montebello uccisero trenta patrioti. Il giorno dopo circondarono i rimanenti patrioti di Coppa e Minelli, che furono quasi completamente distrutti: 40 morti, 21 fucilati dopo la cattura ed altri 42 uccisi mentre «tentavano la fuga». In Sicilia, ad Apaforte, Stincone, S. Cataldo e Boccadifalco, la popolazione insorse dando alle fiamme le cataste di zolfo. Furono distrutte tutte le piantagioni e gli animali per protesta contro le vessazioni dei piemontesi.
    Le truppe francesi di stanza nello Stato Pontificio sequestrarono il 10 aprile le armi e munizioni borboniche a Paliano, a Ceprano, a Falvaterra. Le armi avrebbero dovuto servire per il piano d’invasione capeggiato dal Tristany.
    Con una delibera del 13 aprile la piazza nota come «Largo di Castello», dov’è situato il Maschio Angioino, fu fatta chiamare Piazza Municipio dal sindaco massone Giuseppe Colonna.
    In quei giorni la banda di Pagliaccello, di Cerignola, fu dispersa dai cavalleggeri «Lucca», che fucilarono 21 patrioti.
    Duro colpo anche alla banda di Crocco che il 25 aprile 1862, alla masseria Stragliacozza, subí un improvviso attacco dai piemontesi che riuscirono a metterla in fuga, uccidendone 25 uomini.
    Alla fine del mese, il 28 aprile, Vittorio Emanuele si recò a Napoli a bordo della nave «Maria Adelaide» e fece un donativo alla statua di S. Gennaro per ingraziarsi i Napoletani.
    Ma S. Gennaro non abboccò e non fece il «miracolo».


    MAGGIO
    Crocco, nonostante le dure sconfitte, continuò eroicamente le sue azioni di guerra e il 7 maggio sterminò a Zungoli un distaccamento del 37° fanteria. Tuttavia il giorno dopo, tra Canosa e Minervino, i patrioti di Summa persero 15 uomini per un fortunoso attacco dei cavalleggeri. Nell’occasione fu ferito Ninco-Nanco. Nel prosieguo dell’azione alcune guardie nazionali catturarono una donna, la quale portava in campagna un pezzo di pane al figlio che essi ritenevano un patriota. La legarono, la fecero inginocchiare e la fucilarono.
    Il 7 maggio esplose anche lo scandalo riguardante la concessione degli appalti per la costruzione delle ferrovie meridionali al massone Adami. Il direttore del giornale «Espero» di Torino che aveva avuto il coraggio di denunciare alla pubblica opinione le speculazioni commesse da Bertani e dall’Adami, fu condannato per diffamazione e per ingiurie a due mesi di carcere e a 300 lire di multa. Naturalmente lo scandalo, che cointeressava anche una trentina di deputati piemontesi, fu insabbiato alla maniera savoiarda.
    Chiavone invase e saccheggiò Fontechiari il 10 maggio.
    Intanto, allo scopo di impossessarsi dell’industria napoletana del gas per ricompensare gli inglesi dell’aiuto ricevuto, i governanti piemontesi avevano subdolamente fatte fare numerose critiche per la qualità del servizio, indicendo una gara per una nuova concessione. Alla gara si presentarono numerosi concorrenti, ed il 12 maggio 1862 venne firmato il nuovo contratto di appalto dell'illuminazione a gas con la ditta Parent, Shaken and Co. La nuova Società venne costituita il 18 ottobre dello stesso anno con il nome di «Compagnia Napoletana d'Illuminazione e Scaldamento col Gaz», che verso la fine dell'anno seguente inaugurò un nuovo opificio nella zona dell'Arenaccia lungo il fiume Sebeto.
    Il 18 maggio le collaborazioniste guardie nazionali di Ariano, incontrati presso Sprinia i patrioti di Parisi, si rifiutarono di battersi e si diedero alla fuga, ma ne furono catturate 14. A Catania vi fu un’insurrezione lo stesso 18 maggio, ma fu rapidamente repressa dalle truppe piemontesi che massacrarono 49 civili. Il giorno dopo Chiavone conquistò Fontechiari e Pescosolido, riunendosi con i patrioti di Tamburini e Pastore. Con tutte queste forze tentano di assalire anche Castel di Sangro, ma vennero respinti e costretti a rifugiarsi nel territorio pontificio.
    A Roma, intanto, erano avvenute le nozze tra Maria Annunziata, una delle prime figlie di Ferdinando II, e l’arciduca Carlo Lodovico, fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe. Da questo matrimonio nacque l’erede al trono dell’Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando, che fu sempre uno strenuo nemico dell’Italia dei Savoia. L’uccisione di Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1914 fu la causa determinante dello scoppio della I guerra mondiale.
    Il 29 maggio a Mola di Gaeta fu catturato, e poi fucilato dai piemontesi, il conte rumeno Edwin Kalchreuth, il famoso capo patriota «conte Edwino», ex ufficiale della cavalleria borbonica che aveva agito unitamente a Chiavone nella Terra del Lavoro e negli Abruzzi.


    GIUGNO
    In giugno i patrioti non diedero tregua ai piemontesi. Il giorno 2, il 44° fanteria fu attaccato al confine tra Abruzzi e Terra del Lavoro, perdendovi cinque uomini. Il 7 giugno Chiavone invase Pescosolido, dove fece rifornimenti per il suo raggruppamento. Ad Acqua Partuta, nel beneventano, il 14 giugno, i patrioti uccisero 11 guardie nazionali e 4 carabinieri che li avevano assaliti. Numerosi patrioti di Guardiagrele attaccarono Gamberale, ma furono respinti da reparti del 42° fanteria.
    Il giorno 15, la legione ungherese, in un drammatico ed imprevisto scontro, distrusse nel bosco di Montemilone una banda partigiana di 27 uomini. Presso Ginestra la banda Tortora in uno scontro con gli stessi ungheresi perse 13 uomini. Poi, il giorno dopo, alla masseria La Croce la 4ª compagnia del 33° bersaglieri fu assalita da Crocco e da Coppa, subendo molte perdite. A S. Marco in Lamis fu catturato il capo patriota Angelo Maria del Sambro e quattro suoi compagni, tra cui il dottor Nicola Perifano, già chirurgo del 3° Dragoni napoletano, piú volte decorato. Furono tutti immediatamente fucilati.
    Numerosi furono gli scontri contro i piemontesi, particolarmente tra il 61° ed il 62°, e i patrioti che presidiavano i boschi di Monticchio, di Lagopesole e di S. Cataldo. Il 17 giugno Chiavone, dopo essersi riunito con i patrioti abruzzesi di Luca Pastore e di Nunzio Tamburini sull’altopiano delle Cinque Miglia, invase Pietransieri e attaccò Castel di Sangro, dove però fu respinto. Rientrato nel territorio pontificio, tuttavia, il Tristany il 28 giugno lo fece arrestare e processare da un consiglio di guerra, che lo condannò a morte per rapina e omicidio. La fucilazione di Chiavone volle essere anche un esempio per far attenere i patrioti alle direttive impartite dal Comitato Borbonico.
    Tutta la penisola sorrentina intanto veniva continuamente rastrellata da numerosi reparti piemontesi, ma senza alcun esito. A Torre del Greco il 7° fanteria, rinforzato da colonne mobili della guardia nazionale, riuscí a circondare sulle alture della cittadina il gruppo di combattimento di Pilone. Dopo un furioso combattimento, il grosso dei patrioti di Pilone, riuscí a sganciarsi, ma con numerose perdite e molti prigionieri, che il giorno dopo furono fucilati dai piemontesi. Dopo qualche giorno Pilone attaccò temerariamente in località Passanti una colonna di truppe piemontesi, liberando anche alcuni prigionieri che stavano per essere fucilati.
    Garibaldi, nel frattempo, che era comparso nuovamente in Sicilia il 20 maggio per fomentare una rivolta diretta alla conquista di Roma, si recò il 29 giugno a Palermo, dov’erano in visita i principi Umberto e Amedeo. Il giorno dopo, al Teatro «Garibaldi», pronunciò uno sconclusionato discorso, affermando che se fosse stato necessario avrebbe fatto un altro Vespro Siciliano. All’indomani si recò alla Ficuzza per arruolare volontari da impiegare per la conquista di Roma e di Venezia.
    La Capitanata, il Gargano e la Terra di Bari erano in concreto nelle mani dei patrioti. Lo stillicidio delle continue perdite subite in luglio dai piemontesi indusse il governo piemontese a sostituire il comandante della zona, generale Seismit-Doda, con il generale massone Gustavo Mazé de la Roche. Costui, per tagliare i rifornimenti ai gruppi patrioti, fece incendiare i pagliai, murare le porte e finestre delle masserie e arrestare tutte le persone che circolavano fuori degli abitati. La reazione dei patrioti fu immediata con la rapida invasione di grossi paesi, come Torremaggiore, con la razzia di molte mandrie, con l’incendio di masserie dei traditori collaborazionisti e con ripetuti attacchi, nei pressi di S. Severo, ai cantieri della ferrovia Pescara-Foggia allora in costruzione.
    Il 30 giugno 1862 il generale Tristany, per dare un esempio, fece fucilare due capi patrioti, Antonio Teti e Giuseppe de Siati, che, quali armati per la lotta di liberazione delle Due Sicilie, avevano commesso illegittimamente alcuni furti durante azioni di guerriglia. Il Tristany aveva voluto, con quest'episodio, dare carattere esclusivamente militare alle azioni guerrigliere dirette soprattutto contro le pattuglie piemontesi in perlustrazione nelle campagne. Lo stesso giorno la banda dei patrioti comandata dai fratelli Ribera partí da Malta e sbarcò a Pantelleria, allo scopo di liberare l’isola dai piemontesi e per ripristinare il governo borbonico. Con l’aiuto di tutta la popolazione, i patrioti compirono numerose azioni contro i traditori collaborazionisti e le guardie nazionali che prevaricavano sulla gente.


    LUGLIO
    Il 1° luglio, da Roma, il Re Francesco II elevò formale protesta diplomatica presso le cancellerie europee che avevano riconosciuto i Savoia re d’Italia.
    Nei primi giorni di luglio, il famoso comandante patriota Giuseppe Tardio, uno studente di Piaggine Soprano, che aveva organizzato il suo gruppo di combattimento nell’ottobre del 1861 nella zona di Agropoli, dopo aver eliminate le guardie nazionali che incontrava, invase con i suoi uomini prima Futani e poi Abatemarco, Laurito, Foria, Licusati, Centola e Camerota. Nella sua avanzata gli si aggregarono molte centinaia di patrioti, che in seguito dovettero tuttavia disperdersi per i continui attacchi di migliaia di truppe piemontesi.
    Il 6 luglio Garibaldi, in occasione di una rivista alla guardia nazionale a Palermo, pronunziò davanti alle autorità un violento discorso contro Napoleone III che riteneva responsabile del brigantaggio.
    Altro scontro dei patrioti di Crocco avvenne il 14 luglio a Lacedonia con i bersaglieri, che persero cinque uomini. Si ebbero nel mese ancora numerosi scontri tra piemontesi e patrioti, che attaccavano all’improvviso ed improvvisamente sparivano. Il 16 luglio un reparto del 17° bersaglieri, in un durissimo e prolungato combattimento, uccise il comandante partigiano Malacarne (fratello del famoso Sacchettiello) ed altri sei patrioti. Il 19 luglio molti patrioti abruzzesi attaccarono presso Fossacesia il magazzino degli imprenditori ferroviari Martinez, uccidendo alcuni tecnici, e invasero l’abitato che fu saccheggiato. Ad Amalfi però la superiorità partigiana si manifestò in tutta la sua evidenza quando il 22 luglio i partigiani occuparono la città, tenendola addirittura per due giorni. Lo stesso giorno, tuttavia, la legione ungherese uccise 12 patrioti a Tortora. Alla fine di luglio, sui monti del Matese, nelle zone di Piedimonte d’Alife e di Cerreto Sannita, i gruppi di combattimento patriottici di Cosimo Giordano, Padre Santo e De Lellis contrastarono ferocemente e vittoriosamente i rastrellamenti effettuati dai reparti del 39° e 40° fanteria.
    Il 26 luglio, dopo un lungo silenzio, i patrioti del sergente Romano invasero Alberobello, dove, eliminate le guardie nazionali, si rifornirono di tutte le loro armi e munizioni.


    AGOSTO
    Agli inizi di agosto i gruppi patrioti del Pizzolungo e dello Scenna, in numero di 200, invasero nel Vastese le cittadine di Villalfonsina, Carpineto, Guilmi, Roio, Monteferrante, Colle di Mezzo, Pennadomo e Roccascalegna, dove saccheggiarono le case dei collaborazionisti dei piemontesi e li trucidarono.
    In Pantelleria la banda Ribera non riuscí in un tentativo di giustiziare il sindaco, connivente dei piemontesi, ma inflisse numerose perdite ai reparti piemontesi che li inseguivano. L’imprendibilità e le quasi sempre vittoriose azioni dei patrioti di Ribera indussero i piemontesi ad inviare nell'isola altri 500 soldati sotto il comando del feroce colonnello Eberhard, già sperimentato in azioni di controguerriglia nel continente.
    La continua opera di reclutamento e di propaganda di Garibaldi, finalizzata a conquistare anche Roma, indusse Vittorio Emanuele ad emanare il 3 agosto un proclama con cui, senza mai nominare il nizzardo, condannava la sua iniziativa.
    Il 4 agosto il gruppo patriota di Abriola invase e saccheggiò le case di alcuni traditori di Campomaggiore. Fra il 3 ed il 5 agosto, disgustati per l’ingrata opera di repressione, gli ussari e la fanteria ungherese stanziati a Lavello, Melfi e Venosa si misero in movimento per concentrarsi a Nocera, ma, bloccati e disarmati dai piemontesi, furono imbarcati a Salerno il 13 agosto per ordine di La Marmora, che li fece trasportare in piemonte. 150 ungheresi tuttavia riuscirono a fuggire con lo scopo di raggiungere Garibaldi.
    Sulle montagne tra Castro e Falvaterra, i patrioti, approfittando del marasma causato da Garibaldi, si erano lanciati in una cruenta offensiva e invasero i comuni di Campomaggiore, nel potentino, e Flumeri, nell’avellinese. La cittadina di Sturno fu occupata e tenuta fino al 7. Intensi combattimenti vi furono per tutto il mese nell’Alta Irpinia: a Bisaccia, Guardia Lombardi, Monteleone, Pescopagano, Avigliano, S. Sossio, Ariano, Genzano, Frigenti. Ogni piemontese scovato era immediatamente fucilato.
    Il 6 agosto Garibaldi si scontrò a S. Stefano di Bivona con le truppe piemontesi e si ebbero alcuni morti da ambo le parti. A Fantina, in Sicilia, sette volontari per Garibaldi della colonna Tasselli, dei quali cinque disertori piemontesi, vennero catturati da un reparto del 47° fanteria, comandato dal maggiore De Villata, e fucilati sul posto. Trentadue ufficiali della brigata «piemonte», che avevano dato le dimissioni nei pressi di Catania, furono arrestati e privati del grado dal Consiglio di disciplina di Torino, per «mancanza contro l’onore». A Torino, fu varata una legge che disponeva una «spesa straordinaria» di lire 23.494.500 per l’acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da destinarsi alle guardie nazionali.
    Verso la metà del mese, dal carcere di Granatello di Portici, vi fu un’evasione in massa di detenuti politici, che andarono ad ingrossare le bande partigiane.
    Nel frattempo, mentre il 13 agosto in Capitanata i patrioti avevano occupato Zapponeta ed otto comuni del Vastese, Garibaldi scorrazzava per la Sicilia, entrando in Catania il 18 agosto. La Marmora proclamò il 20 lo stato d’assedio in tutta la Sicilia e dichiarò ribelle Garibaldi, che si accingeva a risalire la penisola con il suo Corpo di Volontari.
    Il 22 agosto al massone Bastogi fu concesso l’appalto per la costruzione delle ferrovie nel sud dell’Italia, per cui fu costituita la società delle Strade Ferrate Meridionali. Nel consiglio d'amministrazione della società facevano parte ben 14 deputati piemontesi, che erano stati anche ricompensati con 675.000 lire per il loro «interessamento». Vice presidente della società fu nominato Bettino Ricasoli. Lo Stato accordò un sussidio a Bastogi di 20 milioni di lire e lo sfruttamento per 90 anni dei 1.365 chilometri di ferrovia da costruire. Tra i finanziatori vi erano la Cassa del Commercio di Torino, i fratelli massoni Isaac e Emile Pereire di Parigi, e la società di Credito mobiliare spagnolo (di cui Nino Bixio era consigliere di amministrazione). Tra i vari possessori delle azioni della società figuravano molti massoni, tra cui il fratello di Cavour, il marchese Gustavo, Nigra, Tecchio, Bomprini, Denina, Beltrami.
    Dopo lo sbarco di Garibaldi, il 24 a Pietra Falcone, sulla spiaggia tra Melito e Capo d’Armi, lo stato d’assedio fu esteso il 25 agosto a tutto il Mezzogiorno. Approfittando dello stato d’assedio i piemontesi saccheggiarono moltissime chiese, rubando ogni oggetto prezioso. Fu soppressa la libertà di stampa e di riunione. Anche la posta fu censurata. Fu instaurata una feroce dittatura militare. I principali comandanti patrioti di Terra d’Otranto, allora, si riunirono nel bosco di Pianella, a nord di Taranto, per concordare l’unità del comando e la condotta delle operazioni, con lo stabilire le zone di competenza. Il sergente Romano ebbe a disposizione oltre 300 uomini a cavallo, suddivisi agli ordini dei luogotenenti Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola La Veneziana, F.S. L’Abbate, Antonio Lo Caso (il capraro), Riccardo Colasuonno (Ciucciariello), Francesco Monaco (ex sottufficiale borbonico) e Giuseppe Valente (Nenna-Nenna, ex ufficiale garibaldino).
    In quei giorni, tutta la Terra d’Otranto rimase sotto il totale controllo dei patrioti.
    Sull’Aspromonte il 29 agosto, a seguito di un brusco voltafaccia del governo savoiardo (che fino allora l’aveva nascostamente appoggiato), vi fu uno scontro tra le truppe piemontesi e gli avventurieri di Garibaldi, che fu intenzionalmente ferito e fatto prigioniero. I piemontesi subito dopo gli scontri fucilarono a Fantina, senza alcun processo, sette disertori piemontesi che erano con Garibaldi, che a seguito della cattura fu rinchiuso per qualche tempo nel forte di Verignano. Pochissimi popolani l’avevano seguito nell’avventura, la maggior parte erano piemontesi disertori. Il Tribunale Militare degli invasori piemontesi emise in seguito 109 condanne a morte, 19 ergastoli e 93 condanne ai lavori forzati. Il Savoia, per questi fatti, concesse anche 76 medaglie al valore.
    Il 31 agosto un reparto del 18° bersaglieri uccise tredici patrioti ad Apice, in provincia di Benevento. I patrioti di Tristany ebbero uno scontro a fuoco con gli zuavi pontifici nei pressi di Falvaterra e a Castronuovo.


    SETTEMBRE
    Numerosi patrioti a cavallo attaccarono agli inizi di settembre reparti piemontesi di stanza nell’Irpinia a Flumeri, a S. Sossio ed a Monteleone, alla masseria Franza (Ariano) e nei boschi di S. Angelo dei Lombardi. Il 6 settembre i patrioti riuscirono a disarmare la guardia nazionale di Colliano, nelle terre di Campagna (Salerno). Notevole, il 7 settembre, lo scontro alla masseria Canestrelle, nel Nolano, di bersaglieri e cavalleggeri che attaccarono un gruppo di duecento patrioti, che furono costretti a disperdersi, perdendo tuttavia 15 uomini. Dopo qualche giorno, l’11 settembre, i patrioti di Crocco e di Sacchetiello si vendicarono alla masseria Monterosso di Rocchetta S. Antonio (Foggia) attaccando un drappello di venti bersaglieri del 30° battaglione che furono tutti uccisi. A Carbonara i patrioti di Sacchetiello massacrarono 25 bersaglieri del 20° battaglione, comandati dal sottotenente Pizzi. Aliano e Serravalle furono liberate dai patrioti che minacciarono di invadere anche Matera.
    In Pantelleria, nel frattempo, i piemontesi, che avevano instaurato in tutta l’isola una feroce legge marziale, riuscirono a convincere con la minaccia di ritorsioni quasi quattrocento isolani a collaborare con le truppe savoiarde. Formate tre colonne, il colonnello Eberhard, governatore militare dell’isola, fece avanzare il 18 settembre le truppe a raggiera per setacciare tutta l’isola. I patrioti erano nascosti in una profonda caverna posta quasi sulla sommità della Montagna Grande a 848 metri si altezza, in una posizione imprendibile, ma traditi da un pecoraio furono circondati e dopo una sparatoria, in cui morirono alcuni piemontesi, furono costretti ad arrendersi a causa del fumo di zolfo acceso davanti alla caverna che aveva reso l’aria irrespirabile. I patrioti ammanettati, laceri e smunti, furono fatti sfilare nelle strade di Pantelleria al suono di un tamburo e col tricolore spiegato, tra ali di gente commossa fino alle lagrime. Tutte le spese dell’operazione, lire 637, furono a carico del comune. Furono incarcerati a Trapani, ma alcuni, tra cui due fratelli Ribera, riuscirono a evadere dalle carceri della Colombaia. Dei rimanenti 14, processati il 14 giugno 1867, 10 furono condannati a morte per impiccagione e gli altri ai lavori forzati.
    A Roma, in quei giorni, Francesco II si trasferí con tutta la sua corte nel Palazzo Farnese, che era di proprietà dei Borbone, dopo averlo fatto ristrutturare, poiché erano secoli che non era stato abitato.



    OTTOBRE
    Il 1° ottobre a Palermo furono accoltellati simultaneamente, in luoghi diversi, tredici persone. Uno degli accoltellatori, inseguito e arrestato, confessò che gli era stato ordinato da un «guardapiazza» (quello che oggi viene chiamato mafioso) di colpire alla cieca e che erano stati pagati con danaro proveniente dal principe Raimondo Trigona di Sant’Elia, senatore del regno, delegato da Vittorio Emanuele II. Da successivi controlli fatti dal piemontese sostituto procuratore del re Guido Giacosa, evidentemente all’oscuro delle criminali intenzioni del governo piemontese, venne accertato che i moltissimi omicidi, avvenuti anche prima e molti altri dopo, avevano il solo scopo di «sconvolgere l’ordine» per poter permettere e giustificare la feroce repressione cosí da eliminare impunemente la resistenza siciliana antipiemontese. L’indagine, che portò a riconoscere la responsabilità di quei sanguinosi crimini al reggente della questura palermitana, il bergamasco (ma messinese di nascita) Giovanni Bolis, antico affiliato carbonaro con La Farina, fu, comunque, subito chiusa.
    In quel mese di ottobre vi furono moltissime, alcune violente, manifestazioni di quasi tutte le popolazioni delle Puglie e della Basilicata. I contadini si rifiutarono di eseguire i lavori nei campi per protestare contro gli abusi e le violenze dei soldati piemontesi. Alcuni contadini furono fucilati "per dare l'esempio".
    Un gruppo di patrioti di Romano, comandato da Valente, riunitisi nella masseria S. Teresa, decisero di attaccare la guardia nazionale e i carabinieri di Cellino e S. Pietro Vernotico, che li braccavano. Tre militari furono uccisi «perché portavano il pizzo all’italiana» e nove, furono sfregiati con l’asportazione di un lembo dell’orecchio, per essere cosí «pecore segnate». I gruppi di Tardio invasero i paesi di S. Marco La Bruna, Sacco e S. Rufo, dove sgominarono le guardie nazionali e ne saccheggiarono le case.
    Il 24 ottobre Tristany si scontrò sul confine pontificio con le truppe francesi e subí la perdita di due ufficiali.
    Nel mese di ottobre, essendosi fatta insostenibile la sistemazione dei prigionieri di guerra e dei detenuti politici, con la deportazione degli abitanti d'interi paesi, con le "galere" piene fino all'inverosimile, il governo piemontese diede incarico al suo ambasciatore a Lisbona di sondare la disponibilità del governo portoghese a cedere un'isola disabitata dell'Oceano Atlantico, al fine di relegarvi l'ingombrante massa di molte migliaia di persone da eliminare definitivamente. Il tentativo diplomatico, tuttavia, non ebbe successo, ma la notizia riportata il 31 ottobre dalla stampa francese suscitò una gran ripugnanza nell'opinione pubblica.



    NOVEMBRE
    Il maggiore piemontese Aichelburg con fanti e bersaglieri attaccò il 2 novembre a Tremoleto i patrioti di Petrazzi, uccidendo 9 guerriglieri. Tutto il Sud fu diviso in zone e sottozone con posti fissi di polizia e fu raddoppiato il numero dei carabinieri. I guerriglieri di Romano subirono una pesante sconfitta il 4 novembre presso la masseria Monaci. Per quest'avvenimento Romano divise le sue bande in piccoli gruppi piú manovrabili, seguendo la tattica di Crocco. A S. Croce di Magliano duecento patrioti di Michele Caruso attaccarono il 5 novembre la 13ª compagnia del 36° fanteria, massacrando il comandante ex garibaldino dei «mille», capitano Rota, e ventitré piemontesi. Il giorno dopo, inseguiti da un battaglione del 55° fanteria, gli stessi patrioti tesero loro un agguato e uccisero un sergente e tre soldati, senza subire perdite. A Torre di Montebello una compagnia di bersaglieri del 26° e cavalleggeri del «Lucca» in un furibondo combattimento distrusse l’8 novembre l’intera banda di Pizzolungo. Quelli che erano stati fatti prigionieri furono immediatamente fucilati.
    Il 16 novembre, nonostante l’opposizione di La Marmora, fu revocato da Rattazzi lo stato d’assedio nelle provincie meridionali, ma in realtà rimasero ancora in vigore la soppressione ed il divieto di introdurre nel Mezzogiorno tutta la stampa non governativa e la sospensione delle libertà d'associazione e di riunione. Addirittura furono intensificati gli arresti di semplici cittadini solo per il fatto di essere «sospetti» patrioti borbonici. In Capitanata, per ordine del generale Mazé de la Roche e del prefetto De Ferrari, furono compilate liste d'assenti dal domicilio e dei sospetti, furono istituiti fogli di via senza dei quali nessuno poteva uscire dagli abitati, imposero l’abbandono delle masserie e il divieto di portare generi alimentari nelle campagne. Cosí nell’avellinese furono perquisite e saccheggiate le case degli assenti, ai contadini fu ordinato di trasferirsi nei paesi con le masserizie, il bestiame ed il raccolto. Divenne sistematico l’arresto dei parenti dei patrioti fino al terzo grado. Le popolazioni, che già vivevano nel terrore e nei soprusi dei piemontesi, vissero in quei lunghi mesi in modo veramente tragico, anche perché ogni attività lavorativa fu in pratica soppressa e la vita economica e sociale ne fu paralizzata.
    Il 17 novembre, per reazione, vi furono in vari paesi molti attentati a esponenti liberali da parte dei patrioti. A Grottaglie i patrioti di «Pizzichicchio» s'impadronirono addirittura della cittadina, dove liberarono i detenuti dalle carceri e eliminarono tutti i possidenti liberali, che erano stati particolarmente oppressivi con i loro braccianti, devastandone e saccheggiandone le abitazioni. Furono abbattuti gli stemmi sabaudi e ripristinati le insegne borboniche tra le grida di esultanza di tutta la popolazione e financo del sindaco, che però giorni dopo fu arrestato dai piemontesi.
    Il generale Franzini fece uccidere il 20 novembre alla masseria Lamia nove patrioti delle bande di Petrozzi e Schiavone, catturati di sorpresa. L’indomani a Rapolla, nei pressi di Ponte Aguzzo, uno squadrone cavalleggeri «Saluzzo» attaccò un centinaio di patrioti di Crocco che perdette nove uomini. Altri venti, tra feriti e catturati, furono subito fucilati. I patrioti di Romano, in quel giorno, invasero le cittadine di Carovigno ed Erchie, disperdendone la guardia nazionale e saccheggiando le abitazioni dei liberali conniventi dei piemontesi.
    Il giorno 27 furono sorpresi a Casacalenda in una chiesa due patrioti che, dopo essere stati incarcerati a Larino, furono fucilati «per tentata fuga» due giorni dopo.
    Alla fine di novembre, morto il generale borbonico Statella, che da Roma ne coordinava le azioni, nonostante gli appoggi forniti dal generale Bosco, il gruppo di combattimento del colonnello Tristany si dissolse. Gli ufficiali stranieri se ne tornarono ai loro paesi e i gregari si riversarono in altri gruppi patrioti.


    DICEMBRE

    Bersagliere che si fa fotografare tenendo per i capelli un partigiano da lui assassinato (I piemontesi. Dopo aver assassinato i partigiani napoletani, spesso si facevano fare delle foto ricordo, che spedivano alle famiglie per mostrare il loro "eroismo")


    Il primo dicembre un reparto del 10° fanteria, per effetto di una delazione, riuscí a sorprendere alla masseria Monaci, nei pressi d'Alberobello, alcuni gruppi patrioti di Romano, di cui fucilò 14 uomini, compreso il capo partigiano La Veneziana.
    Il giorno 11 dicembre i patrioti a cavallo di Michele Caruso assaltarono vittoriosamente a Torremaggiore la 13ª compagnia del 55° fanteria, che tornava da Castelnuovo Daunia, dove aveva compiuto operazioni di leva. La compagnia ebbe molte perdite.
    A Ururi i piemontesi con uno stratagemma arrestarono il sindaco, tutti i consiglieri ed il prete come «sospetti» e li fecero incarcerare a Larino. A S. Croce di Magliano, su segnalazione del sindaco massone De Matteis, furono inviate truppe piemontesi a circondare le masserie Verticchio, De Matteis e Mirano, dove furono sorpresi e fucilati quattro patrioti. Nella stessa zona il comandante della guardia nazionale di S. Martino, il massone conte Bevilacqua, con cento uomini e una compagnia di fanti piemontesi riuscirono a catturare in un bosco circa 47 patrioti, che furono tutti fucilati a Larino.
    Il 14 dicembre, a Napoli, nel carcere di S. Maria Apparente vi furono violenti tumulti per le condizioni inumane in cui erano tenuti i prigionieri. Vivevano in fetore insopportabile. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva profferito ingiurie contro i Savoia. Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusate ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano imprigionate era solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti detenuti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.
    Questo era il governo dei Savoia, «vera negazione di Dio».
    A Torino, per acquietare l’opinione pubblica, fu nominata il 15 dicembre una Commissione d’inchiesta sul «brigantaggio», dopo che vi erano state numerose denunce contro le barbarie commesse dalle truppe piemontesi contro patrioti che difendevano la libertà delle loro terre. Un deputato, Giuseppe Ferrari, federalista convinto, aveva detto «...potete chiamarli briganti, ma i padri di questi briganti hanno per due volte rimesso i Borbone sul trono di Napoli... Ma in che consiste il brigantaggio? nel fatto che 1.500 uomini tengono testa a un regno e ad un esercito. Ma sono semidei, dunque, sono eroi! ...Io mi ricordo che vi dissi che avendo visitato le province meridionali avevo veduto una città di cinquemila abitanti distrutta, e da chi ? dai briganti ? NO!» La città era Pontelandolfo, rasa al suolo con orrende stragi, insieme a Casalduni, il 14 e 15 agosto 1861 per opera dei bersaglieri di Cialdini.
    Il 17 dicembre i bersaglieri del 29° battaglione riuscirono a sgominare i patrioti dell’avvocato Giacomo Giorgi presso Palata, nel Molise, dove uccisero 5 uomini, catturando anche una partigiana.
    La banda partigiana di Carbone fu accerchiata il 20 dicembre da fanteria, cavalleria e guardie nazionali nella masseria Boreano, nei pressi di Melfi. Furono tutti uccisi appena catturati.
    Il 21 dicembre cavalleggeri piemontesi sorpresero nella cascina Barcana, nei pressi di Venosa, una ventina di patrioti che fecero morire atrocemente tra le fiamme.
    Il 23 dicembre, migliaia di cittadini di Napoli inviarono una petizione al Re Francesco II con la quale, nell’indicare le barbarie degli invasori piemontesi, riaffermavano la fedeltà alla monarchia dei Borbone e la speranza di un prossimo ritorno sul trono delle Due Sicilie.
    Il giorno 29 lo squadrone cavalleggeri «Saluzzo», stanziato a Gioia del Colle, salvò un drappello di guardie nazionali di Acquaviva che erano stati circondate dai patrioti. In Capitanata, reparti dell’8°, del 36° e del 49° fanteria, comandati dal colonnello Favero, attaccati il 31 dicembre da un consistente numero di patrioti vennero sterminati con perdite superiori ai 150 morti.
    L’anno si chiuse con una relazione alla Camera di Torino sulla situazione nell’ex Regno delle Due Sicilie con i dati ufficiali di 15.665 fucilati, 1.740 imprigionati, 960 uccisi in combattimento. Gli scontri a fuoco di una certa consistenza nell’anno furono 574. I Duosiciliani emigrati all’estero furono circa 6.800 persone. Le forze piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti di fanteria, 51 «quarti» battaglioni di altri reggimenti, 22 battaglioni bersaglieri, 8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di artiglieria. Nei territori delle Due Sicilie si contavano circa 400 bande di patrioti legittimisti, comandate per la maggior parte da ex militari borbonici.
    Il piemonte, che era lo Stato piú indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta disponendo alla fine dell'anno l’unificazione del «suo» debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, ai traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la «liberazione» e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate proprio alle regioni «liberate». Anche l’arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, semplice e soprattutto efficace nell’imposizione e nella riscossione, indubbiamente tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza «italiana».


    Antonio Pagano



    Il criminale di guerra piemontese generale Alfonso La Marmora



    L'eroico ed imprendibile Comandante Partigiano Generale Carmine Donatelli detto Crocco



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    per risorgere bisogna insorgere

  6. #6
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    BREVE STORIA DELLE DUE SICILIE



    PANORAMA STORICO

    Nel 1130, notte di Natale, con una fastosa cerimonia Re Ruggero II sancì a Paler_mo la nascita del Regno di Sicilia. Tutto il Sud della penisola italiana, dagli Abruzzi alla Sicilia, fu unificato come nazione indipen_dente con ca_pitale Palermo. Quel 25 dicem_bre è una data simbolica: Rug_gero II si presentava come il redentore di tutte le popolazioni del Sud della penisola, dagli Ara_bi, dai Bizantini e dai Longo_bardi e nello stesso tempo annunciava al mondo la na_scita di un regno cristiano. Il Regno, a quella data, aveva circa tre milioni d’abitanti, ed era da sempre considerato il territorio più bello dell’Europa per l’antica cultura, per il clima, per gli stupendi paesaggi e per lo stesso modo di vivere della gente, che già per questo poteva ben dirsi una nazione. Nel resto d’Italia vi erano altri cinque milioni d’abitanti, divisi in tanti piccoli Stati, qualcuno non più grande della sua cerchia di mure, parlanti idiomi diversi, di origine diversa e con diverse tradizioni.

    Il governo normanno durò fino al 1194. Poi vi fu quello degli Svevi, il cui più il_lustre rappresentante fu Fe_derico II. Con l‘avvento degli Angioini nel 1266, la capita_le del Re_gno di Sicilia fu portata a Napoli. A seguito dei «vespri siciliani» del 1282 la Sici_lia fu occupata dagli Aragonesi e divenne Re_gno di Trinacria, mentre la parte continentale divenne Regno di Napoli. Nel 1443 gli Angioini, che non avevano mai formalmente rinunciato al titolo di re della Sicilia, dovettero cedere agli Ara_gonesi anche la parte continentale del Regno che fu riunito a quello di Napoli da Alfonso il Magnanimo (Regnum utriu_sque Siciliae, Regno delle Due Sicilie). Nel 1503 il Regno fece parte della Spagna, che costituì due vicereami autonomi: quello di Napoli e quello di Sicilia. Co_sì restò nel breve pe_riodo austriaco, che va dal 1707 al 1734, anno in cui tutta la Nazione diventò nuovamente indipendente con i Borbone.

    Il primo sovrano fu Carlo, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, già duca di Parma. Egli prese possesso del regno, succedendo agli Austriaci, a seguito delle vicende connesse alla guerra di successione polacca e tale avvicendamento gli fu riconosciuto poi dal trattato di Vienna del 1738.

    Il ripristino dell’antico nome delle Due Sicilie avvenne nel 1816, a seguito del Congresso di Vienna del 1815 che mirava ad assestare politicamente il territorio europeo dopo gli sconvolgimenti causati dalle guerre napoleoniche. Al Congresso di Vienna, tuttavia, le potenze che avevano vinto il conflitto, Inghilterra, Austria, Russia e Prussia, diedero all’Europa una sistemazione tendente a rafforzare esclusivamente i loro interessi, dividendo artificialmente le nazioni. La Francia fu ricacciata negli antichi confini e privata di suoi territori a favore della Prussia, circostanza che fu poi l’origine di continue guerre tra i due popoli. Gli Stati tedeschi furono sconvolti da ingrandimenti e dimezzamenti territoriali senza che fosse tenuto conto della loro aspirazione a costituire uno Stato unico. La Polonia fu divisa fra tre Stati. L’Austria s’ingrandì a spese di una varietà di popoli del tutto diversi tra loro. Nella penisola italiana, la repubblica di Genova e l’Alto Novarese furono incorporate dal regno sardo-piemontese; il Veneto e la Lombardia furono assegnate all’Austria; il Regno delle Due Sicilie, pur avendo fatto parte delle potenze vincitrici, fu spogliato di Malta e dello Stato dei Presidii. Le decisioni del Congresso di Vienna, insomma, pur riuscendo a mantenere poi per numerosi anni un equilibrio tra le varie potenze, non considerarono in alcun modo le aspirazioni degli altri Stati, ponendo le premesse per i successivi conflitti.

    Il Congresso di Vienna era avvenuto a seguito del Patto di Chaumont, stipulato nel 1814, per effetto del quale era stata costituita la Quadruplice Alleanza tra Inghilterra, Prussia, Austria e Prussia con l’impegno di liberare l’Europa dal dominio napoleonico e di ricondurre la Francia nei confini del 1792. Dopo il Congresso, si costituì il 26 settembre 1816 la Santa Alleanza tra Russia, Prussia e Austria, che si accordarono per darsi reciproca assistenza per la conservazione della situazione territoriale e delle dinastie istituzionali europee. Soprattutto l’Austria aveva interesse a questo accordo proprio perché costituita da un mosaico di popoli che aspiravano all’indipendenza. A quest’ultimo patto non partecipò l’Inghilterra, che era interessata non tanto alla stabilità del continente, ma solo a mantenere controbilanciate le forze delle potenze europee e di conservare il dominio sui mari, situazione quest’ultima che le permetteva di rendersi arbitra della politica degli altri Stati. La Francia fino al 1850 fu ingabbiata da questa alleanza che le impedì ogni azione tendente a modificare le decisioni fissate al Congresso di Vienna.

    La politica europea, in seguito, dovette abbandonare tali principi conservatori, ormai non più rispondenti alla realtà, e si apprestò a fronteggiare i pericoli ben più gravi causati dai moti liberali, i cui principali ispiratori, Giuseppe Mazzini e Carlo Marx, sostenevano soprattutto il principio dell’uguaglianza dei popoli più che la loro indipendenza. A tali principi erano particolarmente interessati gli ebrei, i quali da secoli lottavano per la loro emancipazione e per questo fecero parte delle società segrete alle quali parteciparono attivamente ed anche economicamente.

    Questa nuova ideologia aveva spaventato soprattutto la piccola e media borghesia dell’Europa continentale che appoggiò la conseguente reazione ed ebbe come risultato la formazione degli Stati costituzionali, come strumento per opporsi agli sconvolgimenti causati dai moti rivoluzionari, ma anche all’assolutismo monarchico che impediva una politica liberista.

    I moti del 1848, infatti, avevano scompaginato gli accordi del Congresso di Vienna con il prevalere delle idee del nazionalismo che aveva portato agli scontri dei tedeschi contro polacchi, danesi e slavi; ungheresi contro slovacchi; croati contro ungheresi e italiani. Gli Asburgo soffocarono le rivoluzioni in Italia, in Ungheria, in Germania e Boemia, basando però unicamente sulla forza dell’esercito la loro azione politica nel tenere unito il vasto impero austriaco. Artefice di questa politica fu il Metternich, che era convinto che solo il rispetto dell’ordine costituito potesse tenere insieme popoli diversi e di differente cultura in un unico organismo politico.

    In un primo tempo l’Inghilterra, coerentemente alla sua politica di bilanciare le contrapposizioni degli Stati europei, aveva appoggiato l’Austria perché la considerava pur sempre un baluardo all’espansionismo francese. Dopo il 1846 l’Inghilterra, guidata da Palmerston, incominciò anche ad interessarsi della situazione della penisola italiana ed a condannare apertamente gli interventi austriaci. L’Austria, infatti, aveva stretto rapporti amichevoli con Francia e Russia, le due potenze che gli Inglesi temevano di più. Per questo nel 1847 il governo inglese inviò in Italia lord Minto con il compito ufficiale di sostenere gli Stati riformatori e la causa della libertà in senso moderato, ma la vera missione di Minto era quella di evitare una crisi dell’equilibrio europeo, e di impedire che tutta la penisola cadesse sotto l’influenza francese a seguito di un eventuale disimpegno austriaco. Altro compito di Lord Minto nella penisola era quello di favorire la costituzione di una lega doganale tra i vari Stati italiani. L’ Inghilterra, infatti, sovrastava tutti gli altri Stati europei nell’industria e nel commercio e, per questo, aveva tutto l’interesse ad imporre in Europa una politica di libero scambio, che, permettendo il libero ingresso di prodotti a basso costo, avrebbe stroncato sul nascere le economie emergenti che non avrebbero avuto più la forza di competere con essa.

    Inaspettatamente, però, nel 1848 l’Inghilterra prese le parti dell’Austria nel conflitto contro i piemontesi. La ragione di questa svolta fu causata dal movimento rivoluzionario che era scoppiato in Francia con la cacciata di Luigi Filippo e la formazione di una repubblica con a capo il nipote di Napoleone, Luigi. Si temeva, infatti, che tale rivoluzione potesse interessare tutta l’Europa com’era successo nel 1789. Palmerston cercò perfino di impedire l’intervento duosiciliano, prospettando al Re Ferdinando II una sicura vittoria dell’Austria e i gravi danni che gli sarebbero derivati da un eventuale ingrandimento del Piemonte. Il governo inglese temeva, com’era in effetti nelle intese della Francia, che questa avrebbe approfittato degli avvenimenti insurrezionali italiani per aumentare la sua influenza in Italia a scapito di quella austriaca. Lo stesso lord Minto fu incaricato di diffidare il governo piemontese dal provocare un intervento francese e, inoltre, fu incaricato di evitare che la Sicilia, a seguito dell’insurrezione che vi era scoppiata, potesse cadere sotto l’influenza francese. L’Inghilterra propose che fosse posto sul trono siciliano il figlio del savoiardo Carlo Alberto in contrapposizione alla Francia che proponeva un principe francese, ma la vittoria dell’Austria sul Piemonte pose fine a questi contrasti che non riguardavano minimamente l’indipendenza della Sicilia, ma solo ed esclusivamente gli interessi mediterranei delle due potenze.

    Napoleone III, d’altra parte, avendo compreso che il principio delle nazionalità avrebbe alla lunga prevalso, mirò a cambiare l’Europa nata nel 1815 e aveva indirizzata la sua politica contro l’impero austriaco per imporre il proprio predominio sugli altri Stati europei. Tuttavia la sua concezione era impossibile da realizzare perché contraddittoria. Egli, infatti, mentre da una parte voleva rifare l’Europa, dall’altra voleva mantenere il vecchio equilibrio europeo.

    Nel Regno delle Due Sicilie, primo fra gli altri Stati europei, Ferdinando II, ma con scopi diversi, concesse il 29 gennaio del 1848 la Costituzione, che in rapida successione fu concessa anche dagli altri Stati con l’interessata pressione del governo inglese. I movimenti rivoluzionari che si erano manifestati nelle Due Sicilie, tuttavia, non erano spontanee rivolte popolari come lo erano altrove, ma erano provocate solo da una parte della borghesia d’idee liberali, quella mercantile, ed anche da quella ancora legata a consuetudinari privilegi feudali, che si opponeva alla tradizionale amministrazione duosiciliana in favore delle classi meno abbienti.

    La concessione della Costituzione, per il sovrano duosiciliano, aveva motivazioni diverse da quelle liberali, perché ben diverse erano le condizioni del popolo. Non vi era nelle Due Sicilie, come invece vi era nell’Italia settentrionale, il dominio di un governo straniero, né l’assolutismo era oppressivo come in Piemonte, ma illuminato e popolare, tanto che in brevissimo tempo aveva portato il Regno ad un’economia di buon livello. Questo successo era avvenuto in modo naturale, senza l’aggressività della rivoluzione industriale inglese che aveva causato milioni di derelitti in Inghilterra e in Francia, ma anzi con un crescente e diffuso benessere, relativamente ai tempi, che, senza l’interruzione dell’invasione piemontese, avrebbe portato correttamente il Regno ai più alti vertici economici e sociali.

    Nel regno sardo-piemontese la borghesia, priva di capitali e di mercati più vasti, amministrata in modo ottuso, desiderando di voler “risorgere” dalle sue misere condizioni, ad imitazione delle fortune coloniali inglesi e francesi, concepì la conquista degli altri, più ricchi, territori della penisola italiana. Il Regno savoiardo, tuttavia, non aveva le capacità per compiere da sola queste conquiste. La monarchia savoiarda, tra l’altro, si era dimostrata la più retriva e reazionaria della penisola soffocando nel sangue il più piccolo tentativo di rivolta. Essa fu spinta, in ogni modo, dalla sua classe politica ad espandersi territorialmente verso la Lombardia e il Veneto, ma gli Austriaci, nonostante disordini interni, sconfissero facilmente nel luglio del 1849 i piemontesi a Custoza.

    La Russia, intanto, che da qualche tempo cercava di espandere il suo territorio in direzione del Mediterraneo, progettò di annettersi la Valacchia e la Moldavia allo scopo di avere un più facile accesso nel Mar Nero. Il suo scontro vittorioso contro la Turchia nel 1853 determinò però un altro conflitto, quello cosiddetto di Crimea, che i francesi e gli inglesi, uniti dagli stessi interessi, organizzarono per contrastare l’espansionismo russo. Al conflitto volle partecipare il governo piemontese retto da Cavour, che in tal modo contava di liberare il Piemonte dall’isolamento internazionale e di stringere forti alleanze per non avere ostacoli ai suoi disegni espansionistici.

    Dopo la guerra di Crimea, al successivo congresso di pace di Parigi del 1856, Francia e Inghilterra, anche se per scopi diversi, affermarono tra l’altro che il governo pontificio, il governo austriaco e quello duosiciliano opprimevano le popolazioni a loro sottomesse. A seguito di questi pronunciamenti Cavour si recò a Londra sperando di ottenere un aiuto armato per una guerra contro l’Austria, ma si rese conto che le dichiarazioni inglesi avevano solo il fine di ottenere un favorevole voto piemontese al Congresso per la questione della Valacchia e della Moldavia. L’Inghilterra, infatti, mai avrebbe permesso un indebolimento dell’Austria che continuava a considerare in funzione antifrancese, anche se si era dimostrato favorevole alla creazione di un più forte Stato nel nord della penisola italiana.

    Cavour allora si rivolse alla Francia e si giunse così al Convegno di Plombières, dove furono poste le basi delle successive conquiste piemontesi. Nel Convegno fu stabilito che, a seguito dell’intervento francese, si sarebbe creato un regno dell’Alta Italia sotto i Savoia; Luciano Murat sarebbe stato posto a Napoli e Gerolamo Bonaparte a Firenze, costituendo con questo nuovo assetto della penisola una confederazione italiana sotto la presidenza del Papa, che avrebbe però avuto un ridimensionamento del proprio territorio. Il Piemonte, non avendo risorse economiche per sostenere una guerra, si obbligò di vendere alla Francia i suoi possedimenti di Nizza e Savoia, ed era in procinto di vendere anche la Sardegna se non fosse stato fermato dall’Inghilterra che temeva la formazione di una supremazia della Francia nel bacino mediterraneo.

    L’Inghilterra appena seppe di questo piano, diffidò immediatamente Napoleone III e Cavour, chiedendo anche alla Prussia di intervenire militarmente per evitare una guerra contro l’Austria. Il conflitto, tuttavia, scoppiò ugualmente a causa dell’ingenuità del governo austriaco che inviò un ultimatum al Piemonte, il quale per questo fu considerato uno Stato aggredito, fatto che causò, com’era nei patti, l’intervento francese. Durante il conflitto Cavour, noncurante degli accordi di Plombières, attivò numerose rivolte in Toscana, nei ducati di Parma e di Modena, e nelle Legazioni delle Romagne per poterle annettere al Piemonte e fu anche per questo motivo che Napoleone III si affrettò a firmare un armistizio con gli Austriaci a Villafranca, oltre a quello più pressante della minaccia alle sue frontiere di un intervento prussiano.

    In seguito l’Inghilterra ritenne più confacente ai suoi interessi una modifica radicale dell’assetto politico della penisola italiana. Determinante fu innanzitutto la progettata apertura del canale di Suez, fatto che rendeva indispensabile avere il dominio del Mediterraneo, e poi i contemporanei accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’impero russo, che aveva iniziato a far navigare la sua flotta nel Mediterraneo, avendo come base d’appoggio proprio i porti delle Due Sicilie. L’Inghilterra, tra l’altro, aveva considerato che la creazione di un unico Stato nella penisola italiana potesse fare da contrappeso alla Francia nel Mediterraneo e avrebbe eliminato o ridotto fortemente l’influenza cattolica in Europa.

    Non vanno sottovalutati anche altre vicende che determinarono un cambiamento della politica inglese nei confronti delle Due Sicilie: innanzitutto l’abolizione di fatto della Costituzione concessa nel 1848 e la mancata partecipazione delle Due Sicilie alla Lega Doganale da parte di Ferdinando II. Tale situazione contrastava fortemente gli interessi commerciali inglesi che traevano buoni profitti dai traffici con gli Stati che avevano adottato una politica di libero scambio. Per questi motivi l’Inghilterra decise di favorire la conquista degli altri Stati della penisola italiana da parte del Piemonte, che, non avendo nulla da perdere in campo economico, aveva già una politica di libero scambio.

    L’Austria non poté intervenire a causa delle sue lotte interne, mentre la Russia era troppo distante dal teatro degli avvenimenti. La Francia cercò di impedire il movimento annessionistico del Piemonte, ma la successiva formazione di una intesa tra Austria, Prussia e Russia non le consentì di opporsi all’Inghilterra per non correre il rischio di rimanere politicamente isolata. Napoleone III si limitò a mantenere le sue truppe nello Stato pontificio con lo scopo dichiarato di proteggere il Papa, ma in realtà per tenere il nuovo Stato italiano sotto tutela francese.

    La circostanza catalizzatrice dell’annessione fu, senza dubbio, l’alleanza sotterranea tra la borghesia piemontese e di una parte di quella delle Due Sicilie, quella soprattutto liberale. Una gran parte della borghesia duosiciliana, infatti, restò legittimista e fornì non pochi aiuti alla resistenza subito formatasi dopo l’invasione delle truppe piemontesi. Gli obiettivi di quella piemontese erano quelli di impossessarsi di nuovi territori con le loro ricchezze e di sfruttare quest’ampliamento con l’opportunità di più vasti traffici e appalti, mentre gli scopi di quella duosiciliana, che era soprattutto una borghesia legata alla terra, erano quelli di sottrarsi alla tradizionale amministrazione dei Borbone e di impossessarsi delle vaste terre demaniali che erano concesse gratuitamente in uso civico ai contadini.

    Conclusi tali accordi, che minarono dall’interno lo stesso governo delle Due Sicilie, l’azione di Garibaldi, enormemente aiutato dagli inglesi (sbarcarono anche truppe indiane in Sicilia), fu una facile passeggiata fino a Napoli, sebbene costellata da numerosi episodi di violenza, di stragi e di ruberie. Colpevole fu, infine, anche la dirigenza militare duosiciliana, quella che non tradì, che non aveva capito che nella guerra portata dai piemontesi non esisteva più la moralità, la cavalleria ed il rispetto del diritto di un tempo. L’invasione piemontese fu attuata, infatti, con una guerra totale che non rispettò nulla e nessuno.


    SITUAZIONE DELLE DUE SICILIE NEL 1860

    Facevano parte del Regno, per il territorio continentale, la parte meridionale del Lazio, le province di Gaeta e Sora (che durante il periodo fascista furono assegnate al Lazio per dare più territori alla nuova provincia di Littoria, oggi Latina), l’area del_la capitale Napoli, Terra di lavoro, Principato citeriore, Basilicata, Principato ulterio_re, Capitanata, Terra di Bari, Terra d‘Otranto, Calabria citeriore, 2ª Calabria ulterio_re, 1ª Calabria ulteriore, Molise, Abruzzo citeriore, 2° Abruzzo ulteriore, 1° Abruzzo ulteriore; la Sicilia, che era suddivisa nelle province di Val di Mazara, Val Demone e Val di Noto.

    Il Regno delle Due Sicilie, all’atto dell’invasione piemontese, nel confronto con gli altri Stati europei era considerato per la sua ricchezza, per la sua cultura e per le sue condizioni sociali tra i primi Stati dell’Europa. Ancora oggi, tuttavia, si continua ad affermare che lo Stato delle Due Sicilie era economicamente arretrato rispetto all’area lombardo - piemontese. Questo non era possibile per una sola considerazione: gli Stati preunitari e, per certi versi, ancora feudali del Nord, erano troppo piccoli perché potessero dare vita ad uno sviluppo industriale consistente, non solo perché non avevano capitali, ma anche perché non avevano un mercato di dimensioni considerevoli come lo era quello del Regno delle Due Sicilie, il quale, inoltre, aveva un’ottima flotta mercantile che gli permetteva di avere rapporti commerciali con tutto il mondo.

    In Piemonte il sistema sociale ed economico era ben povera cosa. Vi erano solo al_cune Casse di risparmio e le istituzioni più attive erano i Monti di Pietà. In_somma esistevano solo delle piccole banche e banchieri privati, generalmente d’origine straniera, che assicuravano il cambio delle monete al ridotto mercato piemontese. In Lombardia non c’era alcuna banca d’emis_sione e le attività commerciali riuscivano ad andare avanti solo perché operava la banca austriaca. Tutto questo già da solo dovrebbe rendere evidente che prima dell’invasione delle Due Sicilie, nell’Italia settentrionale non vi potevano essere vere industrie, né vi poteva essere un grande commercio, né che i suoi abitanti erano ricchi ed evoluti, come afferma la storiografia ufficiale. Valga ad esempio il fatto che le locomotive della prima linea ferroviaria del Piemonte furono acquistate nelle Due Sicilie dalle officine di Pietrarsa a Napoli.

    Nell’Italia settentrionale i primi ad avere una vera banca furono i genovesi con la Banca di Genova, fondata per sconti, depositi e conti correnti da alcuni commercianti. Questo avvenne soltanto nel 1844. Poi tre anni dopo (vale a dire appena 13 anni prima dell‘invasione) si costituì la Banca di Torino, che nel 1849 si fuse con la Banca di Genova, originando la Banca Nazionale degli Stati Sardi (ma di proprietà privata). Cavour, che aveva interessi personali in quella banca, impose al parlamento savoiardo di affidare a tale istituzione compiti di tesoreria dello Stato. Si ebbe, quindi, una banca privata che emetteva e gestiva denaro dello Stato.

    A quei tempi l’emissione di carta moneta era fatta solo dal Piemonte, mentre al contrario l’antichissimo Banco delle Due Sicilie emetteva monete d’oro e d’argento, e in più, per velocizzare la circolazione monetaria, fedi di credito e po_lizze notate, le quali corrispondevano ad altrettanta quantità d’oro depositato nel Banco (la quantità di denaro circolante nel Regno delle Due Sicilie assommava a circa 443 milioni di lire dell’epoca). Un sistema che, per alcune norme, possiamo certamente paragonare alle carte di credito di oggi. La carta moneta del Piemonte si basava anch’essa su una riserva d’oro (il circolante nel regno sardo assommava a circa 20 milioni di lire), ma il rapporto era di 3 a 1, in altre parole tre lire di carta valevano una lira d’oro e questo significava la quasi inesistenza di capitali utili per finanziare imprese e commerci. Tuttavia, per le continue guerre che i savoiardi facevano, anche quel simulacro di convertibilità in oro non era mai rispettato, sicché ancor prima del 1861 la carta moneta piemontese non rappresentava nemmeno più il suo valore nominale a causa dell‘emissione incontrollata che se ne fece.

    Il Reame aveva due amministrazioni: quella delle province napolitane che comprendeva tutte le regioni continentali dagli Abruzzi alle Calabrie e quella siciliana. L’amministrazione dello Stato, divenuta piuttosto farraginosa dopo i cambiamenti apportati dall’occupazione francese (nel periodo dal 1799 al 1815), era in via di trasformazione, ma in sostanza era efficiente e funzionale. La giustizia era proprio borbonica, in pratica era la migliore in assoluto in Italia, ed i suoi codici erano di riferimento per tutta la legislazione della penisola italiana e dell’Europa. Negli affari interni, inoltre, la legislazione era molto tollerante nei confronti delle altre religioni e nei confronti degli stranieri residenti.

    Nel 1860 la popolazione del Regno delle Due Sicilie era poco più di 9 milioni di abitanti, di cui la parte attiva era un po’ meno del 48%. Il Regno in quell’anno poteva sicuramente essere considerato in campo economico al terzo posto in Europa. Questo era stato il risultato di previdenti leggi che avevano regolato le importazioni e le esportazioni proprio con lo scopo di favorire la nascita dell’industria, dosando opportunamente i dazi doganali e le misure fiscali. L’industria tessile (seta, cotone e lana) e quella metalmeccanica erano già dal 1818 i due principali settori trainanti dell’economia duosiciliana, tanto che portarono anche numerosi stranieri ad investire nel Regno.

    La politica industriale era stata insomma lungimirante e coerente, anticipando di un secolo in Italia, la formula dell’iniziativa pubblica nell’industria, senza peraltro avvantaggiare le industrie statali che erano sempre in concorrenza con le iniziative private. Lo sviluppo industriale del Regno di Napoli, vale a dire il trasferimento di risorse dal settore agricolo al settore industriale, non avvenne, infatti, per opera di privati come negli altri Stati (grossi proprietari terrieri, come in Inghilterra, o Banche, come in Germania), ma per diretto intervento dello Stato, che tuttavia fu anche coadiuvato da imprenditori privati con capitali agrari, commerciali, bancari e di paesi esteri già sviluppati.

    Per quanto riguarda il territorio continentale, gli addetti alle grandi industrie, escludendo in pratica tutte le attività meramente artigianali o in ogni caso non impieganti meno di 5 addetti, erano 210.000 in quasi 5.000 opifici e costituivano circa il 7% della popolazione attiva. Il capitale investito nella sola industria si può valutare intorno ai cento milioni di ducati e dava utili che raggiungevano in numerosi casi il 15 o 20 %, con una media dell’8% circa.

    Il reddito medio pro-capite era poco più superiore a quello medio italiano, per un totale di 275 milioni di ducati l’anno. Per quanto riguarda la vita economica bisogna dire che i prezzi erano molto stabili ed il Governo era sempre attento a garantire sia un’attività produttiva redditizia, sia paghe adeguate all’insieme sociale ed economico.

    Il settore agricolo, aumentata del 120% la sua produttività negli ultimi 40 anni, dava un’eccedenza di risorse alimentari che erano così disponibili sia per la manodopera dell’industria, sia per l’aumento della popolazione.

    Il Regno aveva dunque una forte economia, una stabile e solida moneta e una veramente ottima flotta navale mercantile e militare. La Marina Mercantile duosiciliana, la terza in Europa con oltre 9.800 bastimenti, aveva avuto un forte sviluppo perché aveva dovuto soddisfare le crescenti esigenze dei trasporti commerciali, che dai registri doganali dell’epoca erano valutati per circa 500.000.000 di ducati tra import ed export. Nel Regno esistevano allora circa quaranta cantieri navali di una certa rilevanza, ove erano varati in media circa 50 navigli l’anno.

    In questo quadro è necessario anche illustrare, sia pure brevemente, la situazione delle varie regioni, iniziando con la CALABRIA, che è veramente un esempio significativo. Prima dell’unità d’Italia era la più ricca regione d’Italia, ora è la più povera d’Europa. In Calabria lo sviluppo delle industrie iniziò con lo sfruttamento delle miniere di ferro e di grafite che vi erano state rinvenute. Per questo fu fondato il Real Stabilimento di Mongiana, dove su un’area coperta di 12.000 metri quadri, furono costituiti una fonderia e un grandioso stabilimento siderurgico, potenziato con due altiforni per la ghisa, due forni Wilkinson e sei raffinerie. Accanto vi era anche una fabbrica d’armi su un’area coperta di circa 4.000 metri quadri. La produzione della ghisa e del ferro era di eccellente qualità e da essi si ricavavano trafilati, laminati e acciai da cementazione. Alla fine del Regno la Calabria era, insomma, fortemente industrializzata e negli stabilimenti di Mongiana, di Pazzano, di Fuscaldo, di Cardinale e di Bigonci vi lavoravano circa 2.500 operai, numero veramente notevole per quell’epoca. Altre attività importanti in Calabria, per antica tradizione, oltre alla notevole produzione agricola, erano quelle tessili, in cui essa primeggiava per la produzione della seta, gli arsenali ed i numerosi cantieri navali. I calabresi impiegati nelle sole industrie erano allora poco più di 31.000.

    Nelle PUGLIE ed in BASILICATA vi erano importantissimi opifici di lana, di cotone e del lino, la cui produzione era esportata in tutto il mondo. Vi erano anche molte centinaia filande quasi tutte motorizzate. Molto importanti erano anche le fabbriche di presse olearie e di macchine agricole prodotte negli stabilimenti di Foggia e di Bari. Di notevole peso sul piano economico erano le ottime aziende agricole e chimiche, le numerosissime flottiglie per la pesca ed i cantieri navali. A Barletta vi era un’efficientissima salina che riforniva tutta l’Europa. Centro di riferimento, per tutto il Regno, era l’attivissima Borsa di Commercio di Bari.

    Negli ABRUZZI e nel MOLISE, era eccellente e notissima la produzione d’utensili, di lame di acciaio, rasoi e forbici, fabbricati a mano e molto richiesti all’estero per la loro bellezza e funzionalità. Vi erano anche numerosi opifici tessili e per la produzione della carta. Notevoli, infine, erano gli allevamenti pregiati di bovini e caprini che consentivano una eccellente produzione casearia.

    La CAMPANIA del 1860 era la regione più industrializzata d’Europa, particolarmente l’area napoletana, lungo l’asse Caserta - Salerno. In essa vi erano sia il grandioso Opificio di Pietrarsa dove si producevano motori a vapore, locomotive, carrozze ferroviarie e binari, sia i famosi cantieri navali tra i migliori d’Europa, come quello di Castellammare di Stabia, fabbriche d’armi e di utensileria, aziende chimiche - farmaceutiche e per la produzione della carta, del vetro, concia e pelli, alimentari, ceramiche e materiali per edilizia. Importante in tutto il mondo era la produzione della seta di S. Leucio (Caserta). Numerose anche le fabbriche di strumenti tecnici, orologi, bilance, e insomma tutta una miriade di fabbriche minori, nei più svariati campi di attività, diffuse geograficamente in tutto il territorio. Da ricordare, naturalmente, i numerosi e diversi prodotti dell’agricoltura, allora famosi in tutto il mondo.

    In SICILIA, infine, l‘economia si basava, oltre che sulla pesca, sui cantieri navali e su ottime industrie meccaniche, sull’esportazione di zolfo, olio d’oliva, agrumi, sale marino e vino. Le principali correnti di traffico erano dirette verso l’Inghilterra (del 40%), verso gli Stati Uniti (con un terzo della produzione d’agrumi) e verso gli altri paesi europei. La Sicilia per questi suoi commerci aveva costante_mente un saldo attivo.



    LE PIÙ IMPORTANTI REALIZZAZIONI

    Lo Stato delle Due Sicilie fu il primo al mondo a far navigare una nave a vapore in mare: Il battello, con caldaia inglese, era il Ferdinando I che fu varato il 24 giugno 1818. In Inghilterra il primo battello a vapore fu varato nel 1822: il rimorchiatore Monkey.

    Da ricordare anche la prima costruzione al mondo dei ponti in ferro ad impalcato sospeso, il “Ferdinandeo”, che fu completato nell’aprile del 1832 sul Garigliano, e quello sul Calore, il “Cristino”, inaugurato il 5 aprile del 1835.

    Il 4 ottobre 1839 fu inaugurata la prima ferrovia italiana con il tratto Napoli - Portici, di circa 9 km. e, prima dell’invasione piemontese, erano già quasi completate tutte le opere (ponti e gallerie) di una rete ferroviaria che avrebbe collegato la capitale alle cittadine del versante adriatico, fino a Brindisi, e di quello tirrenico, fino a Reggio Calabria. Contemporaneamente erano già state progettate e in fase d’appalto per la Sicilia le linee ferroviarie che avrebbero collegato Palermo con Catania, Messina e Girgenti.

    Nel 1840 fu inaugurato il grandioso complesso industriale del “Reale Opificio di Pietrarsa” con oltre mille addetti, all’epoca il primo e l’unico della penisola italiana. L’Opificio ebbe vasta risonanza in Europa e fu visitato dallo zar Nicola I che lo prese ad esempio per la costruzione del complesso ferroviario di Kronstadt. Per fare un paragone il complesso simile della Breda ebbe la possibilità di nascere 44 anni più tardi, ma solo dopo il saccheggio e la distruzione di quello di Pietrarsa. Sorsero in tutto il Regno anche diverse e numerose scuole di “Arti e mestieri” per la formazione tecnica del personale. In quell’anno Napoli, dopo Londra e Parigi, fu la terza capitale in Europa ad avere le strade illuminate con 350 lampade a gas.

    Rilevantissime furono le colossali opere di bonifica, delle paludi Sipontine (Manfredonia), di quelle di Brindisi, del bacino inferiore del Volturno e dei Regi Lagni, che resero fertili tutte quelle terre, distribuite poi gratuitamente al popolo.

    Nelle Due Sicilie le scoperte scientifiche trovavano subito applicazione. Nel 1841 fu installato a Nisida il primo faro lenticolare a luce costante. Tali fari furono installati negli anni successivi su tutte le coste del regno.

    A Napoli, il 28 settembre 1844, costruita sulle falde del Vesuvio, fu inaugurata la prima struttura scientifica nel mondo per lo studio dei fenomeni vulcanici, l’Osservatorio Meteorologico Vesuviano, dove fu realizzato dopo qualche anno il primo sismografo del mondo.

    Napoli, nel giugno del 1852, fu la prima città d’Italia ad organizzare un esperimento d’illuminazione elettrica. L’esperimento fu abbastanza importante per l’epoca, tenuto conto che la lampada di Edison fece la sua comparsa solo nel 1877 e che la prima lampada a filamento fu realizzata due anni dopo.

    Nel marzo del 1855 Napoli fu collegata attraverso una linea telegrafica con Roma, Parigi e Londra.

    Certamente sono da evidenziare i numerosi successi nel campo navale. Nell’arsenale di Castellammare di Stabia fu varata il 24 ottobre 1843 la prima nave da guerra a vapore, la pirofregata a ruote Ercole, progettata e costruita interamente nel Regno. Da ricordare che le navi da guerra napoletane furono le prime ad entrare nei porti statunitensi e nelle Americhe del Sud, dove venivano anche fatte le crociere con gli allievi dell’Armata di Mare. Nel maggio del 1847 fu impiegata, per la prima volta in Italia, una nave a propulsione ad elica, la Giglio delle Onde. Il 14 novembre, si ebbe il varo della pirofregata a ruote Ettore Fieramosca che era la prima nave progettata e fornita con macchina a vapore costruita interamente nella penisola italiana dal Real Opificio di Pietrarsa. Lo stesso anno fu inaugurato il nuovo bacino di raddobbo in muratura (bacino di carenaggio) nell’Arsenale di Napoli, il primo del genere ad essere realizzato in Italia. Il 18 gennaio 1860 fu varata a Castellammare di Stabia la nuova fregata ad elica Borbone di 3.444 tonnellate, che era la prima nave militare ad elica della flotta duosiciliana ed era anche la più potente.

    È indicativo, a questo punto, fare una semplice riflessione e cioè che se nelle Due Sicilie erano state realizzate tante importanti opere, che avevano po_sto il Regno ai vertici degli Stati più progrediti del mondo, queste smentiscono con i fatti le affermazioni di arretratezza delle Due Sicilie. Se così non fosse, perché queste opere non erano state realizzate prima dal Piemonte o dagli altri Stati preunitari? La complessità di queste opere, infatti, presuppone la presenza di scuole di alto livello, di valenti tecnici, di grandi industrie e di una sana economia e finanza, quindi se ne deve dedurre che tutti questi fattori evidentemente non esistevano, o almeno non in tale misura, negli altri Stati preunitari. Tanto per fare un esempio, come prova di questa situazione di arretratezza del Nord, a Milano la prima università, il Politecnico, fu fondata solo nel 1863 ed il primo ingegnere si laureò nel 1870.



    LE VICENDE GARIBALDINE E L’INVASIONE PIEMONTESE

    Garibaldi era alto appena 1,65 metri ed aveva le gambe arcuate. Era pieno di reumatismi e per salire a cavallo occorreva che due persone lo sollevassero. Portava i capelli lun_ghi perché, avendo violentato una ragazza, questa gli aveva staccato un orecchio con un morso. Era un avventu_riero che nel 1835 si era rifugiato in Brasile, dove all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere. Fra i 28 e i 40 anni visse come un corsaro assaltando navi spagnole nel mare del Rio Grande do Sul al servizio degli inglesi, che miravano ad accaparrarsi il commercio in quelle aree, e per circa sei mesi trasportò schiavi cinesi nel Perù. In Sud America non è mai stato considerato un eroe, ma un delinquente della peggior specie. Per la spedizione dei mille fu finanziato dagli Inglesi con denaro rapinato ai turchi durante la guerra di Crimea, equivalente oggi a molti milioni di euro. In una lettera, Vittorio Emanuele II ebbe a lamen_tarsi con Cavour circa le ruberie del nizzardo, pro_prio dopo “l’incon_tro di Teano”: «... come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene - siatene certo - questo personaggio non è affatto docile né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talen_to militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi intera_mente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa».

    SBARCO DI MARSALA: fu di proposito “visto” in ritardo dalla marina duosiciliana, i cui capi erano già passati ai piemontesi, e fu protetto dalla flotta inglese, che con le sue evoluzioni impedì ogni eventuale azione offensiva. Con i famosi “mille”, che lo stesso Garibaldi il giorno 5 di_cembre 1861 a Torino definì “Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra ; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto”, sbarcarono in Sicilia anche francesi, svizzeri, inglesi, indiani, polacchi, russi e soprattutto ungheresi, tanto che fu costituita una legione ungherese utilizzata per le repressioni più feroci. Al seguito di questa vera e propria feccia umana, sbarcarono altri 22.000 soldati piemontesi di proposito dichiarati dal governo savoiardo “congedati o disertori”.

    CALATAFIMI: contrariamente a quanto è detto nei libri di storia, Garibaldi fu messo in fuga il giorno 15 maggio dal maggiore Sforza, comandante dell’8° cacciatori, con sole quattro compagnie. Mentre inseguiva le orde del Garibaldi, lo Sforza ricevette dal generale Landi l’ordine incomprensibile di ritirarsi. Il comportamento del Landi fu comprensibilissimo quando si scoprì che aveva ricevuto dagli emissari garibaldini una fede di credito di quattordicimila ducati come prezzo del suo tradimento. Landi, qualche mese più tardi, morì di un colpo apoplettico quando si accorse che la fede di credito era falsa: aveva, infatti, un valore di soli 14 ducati.

    PALERMO: Garibaldi, il 27 maggio, si rifugiò in Palermo in pratica indisturbato dai 16.000 soldati duosiciliani che il generale Lanza aveva dato or_dine di tenere chiuse nelle fortezze. Il filibustiere così poté saccheggiare al Banco delle Due Sicilie cinque milioni di ducati ed installarsi nel Palazzo Pretorio, designandolo a suo quartier generale. In Palermo i garibaldini si abbandonarono a violenze e saccheggi d’ogni genere. A tarda sera del 28 arrivarono, però, le fedeli truppe duosiciliane comandate dal generale svizzero Von Meckel. Queste truppe, che erano quelle trattenute dal generale Landi, dopo essersi organizzate, all’alba del 30 attaccarono i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontravano. L’irruenza del comandante svizzero fu tale che arrivò rapidamente alla piazza della Fieravecchia. Nel mentre si accingeva ad assaltare anche il quartiere S. Anna, vicino al palaz_zo di Garibaldi, che in pratica non aveva più vie di scampo, arrivarono i capitani di Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti con l’ordine del Lanza di sospendere i combattimenti perché ... era stato fatto un armistizio, che in realtà non era mai stato chiesto.

    Il giorno 8 giugno tutte le truppe duosiciliane, composte di oltre 24.000 uomini, lasciarono Palermo per imbarcarsi, tra lo stupore e la paura della popolazione che non riusciva a capire come un esercito così numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere combattuto. La rabbia dei soldati la interpretò un caporale dell’8° di linea che, al passaggio del Lanza a cavallo, uscì dalle file e gli gridò “Eccellé, o’ vvi quante simme. E ce n’avimma’ì ac_cussì ? (Eccellenza, lo vedi quanti ne siamo, e dobbiamo andarcene così?)”. Ed il Lanza gli rispose : “Va via, ubriaco”. Lanza, appena giunse a Napoli, fu confinato ad Ischia per essere processato. I garibaldini nella loro avanzata in Sicilia compirono atroci delitti. Esemplare e notissimo è quello di Bronte, dove “l’eroe” Nino Bixio fece fucilare quasi un centinaio di contadini che, proprio in nome del Garibaldi, avevano osato occupare alcune terre di proprietà inglese.

    MILAZZO: Il giorno 20 luglio vi fu una cruenta batta_glia a Milazzo, dove 2000 dei nostri valorosissimi soldati, condotti dal colonnello Bosco, sbaragliarono circa 10.000 garibaldini. Lo stesso Garibaldi accerchiato dagli ussari duosiciliani rischiò di morire. La battaglia terminò per il mancato invio dei rinforzi da parte del generale Clary e i nostri furono costretti a ritirarsi nel forte per il numero preponderante degli assalitori. Nello scontro i soldati duosiciliani, ebbero solo 120 caduti, mentre i garibaldini ne ebbero 780. Eroici, e da ricordare, furono i valorosi comportamenti del Tenente d’artiglieria Gabriele, del Tenente dei cacciatori a cavallo Faraone e del Capitano Giuliano, che morì durante un assalto.

    Episodi di tradimento si ebbero anche in Calabria, dove nel paese di Filetto lo sdegno dei soldati arrivò tanto al colmo che alcuni di essi fucilarono il generale Briganti, che il giorno prima, senza nemmeno combattere, aveva dato ordine alle sue truppe di ritirarsi.

    NAPOLI: Il giorno 9 settembre arrivarono a Napoli i garibaldini. Mai si vide uno spettacolo più disgustoso. Quell’accozzaglia era formata da gente sudicia, famelica e di razze diverse. Occuparono all’inizio Pizzofalcone, poi nei giorni seguenti si sparsero per la città, tutto depredando, saccheggiando ogni casa. Furono violentate le donne e assassinato chi si opponeva. Furono lordati i monumenti, violati i monasteri, profanate le chiese. Il giorno 11 Garibaldi con un decreto abolì l’ordine dei Gesuiti e ne fece confiscare tutti i beni. Furono incarcerati tutti quei nobili, sacerdoti, civili e militari che non volevano aderire al Piemonte, mentre furono liberati tutti i delinquenti comuni. Il Palazzo Reale fu spogliato di tutto quanto conteneva. Gli arredi e gli oggetti più preziosi furono inviati a Torino nella Reggia dei Savoia. Il filibustiere con un decreto confiscò il capitale personale e tutti beni privati del Re dal Banco delle Due Sicilie, che fu rapinato di tutti i suoi depositi. Napoli in tutta la sua storia non ebbe mai a subire un così grande oltraggio, eppure nessun libro di storia “patria” ne ha mai minimamente accennato.

    CAPUA, VOLTURNO, GARIGLIANO, GAETA: eliminati i generali traditori, i soldati duosiciliani dimostrarono il loro valore in numerosi episodi. La vittoriosa battaglia sul Volturno non fu sfruttata solo per l’inesperienza dei nostri comandanti militari. In seguito, la vile aggressione piemontese alle spalle costrinse il nostro esercito alla ritirata nella fortezza di Gaeta, dove il giovane Re Francesco II e la Regina Maria Sofia, di soli 19 anni, diventata poi famosa con l’appellativo di “eroina di Gaeta“, si coprirono di gloria in una resistenza durata circa 6 mesi. Gaeta non poté mai essere espugnata dai piemontesi, ma solo bombardata. Con la resa di Gaeta (13.2.61), di Messina (14 marzo) e di Civitella del Tronto (20 mar_zo), il Regno delle Due Sicilie cessò di esistere. I Piemontesi non rispettarono i patti di capitolazione e i soldati duosiciliani in parte furono fucilati, altri furono deportati in campi di concentramento in Piemonte, Liguria e Lombardia. Di questi soldati, morti per la loro Patria, oggi non c’è nemmeno un segno che li ricordi e non meritavano l’oblio e la derisione cui li ha condannati la “leggenda” risorgimentale.

    PLEBISCITO: Il giorno 21 ottobre 1860 vi fu a Napoli, e in tutte le province del Regno, la farsa del Plebiscito. A Napoli, davanti al porticato della Chiesa di S. Francesco di Paola, proprio di fronte al Palazzo Reale, erano state poste, su di un palco alla vista di tutti, due urne: una per il SÌ ed una per il NO. Si votava davanti ad una schiera minacciosa di garibaldini, guardie nazionali e soldati piemontesi. Il giorno prima erano stati affissi sui muri dei cartelli sui quali era dichiarato “Nemico della Patria” chi si astenesse o votasse per il NO. Votarono per primi i camorristi, poi i garibaldini, che erano per la maggior parte stranieri, e i soldati piemontesi. Qualcuno dei civili che aveva tentato di votare per il NO, fu bastonato, qualche altro, come a Montecalvario, fu assassinato. Poiché non erano registrati quelli che votavano per il SÌ, la maggior parte andò a votare in tutti e dodici comizi elettorali costituiti in Napoli. Allo stesso modo si procedette in tutto il Regno, dove si votò solo nei centri presidiati dai militari con ogni genere di violenze ed assassini.

    LA RESISTENZA DUOSICILIANA: Proprio con la farsa dei plebisciti scoppiarono con grande violenza contro gli invasori garibaldini e piemontesi le prime rivolte, che si propagarono a macchia d’olio in tutto il Sud. Fu una vera e propria guerra di resistenza che durò più di dieci anni, durante i quali le truppe piemontesi compirono tanti delitti e tali distruzioni che non si erano mai visti in alcun’altra guerra. Le forze militari impegnate dai piemontesi furono di circa 120.000 uomini, ai quali vanno aggiunti 90.000 militi della collaborazionista guardia nazionale. Queste forze, verso il 1865, comprendevano circa 550.000 uomini, quanto gli Americani nel Vietnam.

    Dopo la resa di Gaeta intere zone della Lucania, della Calabria, delle Puglie e degli Abruzzi si erano liberate dei presidi piemontesi ed avevano innalzato i vessilli duosiciliani. I piemontesi nel ritirarsi compirono molte rappresaglie su civili inermi. Nell’aprile del 1861 si formarono i primi grossi gruppi di resistenza comandati da Carmine Crocco, detto Donatello, Nicola Summa, detto Ninco Nanco, Domenico Romano, detto il sergente Romano, che liberarono centinaia di paesi. La reazione piemontese fu pronta. Per ordine del generale Cialdini interi paesi furono distrutti a cannonate e chi si opponeva in qualsiasi modo all’occupazione era fucilato immediatamente. Indicativo quanto avvenne il 14 agosto del 1861 a Pontelandolfo e Casalduni, ove allo scopo di terrorizzare le altre popolazioni vi furono saccheggi, violenze, stupri e le case furono bruciate e completamente rase al suolo. Vi furono oltre un migliaio di morti. Alcuni furono trucidati nel modo più barbaro, con le teste mozzate poi esposte agli ingressi dei paesi come monito. I generali piemontesi, come Cialdini e tanti altri, furono dei veri e propri criminali di guerra, ma lo Stato “italiano” ancora oggi li venera come “eroi”.

    Dai dati ufficiali piemontesi, non attendibili, nel solo 1862 i paesi rasi al suolo furono 37, i fucilati furono 15.665, i morti in combattimento circa 20.000, incarcerati per motivi politici 47.700, le persone senza tetto circa 40.000. Ma nonostante l’impari lotta di un popolo male armato e scoordinato, costretto ad una vita difficilissima nelle valli e tra i monti, la guerriglia diventò sempre più fiera, tanto che nel 1863 il Savoia valutò la possibilità di abbandonare i territori conquistati, ma poi il suo governo emanò la tragica legge Pica che autorizzava fucilazioni immediate senza alcun processo e la repressione continuò più ferocemente. I numerosi gruppi della resistenza duosiciliana con velocissime incursioni attaccavano ovunque i rifornimenti militari, le colonne militari, distruggendo i collegamenti telegrafici e postali. Ma era una guerra impari e destinata all’insuccesso perché senza alcun aiuto esterno sia politico che militare.

    Nel frattempo tutti i macchinari industriali utili erano stati trasferiti al Nord, il resto fu distrutto per determinazione e per cause belliche. L’Ansaldo di Genova, ad esempio, che era una piccola officina, si sviluppò con i macchinari prelevati dallo Stabilimento di Pietrarsa. Nel 1862 i maggiori opifici tessili cessarono la produzione e così le cartiere, le ferriere della Calabria, le concerie. Alle ditte lombardo-piemontesi furono assegnati, per pura speculazione, lavori pubblici nelle province duosiciliane. La solida moneta duosiciliana d’argento e d’oro fu sostituita da quella cartacea piemontese. L’economia meridionale ebbe così un crollo verticale e la disoccupazione si aggiunse al dramma della guerriglia.

    Nel 1863 il debito pubblico piemontese fu unificato con quello di tutto il resto d’Italia. Il Sud “liberato” ne sopportò tutte le spese. Da quell’anno incominciò l’emigrazione, che in pochi anni diventò una vera e propria diaspora.

    Nel 1864 furono espropriati e venduti tutti i beni ecclesiastici e demaniali del Sud, il cui ricavato fu usato per il rilancio dell’agricoltura della Valle Padana. È di quell’anno lo scandalo delle speculazioni Bastogi nella costruzione delle ferrovie meridionali. Intanto in Sicilia, per catturare i renitenti alla leva, in_teri paesi erano circondati e privati dell’acqua potabile. I renitenti trovati, oppure i loro parenti, erano fucilati come esempio. Interi boschi, di estese dimensioni, furono bruciati perché i “briganti” non avessero più la possibilità di rifugiarvisi.

    Nel 1865 fallirono quasi tutte le fabbriche meridionali, perché senza più commesse. In quell’anno il carico fiscale fu aumentato dell’87%, ma il denaro così drenato fu tutto speso al Nord. Soprattutto quello tratto dall’agricoltura meridionale che finanziò le nascenti imprese industriali del Piemonte e della Lombardia.

    Nel 1866 anche in Sicilia si ebbero delle gravissime sommosse. Palermo scacciò i piemontesi, ma fu ripresa a seguito di un feroce attacco da parte di migliaia di soldati savoiardi sbarcati con numerose navi da guerra. Oltre ai duemila morti causati dalle cannonate in un solo giorno, si ebbero poi in tutta la Sicilia, nel giro di circa una settimana, 65.000 morti per il colera causato dalle devastazioni delle truppe piemontesi. Diventarono sistematiche la pratica della tortura e le ritorsioni sulla popolazione inerme, con stragi d’interi villaggi e la distruzione dei raccolti per affamare i paesi dove era più forte la resistenza legittimista.

    La guerra di repressione, che dopo 10 anni determinò la definitiva conquista piemontese, costò al Regno delle Due Sicilie circa un milione di morti, 54 paesi rasi al suolo, 500.000 prigionieri politici, l’intera economia distrutta e la diaspora di molte generazioni. Il Piemonte ebbe il doppio dei morti che aveva avuto in tutte le sue sedicenti guerre d’indipendenza.



    LE CONSEGUENZE DELL’INVASIONE PIEMONTESE

    La storia più che millenaria delle Due Sicilie, fatta da immense glorie e da immani tragedie, prima dell’occupazione piemontese, era stata la storia di un popolo che non aveva mai perso, nel bene e nel male, la propria identità nazionale. È stata, dunque, questa perdita, causata dalla forzata unificazione con gli altri popoli della penisola, mai subita prima di allora con le precedenti invasioni, nemmeno sotto la lunghissima dominazione romana, il più grave danno inferto al Popolo Duosiciliano. Neanche Napoleone, che aveva messo a soqquadro tutta l’Europa, aveva mai pensato di unire il Regno delle Due Sicilie al resto della penisola italiana, ben conoscendo la storica diversità del mediterraneo popolo duosiciliano.

    L’invasione piemontese nel 1860 del pacifico Stato delle Due Sicilie fu ben più di una semplice sconfitta militare e si può affermare che essa ha tanto inciso sulla nostra vita sociale ed economica che ancora oggi viviamo nell’atmosfera creata da quell’evento, dal quale sono nati tutti i nostri mali presenti. Gli effetti di una sconfitta militare, infatti, per quanto terribili, col tempo sono annullati se il territorio e la popolazione non sono annessi a quelli del vincitore. Per le Due Sicilie, invece, a causa della particolare posizione geografica, senza soluzione di continuità territoriale con il resto della penisola italiana, l’annessione ha prodotto effetti così devastanti che la coscienza del popolo stesso ne è stata modificata.

    Il Regno delle Due Sicilie proprio nel 1860 si stava trasformando in un grande Stato. C’erano tutte le premesse, perché allora era una tra le più progredite nazioni d’Europa, ma la delittuosa opera delle sette che governavano la Francia e l’Inghilterra e la sete di conquista savoiarda ne distrussero i beni e le tradizioni, compiendo un vero e proprio genocidio umano e spirituale.

    Come fu precisato da Lemkin, che definì per primo il concetto di genocidio, esso «non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione ... esso intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali ... Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui ... non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale».

    Si dice, inoltre, che vi sono due metodi per cancellare l’identità di un popolo: il primo è quello di distruggere la sua memoria storica; il secondo è quello di sradicarlo dalla propria terra per mischiarlo con altre etnie. Noi Duosiciliani abbiamo subìto entrambi i metodi, ma, avendo alle spalle una storia di quasi tremila anni, siamo rimasti almeno sempre fedeli alle nostre tradizioni.

    I settari hanno mistificato con la menzogna del cosiddetto “risorgimento” gli avvenimenti che causarono la perdita dell’indipendenza dello Stato delle Due Sicilie, proprio con lo scopo di giustificare quella che fu una vera e propria guerra d’aggressione contro i Duosiciliani. Il “risorgimento”, infatti, non fu espressione di una rivolta popolare che aveva quale suo obiettivo il suggestivo ideale dell’unità italiana, ma fu una vera e propria propaganda di guerra, un’invenzione che servì a nascondere - e a fabbricare la cosiddetta “opinione pubblica” - le vere intenzioni della classe dirigente del Piemonte che mirava ad impossessarsi ed a colonizzare il resto della penisola. La parola “risorgimento” si riferisce, infatti, solo a quel piccolo staterello, corrotto e pieno di debiti, quale era il Piemonte, che, in effetti, fu “usato” e reso servo a sua volta delle logge massoniche internazionali.

    La diffusione di queste menzogne, ideate dalla massoneria attraverso i “Congressi degli scienziati”, servì anche a coprire le reali in_tenzioni dell’Inghilterra e della Francia che volevano modificare l’assetto politico europeo a loro vantaggio. Gli esponenti al governo di queste due nazioni appartenevano alla ricca borghesia, protagonista della rivoluzione industriale inglese e della rivoluzione francese, e tendevano a moltiplicare i loro affari e traffici con l’ingrandire la loro influenza politica nel Mediterraneo, dove avevano i loro passaggi obbligati.

    Con il “risorgimento” furono inventate e diffuse grandi menzogne sullo Stato delle Due Sicilie, classiche quelle di Gladstone, e nascosti gli avvenimenti più brutali della guerra d’annessione. Ogni cosa che riguardava le Due Sicilie fu demonizzata o messa in ridicolo, infamando col nome di «brigantaggio» anche la lunga guerra di resistenza fatta spontaneamente da tutto il popolo duosiciliano contro l’invasione piemontese.

    Tale irreale propaganda risorgimentale fu così pregnante che, dopo gli avvenimenti, il novello Stato «italiano», non potendo delegittimare se stesso rivelando la verità degli avvenimenti, ha dovuto trasformare il «risorgimento» in una religione di Stato, consacrando come “eroi” dei veri e propri criminali di guerra quali Cialdini, Garibaldi e tutti gli altri savoiardi, ai quali sono stati dedicati monumenti, strade, piazze e caserme. È questo, insomma, un esempio classico di come la storia è sempre scritta dal vincitore e che spiega perché queste menzogne siano continuamente e ufficialmente diffuse da uno Stato che si proclama “italiano”, ma che nei fatti è rimasto uno Stato “piemontese”.

    Numerosi scrittori, inoltre, hanno raffigurato la situazione dei Territori duosiciliani “dopo” che vi era stata la devastazione piemontese, attribuendo all’amministrazione duosiciliana le pessime condizioni sociali ed economiche in cui erano state ridotte le Due Sicilie a causa dell’aggressione savoiarda. Il fatto più spregevole è che tali menzogne sono obbligatoriamente insegnate come storia ufficiale ai nostri figli, i quali si formano in un culto che, non solo non è il nostro, ma è stato creato proprio contro di noi Duosiciliani.

    Avvenuta la conquista di tutta la penisola, la prima cosa che i piemontesi fecero fu quella di impossessarsi di tutte le riserve di denaro nelle banche degli Stati appena conquistati. La Banca Nazionale degli Stati Sardi (privata) divenne, dopo qualche tempo, la Banca d’Italia (sempre privata), così com’è ancora oggi. La Banca d’Italia è, infatti, allo stato attuale, di proprietà dell’ICCRI, Banca San Paolo - IMI, Banco di Sardegna, Banca Nazionale del Lavoro, Monte dei Paschi di Siena, Mediobanca, Banca di Roma, Unicredito.

    A seguito dell’occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete d’oro per trasformarle in carta moneta secondo le leggi piemontesi, poiché in tal modo i Banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e sarebbero potuti diventare padroni di tutto il mercato finanziario italiano. Quell’oro, invece, attraverso apposite manovre piano piano passò nelle casse piemontesi. Eppure, nonostante tutto quell’oro rastrellato al Sud, la nuova Banca d’Italia (sempre di proprietà privata), risultò non avere parte di quell’oro nella sua riserva. Evidentemente quest'oro aveva preso altre vie. Esso, infatti, fu utilizzato per la costituzione di imprese al nord tramite il finanziamento operato da banche, subito costituite per l’occasione, che allora erano socie della Banca d‘Italia: Credito mobiliare di Torino, Banco sconto e sete di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino.

    Le sottrazioni operate e l’emissione non controllata della carta moneta ebbero come conseguenza che ne fu decretata già dal 1863 il corso forzoso, in altre parole la lira carta non poté più essere cambiata in oro. Oltre ai conseguenti danni per il risparmio di tutte le popolazioni della penisola, da qui incominciò a nascere il «Debito Pubblico»: lo Stato, in pratica, per finanziarsi iniziò a chiedere carta moneta ad una banca privata (qual è la Banca d’Italia). Lo Stato, quindi, a causa del «genio» di Cavour e soci, cedette da allora la sua sovranità in campo monetario affidandola a dei privati, che non ne hanno alcun titolo (la sovranità per sua natura non è cedibile perché è del popolo e dello Stato che lo rappresenta).

    Solo con la conquista delle Due Sicilie, dunque, con il denaro sottrattogli e con il sacrificio di questo fu possibile impostare “dopo” un programma di riforme che permisero la nascita delle industrie e delle infrastrutture nel Nord dell’Italia. Ovviamente, per permettere lo sviluppo delle loro nascenti industrie, il Piemonte eliminò non solo la concorrenza delle industrie duosiciliane, ma coprì negli anni successivi con prodotti delle nuove aziende piemontesi e lombarde tutto il mercato interno in una situazione di monopolio. Per ottenere questo, gli occupanti attuarono nei territori conquistati varie azioni, che in sostanza furono quelle di decretare nuove misure doganali nelle Due Sicilie, particolarmente gravi per le industrie siderurgiche e meccaniche. Poi sottrassero al Sud tutte le commesse militari e ferroviarie e impoverirono i capitali duosiciliani con un maggior drenaggio fiscale, utilizzando le risorse così ricavate esclusivamente nell’area lombardo-piemontese. Numerosissime ricchezze, inoltre, furono rapinate per uso personale dagli invasori, che distrussero volutamente numerosi opifici, come ad esempio a Mongiana ed a Pietrarsa.

    L’economia dell’Italia meridionale, poi, ebbe un crollo verticale non solo perché, da dopo l’unità e a tutt’oggi, il suo centro propulsore gravitò solo al Nord, ma anche perché fu imposto dal Piemonte, che non aveva nulla da perdere, una politica di libero scambio che stroncò le industrie duosiciliane non ancora completamente affermatesi.

    Il governo imposto dai piemontesi in tutta la penisola conquistata era eletto da un parlamento composto di una minoranza borghese che escludeva la quasi totalità degli abitanti. Anche dopo le riforme volute dalla sinistra, solo il 9% aveva diritto al voto e di questa percentuale facevano parte solo le classi agiate che imposero tasse, pubblica sicurezza, codice civile e penale, scuole e amministrazione esclusivamente a favore dei propri interessi.

    L’impossessamento di tutta la penisola italiana scatenò, di conseguenza, le mire affaristiche della borghesia dominante, che, sconvolgendo tutti i valori sociali preesistenti, provocò forti tensioni sociali particolarmente nelle Due Sicilie, dove, infatti, le terre demaniali divennero proprietà privata, originando i latifondi dai quali i contadini furono scacciati, causando per di più la distruzione della rilevante produzione agricola. Circa 600 milioni di lire di allora, raccolta con la vendita delle terre demaniali, quasi tutta la riserva liquida degli abitanti duosiciliani, fu trasferita nelle casse del Piemonte. In tal modo la borghesia dell’ex Regno delle Due Sicilie, diventato nel 1861 una provincia del nuovo Stato unitario, si precluse definitivamente la via dello sviluppo economico, convinta che solo con il reddito agrario potesse finalmente affermare il suo predominio. Concezione del tutto suicida che era già stata con lungimiranza contrastata dall’accorta amministrazione dei Borbone, i quali avevano intuito che non solo non vi poteva essere progresso con la sola agricoltura, ma che tale progresso andava costruito accortamente e senza sconvolgimenti sociali. Tale cieca borghesia, infatti, spinse alla fame ed alla disoccupazione i contadini che, privati delle terre, non poterono più usufruire degli usi civici, per mezzo dei quali era consentito a tutti di avere una sicura economia domestica.

    L’occupazione militare piemontese provocò, conseguentemente, una violenta e diffusa guerriglia di resistenza contro quello che era considerato a tutti gli effetti un esercito straniero, e contro i “galantuomini” collaborazionisti dei nuovi governanti. Gli occupanti, allora, per poter conservare i nuovi territori conquistati, attuarono una feroce repressione contro la popolazione civile e contro la sua economia. Le atrocità commesse dai piemontesi e dai loro collaborazionisti, particolarmente nel periodo del cosiddetto “brigantaggio”, possono sembrare mostruose e incredibili, ma in parte, nonostante siano ancora coperte da segreto di Stato, sono documentate negli Atti Parlamentari, in quello che resta delle relazioni della Commissione d’inchiesta sul brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell’epoca e nella varia documentazione custodita negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti.

    I piemontesi compirono, inoltre, numerosissime crudeltà anche nei confronti dei prigionieri di guerra duosiciliani stipati come bestie in campi di concentramento di proposito allestiti in Piemonte, Liguria e Lombardia. Nel lager di Finestrelle i prigionieri duosiciliani venivano eliminati nella calce viva. Il trattamento in questi campi fu, dunque, disumano e fu attuato contro gente colpevole solo di aver difeso la propria Patria e di aver tenuto fede ad un giuramento. Tutto questo in spregio totale alle condizioni di capitolazioni firmate dagli stessi ufficiali piemontesi.

    Mai, nella loro storia lunga oltre 700 anni, le Terre Napoletane e quelle Siciliane avevano subito una così atroce invasione e tutto questo causò anche l’inizio di una massiccia emigrazione che raggiunse ben presto il carattere di una diaspora che continua ancora oggi. Un fenomeno che, prima dell’invasione piemontese, non esisteva nelle Due Sicilie, ma che era invece particolarmente rilevante nelle regioni settentrionali della penisola dove la disoccupazione era un fatto endemico. Numerosissimi settentrionali, infatti, emigravano proprio nelle Due Sicilie per trovarvi lavoro.

    Le masse contadine, degli operai e degli artigiani, piegate dalla forza, ma non nel morale, non poterono trovare altro sbocco per sopravvivere che nell’emigrazione, favorita interessatamente dagli invasori. Calabresi, Abruzzesi, Molisani, Campani, Lucani, Pugliesi e Siciliani dovettero partire per terre lontane, spesso non sapendo nemmeno quale fosse la loro destinazione finale, verso un mondo del tutto ignoto. In quelle terre lontane e ostili, tuttavia, sono riusciti a far emergere le loro antiche virtù mediterranee, costruendo a volte ricchezze straordinarie, con la loro Patria nel cuore e che i figli dei figli oggi hanno quasi dimenticato, perché sono diventati americani, canadesi, argentini, venezuelani, cileni o australiani.

    Anche in questa loro diaspora, circa 23 milioni d’emigranti a tutt’oggi, molto più grande di quella tanto conosciuta degli ebrei, sono stati sfruttati dai piemontesi, che utilizzarono i loro risparmi, inviati dagli stessi emigrati per aiutare le loro famiglie d’origine, risparmi che, salvarono le esauste finanze dello Stato “italiano” e andarono a finanziare le nascenti industrie delle aree lombarde, piemontesi e liguri. Tali industrie poi, con la vendita dei loro prodotti al “Sud”, vi hanno ricavato altri guadagni, mentre l’ex Reame si andava impoverendo sempre più, perdendo via via anche i suoi figli migliori, i più intraprendenti, costretti ad emigrare in tutto il mondo.

    Ben più deleteria fu poi l’emigrazione che iniziò a partire dalla seconda metà del 1950, che, depauperando il Sud di quanto ancora restava dell’antica società, ha dissolto e trasformato in quelli che sono rimasti, attraverso la scuola, partiti politici e mezzi d’informazione, le tradizioni più caratteristiche e la propria identità, che si è andata omologando ai nuovi comportamenti globalizzanti dei consumi



    CONSIDERAZIONI FINALI

    La principale causa del crollo delle Due Sicilie va, senza dubbio, inquadrata nel marciume generato dalla corruzione massonica. Esso era dappertutto: nelle articolazioni statali, nell’esercito, nella magistratura, nell’alto clero (fatta salva gran parte dell’episcopato), nella corte del Re, vera tana di serpenti velenosi. Infatti, come ha esattamente analizzato Eduardo Spagnuolo: «addebitare ai piemontesi le colpe del nostro disastro è vero solo in parte e contrasta anche con i documenti dell’epoca. La responsabilità della perdita della nostra indipendenza e della nostra rovina è per intero della classe dirigente duosiciliana, che si fece corrompere in ogni senso. Non a caso le bande guerrigliere più motivate, come quella del generale Crocco e del sergente Romano, si muovevano per colpire, innanzitutto, i collaborazionisti e gli ascari delle guardie nazionali».

    Dopo il 1860 non ci fu soltanto un popolo in lotta contro un esercito aggressore, come nel 1799, ma una guerra civile tra gli strati popolari e la minoranza collaborazionista, tutta proveniente dalle classi alte. I piemontesi, come ha giustamente indicato ancora Eduardo Spagnuolo: «vinsero perché si erano precedentemente assicurati, attraverso l’azione sovversiva della massoneria, l’adesione dei “galantuomini” del Sud, i veri criminali briganti. Se non avessero avuto questo consenso fondamentale, mai e poi mai si sarebbero azzardati ad attaccarci. Se un popolo, infatti, insieme alla sua classe dirigente (o almeno con una parte consistente di essa) ha veramente voglia di resistere, non c’è repressione che tenga, anche se la vittoria piemontese sul campo era stata ottenuta soprattutto grazie ad una schiacciante superiorità di mezzi materiali e ad un’ottima organizzazione bellica frutto dell’esperienza delle varie guerre precedenti. All’eliminazione della “classe dirigente borbonica” contribuì, purtroppo, lo stesso Francesco II, che, nel concedere la costituzione, corrispose esattamente al piano diabolico dei liberali. Con la promulgazione della costituzione (che Ferdinando II aveva espressamente raccomandato al figlio di non concedere) furono eliminati legalmente i funzionari fedeli e soprattutto fu paralizzato il popolo attraverso il disarmo legale della Guardia Urbana, milizia popolare in stragrande maggioranza fedele al Re. Nonostante lo sfaldamento del nostro esercito, la partita poteva ancora essere vinta, o quanto meno si poteva veramente colpire con efficacia l’aggressore piemontese, ma la concessione reale della costituzione (nell’illusione di avere favorevoli i liberali, decisi, invece, a svendere la propria terra allo straniero) chiuse i giochi ancora prima di iniziare la partita. Attraverso di essa, infatti, quella parte della borghesia traditrice, proprio in nome di Francesco II, si impadronì di tutte le leve del potere, disarmando il popolo e armando, attraverso la ricostituita Guardia Nazionale, i sostenitori dei “galantuomini”. A quel punto, regnando ancora nominalmente Francesco II, la magistratura, le autorità municipali e le forze di polizia finirono saldamente in mano al nemico. Il popolo si ritrovò completamente abbandonato e soprattutto senza possibilità di comunicazione con la “classe dirigente borbonica” legalmente allontanata da ogni carica istituzionale.

    Contemporaneamente, primissima operazione delle “autorità”, fu quella di allontanare tutti i vescovi dalle loro diocesi, episcopato che, essendo di nomina reale, poteva costituire una serissima e autorevolissima opposizione. È da rilevare, inoltre, che la resistenza non iniziò quando vennero i piemontesi, ma cominciò proprio quando fu concessa la costituzione liberale, che anche alcuni vescovi, specie delle Puglie, contrastarono attivamente. Se ben si osserva, da un punto di vista strettamente giuridico, i primissimi moti popolari avevano infatti un carattere “antiborbonico”, poiché andavano contro la costituzione, in altre parole contro un corpo di leggi del Regno delle Due Sicilie promulgate su espressa volontà del legittimo Re Francesco II di Borbone. Il popolo, in realtà, aveva compreso immediatamente tutta la malizia dei liberali e si era mosso per contrastarla».

    L’opposizione armata, tuttavia, fu soltanto un aspetto della più vasta resistenza all’invasione piemontese, perché tale resistenza si sviluppò per anni in modo civile. Numerose furono le proteste della magistratura e dei militari, le resistenze passive dei dipendenti pubblici e i rifiuti della classe colta a partecipare alle cariche pubbliche. Innumerevoli furono le manifestazioni di malcontento della popolazione, soprattutto nell’astensione alla partecipazione ai suffragi elettorali, e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l’occupazione piemontese.

    La resistenza duosiciliana, definita “brigantaggio”, è stato analizzata e variamente spiegata, volendo dimostrare da una parte che essa era una specie di esercito sanfedista, sorretto dai reazionari duosiciliani, ma senza un capo carismatico, come lo era stato il cardinale Fabrizio Ruffo nel 1799, dall’altra che essa era un fenomeno esclusivamente sociale dovuto alle lotte contadine contro i cosiddetti “galantuomini”, che avevano usurpato le terre demaniali e i beni della Chiesa, sfociando poi nel crimine. In realtà, se qualcosa di vero di queste due tesi può essere considerata una componente di tutto l’insieme, è evidente dai fatti che tutto un popolo ha lottato contro l’invasione di un esercito considerato straniero e contro i traditori collaborazionisti per lunghissimi anni. A questa guerra di resistenza, parteciparono, infatti, oltre ai contadini, militari del disciolto esercito duosiciliano, avvocati ed impiegati, operai e studenti, sindaci e magistrati. Numerosi furono anche legittimisti stranieri, particolarmente spagnoli, che fecero parte della resistenza duosiciliana. Il “brigantaggio”, in sostanza, fu la reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia e della sua cultura quasi millenaria. Una resistenza che avvenne spontaneamente, dunque, ma purtroppo quando ormai il Regno delle Due Sicilie non aveva più i suoi gangli vitali. Ben diversi sarebbero stati i risultati se Francesco II avesse egli stesso spronato tutto il popolo alla resistenza ancor prima che avesse avuto luogo l’invasione piemontese.

    La resistenza duosiciliana iniziò con piccoli episodi isolati, e quindi non coordinati, nell’agosto del 1860, subito dopo lo sbarco dei garibaldini provenienti dalla Sicilia. Inizialmente fu soprattutto la popolazione delle campagne che si rivoltò contro i comitati liberali filogaribaldini, ripristinando i simboli duosiciliani e i legittimi poteri nei vari paesi dell’entroterra. La resistenza divenne più consistente subito dopo l’occupazione piemontese e ad essa parteciparono migliaia di soldati duosiciliani sbandati, coscritti che rifiutavano di servire un’altra bandiera e persone d’ogni settore sociale. Divenne, poi, una vera e propria rivolta popolare quando le truppe piemontesi iniziarono una feroce repressione con esecuzioni sommarie e con arresti in massa. Nel corso dell’anno 1861 e del 1862 fu tutto un intero popolo che si sollevò, tanto che furono perseguitati anche il clero e i nobili lealisti che dovettero emigrare lasciando la resistenza priva di guida politica. Particolare attenzione fu data dagli occupanti all’informazione a mezzo stampa, mediante la quale era deformata qualsiasi notizia al fine di presentare la resistenza duosiciliana come espressione di criminalità comune e per nascondere le atrocità commesse dagli stessi invasori. Il compito di eseguire questa criminale azione di repressione fu affidato principalmente al generale Cialdini che ordinò eccidi, rappresaglie, saccheggi e distruzioni di centinaia di centri abitati per impedire che l’insurrezione diventasse del tutto incontrollabile.

    Prima dell’invasione, l’ultima calata di barbari nel Sud della penisola italiana, della cosiddetta “Unità d’Italia” non se n’era mai sentita l’esigenza tra le restanti popolazioni italiane, né esistono documentazioni o pubblicazioni di alcun genere che parlano di “spirito nazionale” antecedente ai “fatti risorgimentali”. L’idea unitaria, infatti, non ebbe mai alcun sostegno popolare efficace e fu soltanto un movimento di pochi, soprattutto di massoni “borghesi”, cioè legati soltanto ad interessi materiali. L’“ideale” del cosiddetto “risorgimento”, propagandato dai settari, era, in effetti, un’esigenza dei territori del Nord dell’Italia, che, oltre ad essere governati ancora in modo feudale, erano occupati da potenze straniere. Il colmo era poi dato dal Piemonte, governato dai Savoia che erano francesi, e che, proprio loro, dicevano di voler “liberare l’Italia dagli stranieri”.

    Il marchese Villamarina fu l’anello che legò la dinastia sabauda alle mire della massoneria e di essa la rese serva fino a portarla sotto le ali di Cavour, servo a sua volta degli inglesi. Ai Savoia, in ogni modo, non interessava niente della libertà degli Italiani, a loro interessava solo ingrandire i propri possedimenti, sfruttando per i propri interessi gli stessi Italiani, che costrinsero con perversione a combattere tra loro. Che fosse una guerra di conquista, e non un progetto di ideale unità, non v’è alcun dubbio se solo si osserva il modo di governare dei nuovi “padroni”, che mirarono unicamente a saccheggiare tutte le ricchezze del Reame con l’interessato sostegno dalla borghesia lombardo-piemontese.

    Gli abitanti delle Due Sicilie furono usati, infatti, prima come carne da cannone per le altre guerre coloniali e mondiali dei Savoia, poi come mercato per i prodotti delle industrie del Nord. La classe politica meridionale, inoltre, allo scopo di conservare piccoli vantaggi domestici, ha fiancheggiato sempre tutti i governi che si sono avvicendati in Italia dall’inizio dell’occupazione, governi che pur definendosi “italiani”, hanno curato solo gli interessi delle lobby del cosiddetto “triangolo industriale”, le quali mantengono eterna la “questione meridionale” per lucrarne gli appalti, mentre i ciechi politici meridionali, accontentandosi di lucrarne i voti elettorali, sono diventati i loro servi sciocchi.

    Il Popolo delle Due Sicilie, in tutta la sua lunghissima storia, non ha mai fatto una guerra d’aggressione contro altre nazioni. Ha dovuto, invece, sempre difendersi dalle aggressioni degli altri popoli, che l’hanno assalita con le armi o con le menzogne. Ancora oggi dal Nord dell’Italia, per una congenita ignoranza, alimentata continuamente dalla propaganda risorgimentale fatta instancabilmente dai vertici dello Stato “italiano”, i Duosiciliani sono ancora puerilmente aggrediti con violenze verbali e con luoghi comuni sui “meridionali”.

    Nella considerazione di tutti gli avvenimenti succedutisi dopo il 1860 fino ad oggi, si può senza dubbio affermare che proprio con il cosiddetto “risorgimento”, a causa dell’aggressività della sua natura, si originò quel processo politico, che, passando attraverso continue guerre, per lo più suggestivamente etichettate, ebbe il suo culmine nel fascismo, che disfece con la sua fine tutta la penisola italiana, prima del “risorgimento” così ricca di valori, nella sciatta repubblica in cui oggi viviamo. Una repubblica che, mentre da una parte rinnega il fascismo, dall’altra esalta contraddittoriamente il “risorgimento” che ne fu in sostanza la matrice.

    (Tratto dal libro “DUE SICILIE, 1830 - 1880” di Antonio Pagano)



    Antonio Pagano
    per risorgere bisogna insorgere

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    ..e li chiamarono briganti
    (dal PeriodicoDueSicilie 01/2000)





    "Voi siete governo nuovo, però meglio a voi si addice la persuasione. Persuadeteci coi fatti, rifateci felici e mostratevi migliori de’ precedenti regnatori". Cosí, ironicamente, scriveva il 26 giugno 1861 il giornale napoletano "La Tragicommedia", ma, l’ironia che proveniva dai "caffoni" non era ben accetta dai supponenti nuovi padroni piemontesi. La Tragicomedia, d’ordine, cessò di vedere piú la luce. Quanto alla invocata felicità, questa era stata già da tempo profusa in quantità industriale ad uso e consumo del Popolo Duosiciliano: "Il passato fu la ricchezza, la pace, le leggi, le arti, i costumi, la religione" (La Tragicommedia, ibidem).L’arrivo dei "liberatori" era stato accolto oltre il Tronto (12 ottobre 1860) in modo inconsueto, tanto da far restare attoniti i generaloni savoiardi: invece dei soliti e preconfezionati ramoscelli d’ulivo, sonore schioppettate come benvenuto.

    Quale che fosse la componente che maggiormente portò i Duosiciliani alla reazione contro gli invasori ha un’importanza rilevante, perché da essa si potrà trarre la ragione del quasi totale coinvolgimento popolare: legittimismo, lotta di rivendicazione sociale contadina, innata fedeltà del popolo Duosiciliano al Re, tutti motivi certamente presenti, ma che erano il sostrato della vera ragione del rigetto totale alla integrazione tra società diverse ove peraltro una si presentava prevaricatrice dell’altra. Per un decennio, dal 1860 al 1870, e in alcuni casi anche oltre, un intero popolo, già catalogato come "… affricani, caffoni verminosi, infidi, etc.", pur davanti ad una sicura sconfitta, quasi fatalisticamente, e, perché no, avvolto da un’aura romantica, tra la scelta di vivere in ginocchio o di morire in piedi, non ebbe esitazioni. Quegli uomini, gli ultimi uomini che osarono alzare la testa, che si sacrificarono in nome della indipendenza del Regno delle Due Sicilie, scrissero le pagine piú belle della storia di una Nazione sovrana da oltre 700 anni. Luoghi comuni come l’amor di patria, la falsa retorica risorgimentale, ma un ancor piú concertato disegno riduttivo e calunniatore, hanno fatto sí che alle migliaia di insorgenti Duosiciliani venisse affibbiato il titolo di brigante, e che, cosa imperdonabile, venisse distrutto il passato storico di una grande Nazione.



    Una Storia matrigna

    La storia della fine del Regno delle Due Sicilie è una storia matrigna, imposta da 140 anni dai lacchè, sedicenti storici, con l’unico scopo di infangare ed annullare la memoria storica, di cancellare le radici di un popolo che aveva osato rifiutare la libertà giacobina e savoiarda.

    Guardati con sospetto, tenuti sotto il tallone del piú feroce e arbitrario dispotismo, briganti ieri, camorristi e mafiosi oggi. I briganti sono un ricordo, la mafia e la camorra, che a ben ragione possono essere indicate come le espressioni dello stato unitario savoiardo, vivono e si moltiplicano piú che per la loro capacità organizzativa, per la premeditata inazione dei governi post-risorgimentali ed attuali. Briganti erano le centinaia di migliaia di Duosiciliani uccisi negli scontri con l’esercito invasore, trucidati nelle loro case, briganti erano gli abitanti di 54 paesi rasi al suolo, briganti erano le donne violate, i preti crocifissi, i 56.000 soldati borbonici chiusi nei campi di concentramento di S. Maurizio Canavese e di Fenestrelle a morire di fame e stenti. Ma, per battere quei briganti, il liberale e democratico piemonte dovette far scendere in campo piú di 120.000 soldati di linea, affiancati da quasi 400.000 guardie nazionali. Se questo fu brigantaggio…!

    L’esercito piemontese affrontò una guerra interminabile, la piú feroce e sanguinosa della sua storia militare, cercando di mettere la sordina, di far trapelare il meno possibile, arrivando financo a nascondere il numero dei soldati caduti. Il governo piemontese, se avesse lasciato campo libero alla stampa dell’epoca, non avrebbe piú potuto invocare la "volontà popolare" espressa durante i ridicoli plebisciti per legittimare l’annessione del Reame Duosiciliano.

    I barbari piemontesi, sorpresi dalla massiccia reazione popolare, macchiarono la loro bandiera (ma, era mai stata senza macchia?) con un comportamento, a dir poco, … piemontese. Il 21 gennaio 1861, resi furenti dalla serie di scacchi subiti dai "briganti", massacrarono 356 combattenti borbonici fatti prigionieri a Scurcola Marsicana, senza tener conto, in barba ad ogni convenzione militare, che Re Francesco II combatteva a Gaeta, che a Scurcola la bandiera che sventolava era quella del Regno delle Due Sicilie, la stessa che garriva al vento sulle fortezze di Messina e della gloriosa Civitella del Tronto.

    La consorteria massonico-savoiarda era discesa al sud con l’intento sí di abbattere la Dinastia Borbonica, ma anche con finalità conservatrici, sia sul terreno politico che economico-sociale. Finalità che avevano l’appoggio incondizionato dei latifondisti meridionali, i quali vedevano un pericolo nella politica spesso enunciata e già molte volte applicata dai Borbone con l’assegnazione di terre ai contadini. Il costo di tale patto scellerato doveva necessariamente ricadere sui contadini e su tutto l’ex Regno. Inoltre la conquista di un mercato vasto come quello del Sud avrebbe finalmente visto lo sviluppo delle rachitiche industrie piemontesi e lombarde.

    Per la legge del contrappasso, quasi miracolosamente, le fiorenti industrie napolitane vennero spazzate via: le fonderie di Mongiana (Cosenza), dove gli "inetti meridionali" riuscivano a produrre le traverse (lunghe ognuna 34 m) per il primo ponte in ferro in Italia sul fiume Garigliano, le officine di Pietrarsa, dove venivano costruite le prime locomotive quando gli altri stati italiani, in primis il piemonte, le importavano dall’Inghilterra, gli innumerevoli e moderni, per l’epoca, cantieri navali, che produssero la prima nave a vapore che solcò il mare, tutto finito, distrutto, trasferito ad ingrassare i parassiti del futuro triangolo industriale. La scelta era tra essere "briganti o emigranti", e molti, tanti, scelsero di diventare prima briganti, poi emigranti.

    Briganti che fecero schiumare di rabbia e diventare verdi per il terrore gli impennacchiati Cialdini, Fumel, Pinelli e che fecero pensare seriamente al potere politico piemontese di abbandonare quella terra che tanto costava sangue e … disonore. Fu guerra e non brigantaggio, senza quartiere, senza alcuna regola cavalleresca. Fu una gara alla ricerca della massima crudeltà. Guerra che cominciò all’indomani della proclamazione dell’unità della loro Italia, il 17 marzo 1861, una data da non dimenticare mai perché fu la data che diede inizio alla mattanza. Non è possibile accertare il numero di coloro che presero parte attiva alla guerra contro gli invasori, ma parecchi storici concordano nel quantificarlo in circa 85.000, numero raggiunto quando gli scontri divennero intensissimi e, considerando il numero dei fucilati, uccisi in combattimento e i prigionieri, non sembra inverosimile parlare di circa 400.000 combattenti. Nelle pagine che seguono saranno descritte le campagne di guerra del Generale Carmine Crocco Donatelli, generale acclamato sul campo dai suoi soldati, che sotto la sua guida infersero cocenti sconfitte ai briganti piemontesi.

    Carmine Crocco Donatelli

    Le origini di Carmine Crocco sono umili. Egli era appena in grado di leggere e scrivere, ma era dotato di vivissima intelligenza. Le promesse di un futuro migliore tanto strombazzate dal trombone Garibaldi (del quale in seguito Crocco capí che valeva come un due di briscola) videro Crocco parteggiare inizialmente per i garibaldini e insorgere contro lo strapotere dei latifondisti: ma mentre Garibaldi prometteva terra a tutti, i "galantuomini" se ne erano già impossessati. Crocco cercava, inoltre, e ne aveva avuta la promessa, di farsi cancellare alcuni reati commessi precedentemente. Tornato nel Melfese, luogo dei suoi natali, seppe tuttavia che era stato spiccato nei suoi confronti un mandato a comparire (mandato di cattura) e la scelta obbligata per Crocco fu quella di darsi alla macchia.

    Le notizie dei numerosi ed ingiustificati eccidi commessi dai nordisti, dei villaggi distrutti, dell’atteggiamento prevaricatore e razzista, dei proclami infami che promettevano piombo, corda e galera, convinsero Crocco a tornare nuovamente a militare sotto la bandiera gigliata del Regno delle Due Sicilie. Convinzione vieppiú rafforzata dall’accorrere, sotto la Bandiera, di moltissimi semplici soldati del disciolto esercito borbonico, che aborrivano l’idea di giurare fedeltà a un re straniero e invasore, e di altrettanti numerosi contadini, che si sentivano privati della protezione che la Dinastia Borbonica loro concedeva contro le prevaricazioni dei grandi proprietari.

    Anno 1861

    Il 7 aprile 1861 un orgoglioso Alfiere regge la Bandiera Duosiciliana e avanza seguito dal Gen. Crocco e da circa 500 armati, perfettamente inquadrati, e da 160 cavalieri.

    Il gruppo di combattimento aveva tuttavia alcuni lati negativi: -1. le truppe non disponevano di un servizio di sussistenza e, quindi, dovevano procurarsi vettovaglie e vestiario dove era possibile; -2. le armi erano vetuste, quasi sempre fucili da caccia e armi bianche, per cui il loro maggior fornitore fu l’esercito piemontese e la guardia nazionale che nella fuga abbandonavano il loro armamento per fuggire piú veloci; -3. Non aveva alcun aiuto finanziario da parte di potenze straniere (come veniva millantato dagli invasori) e gli insorgenti dovevano soddisfare le loro necessità sequestrando il denaro per le paghe dei savoiardi e dei loro collaborazionisti; -4. Infine venivano limitati enormemente nelle loro azioni operative in quanto dovevano tener conto della feroce reazione che i piemontesi compivano contro le inermi popolazioni civili.

    Dal 7 aprile ai primi di maggio 1861 tutta la Basilicata è in fiamme: si osservi in proposito nella cartina la incontrastata marcia del Gruppo di combattimento di Crocco. In rapida successione, segnata dalla altrettanta rapida fuga dei presidi piemontesi e delle guardie nazionali, vengono liberate Ripacandida, Barile, Venosa, Lavello ed in fine la gloriosa Melfi, città cara a Federico II. Il bottino in armi è ingente, in ogni cittadina Crocco restaura il Governo Borbonico, vengono bruciati il tricolore e i simboli savoiardi, l’entusiasmo della popolazione è indescrivibile. Le superstiti truppe piemontesi si sono rifugiate a Maschito, ben lontani dall’epicentro della rivolta.

    Lo stato maggiore degli invasori piemontesi, colto di sorpresa, ordina a tutte le truppe stanziate a Salerno, Benevento, Avellino e Foggia di convergere sul Melfese. Il loro cammino sarà segnato dagli orrori di fucilazioni di massa e dall’incendio di interi paesi. Crocco nel contempo dirige la sua marcia in Alta Irpinia, dove libera Carbonara, Calitri, S. Andrea e Conza. Il numero dei briganti piemontesi uccisi dagli insorgenti è ancora oggi coperto da segreto militare.

    Senza che vi siano gruppi organizzati, si sollevano Grassano, S. Chirico, Avigliano, Ruoti, Rapolla, Atella e Rionero. Circa 4000 piemontesi, appoggiati da altrettante guardie nazionali, stringono un cerchio di truppe su Crocco, ma nella rete non resta nulla. Crocco ha diviso la sua forza in piccoli gruppi che hanno filtrato le maglie dell’accerchiamento piemontese.

    Nelle sue memorie lo stesso Crocco scrive: "Ai primi di maggio, trovando difficoltà a trarre mezzi di sussistenza … divisi le truppe in plotoni, dando per punto di riunione i boschi di Lagopesole". Mentre Crocco è acquartierato a Lagopesole, i suoi luogotenenti Angelo Maria Villani e Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), nell’intento di alleviare la pressione esercitata su Crocco, attaccano con successo reparti piemontesi in Capitanata.

    Il 14 maggio Villani libera Mattinata, il 10 giugno Poggio Imperiale, le vittime piemontesi sono numerosissime. In Capitanata gli scontri avvengono tra la cavalleria piemontese e la cavalleria degli insorgenti: il bottino in cavalli è per i borbonici veramente sostanzioso. A Palazzo S. Gervasio, Summa al comando di reparti di cavalleria insorgente travolge i Lancieri di Montebello e la guardia nazionale, una vittoria totale.

    Il 24 luglio insorge Gioia del Colle, il 30 Vieste sul Gargano. Nessuna formazione di truppe insorgenti era presente nelle zone delle due cittadine e i piemontesi fucilano 170 persone a Gioia e 65 a Vieste, saccheggiando anche le chiese.

    La gravità della situazione la si può intuire dal telegramma che il 7 agosto il gen. Cialdini invia al suo degno compare Cadorna: "Nel caso di avvenimenti gravi ed imprevisti a Napoli o altrove, concentri la sua truppa a Teramo, Aquila, Pescara ed agisca secondo le circostanze se le comunicazioni con me venissero interrotte" ("Il gen. Cadorna nel Risorgimento", Milano, 1922, pag. 202). Il 10 agosto truppe piemontesi occupano Ruvo del Monte, le case vengono saccheggiate e 23 persone fucilate. Il Melfese, la Capitanata e la Terra di Bari diventano l’epicentro di una serie infinita di piccoli e grandi scontri e in queste zone vengono inviate molte truppe piemontesi. Il terrore tuttavia attanaglia gli occupanti, gli insorgenti hanno adattato il loro comportamento a quello dei piemontesi: niente piú prigionieri, visto che la fucilazione era il trattamento riservato ai Duosiciliani caduti in mano ai savoiardi. Le azioni nel Melfese e in Puglia rendono piú difficile il controllo nella fascia che va da Terra di Lavoro al Beneventano. Napoli rischia di rimanere isolata.

    Lo stesso 10 agosto Crocco muove verso Ruvo del Monte: intende punire i piemontesi e i "galantuomini" per i delitti ed il saccheggio cui il paese è stato sottoposto. Occupata la cittadina fa sterminare tutti i piemontesi e le guardie nazionali, piú 17 galantuomini, impadronendosi di gran quantità di armi e munizioni.

    La reazione piemontese è immediata e l’11 agosto scagliano contro Crocco circa 4000 uomini, composti da un battaglione bersaglieri, un battaglione del 62° Rgt. Ftr, tre battaglioni di carabinieri, due compagnie del 32° Rgt. Ftr., affiancate da centinaia di guardie nazionali. Crocco decide di accettare lo scontro e, unendo alle sue forze, circa 160 cavalleggeri comandati da Agostino Sacchitiello, finge in un primo tempo di puntare su Calitri, poi inverte la marcia e si posiziona a Toppacivita (nome che non compare certo nelle carte militari piemontesi), ove fa approntare un campo trincerato.

    Insieme a Crocco, forte di 1000 fanti e 200 cavalieri, ad aspettare l’assalto dei luridi briganti piemontesi, sono i suoi luogotenenti i cui nomi passeranno alla storia quando il Sud tornerà ad essere libero e indipendente:

    - Giuseppe Nicola Summa, di Avigliano;

    - Giuseppe Schiavone, di Cenzano;

    - Agostino Sacchitiello, dall’Irpinia;

    - Giovanni Coppa, di S. Fele;

    - Pasquale Cavalcante, di Corleto Perticara;

    - Teodoro Gioseffi, di Barile:

    - Giuseppe Caruso, di Atella, ed altri.

    Il 14 agosto, alle ore 04.00, comincia la battaglia che si concluderà solo alle 17,30 del pomeriggio. Crocco respinge tre attacchi piemontesi e contrattacca a sua volta mettendo in fuga i nemici. Nicola Summa e Pasquale Cavalcante, che guidano la cavalleria insorgente, provano ad avvolgere il nemico in fuga, ma questi riescono a salvarsi. I piemontesi uccisi in combattimento sono duecento. Vengono fatti 50 prigionieri, compreso un capitano, che in seguito vengono scambiati con 12 insorgenti. I piemontesi, ripiegati su Rionero, abbandonano enormi quantità di salmerie e munizionamento. Il giorno dopo i partigiani di Crocco festeggiano la vittoria con un memorabile pranzo immolando 1000 polli e 200 pecore.

    Nei giorni seguenti i piemontesi, i veri briganti, si sfogano con crudeli repressioni. Vengono decimati interi paesi, distrutti i raccolti e abbattuti migliaia di capi di bestiame. Il piú delle volte, per queste vili operazioni, si servono della Legione Ungherese, un corpo di mercenari di crudeltà inaudita. Questi metodi fecero dire a Napoleone III, nonostante fosse complice del Vittorione Emanuele: "Les Bourbons n‘ont jamais fait autant ..." (Molfese, pag. 95).

    Dopo Toppacivita Crocco va ad acquartierarsi a Lagopesole, ma il 20 dello stesso mese attacca i presidi di Monteverde e Teora in Alta Irpinia. Il 31 lo troviamo nella pianura che circonda Lucera in Capitanata, dove travolge una compagnia del 62° Rgt. Ftr. e due battaglioni di guardie nazionali.

    In settembre, il giorno 22, la compagnia di Caruso subisce forti perdite in uno scontro con alcuni reparti del 39° e 61° Rgt. Ftr. Poi, il primo ottobre, anche la compagnia di Caschetta subisce la perdita di 40 uomini e lo stesso Caschetta viene fucilato a Melfi il giorno dopo.

    Nella seconda metà di ottobre Crocco ordina ai suoi luogotenenti di radunare le truppe a Lagopesole, dove attende l’arrivo di un ufficiale legittimista spagnolo, il generale spagnolo José Borjes, inviato dal Comitato Borbonico di Marsiglia. Borjes era sbarcato a Bruzzano il 17 settembre con 12 ufficiali spagnoli, ma il suo arrivo, annunciato dai soliti pentiti, fece accorrere numerose truppe nel tentativo di catturarlo. Il percorso compiuto da Borjes fu molto difficoltoso e molto rischioso, ma intanto egli ha modo di valutare la situazione militare e politica in quelle regioni, comprende che alla sua azione dovrà seguire un solido aiuto esterno di uomini e armi. Nel suo diario riporterà una frase che evidenzierà l’isolamento in cui si trovavano i rivoltosi: "I proprietari della Sila sono antirealisti, perché quando il Re fosse sul trono non potrebbero comandare dispoticamente ai loro vassalli" (Diario A.S.M.E., cartella 1506).

    Il 15 ottobre presso Lavello (Cerignola) reparti di lancieri piemontesi uccidono una ventina di contadini solo perché sospetti, ma Borjes, nel frattempo, riesce comunque ad arrivare al bosco di Lagopesole il giorno 19, dove avrebbe potuto incontrarsi con Crocco. L’incontro avviene il giorno 22. Sono due personalità molto diverse, tuttavia Borjes riesce a far accettare a Crocco il suo piano di compiere un atto che provochi una grande risonanza politica: la conquista di Potenza.

    Nel primo giorno di novembre 1200 uomini al comando di Borjes e di Crocco, divisi in centurie comandate da ufficiali spagnoli e dai luogotenenti di Crocco si muovono da Lagopesole nella seconda e ben piú pericolosa spedizione contro gli invasori piemontesi.

    L’avanzata inizia il 3 novembre con la liberazione di Trivigno, il 5 vengono eliminati i presidi di Calciano e Garaguso, il 6 tocca al grosso centro di Salandra, il 7 e l’8 vengono liberati anche Craco ed Aliano, posizionata sulla sponda destra del torrente Sauro. Nel frattempo 1200, tra piemontesi e guardie nazionali, convergono verso il Raggruppamento di Crocco da Stigliano e da Matera.

    I savoiardi, provenienti da Stigliano per riunirsi con le altre truppe provenienti da Matera, vengono attaccati mentre si accingono a guadare il Sauro. 600 piemontesi sono assaliti da 400 Duosiciliani: l’urto è violentissimo. Due battaglioni del 62° Rgt. Ftr vengono travolti dalla cavalleria di Nicola Summa al grido di "viva ‘o Re" e le acque del Sauro diventano rosse del sangue dei piemontesi e delle guardie nazionali. La truppa piemontese è letteralmente terrorizzata e ripiega disordinatamente su Stigliano e successivamente proseguono verso S. Mauro Forte, ma su questa strada vengono ancora assaliti e sterminati da un altro drappello di cavalleria duosiciliana proveniente da Gorgoglione.

    La disfatta è totale e il numero dei morti piemontesi sembra sia stato 350, tanto che il generale Della Chiesa viene sostituito e deferito ad un consiglio di disciplina. Intanto Borjes e Crocco vengono accolti a Stigliano dalle autorità cittadine con grandi festeggiamenti e con l'esposizione della bandiera delle Due Sicilie in tutta la cittadina. La notizia della brillante vittoria fece sí che altri 300 volontari si arruolassero con Borjes e in molti paesi si incominciò a sperare. Il totale dei patrioti di Crocco e di Borjes raggiunge il numero di 2.180.

    Il Raggruppamento Duosiciliano riprende la marcia il giorno 13 e vengono liberate Cirigliano, Gorgoglione, Accettura, Oliveto e Garaguso. Il 14 novembre le truppe duosiciliane vengono accolte da Grassano in festa e il giorno dopo viene liberato S. Chirico. Solo Vaglio, alle porte di Potenza, oppone una dura resistenza per il suo forte presidio e per la sua naturale posizione, ma dopo sette ore di continui attacchi viene conquistato e il presidio piemontese viene decimato.

    Il 16 novembre la vallata prospiciente Potenza accoglie le truppe di Borjes e Crocco. Il piano di Borjes sembra avviarsi verso la conclusione progettata. Il presidio piemontese, pur abbastanza consistente, è davvero terrorizzato, temono di ricevere lo stesso trattamento che essi hanno tenuto contro i cittadini dei vari centri della Basilicata. Secondo i piani, e anche in funzione delle esigue truppe duosiciliane, a Potenza dovrebbero verificarsi dei disordini fomentati dal clandestino comitato borbonico, ma anche qui il tradimento incombe. Crocco nelle sue memorie scrive: "Presiede il comitato il sig. …, liberale della sola fascia tricolore, che non avendo potuto arricchire nella rivoluzione, cambiò bandiera e si rifece borbonico. Ma questo camaleonte ancora una volta cambiò colore, avvertí il comandante della piazza, indicò dove erano deposte le armi, e, dopo aver intascato i ducati del Borbone, si vantò di aver salvato la Basilicata" (Memorie, pag. 95).

    Il piano di Borjes fallisce, mentre migliaia di soldati affluivano alle spalle dei Duosiciliani. L’attacco frontale senza artiglieria era da escludere, sarebbe stato un suicidio collettivo, e cosí Borjes devía la truppa verso Pietragalla con l’intento di avvolgere Potenza da nord-ovest. A questo punto sorgono contrasti tra Crocco e Borjes: il primo decide di liberare Bella, Balvano e Ricigliano. Poi, dopo aver eliminato il presidio di Pescopagano, si ritira verso i sicuri e imprendibili boschi di Monticchio.

    Mentre Crocco si ritira, si scatena la bestiale reazione piemontese sugli indifesi abitanti. A Trivigno i piemontesi addirittura fanno un apposito bando promettendo il perdono ai rivoltosi che si costituiscono, ma i 28 presentatisi vengono tutti fucilati e i cadaveri lasciati insepolti nella piazza del paese come esempio e monito. A Ruvo del Monte, non trovando briganti da combattere, il comandante del 31° battaglione bersaglieri, il maggiore lodigiano Davide Guardi, ammazza numerosi cittadini, anche questi lasciati in piazza insepolti, rubando anche il poco denaro delle casse comunali.

    Il 27 Borjes si congeda da Crocco perché intende raggiungere i confini pontifici per presentarsi al Generale Clary. Al termine di un’esaltante marcia, sempre braccato dai piemontesi e dalle manutengole guardie nazionali, raggiunge la Marsica. Il 6 dicembre i bersaglieri prelevano dalle carceri di Potenza un gruppo di detenuti, tra i quali due luogotenenti di Crocco, Vincenzo D’Amato (Stancone) e Luigi Romaniello, e, anziché tradurli a Salerno, li uccidono lungo il tragitto.

    L’8 dicembre, Borjes, tradito da un francese che li aveva avvistati, è circondato dai piemontesi nei pressi di Tagliacozzo, nella cascina Mastroddi dove ha cercato riparo. Dopo una sparatoria, vinti dal fumo per il fuoco appiccato dai nemici alla cascina, gli spagnoli sono costretti ad arrendersi, anche perché il comandante piemontese, il maggiore Franchini, promette salva la vita. Borjes, cavallerescamente porge la sua spada all’ufficiale piemontese, che la rifiuta e poi vigliaccamente fucila subito dopo sia Borjes che gli altri Spagnoli catturati, impossessandosi di tutte le monete d’oro trovate loro addosso.

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    Anno 1862



    La fine della spedizione ideata dal Borjes è stata causata anche dall’arrivo della Brigata Acqui e da migliaia di guardie nazionali. Senza soluzione di continuità migliaia e migliaia di reclute piemontesi vengono inviate nel Mezzogiorno nel tentativo di soffocare ogni anelito di libertà dei Duosiciliani.

    Crocco divide la truppa in sei distaccamenti comandati dai suoi migliori luogotenenti e li fa accampare lungo i boschi sulla dorsale che da Potenza porta a Monticchio e poi piega ad ovest lungo il medio Ofanto fino al territorio di Calitri.

    Nessuno osa disturbare le truppe cosí acquartierate, le quali possono ancora una volta riorganizzarsi. Nelle sue memorie Crocco scrive: "Cosí passammo l‘inverno senza essere disturbati e fu veramente una fortuna, poiché quell‘anno vi fu un‘invernata terribile … Era caduta tanta neve che non si poteva camminare; ciò fece dire ai giornali che il "brigantaggio" era distrutto e morto ..." (Crocco, pag. 109). Era questa la convinzione non solo dei giornali, ma anche dello stesso La Marmora, il quale scriveva al suo capobanda Ricasoli: "… il brigantaggio è, se non sparito, ridotto però a tale punto da non poter piú sconvolgere le provincie" (carteggio La Marmora / Ricasoli, lett. 24.2.62).

    Il 24 febbraio le truppe di Crocco muovono dai boschi del Vulture puntando verso la pianura del Tavoliere.

    Durante il forzato riposo Crocco e i suoi si sono resi conto che non sarà piú possibile agire con tutte le loro forze nello stesso punto. La disparità in numeri e mezzi è senza paragoni: circa 45.000 soldati di linea e altrettante guardie nazionali aspettano l’occasione per colpire ed eliminare definitivamente gli insorgenti. I distaccamenti, dunque, agiranno singolarmente, cercheranno la collaborazione di altri insorgenti e si uniranno solo in casi eccezionali. I briganti piemontesi potranno essere ancora battuti se divisi e comunque solo se ci sarà una parità delle forze.

    Una serie interminabile di scontri mortali, un rivolo senza fine di sangue segnerà lo scorrere del 1862. I cimiteri piemontesi si riempiono di nuove lapidi di soldati uccisi, ma la Basilicata, l’Alta Irpinia e la Puglia vedono cadere numerosi loro figli, sepolti sotto un ulivo, lungo il greto di un torrente, o, se sfortunati, lasciati appesi per giorni al patibolo della giustizia savoiarda come monito.

    Impossibile segnalare tutte le piccole battaglie, nelle due regioni e nella zona irpina si contano piú di 650 scontri.

    Crocco e i suoi leggendari patrioti e cavalieri iniziano una guerriglia che li vede spaziare da Lecce fino al Trigno, ai confini con l’Abruzzo, dal Sinni fin quasi a Benevento. Per l’elefante piemontese non esisteva luogo sicuro che non sia quello dietro le alte e protettive mura dei centri abitati.

    Le mura di Accadia risuonano ancora delle grida di terrore dei Lancieri di Montebello: gli zoccoli dei famosi cavalli pugliesi calpestano piú volte le odiate divise di chi credeva in una facile passeggiata. Da Accadia Crocco si sposta velocemente colpendo pesantemente lungo il suo cammino le truppe di Corato, Gravina, Altamura. Con il gruppo di combattimento di un altro leggendario eroe, il Sergente Romano, assedia Gioia del Colle sfidando i terrorizzati piemontesi ad uscire fuori dalle mura cittadine, ma invano perché quei codardi assassini combattono solo se in numero almeno tre volte superiore ai Duosiciliani.

    C’è da dire ancora che gli spostamenti fulminei di Crocco disorientano i piemontesi. Da Gioia del Colle Crocco punta attraverso i feudi di Grumo, Cassano e Santeramo nei boschi di Mottola, poi da qui risale per Laterza e Ginosa fino a Craco. Il 1° marzo Crocco riunisce le sue truppe nel bosco di Metaponto, presso la foce del Basento, insieme a quelli di Summa, Coppa, Giuseppe Caruso e Cavalcante, per attendere uno sbarco di truppe legittimiste spagnole e austriache. Il Comitato Borbonico in Roma aveva elaborato un piano basato sull’ipotesi che le truppe piemontesi, richiamate dalle conseguenti azioni del Crocco, avrebbero lasciato sguarnito il confine pontificio, permettendo al Tristany di attaccare Avezzano con duemila uomini per invadere poi gli Abruzzi. Tuttavia una spia infiltrata, Raffaele Santarelli, fece conoscere in tempo il piano ai piemontesi, che prendono contromisure sia navali, con la flotta di Taranto, sia per via terrestre con un concentramento di bersaglieri e cavalleggeri. Per cui Crocco, dopo alcuni giorni di inutile attesa, si dirige verso Ferrandina dove si scontra e massacra una compagnia del 30° Rgt. Ftr. In seguito viene attaccato al ponte S. Giuliano, sul Bradano, dal 36° Rgt. Ftr. che viene messo in fuga, ma subisce alcune perdite. Nei giorni successivi, l’8 marzo, a S. Pietro di Monte Corvino, avviene un altro scontro: i piemontesi sono costretti alla fuga lasciando sul terreno numerosi morti. Il giorno dopo Crocco sconfigge anche alcuni reparti di guardie nazionali alla masseria Perillo, nei pressi di Spinazzola, uccidendone dieci, compreso il comandante, maggiore Pasquale Chicoli, un traditore che aveva formato il governo provvisorio di Altamura, ancora prima dell’arrivo delle carogne garibaldesi. In quel mese gli scontri sono quasi quotidiani e tra gli episodi piú importanti sono da ricordare quello del 17 marzo, quando la banda di Michele Caruso stermina alla masseria Petrella (Lucera) un intero distaccamento di 21 fanti dell’8° Rgt. Ftr., comandato dal capitano Richard. Il 31 marzo ad Ascoli di Capitanata il raggruppamento di Crocco sconfigge in combattimento i bersaglieri e i cavalleggeri del colonnello Del Monte che subiscono perdite devastanti in morti e salmerie. Lo stesso giorno, mentre a Poggio Orsini, presso Gravina, i piemontesi mettono in fuga un centinaio di patrioti, nel territorio tra Deliceto e Stornarella il gruppo di Coppa assale un reparto dei Cavalleggeri "Lucca" di cui massacrano 17 lancieri.

    Ai primi di aprile il raggruppamento di Crocco subisce alcune perdite in uno scontro tra Ascoli e Cerignola con la legione ungherese. Dopo altri brevi scontri, il 7 aprile Crocco, nel territorio tra Calitri e Carbonara, assale e sconfigge due drappelli del 6° Rgt. Ftr. Restano sul terreno una ventina di piemontesi e vengono catturati molti prigionieri. L’8 aprile i gruppi di Coppa e Minelli vengono assaliti di sorpresa e circondati: si hanno 40 morti, 21 fucilati dopo la cattura ed altri 42 uccisi mentre "tentavano la fuga".

    Intanto, in seguito alle brucianti sconfitte subite nel mese di marzo, il generale Mazé de la Roche sostituisce il generale piemontese Seismit-Doda, che in seguito viene posto sotto inchiesta dal gen. La Marmora con l’accusa di vigliaccheria. Il "coraggioso" Mazé, appena insediato, ordina l’arresto dei parenti dei guerriglieri Duosiciliani fino al terzo grado, fa fucilare ogni "sospetto" e fa deportare migliaia di persone. Poi, per tagliare i rifornimenti ai guerriglieri, fa incendiare i pagliai, murare le porte e finestre delle masserie e arrestare tutte le persone che circolavano fuori degli abitati. Istituisce, inoltre, delle taglie sui patrioti Duosiciliani cosí ammonendo: "Premi a taglia ben concretata in modo che ogni testa di brigante sia come un biglietto di banca immediatamente esigibile" (C.P.I.B., deposizione del 22.1.1963). Queste nuove barbare disposizioni rafforzano la voglia di combattere dei patrioti e gli assalti di una ferocia inaudita ai reparti piemontesi ed alle manutengole guardie nazionali non si contano. Intere cittadine vengono assediate e conquistate. Il nemico subisce un continuo stillicidio di morti e una lotta senza quartiere, tanto che nei giorni tra il 3 ed il 5 agosto gli squadroni di ussari della Legione ungherese, stanziati a Lavello, Melfi e Venosa, marciano di propria iniziativa per concentrarsi a Nocera. La loro è un’aperta ribellione alla conduzione di questa guerra che li vede solo come carnefici. Vengono bloccati e disarmati senza che oppongano resistenza, poi vengono imbarcati a Salerno e portati in un campo di concentramento in Piemonte.

    Il 20 agosto La Marmora è costretto a proclamare lo stato d’assedio per tutto il territorio delle Due Sicilie, ma ciò nonostante continua la mattanza per tutto l’anno. È da ricordare il massacro di 200 piemontesi del 36° Rgt. Ftr., uccisi in combattimento il 4 novembre a S. Croce di Magliano nel Molise dai gruppi di Crocco e di Michele Caruso. Un ufficiale del 36°, il capitano Rota, addirittura si suicida. Nei giorni immediatamente successivi viene assalito a Poggio Imperiale un plotone del 55° Rgt. Ftr. e da guardie nazionali, e solo in pochi riescono a salvarsi con la fuga.

    Verso la fine del 1862, nonostante lo stato d’assedio con ben 60.000 soldati in assetto di guerra stanziati in ogni centro, i briganti piemontesi non riescono a contenere la guerriglia. "La Marmora e le alte gerarchie dell‘esercito avevano capito per tempo che il "brigantaggio" era imbattibile sul mero terreno militare..." (Molfese, pag. 185). Lo stato d’assedio e la sua applicazione inducono i militari a puntare piú che sulle azioni militari, sul terrorismo da riversare sulla popolazione civile con l’obiettivo di isolare i combattenti Duosiciliani. Nisco in una lettera denuncia a Ricasoli (denuncia presentata al … boia) che: "… ufficiali dei vari reparti si dedicavano al taglieggiamento dei presunti reazionari, si dedicavano alla rapina e al saccheggio di case private e chiese. E, che in un processo (burla) celebrato contro il Magg. Guardi, questi dichiarò che l‘ordine di taglieggiare era venuto dal Magg. Du Coll del 61° Rgt. Ftr." (T. Pedio, Reazione alla politica …, Potenza 1961)

    Anno 1863

    Il 1863 è ricordato per la recrudescenza delle azioni militari condotte dagli insorgenti contro gli invasori: lo stato d’assedio e le fucilazioni sommarie rendono gli eroici ed isolati combattenti Duosiciliani sempre piú decisi a vendere la pelle a caro prezzo. Il 2 e 3 gennaio i gruppi di Schiavone e Andreotti vengono assaliti dal 13° e 20° Rgt. Ftr. presso S. Agata di Puglia, ma riescono a sganciarsi senza danni.

    Nel bosco della Corte, sulle Murge di Vallata in terra di Bari, uno squadrone cavalleggeri "Saluzzo" il 5 gennaio sorprende presso la masseria Monaci il gruppo del leggendario sergente Romano, che nella feroce battaglia viene ucciso a sciabolate con altri 22 patrioti. Altri due sono catturati e fucilati sul posto. Il corpo dell’eroico Sergente Romano viene esposto dagli assassini nordisti "alla pubblica indignazione" nella piazza di Gioia del Colle, ma i suoi resti martoriati vengono pietosamente sepolti due giorni dopo dalla stessa popolazione. Come raccontano le cronache di quei giorni, tutti gli abitanti erano venuti in pellegrinaggio a vedere per l’ultima volta il loro eroe, gli uomini commossi si scoprivano il capo e le donne s’inginocchiavano piangenti.

    Ma gli scontri si susseguono incessanti e feroci: il 20 gennaio alla Difensola sul Fortore con i cavalleggeri "Lucca" (sono uccisi 1 ufficiale e 12 cavalleggeri); il 23 gennaio a Greci (numerose guardie nazionali sono massacrate). I gruppi di Ninco-Nanco e Coppa sono assaliti il 31 gennaio da due compagnie di bersaglieri e di fanteria e da un reparto di guardie nazionali nei boschi di Lagopesole, dove restano uccisi 11 uomini ed è catturata una partigiana. Il giorno dopo un plotone del 46° fanteria circonda la banda partigiana di Giuseppe Caruso nel bosco di Montemilone, ma i piemontesi, dopo aver subito molte perdite, sono costretti a ritirarsi .

    I lavori della ferrovia Pescara-Foggia, allora in costruzione, nonostante l’incessante pattugliamento dei piemontesi, vengono fermati dai continui assalti dei patrioti: numerosi sono gli operai del nord e le guardie che vengono uccisi ogni giorno. Il Ten. Savi, dei carabinieri di Lucera, il 14 febbraio telegrafa: "… il brigantaggio fa strage … lo spirito pubblico è molto abbattuto" (C.P.I.B. del 14.2.63).

    Nel Melfese a Lagopesole in febbraio i gruppi di Coppa e N. Summa respingono una incursione di due battaglioni di bersaglieri e di un battaglione di guardie nazionali. Il 10 febbraio un reparto del 13° fanteria, comandato dal tenente Pannunzi, si dà alla fuga senza nemmeno tentare di intervenire in uno scontro a Cirigliano tra patrioti e guardie nazionali, che vengono tutte massacrate. Lo stesso giorno a Gagliano, il comandante "Sturno", insieme con altri quattro patrioti con i fucili spianati, si recano spavaldamente in un caffè situato proprio davanti al corpo di guardia della guardia nazionale, che impaurita si rinserra nella casermetta. Accorre tuttavia dal vicino paese di Alessano una pattuglia di carabinieri, che però è messa in fuga dal violento fuoco dei patrioti.

    Schiavone attacca con successo il 4 marzo Ginestra degli Schiavoni, al confine con la Capitanata, ma il 9 è respinto in Accadia. Nei pressi della masseria Catapano, tra Melfi e Venosa, un battaglione di bersaglieri ed il 4° ed il 21° squadrone cavalleggeri "Saluzzo" sono sconfitti il 12 marzo dalle forze riunite di Crocco, Ninco-Nanco, Caruso, Coppa e Gioseffi. Il tenente Giacomo Bianchi ed il sergente polacco Lechtiscki vengono decapitati e le loro teste sono esposte con una pietra tra i denti nella masseria Araneo con un cartello: "Vendicati i morti di Rapolla", quelli cioè del gruppo Petrone decimati e martoriati nel novembre 1862 da quegli stessi cavalleggeri.

    Non mancano i traditori, come un tale Gennaro Aldinio che per ottenere la carica di "ricevitore del fondaco delle privative di Lagonegro" fa catturare l’eroico Pasquale Cavalcante, famoso per le sue azioni di cavalleria. Il Cavalcante era di Corleto Perticara (PZ) e verrà fucilato a Potenza il 1° agosto del 1863. Le sue ultime parole furono: "... Merito anche pietà e perdono, perché contro mia indole mi hanno spinto al delitto. Ero sergente di Francesco II e ritornato a casa come sbandato, mi si tolse il bonetto, mi si lacerò l‘uniforme, mi si sputò sul viso...".

    Per impedire ai patrioti di trovarvi rifugio, verso il 20 maggio, vengono bruciati migliaia d'ettari di bosco nei pressi di Monticchio. Sono inviati nei territori Napolitani altri 1.252 carabinieri a piedi e 171 a cavallo.

    Schiavone e Caruso si dirigono il 22 giugno 1863 con tutte le loro forze verso Benevento, ma a Camporeale non riescono a scacciare i bersaglieri del 22°. Nel ritirarsi verso il bosco di Vetruscelli, sorprendono un altro reparto del 22°, che però viene salvato da un sicuro massacro per l’intervento di bersaglieri e guardie nazionali. Il giorno dopo, mentre ripiegano, assalgono nuovamente, nei pressi di Orsara, reparti di fanteria, carabinieri e guardie nazionali, infliggendo dure perdite al nemico; massacrano anche il sindaco collaborazionista, il capo delle guardie nazionali ed altri 21 militi. A Benevento, ora la paura è tale che il prefetto Sigismondi, terrorizzato, "autorizza" alcuni possidenti a pagare un contributo di 50.000 ducati richiesti dagli insorgenti per le spese di guerra.

    Il 13 agosto 1863 Vittorio Emanuele, a causa della insostenibile situazione dei territori occupati, valuta seriamente l’opportunità di abbandonare l’ex Regno delle Due Sicilie, ma il 15 agosto, con decreto nr. 1414 ratificato il 20 agosto, entra in vigore la famigerata legge "Pica" nr. 1409 ("legge terribile, dai procedimenti sbrigativi e sommarii…, strumento di dispotismo arbitrario e furibondo" — Enciclopedia Treccani), che mette in moto un meccanismo infernale, causando molte vittime innocenti e disumani patimenti alle popolazioni Duosiciliane. La legge prende il nome da un ascaro abruzzese e viene firmata da altri 41 deputati per la maggior parte meridionali, tra i quali pare giusto ricordare ad eterna infamia: Massari, Nisco, De Cesare, Barracco ed altri personaggi, che avevano lucrato vantaggi con l’annessione delle Due Sicilie al piemonte. Nel giro di poche settimane vengono eseguiti 12.000 arresti nelle sole Puglie e Basilicata. Le isole di Gorgona, Elba, Capraia e Giglio diventano campi di concentramento.

    Viene reso legale ciò che prima veniva fatto senza legge. Mogli di insorgenti vengono condannate ai ferri a vita, fanciulle inferiori ai 12 anni, figlie di patrioti, subiscono condanne a 10 o 15 anni. Vengono istituiti i Tribunali Militari Criminali di Potenza, Foggia, Avellino, Caserta, Campobasso, Gaeta, L’Aquila, Cosenza, che si aggiungono a quelli già operanti di Bari, Catanzaro, Chieti e Salerno. I 5 componenti il collegio giudicante sono tutti ufficiali piemontesi e mediamente un caso viene esaminato e sentenziato in 6 minuti. Viene dichiarato "in stato di brigantaggio" tutto il Mezzogiorno, tranne Teramo, Napoli e Reggio Calabria. Viene aumentato di altre 20.000 uomini il contingente militare di occupazione e rafforzate le collaborazioniste guardie nazionali, reclutate nella feccia della popolazione. La maggior parte dei 620 mandamenti amministrativi delle "provincie meridionali" è affidata a funzionari di pubblica sicurezza piemontesi. La magistratura viene epurata e vengono deposti o trasferiti al nord quasi l’80% dei magistrati, nominando al loro posto soltanto personaggi favorevoli agli occupanti, compresi i giurati che sono designati dai prefetti piemontesi.

    Crocco il 25 agosto si incontra con il generale Borgognini, comandante del 62° fanteria, che vuole convincerlo a costituirsi. Crocco, insieme a Ninco-Nanco e ad altri comandanti patrioti, valutano seriamente questa possibilità e si recano a Rionero, dove sono accolti trionfalmente dalla popolazione ed anche dalle autorità, che, rassicurandoli sulla buona fede del governo, rilasciano loro anche dei salvacondotti. Tuttavia il comportamento ambiguo del prefetto della Basilicata, Bruni, rafforza la diffidenza dei patrioti che rientrano nelle loro zone operative.

    E la lotta per l’indipendenza riprende piú feroce che mai.

    Centinaia sono i combattimenti sostenuti dai partigiani in questi ultimi mesi del 1863, ma subiscono duri contraccolpi. In ottobre del 1863 si ha un nuovo tentativo da parte del Comitato borbonico romano di organizzare una sommossa. Il piano, tuttavia, viene intercettato dalle spie di Lamarmora. Esso prevedeva che una colonna avrebbe dovuto invadere gli Abruzzi, una seconda sbarcare in Sicilia e una terza partire da Venezia per sbarcare a Manfredonia. Crocco si trasferisce nelle Puglie per attendervi lo sbarco. In quel mese i gruppi patrioti di Caruso sostengono oltre una trentina di combattimenti con alterne vicende, ma il 23 ottobre sono sorpresi nel bosco di S. Angelo, dove negli scontri perse la vita il luogotenente Varanelli. Presso Gravina Crocco è attaccato il 17 novembre dal 15° e 24° fanteria, ma riesce a sganciarsi perdendo solo nove uomini. In queste occasioni si distinguono particolarmente alcune donne partigiane, come la bella Elisa (la regina delle montagne), la Cedrone (poi massacrata in un agguato), Generosa Cardamone di Catanzaro.

    Il primo dicembre Crocco sostiene vittoriosamente uno scontro con reparti piemontesi alla masseria S. Vittore. Il giorno 5 il Ministro guardasigilli piemontese inviò una circolare a tutti i vescovi delle Due Sicilie, invitandoli a "convincere i briganti" a desistere dalle loro azioni. Il 6 dicembre i patrioti di Caruso vengono attaccati dai bersaglieri presso la masseria Bianco, dove muoiono 7 uomini, ma Caruso riuscí a fuggire. Il 10 dicembre, però, a causa di una delazione Caruso è catturato in una cascina a Molinara. Il 12 dicembre, dopo un processo farsa, Michele Caruso, viene fucilato fuori porta Rufino a Benevento.

    Anno 1864

    Nel Melfese, il prefetto piemontese Veglio, ordina che tutto il bestiame e le scorte di cereali e di foraggi vengano ritirati dalle masserie e concentrati nei paesi allo scopo di affamare i patrioti. L’ordinanza provoca numerosi tumulti, ma costringe i patrioti di Crocco ad abbandonare la zona del Vulture.

    L'occupazione piemontese incomincia a produrre i suoi malefici effetti: dovunque nelle Due Sicilie è desolazione e miseria. Il commercio viene fatto a livello di baratto e l'agricoltura è in totale crisi. In Terra d’Otranto i patrioti attaccano il 27 gennaio il paese di Palagianello, tra Matera e Taranto, per procurarsi mezzi di sostentamento, ma gli stessi cittadini, per la prima volta, li respingono per il terrore delle devastazioni che dopo avrebbero compiute i piemontesi.

    Nei primi di marzo a Tricarico la banda di Nicola Summa (Ninco-Nanco) cade in un agguato delle guardie nazionali che gli uccidono il fratello e catturano la sua bellissima amica partigiana, appena diciottenne, Maria Dinelli, rimasta ferita negli scontri. Il comandante Summa riesce a fuggire, ma la ragazza viene barbaramente torturata. Dopo qualche giorno, è catturata anche la sua compagna, l’eroica Filomena de Vito di Grassano. Febbricitante e distrutto nel morale, Summa viene catturato il 13 marzo nei pressidi Avigliano e immediatamente fucilato. Nelle sue memorie Crocco avrà parole commoventi per Summa, ricordando il coraggio e l’abnegazione dimostrata nella lotta per l’indipendenza delle Due Sicilie. Reparti del 22° e del 62° fanteria e uno squadrone cavalleggeri accerchiano il 20 marzo in territorio di Stigliano i gruppi patrioti di Masini e rimangono uccisi nei combattimenti i comandanti Egidione, Canosa e Percuoco.

    In aprile è instaurato un vero e proprio clima di terrore con soprusi di ogni genere, per cui diventa molto difficile per i patrioti ricevere aiuto e sostentamenti dalla popolazione. I bersaglieri distruggono il piccolo gruppo di partigiani di Marciano presso Rocchetta S. Antonio. Crocco, unitamente al gruppo di Totaro, cerca di spezzare questo assedio assaltando un distaccamento del 33° bersaglieri alla Rendina, ma il 29 aprile è costretto a ripiegare, perdendo cinque uomini.

    Il 28 maggio Crocco, nel bosco di Lagopesole, presso il Casone Sifandi, sorprende un distaccamento del 1° fanteria, uccidendo sette soldati. Solo l’arrivo del 35° bersaglieri evita che gli altri 23, ormai accerchiati subiscano la stessa fine. Durante il ripiegamento i partigiani sorpresero presso S. Fele anche una pattuglia del 2° fanteria, che subí la perdita di cinque uomini. Il generale Franzini con 15 cavalleggeri "Lucca" e 50 granatieri s’imbatte il 30 maggio al ponte della Vunghia con i patrioti di Crocco, che gli infliggono molte perdite. Crocco, tuttavia, perde tre uomini a cui i piemontesi tagliano le teste, che portano, impalate, a Ripacandida per esporle come monito alla popolazione.

    A Toppa de’ Cillis un distaccamento di 30 soldati del 2° fanteria, di scorta a una corriera, decide di attaccare il 2 giugno i partigiani di Crocco, ma nello scontro vengono in gran parte trucidati. Crocco perde un solo uomo, che viene fatto prigioniero e subito fucilato. Il generale Franzini viene sostituito nel comando dal generale Pallavicini, marchese di Priola, che si insedia a Melfi, avendo a sua disposizione tre battaglioni bersaglieri, quattro di fanteria, vari squadroni cavalleggeri "Monferrato", "Lucca" e "Lodi". I suoi primi atti sono quelli di arrestare tutti i parenti o amici di quelli che riteneva patrioti. Poi, usa una nuova tattica, facendo circondare all’alba i paesi e facendo perquisire brutalmente ogni casa. Dà ordine che chiunque deve andare nei campi deve essere munito di uno speciale permesso, altrimenti sarà fucilato. Crocco risponde frazionando e ricomponendo i suoi uomini in gruppi mobilissimi e inafferrabili. Piú tardi, molto piú tardi e in gran segreto, il Pallavicini definisce Crocco " … dotato di vere qualità militari".

    Crocco è sempre padrone del territorio, nessun generalone piemontese, pur con migliaia di soldati e con un apparato repressivo di una durezza estrema, potrà mai vantarsi di averlo battuto.

    Il tradimento di Giuseppe Caruso, uno dei suoi piú stretti collaboratori, gli farà decidere l’abbandono della lotta. Le informazioni di Caruso sono preziose per gli invasori e non c’è piú alcun rifugio sicuro per i patrioti. Per ben due volte, subendo forti perdite in uomini e mezzi, Crocco riuscirà a sfuggire agli agguati tesi dai savoiardi a Monte Caruso e sul medio Ofanto.

    Nelle sue memorie Crocco scrive della sua decisione in modo doloroso: "… dopo aver perduto i migliori fratelli, riunii i piú fidi al bosco di Sassano per combinare sul da farsi. Furono vari e disparati i pareri, e tra tanti, prevalente per numero, quello di riunirsi compatti contro Caruso" e ancora: "Di parere contrario, per la difficoltà di stare raccolti in forte massa, senza incappare continuamente nella forza, feci nota la irremovibile decisione presa di ritirarmi in Roma lasciando ognuno libero di sé" (Memorie, pag. 129).

    Crocco, il 28 luglio, si avvia verso Roma con 12 uomini fidati. La sera attraversano la strada rasente le mura di Lacedonia, poi arrivano ad Ariano di Puglia. Percorrendo centinaia di chilometri ed eludendo le fitte pattuglie di piemontesi, arrivano prodigiosamente sul confine pontificio. Crocco con i suoi arriva a Veroli il 24 agosto, ma è rimasto con soli 4 uomini; gli altri, ammalatisi, sono stati catturati e subito fucilati dai piemontesi. Evitando le truppe francesi, Crocco si consegna alle truppe pontificie e viene incarcerato nelle Nuove e poi a S. Michele a Ripa. Nel 1867 dopo essere stato per un breve periodo trasferito a Marsiglia per essere instradato in Nord Africa, Napoleone III lo rinvia di nuovo al Papa, che lo fece incarcerare a Paliano.

    Qui lo trovano nel settembre del 1870 gli assassini piemontesi che hanno invaso anche lo Stato pontificio. Condannato a morte nel 1872, viene graziato nel 1874 dal Vittorione e la pena viene tramutata nel carcere a vita. Trascorre cosí altri 30 anni, scrivendo anche le sue memorie.

    Muore nel carcere di S. Stefano il 28 giugno del 1905.

    Anno 1999

    La guerra di resistenza duosiciliana contro gli invasori nordisti continua per tutto il decennio, ma la mancanza di un grande capo carismatico come Crocco fa venir meno l’amalgama tra i vari gruppi di combattimento, che si spezzettano in mille rivoli. Questo però non fa venir meno la lotta contro gli assassini e rapinatori nordisti, una lotta che divenuta ormai impari va esaurendosi fino agli ultimi episodi del 1874. L’unica via per la libertà resta l’emigrazione, o meglio, l’esilio, ma i nostri buoni borghesi si lamentano non che si emigri, ma che l’agricoltura perde le braccia. Il noto economista sen. Alessandro Rossi si lamenta poi dei noli perduti perché "un gran numero di emigranti parte sui piroscafi stranieri", come l’avaro sul letto di morte che rimpiange le spese della sepoltura e non la perdita della vita (De Jaco, pag. 136).

    Gianni De Vita, alias Totaro, il luogotentente di Crocco, durante lo svolgimento del processo che lo vede condannato ai lavori forzati a vita esprime in una frase tutto ciò che il nuovo ordine politico rappresenta per il Popolo Duosiciliano: "Fummo calpestati e ci vendicammo".

    L’ultimo atto di ribellione, individuale, avviene a Napoli il 17 novembre del 1878 contro l’Umbertone di Savoia, re da meno di un anno. Egli stava percorrendo in carrozza Via Toledo assieme alla regina ed al presidente del Consiglio Benedetto Cairoli, quando un giovane balza sul predellino per pugnalarlo. Il colpo prende solo di striscio il braccio del re piemontese e ferisce alla gamba il Cairoli. L’attentatore, Giovanni Passanante di 29 anni, proviene da Salvia di Potenza: vuole vendicare gli omicidi e le efferatezze commesse dai nordisti nelle sue terre, dove il ricordo di quelle orribili stragi è ancora molto vivo. Subito catturato, dopo un sommario processo, per nascondere alla pubblica opinione i motivi del suo gesto, viene prima trasferito nell'isola d'Elba e poi internato in un manicomio a Montelupo, dove morirà. Alla cittadina di Salvia di Potenza viene imposto per sfregio di cambiare il nome in Savoia di Potenza, nome che l’offende ancora oggi.

    E oggi la guerra contro il popolo delle Due Sicilie continua ancora, non piú con le armi, ma con qualcosa di peggio: la nostra storia è continuamente cancellata e mistificata, calpestata la nostra dignità, agli assassini della nostra Patria sono intitolate le nostre strade e piazze, e tutto questo abbrutisce la coscienza della nostra gente che non si ribella piú, manovrata com’è dai "galantuomini", i traditori di sempre che vendono tutti noi per i loro squallidi privilegi.

    Un tumore devastante vive nelle coscienze di molti di noi.

    Antonio Pagano
    per risorgere bisogna insorgere

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    don liborio romano
    (dal PeriodicoDueSicilie 07/2000)


    IL BOIA DELLE DUE SICILIE

    Il ritratto di questo personaggio, l’essenza del traditore tipo, per giunta sembra successivamente anche pentito, è quello di un uomo abbastanza vanesio, inconsapevole di quello che faceva e vagamente idealista. Un personaggio esemplare, dunque, per essere adoperato dagli invasori piemontesi per compiere atti devastanti all’interno dello stesso governo duosiciliano. Da evidenziare che fu proprio lui che consacrò definitivamente l’intreccio politica-delinquenza nel Sud, i cui effetti sono ben visibili ancora ai nostri giorni, come ci mostra la scoperta fatta a Napoli il 20 ottobre scorso di una loggia massonica che cospirava con la camorra per condizionare la vita politica.

    Il dramma di quei tragici giorni in cui si determinò la fine delle Due Sicilie fu che gli avvenimenti si svolsero in una atmosfera di incredulità da parte della dirigenza delle Due Sicilie. Incredulità abbastanza comprensibile perché i tradimenti erano talmente evidenti da far quasi credere non fossero reali. Del resto la politica estera delle Due Sicilie era sempre stata di stretta neutralità, rivolta soprattutto al benessere interno, per cui la ingiustificata aggressione da parte di uno Stato straniero era, per quella dirigenza, del tutto impensabile e, quindi, nulla era stato preparato per fronteggiare il terribile evento dell‘invasione piemontese.





    IL CANTO DEL CIGNO DELLE DUE SICILIE

    Il mese di maggio 1860 - la tempesta politica, non inattesa, si avvicinava con lugubri rimbombi - fu l'ultimo mese in cui lo Stato Due Sicilie, sovrano da ben otto secoli, si illuse di poter pensare al proprio destino ancora in modo autonomo, come risulta dal seguente piccolo esempio che La Civiltà Cattolica (Serie IV, vol. VI, pag. 610) ci ha tramandato: "Una legge del 15 Febbraio ultimo ordina l'esecuzione del trattato soscritto a Costantinopoli il 19 Aprile 1859 e ratificato colà stesso il 14 Gennaio di quest'anno, per la congiunzione delle linee telegrafiche dei due Stati, mercé lo stabilimento di un filo elettrico sottomarino da Otranto a traverso l'Adriatico a Vallona, da cui il Sultano s'impegna a stabilire una linea telegrafica fino a Costantinopoli ed a Scutari d'Albania e Cattaro, dove si uniscono le linee telegrafiche dell'Austria; con una terza linea da Costantinopoli stessa alla frontiera di Russia presso Ismail. Intanto in Aquila, Colonnella ed Isernia sono state inaugurate con gran pompa nuove stazioni del telegrafo elettrico".

    Di lí a poco, con i famosi "mille", "tutti generalmente di origine pessima e per lo piú ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto" (parole di G. Garibaldi pronunciate il 5 dicembre 1861 nel Parlamento di Torino) e poi con 23.000 regolari piemontesi, travestiti, da sud e 40.000 da nord sostenuti da Inghilterra e Francia, l'invasione nordista capeggiata dal Piemonte avrebbe seppellito l'antico Reame sotto un inferno di fuoco e di sangue e di corruzione, da cui, ancora dopo 140, la nazione duosiciliana non riesce ad avere sollievo.

    È L’ORA DEL TRADIMENTO

    E' l'ora tenebrosa del tradimento: l'ammiraglio nemico Persano, che a bordo della sua nave ancorata nel porto di Napoli dispone di una cassa di circa un milione di ducati, distribuisce denaro a piene mani e riesce a corrompere quasi tutta l'ufficialità della marina duosiciliana: "possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell'officialità della regia marina napoletana" cosí costui scrive al Cavour. E ancora: "Gli Ufficiali Napoletani son pure devoti alla politica di V.E. ed a me. Conservo corrispondenza con quelli di Napoli, non compromettente, ma tale però che ce li assicura senza fallo. Mi scrivono che se si tratta di venire sotto il mio comando son pronti quando che sia" (lett. n. 436, vol. 1°, Carteggio di Camillo Cavour, La Liberazione del Mezzogiorno) e nella lettera 553 del vol. II: "Gli Stati Maggiori di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le eccezioni". E il 6 settembre 1860 se ne ebbe la vergognosa conferma. Gli ufficiali della flotta duosiciliana, illusi dall'idealismo suicida (e dal denaro), tradiranno in massa la loro Patria e il loro Re rendendo cosí il loro paese oggetto dell'altrui volontà. Questo sul piano Armata di Mare. E sul piano Armata di Terra? Allo stesso modo se non peggio. I traditori erano numerosi come i granelli di sabbia del mare: il generale Nunziante, lo zio del Re il conte di Siracusa plagiato dalla moglie savoiarda, l'altro zio il conte d'Aquila, entrambi fratelli di Ferdinando II, e poi intendenti, magistrati, tutti ad arraffare i luridi trenta denari che il Persano faceva scivolare nelle loro tasche, addirittura al conte di Siracusa era stata fatta baluginare la luogotenenza della Toscana: "Il conte di Siracusa si dimostra apertamente annessionista, e fa il liberale al punto da chiedermi lo salutassi colla bandiera allo stemma di Savoia e non col borbonico. Naturalmente gli resi gli onori con quello e non con questo (sic), ma le sue parole stanno, e le pronunciava ad intento di essere sentito dall'equipaggio, sicuro che poi io non l'avrei messo in una falsa posizione, per quanto Egli si trovi compromesso d'averne fin sopra gli occhi. Possiamo farlo agire se si vuole, m'istruisca su cotal punto, preme non perdere un momento. Peccato che non può montare a cavallo, trematiccio com'è, ché altrimenti se ne potrebbe tirare un gran partito. Si professa suddito di S.M. V. Emanuele II, solo Re degno di regnare sull'Italia. "V. Emanuele comandi e nessuno l'obbedirà piú sottomessamente di me" mi diceva, e ciò sempre da poter esser udito da alcuni dell'equipaggio. Gli feci travedere una Luogotenenza in Toscana; sorrise di compiacenza. "Il Re e il suo governo comandino, che m'han qui pronto a tutto" soggiunse, sebbene le mie parole fossero siccome gettate a caso ed avessero piú l'impronta del cortigianismo che non d'altro" (Persano a Cavour, dalla rada di Napoli, ibidem, n. 553).

    Con tale verminaio ai vertici dello Stato il destino del Reame era dunque segnato: guerra e stragi, fame, colera variante della peste, "doni" dei quattro cavalieri dell'Apocalisse, sarebbero stati di lí a poco endemici nel nostro pacifico Paese. La sua ultrasecolare storia volgeva ormai alla fine.

    COME IL PIEMONTE SI PROCURA LE ARMI

    La classe dirigente delle Due Sicilie, salvo poche eccezioni, sguazzava "come porci in brago" in un truogolo di marciume, gettando il nostro Paese in pasto ad un piccolo Stato, socialmente e politicamente arretrato, che scimmiottava il liberalismo inglese, ma ancora industrialmente cosí arretrato che nel 1860 aveva ancora bisogno dei macchinisti d'oltre Manica sia per le navi a vapore che per i treni, e che per dare un minimo di armamento al proprio esercito, raccattava fucili vecchio modello anno 1840 radiati dal governo francese: "Monsieur le Ministre, Je suis chargé de faire parvenir à l'Empereur par l'entremise de Votre Excellence les remerciments de mon Gouvernement pour la cession de 25.000 fusils rayés que S. M. a bien voulu accorder" (Signor Ministro, ho l'incarico di far pervenire all'Imperatore per il tramite di Vostra eccellenza i ringraziamenti del mio Governo per la cessione di 25.000 fucili rigati che S.M. ha voluto benevolmente accordare) (lettera n. 905 di Nigra, segretario della Legazione piemontese a Parigi, al ministro degli esteri francese Thouvenel in data 12 giugno 1860, Carteggio Cavour-Nigra).

    E poi ancora: "Le Gouvernement a acheté 6000 fusils à Marseille. Il est urgent qu'on donne de Paris ordre au Commandant de l'artillerie à Marseille de les mettre à la disposition de notre consul pour qu'on puisse les embarquer tout de suite" (Il Governo ha acquistato 6000 fucili a Marsiglia. E' urgente che da Parigi si dia ordine al Comandante dell'artiglieria di Marsiglia di metterli a disposizione del nostro console perché si possa imbarcarli immediatamente) (Cavour a Nigra, n. 1081, 31 agosto 1860, stesso Carteggio).

    E ancora, in un febbrile dispaccio telegrafico (n. 1083) dello stesso Cavour a Nigra il giorno dopo: "Les fusils qui se trouvent à Marseille ont eté cédés par le gouvernement Français. La Legation a du recevoir pour les payer 184.000 francs, ils sont au nombre de 4.000 modéle 1840" (I fucili che si trovano a Marsiglia sono stati ceduti dal Governo Francese. La Legazione ha dovuto ricevere per pagarli 184.000 franchi, sono 4000 di numero, modello 1840).

    Addirittura con dispaccio 1120 del 18 settembre il Cavour è pronto ad acquistare 50.000 fucili non rigati: "Le Colonel Favé avait offert au mois de juin au Colonel Filippi 50.000 fusils 1840 non rayés; l'offre n'a pas été accepté. Nous l'accepterions maintenant avec reconnaissance. Voyez, si possible, Favé. Payment immédiat" (Il Colonnello Favé aveva offerto nel mese di giugno al Colonnello Filippi 50.000 fucili 1840 non rigati; l'offerta non è stata accettata. Noi l'accetteremmo immediatamente con riconoscenza. Vedete, se possibile, Favé. Pagamento immediato), fucili da pagare ovviamente con prestiti elargiti dalle banche francesi.

    Nelle righe che seguono focalizzeremo il nostro sguardo sul campione di quel verminaio, su colui che possiamo ben indicare come la personificazione del tradimento, il ministro dell'interno di Francesco II, l'uomo di Patú.

    IN UN PICCOLO PAESE

    Una borgata di qualche centinaio di abitanti, tre casettine, come direbbe Palazzeschi, situate a qualche chilometro da S. Maria di Leuca nella penisola salentina in provincia di Lecce. Qui, a Patú, in questo paese da nulla, Liborio Romano, per sventura dei Duosiciliani, aprí gli occhi il 27 ottobre 1795 e diventerà colui che nel 1860 avrebbe recitato la parte di boia del Reame. Di professione avvocato, proveniva da una famiglia che si era compromessa durante l'occupazione francese negli anni di Giuseppe Napoleone e di Murat. Era stato carbonaro e massone e per queste sue tendenze aveva assaporato il carcere ed anche l'esilio. Le carte della polizia lo descrivono negli anni venti del secolo "come un tumultuoso demagogo" fomentatore di disordini e incitatore di rivolta contro il Real Governo: "Da un incartamento di polizia risulta proprio questa circostanza, messa in evidenza dal Procuratore del Tribunale di Lecce, a cui il Ministro (Intonti, ndr) aveva chiesto informazioni: "Questo giovane che avrebbe potuto utilmente impiegare i suoi talenti nella carriera che percorre, avvelenato dalla peste settaria, li ha rivolti al male. Nel nonimestre trovandosi nella capitale (Napoli, ndr) mi si dice che arringava sulle botti, diffondendo nel popolo perniciose massime"". (G. Ghezzi, Saggio storico sull'attività politica di Liborio Romano, Le Monnier, pag. 37, anno 1936-XIV).

    LA QUESTIONE DEGLI ZOLFI

    Nel 1836 divenne coprotagonista di una vicenda dai risvolti internazionali: la questione degli zolfi, che Alianello sintetizza come segue: "Fin dal 1816 vigeva tra Londra e Napoli un trattato di commercio, dove l'una nazione accordava all'altra la formula della "nazione piú favorita". Subito ne approfittarono i mercanti inglesi per accaparrarsi l'intera, o quasi, produzione degli zolfi, allora fiorente in Sicilia. Compravano per poco e rivendevano a prezzi altissimi. Di questo traffico poco o nulla si avvantaggiava il Reame e meno ancora i minatori e i lavoranti dello zolfo. Ferdinando II volle reagire a questo sfruttamento, tanto piú che, avendo sollevato la popolazione dalla tassa sul macinato, aveva bisogno di ristorare le casse dello Stato in altro modo. Fece perciò un passo forse audace: diede in concessione il commercio degli zolfi a una società francese (Taixe Ayard, ndr) che lo avrebbe pagato almeno il doppio di quanto sborsavano gli inglesi. Inde irae: Palmerston nel 1836 mandò la flotta nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti, sbarchi e peggio. Ferdinando II non si smarrí, e ordinò a sua volta lo stato d'allarme dei forti della costa e tenne pronto l'esercito nei luoghi di sbarco...". Nella vicenda si inserisce don Liborio, che difende le "ragioni" dell'Inghilterra contro la politica economica del Re. Il Romano aveva tra i suoi clienti un certo Sir Close, che durante la controversia col governo di Napoli era stato scelto dal Palmerston per curare gli affari inglesi. Il Close scelse come patrocinatore il Romano. Il Romano, invece di consigliare al suo cliente, per ragioni di imparzialità, un arbitrato internazionale da svolgersi in un paese neutrale "compose una memoria in cui si opponeva con forza al nuovo contratto sostenendo le sue ragioni con tanto vigore che la polizia ne vietò la stampa" (G. Ghezzi, Saggio storico citato). Ferdinando, venutosi a trovare tra due fuochi, cedette e annullò il nuovo contratto, ma dovette pagare i danni. Leggiamo ancora Alianello: "Pareva dovesse scoppiare la scintilla da un momento all'altro. Ci si mise fortunatamente di mezzo Luigi Filippo e la Francia prese su di sé la mediazione. Il risultato fu che lo Stato napoletano dovette annullare il contratto con la società francese e pagare gli inglesi per quel che dicevano d'aver perduto e i francesi per il mancato guadagno. E' il destino delle pentole di terracotta costrette a viaggiar tra vasi di ferro. Chi ci rimise fu il povero regno napoletano; ma l'Inghilterra se la legò al dito come oltraggio supremo".

    ANCORA SULLA BRECCIA

    Con l'atto sovrano del 29 gennaio 1848 si giunge alla Costituzione concessa da Ferdinando II. Il Romano si presenta come candidato del partito liberale per la provincia di Lecce. Non viene eletto per soli 4 voti, ne occorrevano 1500, lui ne ebbe 1496. Ma per le stragi causate dai liberali in Napoli il 15 maggio, finí in prigione anche lui per attentato alla sicurezza dello Stato. Il fratello Giuseppe riuscí a farla franca per la sua amicizia con Sir Close, quello degli zolfi, e con Sir William Temple, ambasciatore di S. M. Britannica in Napoli. Il Romano, per uscir dal carcere supplicò il ministro di polizia, comm. Gaetano Peccheneda, di essere esiliato: "io la supplico - dice dopo essersi protestato lamentosamente innocente - di un passaporto per Milano o per un luogo qualsiasi delle Toscana ... Io avrò l'una o l'altra concessione al singolar favore della sua bontà per me e con solito illimitato rispetto mi raffermo Liborio Romano".

    Fu accontentato. Se ne partí per la Francia, Montpellier e Parigi dal 4 febbraio 1852 al 25 giugno 1854, quando per una supplica untuosa e protestante fedeltà al Re Ferdinando II ottiene di ritornare in Patria. Dopo una breve visita a Patú si stabilisce di nuovo a Napoli. Ecco come suona quel documento: "Signore, l'avvocato Liborio Romano devotamente rassegna a V.M. la piú viva sua gratitudine e riconoscenza per essersi la M.V. degnata accogliere le sue suppliche e concedergli la grazia di ritornare nel Regno. Egli sente altresí il dovere di dichiarare la piú alta devozione ed attaccamento alla Sacra Persona della M.V. suo augusto Signore e Padrone; e protesta in pari tempo i sensi della piú devota fede ed attaccamento alla pura Monarchia assoluta di V. M.. E cosí prega la clemenza di V. M. di volere accogliere questi rispettosi sensi della piú devota fede coi quali si protesta di V. M. devotissimo e umilissimo suddito Liborio Romano". Ha quasi 60 anni ed è celibe.

    DI NUOVO COI COMPARI

    Per qualche tempo se ne sta buono, poi lo spirito settario riprende il sopravvento e ricomincia a frequentare i suoi vecchi compari di libertinaggio politico che avevano costituito un comitato centrale segreto, con stampa clandestina che propugnava l'unità. La polizia lo cerca dappertutto, siamo nel 1859, non lo trova, sembra svanito nel nulla... e si capisce. Era stato nascosto dal conte d'Aquila, zio del Re, comandante dell'Armata di Mare, nella sua villa di Posillipo.

    Ecco come andarono i fatti secondo il fratello di don Liborio, Giuseppe Romano: "Il conte d'Aquila, vice-ammiraglio della real marineria, vedendo che i tempi correvano prosperi a libertà, senza romperla con i regii, carezzava i liberali, dichiarandosi convinto non potersi salvare la dinastia senza il ritorno alla costituzione del 1848. E però non di rado veniva in soccorso di qualche liberale, come è a tutti noto, e come tra gli altri fece, senza nostra richiesta, per mio fratello Liborio, e per me stesso... Nel 1859 ci avvisò che dovevamo essere arrestati dalla polizia, ci tenne per due giorni nascosti nella sua casina a Posilipo (sic, ndr), ed essendoci dopo rifugiati nella casa del ministro americano, il principe ci scrisse che erano stati già messi in libertà il marchese di Bella, e gli altri arrestati, e che perciò potevamo ritornare alle nostre case" (Liborio Romano, Memorie politiche, 1873).

    RITRATTO DI DON LIBORIO

    Secondo il fratello Giuseppe, Liborio Romano era "d'indole mite e pieghevole, non sollecito di molte forme, di facile contentatura nelle piccole cose; ma dove sorgeva il pensiero dello adempimento de' proprii doveri, diligente e severo fino allo scrupolo. Provocatore non mai; ma, se provocato, capace della reazione piú viva. Professandosi piú devoto che avventurato cultore delle lettere, avea sommo culto pe' letterati e per gli scienziati, vero affetto pe' giovani d'ingegno, e per quelli che gli davan di sé liete speranze nell'agone del foro. Avea pronto e vivo l'ingegno, somma pazienza nella ricerca de' fatti, e nello studio della teoria, facile la parola, piú assai lo scrivere ed il dettare... Desiderosissimo di un libero governo, cooperava efficacemente coi suoi amici politici per conseguirlo; e nonostante una certa naturale timidezza, avea bastevole coraggio civile, per compromettersi, e non curare i pericoli nello adempimento dei proprii doveri. Direi che la stessa paura di mancarvi gli tenesse luogo d'ardire. La politica non era la sua passione; anzi era aliena dalle sue abitudini di stretta legalità. Non avea l'ambizione, né la malizia, né gli scaltrimenti, né la coscienza dell'uomo politico. Pur non gli faceva difetto la pratica degli affari, la conoscenza degli uomini, ed al bisogno il pronto consiglio, il disprezzo delle ipocrite delicatezze, e l'energia dell'azione richiesta per conseguire un giusto fine".

    Vediamo il profilo che ce ne ha lasciato Costantino Nigra, l'astutissimo segretario della luogotenenza di occupazione a Napoli nella confidenzialissima al Cavour in data 17 marzo 1861: "... Romano non ha capacità di nessuna specie; non è cattivo di proposito deliberato, ma è debole, senza carattere, con una certa furberia tra contadinesca e curiale, di nessuna convinzione politica, e tenerissimo della sua popolarità buona o cattiva che sia, vera o falsa. Fin dal primo giorno che lo vidi, fui certo che avrebbe male amministrato, ma fui egualmente certo che avrebbe ben tosto perduto ogni prestigio, e sarebbe diventato di pericolosissimo che era, innocuo affatto. Quel che previdi, avvenne. Commise errori su errori; alcuni dei quali spiegabili per le circostanze veramente difficilissime. Nell'ultima riunione del Consiglio (di luogotenenza, ndr) io posi netto il partito. Invitai i consiglieri (cioè i ministri, formati da traditori tornati al seguito delle truppe di occupazione, nominati dal governo del Savoja II, ndr) a pronunciarsi tra Romano che voleva far nuove concessioni (in certe nomine) agli uomini del partito ultraliberale, e Spaventa che non voleva farne nessuna. La discussione s'inasprí e il ritiro di Romano, da me preveduto, avvenne..." (lettera n. 1285 del Carteggio Cavour - Nigra). Due profili chiaramente interessati, dunque non veritieri, al limite falsi.

    L'ORA DI DON LIBORIO

    Il precipitare degli eventi, il caos endemico suscitato dai rivoluzionari, e i mali consigli dei ministri "consiglieri" e dell’ambasciatore francese Brenier, che piú che consigliare imponeva diktàt, portarono alla dichiarazione dell'Atto Sovrano del 25 giugno 1860, quando invece bisognava, per salvare lo Stato, mettere in funzione il plotone di esecuzione. Quattro giorni prima, il giorno 21 giugno, il Consiglio dei Ministri, a cui il Re Francesco II non partecipò, ma vi parteciparono tre principi reali, deliberò la costituzione. "Tra i piú accesi fautori del nuovo ordine di cose, lo zio del Re conte d'Aquila sul quale premeva l'ambasciatore Brenier interessato ora piú che mai a far trionfare la politica e l'influenza francese. La mattina del 25 "l'atto sovrano" era firmato non senza un'estrema resistenza... convinto (Francesco II, ndr) che la costituzione avrebbe affrettata la rivoluzione" e nel contempo addolorato per il mutamento impostogli da apportare alla bandiera delle Due Sicilie, "talché ebbe un'invettiva contro l'Austria alla quale attribuiva la sua presente umiliazione" (Alfredo Zazo, La Politica Estera del Regno delle Due Sicilie, ediz. Miccoli, Napoli, anno 1940, pag. 355).

    Continua ancora Zazo: "La mattina del 25 Francesco II, deciso a non firmare il deliberato del Consiglio dei Ministri, ordinò che non fosse lasciato passare il conte d'Aquila che ne avvertí il Brenier. L'ambasciatore francese fece una scenata al Re, minacciando di andarsene se non accettava le condizioni suggerite dalla Francia". Il Brenier - dirà in seguito a Giuseppe Costantino Ludolf il Re - m'a mis tellement le couteau à la gorge, qu'il m'a été impossible de résister plus longtemps" (il Brenier mi ha talmente messo il coltello alla gola, che mi è stato impossibile resistere piú oltre).

    Dunque fu costituito un nuovo ministero presieduto da Antonio Spinelli, ex Sopraintendente degli Archivi di Stato, ex Consultore, ex Ministro di Agricoltura e Commercio, ex responsabile per la stipula di trattati di commercio con altri Paesi, "uomo di coscienza, non uno scettico vanitoso e inconsapevole come Liborio Romano" - come lo definisce Raffaele De Cesare (La fine di un Regno, pag. 805), ma non bisogna credergli, perché anche quel ministro fu accusato, e non mancano supporti, di alto tradimento. Lo Spinelli ebbe l'incarico di redigere una costituzione "sulle basi delle istituzioni rappresentative e nazionali" (secondo punto dell'Atto Sovrano). Inoltre, di concerto col conte d'Aquila, chiamò a far parte del ministero uomini nuovi tutti di tendenza liberale che poi erano "uomini del partito che intendeva all'annessione al Piemonte..." (Bianchini, I principali avvenimenti politici). Da tale scelta "derivarono due tristissime conseguenze, l'una che si veniva a dare alla fazione piemontese una suprema importanza che certamente non aveva e che era ancora lontana da acquistare, l'altra che si svelava vieppiú e si esagerava il pericolo della situazione e la debolezza del governo che invece era indispensabile fortificare" (Bianchini, ibidem). Uno "tra i piú distinti nel partito della rivoluzione", Gaetano Ventimiglia, addirittura "domandò condizioni tali che da quel momento avrebbero distrutto la monarchia": licenziare tutti gli Intendenti, quasi tutta la magistratura, la guardia urbana (programma attuato poi dal Romano) e, vergogna delle vergogne ,"esiliare cinquanta e piú persone che credevasi poter influire sul Re; allontanare i principi reali e la regina madre per far venire in Napoli trentamila soldati piemontesi e inviare altrettanti soldati napoletani in Piemonte" (Bianchini, ibidem).

    UMILIAZIONE DEL REAME

    Circa il terzo punto dell'Atto Sovrano (Sarà stabilito con S.M. il Re di Sardegna un accordo, per gl'interessi comuni delle due corone in Italia) dieci giorni dopo il Ludolf da Londra scriveva a Napoli al De Martino, nuovo ministro degli Esteri succeduto al Carafa col governo Spinelli, che la cosa appariva, al corpo diplomatico accreditato in quella capitale "come una positiva e inutile umiliazione" del Regno (A.S.N., Inghilterra, fasc. 660, Ludolf a De Martino, Londra, 5 luglio 1860) e continuava riferendo che "se in tempi passati, un accordo con la monarchia sarda (che però fu rifiutato dal Cavour, che ormai mirava a fagocitare il Reame, ndr) sarebbe stato indubitatamente desiderabile e fecondo di utili risultati, nel momento presente nulla si sarebbe conchiuso col Piemonte che non producesse abbassamento e debolezza del Regno sinché piacesse alla parte avversa di consumarne il totale annientamento". Parole profetiche.

    ROMANO PREFETTO DI POLIZIA

    Il ministero Spinelli offrí al Romano la carica di guardasigilli. Troppo poco per lui. Il conte di Siracusa gli offrí il portafoglio di Grazia e Giustizia: niente da fare, per lui "ci volevano uomini i quali godessero la piena fiducia del principe e avessero grande libertà d'azione" (L. Romano). Incomincia allora "un lavoro sotterraneo per dare a quest'uomo qualche carica; e il conte d'Aquila, discutendo in casa di una sua amante del nuovo sistema di governo, che fra poco si sarebbe restaurato, aveva fatto fra gli altri il suo nome. Nella notte si era recato in casa sua e gli aveva fatto la proposta di nomina" (Ghezzi, ibidem). Con decreto del 27 giugno 1860 Francesco II lo nomina Prefetto di Polizia (A.S.N., Interni, f. 1160, n. 77). Il giorno precedente e in quelli successivi, sobillati da infinita schiera di agenti piemontesi e francesi travestiti da popolani, e da liberali e camorra, gruppi di facinorosi ed assassini assaltano i posti di polizia, uccidono e distruggono gli archivi, "...furono aggrediti i posti della polizia e col coltello e con le fiamme si fece crudo scempio degli oficiali di essa ... E' fama che questa turpe aggressione, fu macchinata dal Prefetto di polizia Liborio Romano e da essolui protetta" (Generale Giovanni Delli Franci, Cronica della campagna d'autunno del 1860).

    L'AMBASCIATORE MAFIOSO

    In uno di quei tafferugli, l'ambasciatore del "crimine coronato" (Napoleone III), Brenier, che era in intesa con i tramatori zii del Re, riconosciuto dalla folla, si beccò una bastonata sul capoccione rimanendone ferito. Chiese risarcimento e lanciò tuoni e fulmini contro il Reame. Il ministero liberale, invece di fare un'inchiesta per appurare i motivi di quella presenza sul luogo dei disordini e mostrare la necessaria dignità e fermezza, porse immediate scuse e senza batter ciglio acconsentí alle richieste del furfante. Ecco come un altro agente nemico, l'ambasciatore piemontese Villamarina, in combutta con la jena Brenier, segnalò la cosa al suo padrone Cavour: "Le satisfaction est accordé. Les coupables seront jugés par le conseil de guerre, dont la sentence me sera communiquée officiellemnt. Plus, 20 mille frs. indemnité. Aprés plus de deux mois et aprés s'être montré trés satisfait des excuses adressés et reçues, tout-à-coup Brenier a transmis hier une réclamation calquée sur ma note demandant comme réparation de ses mésaventures le Grand Cordon pour Thouvenel, trois millions déposés à Paris et le Palais Chiatamone, propriété royale, en don à la France. Le tout dans le 24 heures, si non il demanderait ses passeports..." (La soddisfazione è accordata. I colpevoli saranno giudicati dal consiglio di guerra, la cui sentenza mi sarà comunicata ufficialmente. In piú, 20 mila franchi di indennità. Dopo piú di due mesi e dopo essersi mostrato molto soddisfatto delle scuse indirizzategli e ricevute, tutto ad un tratto Brenier ha trasmesso ieri un reclamo calcato sulla mia nota domandando come riparazione delle sue disavventure il Gran Cordone per Thouvenel, tre milioni depositati a Parigi e il Palazzo Chiatamone, proprietà reale, in dono alla Francia. Il tutto entro le 24 ore, altrimenti egli richiederà i suoi passaporti) (Carteggio Cavour-Nigra, dispaccio n. 1071, da Napoli 24 agosto 1860).

    Non sappiamo come finí, anche per il precipitare degli eventi. Cavour chiese un supplemento di informazione (lettera n. 1073). Occorreva dunque con urgenza un nuovo Prefetto di Polizia. Al conte d'Aquila fu facile portare avanti la candidatura di Romano.

    L'ORA DELLA VENDETTA E DEL TRADIMENTO

    Lo stesso giorno, appena insediato, il Romano fa pubblicare il seguente manifesto:

    "Le novelle istituzioni promettitrici e garanti al nostro bel paese d'un lieto e prospero avvenire, non possono convenientemente radicarsi e produrre frutti, se il popolo non dà prova di averle meritate (sembrano parole della giacobina Pimentel, ndr), aspettando con pazienza le nuove leggi e il tempo dell'oprare, rispettando l'ordine pubblico, le persone, la proprietà, confidando nello zelo e nella pazienza dei governanti, reggendosi insomma con quell'alto senno civile che è la piú solenne testimonianza della coltura delle nazioni.

    Ora mentre il contegno tranquillo e dignitoso di un popolo eminentemente civile distingue ed onora l'immensa maggioranza degli abitanti di questa metropoli, sono un'eccezione, purtroppo dolorosa, quei pochi che per inconsiderata avventatezza osano trascorrere a provocazioni e dimostrazioni sovversive alle leggi e alla pubblica tranquillità, lesive al diritto di proprietà, turbatrici dei consigli di governo, perigliose nei novelli ordini della comune rigenerazione.

    Preposto alla tutela della pubblica sicurezza, veggo in questo momento la necessità di rivolgermi ai buoni napoletani, fatti degni del novello regime ed invitarli alla tranquillità deponendo ogni elemento di privati odi e rancori.

    In conseguenza di questo principio e nel fine di ovviare a ogni menomo disordine, rimangono da questo momento inibiti gli attruppamenti e le grida di ogni specie, che potrebbero ingenerar tumulti.

    Ho fiducia che questa esortazione voglia essere ben accolta dai buoni concittadini, i quali col loro moderato contegno non vorranno in alcun modo obbligare la forza militare ad agire, trattenendo coloro che si rendessero sordi a sí fatte esortazioni e quindi essere indicati alle autorità competenti." Liborio Romano.

    LA MALAVITA AL POTERE

    Dunque erano "un'eccezione... quei pochi che... osa(va)no trascorrere a provocazioni e dimostrazioni sovversive". Per quei pochi il ministero Spinelli, su proposta del Romano, fa dichiarare lo stato d'assedio, che dura, appunto perché "pochi" erano i provocatori, solo fino al 2 luglio (ordinanza del generale Cutrofiano). Ma quegli episodi di violenza danno l'estro al Romano di effettuare una operazione che non ha pari negli annali dei governi cosiddetti costituzionali: la camorra tutrice dell'ordine pubblico sulla scia del Garibaldi che in Sicilia aveva assoldato ed inquadrato la mafia (i picciotti). Nelle sue Memorie Politiche cosí si giustifica: "Pensai prevenire le triste opere de' camorristi, offrendo a' piú influenti loro capi (Michele 'o Chiazziere, Schiavetto, Persianaro, De Crescenzio, ndr) un mezzo di riabilitarsi: e cosí parvemi toglierli al partito del disordine, o almeno paralizzarne le tristi tendenze in quel momento in cui mancavami ogni forza, non che a reprimerle, a contenerle. Laonde, fatto venire in mia casa il piú rinomato fra essi, sotto le apparenze di commetterli il disbrigo d'una mia privata faccenda, lo accolsi alla buona, e gli dissi che era venuto per esso e pe' suoi amici il momento di riabilitarsi dalla falsa posizione cui aveali sospinti, non già la loro buona indole popolana, ma l'imprevidenza del governo, la quale avea chiuse tutte le vie all'operosità priva di capitali. Che era mia intenzione tirare un velo sul loro passato, e chiamare i migliori fra essi a far parte della novella forza di polizia, la quale non sarebbe stata piú composta di tristi sgherri, e di vili spie, ma di gente onesta, che, bene retribuita de' suoi importanti servizi, avrebbe in breve ottenuto la stima de' proprii concittadini. Quell'uomo, da prima dubbioso ed incerto, si mostrò tosto commosso dalle mie parole, smise ogni diffidenza, volea baciarmi la mano; promise anche piú di quello che io chiedeva, soggiunse che tra un'ora sarebbe tornato da me alla prefettura. E prima che l'ora fosse trascorsa, venne con un suo compagno, mi assicurarono d'aver date le debite prevenzioni ai loro amici, e che io potea disporre della loro vita. E mantennero le loro promesse, per modo convincermi, che se gli uomini purtroppo non sono interamente buoni, neppur sono interamente perversi, se tali non si costringono ad essere. Improvvisai allora, ed armai, senza por tempo in mezzo, una specie di guardia di pubblica sicurezza, come meglio mi riuscí raggranellandola fra la gente piú fedele e devota ai nuovi principii ed all'ordine; frammischiai fra questi l'elemento camorrista in proporzione che, anche volendolo, non potea nuocere; disposi che si organizzasse in compagnie; posi a capo di essi coloro che ispiravano maggior fiducia; ed ordinai che, divisi in pattuglie, scorressero immantinente tutti i quartieri della città. Questo provvedimento istantaneo, ed istantemente attivato, sconcertò i disegni de' tristi, colpiti assai piú dall'attitudine, che dall'imponenza della forza; e cosí l'ordine, la città e le stesse libere istituzioni furono salvi dal grave pericolo che li minacciava. Si condanni ora il mezzo da me adoperato; mi si accusi di aver introdotto nella forza di polizia pochi uomini rotti ad ogni maniera di vizii ed arbitrii. Io dirò a cotesti puritani, i quali misurano con la stregua dei tempi normali i momenti di supremo pericolo, che il mio compito era quello di salvare l'ordine, e lo salvai col plauso di tutto il paese ".

    L'asserzione del Romano circa la mancanza di forza per reprimere i disordini viene sbugiardata dall'articolo 2 della citata Ordinanza con la quale il Cutrofiano dichiarava cessato lo stato d'assedio: "fino a quando la guardia nazionale provvisoria non sarà formata per la città di Napoli, la truppa seguiti a prestare servizio per la tutela dell'ordine pubblico" (Delli Franci, ibidem).

    DON LIBORIO SALE DI GRADO

    Il giorno 14 luglio il cav. Federico del Re, Ministro dell'Interno e della Polizia generale nel governo costituzionale, dà le dimissioni, al suo posto viene nominato Liborio Romano. Nell'assumere la carica egli pubblica un manifesto in cui dichiara tra l'altro: "...chiamato dall'augusto Sovrano al ministero dell'interno e della polizia, troverò nella costanza del volere, nella lealtà dei principi, nei lumi degli onorevoli uomini miei compagni, e soprattutto nella confidenza del paese, la forza sufficiente per condurre, in modo conforme all'altezza dei tempi e con impulso vitale, un ministero destinato a coordinare nei limiti dei poteri costituzionali ed in mezzo al sagace andamento della pubblica tranquillità la macchina dell'amministrazione civile alle nuove maniere di reggimento. Agevolatemi quindi del vostro concorso, affinché alla prontezza ed efficacia delle intenzioni, rispondano pronti e durevoli effetti; alle antiche speranze di una vita politica forte ed italiana, ne consegua il celere raggiungimento...".

    Questo documento, mai forse finora preso in considerazione da chi ha studiato l'attività politica del Romano, fa capire senza ombra di dubbio in che direzione costui si sta movendo. E' fin troppo chiaro che, da quel posto di grande autorità, egli sta inviando precisi messaggi all'ala liberale oltranzista completamente votata alla causa piemontese. Cosí egli continua: "Intanto vi annunzio che il ministero va a completarsi con nomi a voi noti per fermezza di carattere ed amore verso la patria comune. Appena integralmente costituito darà il programma della sua condotta, per indi mettersi indeclinabilmente sul cammino, a cui meta siede la pubblica prosperità, il risorgimento, l'onore, la grandezza della nazione". Sembrano parole di Cavour.

    UN ALTRO CHE TRAMA

    Anzi, proprio in quei giorni avvengono contatti tra il Romano e il conte piemontese, tramite un altro individuo, che, a chiamarlo traditore, si dice poco: Niccola Nisco. Costui, nel gran marasma conseguente alla costituzione, ritorna a Napoli e s'incontra col vecchio compare di bagordi liberaleschi. Che cosa si siano detto non si sa, il Romano nelle memorie (postume) non ne parla, né ne parla il Nisco, si sa solo che al Nisco fu affidato un messaggio orale per il Cavour, messaggio che, se non fosse stato compromettente, sarebbe stato messo per iscritto. Una cosa è comunque certa, da quel momento Cavour può fare assegnamento su don Liborio.

    L'ALTO TRADIMENTO SVELATO

    Ecco come il Cavour segnala la cosa al Nigra: "Mr. Nisco étant allé faire une course à Naples, s'est trouvé en relation directe avec Liborio Romano, son ancien ami, et le Général Nunziante. L'un et l'autre l'ont chargé de messages pour le Roi et pour moi; le premier s'est contenté de communications verbales, le second n'a pas reculé davant l'invitation d'écrire une lettre qui le ferait fusiller si elle était publiée... Liborio, Nunziante, et Persano combineront ce qu'il y a à faire pour qu'un mouvement ait lieu, auquel participeraient le peuple, l'armée et la marine" (Il sig. Nisco, andato a fare una corsa a Napoli, s'è trovato in relazione diretta con Liborio Romano, suo vecchio amico, e il Generale Nunziante. L'uno e l'altro l'hanno incaricato di messaggi per il Re e per me; il primo s'è contentato di comunicazioni verbali, il secondo non ha indietreggiato davanti all'invito di scrivere una lettera che lo farebbe fucilare se venisse pubblicata ... Liborio, Nunziante e Persano organizzeranno ciò che è da fare perché abbia luogo un sommovimento, a cui parteciperebbero il popolo, l'armata e la marina) (lett. 1022 del 1° agosto, Carteggio Cavour - Nigra).

    Si intuisce chiaramente dunque il fine del Romano, il motivo del messaggio al primo ministro piemontese, a che cosa era disposto. Ed ecco la lettera di risposta a don Liborio; essa, per ovvii motivi di segretezza, è piú sfumata:

    "Preg. Signore, Mi valgo del ritorno a Napoli del Barone Nisco per ringraziarla del gentile messaggio che per mezzo suo mi mandava. Fu per me di gran consolazione e conforto il veder confermato per prova diretta l'alto concetto che io mi era formato del suo illuminato e forte patriottismo e della sua devozione alla causa per cui combatto da tanti anni ed ella sofferse molto.

    Nel posto eminente ch'Ella occupa, colla influenza immensa ch'Ella esercita sui suoi concittadini, la S.V. può fare del gran bene all'Italia ed Ella lo farà. Ond'io nutro fiducia di potere fra breve salutarla come uno di quei grandi Italiani, mercé la cui opera la pace di Villafranca, reputata sulle prime fatale alle nostre sorti, segna invece il piú splendido periodo del Rinascimento italiano. Ho l'onore ecc. ecc.. (lettera 1019, ibidem). Merita di essere riportato al riguardo quanto ne dice il Ghezzi, giacobino unitarista sfegatato, laudatore sperticato delle gesta di don Liborio (libro citato, pag 123) quindi una fonte non sospetta: "Lettera di stile raffinatissimo: apparentemente non si chiede nulla al ministro di Francesco II. A chi non sappia i precedenti può anche sembrare che si tratti di un normale scambio di cortesie tra due eminenti personalità politiche: invece vi è qualcosa di piú grave. Lusingandone l'amor proprio, ricordandogli le passate sofferenze e quindi le passate colpe della dinastia che ora serviva, propone a Liborio niente altro che il tradimento...". Ma Cavour sfondava una porta aperta. L'uomo, il ministro del governo costituzionale, era già ai suoi piedi. Aveva dunque ragione Ferdinando II a farlo imprigionare nel 1848 dopo il sanguinoso 15 maggio.

    DON LIBORIO ALL'ATTACCO

    Da quel momento l'attività di don Liborio diventa frenetica. Con la motivazione della necessità di mantenere l'ordine pubblico chiede ripetutamente a Francesco II l'aumento dell'organico della guardia nazionale di Napoli, recentemente istituita, che diventa, rinforzata dai camorristi, il corpo pretoriano del ministro (da 6.000 col Del Re, con decreto del 19 luglio a 9.600, e a 12.000 dal 27 agosto). Chiede inoltre 12.000 fucili per la stessa (14 agosto): "Il 14 agosto il ministero, esponendo al Re l'opportunità ed i vantaggi d'armare la guardia nazionale, mi fece dare 12.000 fucili... intorno al quale aumento ebbi a sostenere la piú viva contraddizione da parte del Re, che, cedendo al fine alle mie rimostranze, mi disse sorridendo: "Si accordi pur questo al tribuno Romano" (L. Romano, Memorie politiche).

    Per un po' di tempo ancora, però, le sue azioni sono apparentemente attestate alla piú stretta legalità, talché viene tacciato di tradimento dai suoi stessi compari di lotta politica. Ma la sua è una posizione di tentennamento o di consumatissima astuzia. Scrive di lui il Persano: "Il ministro Liborio Romano... vorrebbe e non vorrebbe a un tempo. La sua posizione l'obbliga a tentennare: non si può fare grande affidamento su lui". Il 5 agosto Romano incontra il Nisco, che gli parla delle armi nascoste sulle navi del Persano, ferme nella rada di Napoli, da usare per un sommovimento sovversivo in favore del Piemonte. Alla fine dell'incontro don Liborio acconsente: "Ebbene, sono con voi" (Nisco, riportato da Ghezzi). Vengono scoperte pseudocongiure in cui si arrestano molti oppositori del governo costituzionale fedeli al Re, tanto che Francesco II ironizza sulla di lui "bravura".

    Intanto gli eventi precipitano. Il 20 agosto il filibustiere nizzardo è sbarcato in Calabria con i suoi 23.000 piemontesi e con la sua legione ungherese. Il Romano ne estrapola già le conseguenze prossime venture. Lo stesso giorno scrive al Re un memorandum, che i colleghi di gabinetto rifiutano di sottoscrivere. In esso il Romano, dopo essersi dichiarato profondamente devoto alla dinastia e al paese, dipinge al Re una situazione catastrofica circa la tenuta dell'Esercito e della Marina, fa intravedere una lunghissima e sanguinosa guerra civile in cui, anche se arridesse la vittoria, questa sarebbe peggiore della sconfitta, quindi propone al Re di allontanarsi senza combattere. Leggiamo al riguardo l'intelligente commento che ne ha dato la Pellicciari (L’Altro Risorgimento, edizione Piemme, pag. 247): "Da chi è tradito Francesco II? innanzi tutto dal re di Sardegna, suo cugino, poi dal ministro dell'interno Liborio Romano che lo convince a lasciare la capitale senza opporre resistenza. Con quali argomenti il ministro dell'interno induce il sovrano a compiere un vero e proprio suicidio, un gesto insensato dal punto di vista politico? Con l'appello al cuore di Francesco, al suo attaccamento alla città di Napoli, all'amore per il suo popolo e per la religione cattolica. E succede l'incredibile: il giovane re lascia il campo senza combattere per risparmiare ai napoletani la guerra e a Napoli la distruzione".

    Ecco il memorandum-ipocrisia del Romano:

    "Sire, Le circostanze straordinarie in cui versa il paese e la situazione gravissima nei rapporti ed esterni ed interni, che ci è fatta dagli imperscrutabili disegni della Provvidenza, ci impone i piú alti e sacri doveri verso la M.V. di rassegnarle libere e rispettose parole, come a testimonio solenne della devozione profonda alla causa del trono e del paese (e intanto la notte va a prender ordini dal Persano e sta in intelligenza col Cavour, ndr). Affermiamone gravissima la situazione ed eccone la dimostrazione ... alle interne difficoltà inestricabili si aggiungono le gravissime complicanze esterne. Noi ci troviamo in presenza dell'Italia, che si è lanciata nelle vie della rivoluzione col vessillo della Casa di Savoia, il che vuol dire con la mente ed il braccio di un governo forte, ordinato e rappresentato dalla piú antica dinastia italiana. Ecco il pericolo e la minaccia che si aggrava fatalmente sul governo della M.V.. Né poi il Piemonte procede isolato e spoglio d'appoggi. Le due grandi potenze occidentali, la Francia e l'Inghilterra, per fini diversi stendono l'una e l'altra il loro braccio protettore al Piemonte: Garibaldi evidentemente non è che lo strumento di questa politica, oramai palese. Poste tali condizioni, esaminiamo quale sarà la via da tenere, perché sia salvo l'onore, la dignità e l'avvenire della augusta dinastia, che la M.V. rappresenta. Pongasi l'ipotesi della resistenza ad oltranza. Confessiamo innanzi tutto alla M.V. che le forze di resistenza a noi appariscono svigorite, mal sicure e incerte. Che assegnamento farà il governo della M.V. sulla R. Marina, la quale, diciamolo con franchezza, è in piena dissoluzione? (grazie alle mene del comandante in capo, lo zio del Re, ndr). Né maggior fiducia potrebbe ispirare l'esercito, che ha rotto ogni vincolo di disciplina e di obbedienza gerarchica e però inabile a guerra ordinata (una menzogna! la disciplina e la tenuta dell'esercito si vedrà sul Volturno e a Gaeta). Quale dunque dei capi dell'armata oserebbe in buona fede assumerne la responsabilità?... Poniamo pure il caso della vittoria momentanea dell'esercito del governo. Sarebbe questa, o Sire, ci si permetta il dirlo, una di quelle vittorie infelici, peggiori di mille disfatte. Vittoria comprata a prezzo di sangue, di macelli e di rovine; vittoria che solleverebbe la universale coscienza dell'Europa, che farebbe rallegrare tutti i nemici della Vostra Augusta Dinastia e che forse aprirebbe veramente un abisso tra essa e i popoli affidati dalla Provvidenza al Vostro cuore paterno. Rigettando adunque come a noi pare nell'onestà della nostra coscienza, il partito della resistenza, della lotta e della guerra civile, quale sarà il partito saggio, onesto, umano e veramente degno del discendente di Enrico IV? Quest'uno noi sentiamo il dovere di proporre e di consigliare alla M.V.: che la M.V. si allontani per poco dal suolo della reggia dei suoi maggiori (cioè i suoi padri, ndr), che investa d'una reggenza temporanea un ministero forte, fidato, onesto a capo del quale sia preposto non già un principe reale, la cui persona per motivi che non vogliamo indagare, né farebbe rinascere la fiducia pubblica né sarebbe garentia solida degli interessi dinastici; ma bensí un nome cospicuo, onorato, da meritare piena la confidenza della M.V. e del paese. Che distaccandosi la M.V. dai popoli suoi rivolga ad essi franche e generose parole, da far testimonio del suo cuore paterno, del suo generoso proposito di risparmiare al paese gli orrori della guerra civile... Eccole, o Sire, il partito che noi (cioè lui, ndr) sappiamo e possiamo consigliare alla M.V. con franchezzza di coscienza onesta... Che se per disavventura V.M. nell'alta sua saggezza non istimasse accoglierli (i consigli, ndr) a noi (cioè a lui, ndr) non rimarrebbe altro partito che rassegnare l'alto ufficio di che la M.V. onoravaci, riconoscendo mancata a noi la sovrana fiducia. Napoli, 20 agosto 1860 - Liborio Romano"

    UN RE GIOVANE E PATERNO

    Il Re - come ricorda il Nisco - rimase di sasso. Noi diciamo che il Re, se non avesse avuto "cuore paterno", avrebbe dovuto far fucilare all'istante, per alto tradimento, quel ministro e tutto il gabinetto, perché chiaramente il documento, pur dai ministri all'ultimo istante non sottoscritto, ne metteva in evidenza la collusione col Romano, che si esprime a nome di tutti. Il memorandum era stato cosí concepito perché il Romano si aspettava che tutti i suoi compari gettassero la maschera e ponessero il Re davanti al fatto compiuto. Al Re si erano aperti finalmente completamente gli occhi: "I traditori, pagati dal nemico straniero, sedevano nel mio Consiglio, a fianco dei miei fedeli servitori; nella sincerità del mio cuore non potevo credere al tradimento" (8 dicembre, da Gaeta, Manifesto ai popoli delle Due Sicilie).

    Il 1° settembre anche Pianelli, ministro della guerra, in collusione col Romano, consiglia al Re di abbandonare Napoli. Il Re chiede consiglio ai suoi esperti militari. Anche costoro sono dello stesso avviso. Il Re fa mettere tutto per iscritto. Subito dopo tutti i ministri danno le dimissioni e lo lasciano completamente solo con i gravissimi problemi del momento. Il tradimento è giunto all'atto finale, consummatum est. Il Re le accettò, ma li pregò di sbrigare gli affari correnti in attesa delle nuove nomine (Giornale costituzionale, 3 settembre). Il giorno dopo, dopo che un consiglio di generali ebbe dichiarato impossibile la resistenza al Garibaldi in quel di Salerno, il Re decise la partenza per Gaeta, per difendere il Paese, le ricchezze, l'onore, le case, la Patria. A don Liborio, al diabolico ministro, rivolse le ultime parole "don Libò , guardateve 'o cuollo", cioè se torno, ti faccio la festa. Qualcuno dei fedeli piangeva. Il Re rivolto a tutti esclamò : "Voi sognate l'Italia e Vittorio Emanuele, ma sarete infelici". E cosí è stato ed è.

    Appena partito il Re per Gaeta, 6 settembre, il nizzardo, avvisato dai soliti compari, cosí telegrafò da Salerno a don Liborio: "Sig. Ministro dell'Interno e della Polizia - Napoli - Appena qui giunge il Sindaco (il principe di Alessandria, ndr) e il Comandante della Guardia Nazionale di Napoli (De Sauget, ndr) (altri due traditori, ndr) che attendo, io verrò tra voi. In questo solenne momento vi raccomando l'ordine e la tranquillità, che si addicono alla dignità di un popolo, il quale rientra deciso nella padronanza dei suoi diritti. Il Dittatore delle Due Sicilie - Giuseppe Garibaldi"

    Ecco la incredibile, anche se in sintonia col personaggio, risposta del Romano: "All'invittissimo General Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie. Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla il redentore d'Italia e deporre nelle sue mani il potere dello Stato e i propri destini. In questa aspettativa, io starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquilllità pubblica. La sua voce, già da me resa nota al popolo, è il piú grande pegno del successo di tali assunti. Mi attendo ulteriori ordini suoi e sono con illimitato rispetto, di lei, Dittatore invittissimo, Liborio Romano."

    Quello scritto fu la pietra tombale che sancí, con la piú criminale delle impreveggenze e col tradimento piú becero, la morte delle Due Sicilie e l'inizio della tragedia del popolo duosiciliano. "Un popolo che esprime dal suo seno governanti di tale carattere...ministeriale non può andare incontro e non può essere "docile" che alla servitú, anche se il capo dello Stato ne difende l'indipendenza" (Renato Di Giacomo, Il Mezzogiorno dinanzi al terzo conflitto mondiale).

    RIN
    per risorgere bisogna insorgere

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    Predefinito

    garibaldi: negriero
    Un po’ di luce sull’omertà degli storici

    ( dal PeriodicoDueSicilie 11/1999)

    Questo era l’"eroe" del risorgimento: un negriero, cioè un trafficante di schiavi. Esaltato da tutta la storiografia imperante come il paladino della libertà, come il "liberatore" delle popolazioni delle Due Sicilie, "l’eroe dei Due Mondi" invece aveva anche campato trasportando schiavi cinesi (coolies). Cosí come poi ha ridotto le popolazioni del Sud in questa Italia fatta unita al solo vantaggio della dominazione savoiarda e delle lobby di potere che le sono succedute fino ad oggi.

    È sintomatico, dunque, che questo personaggio sia il piú grande simbolo di questo potere dal quale è onorato con monumenti, strade, piazze, associazioni, enti, navi, eccetera, in questa Italia ormai ridotta a una sordida puttana, sfruttata da questi ricottari che l’hanno asservita a libidinosi interessi stranieri, mentre lo Stato delle Due Sicilie è diventato una sua colonia interna. Ma chissà fino a quando.

    Antonio Pagano



    Schiavismo

    All’inizio del 1998 l’UNESCO decise di dedicare l’anno alla lotta contro quel terribile, ancora attuale, morbo sociale e mondiale chiamato schiavitú. Iniziativa molto lodevole, non c’è che dire, ché, perfino la fortunata Europa, patria conclamata degli immortali principi del 1789, non può scagliare la prima pietra dato che, anche nel vecchio continente, talvolta si scoprono, e non sono una rarità, lavoratori trattati peggio delle bestie, e, per ironia, animali coccolati e vezzeggiati meglio degli uomini.

    Lo scafista ante litteram

    Il buon proposito dell’UNESCO ha fatto però ricordare a qualcuno – le solite malelinguacce biforcute sputaveleno che provano lubrico orgasmo ad infangare la Storia Sacra del Risorgimento – che anche un certo eroe, il mitico Garibaldi, non fu, forse, alieno dal dare il suo contributo lenonino al commerciucolo di carne umana, non di bianchi cristianucci ovviamente – perché il Grande Architetto dell’Universo non vuole – ma di asiatici sí in un’epoca in cui era ancora fiorente il losco mercatare di schiavi tra la Cina e l’America meridionale per l’importazione di coolies, «ufficialmente liberi emigranti, in realtà semi-schiavi costretti ad imbarcarsi con violenze e minacce, forza-lavoro venduta e commerciata come bestiame» (Guido Rampoldi) da piegare, con la sferza e sotto buona scorta armata, nelle miniere e nei campi dei ricchi fazenderos sudamericani.
    E quei serpentacci linguacciuti sono andati giú di brutto, con scalpello e martello pneumatico, a riscoprire che il plurimondiale eroe, nell’estate (emisfero sud) del 10 gennaio 1852 era partito, con un carico di guano, cioè sterco di cormorani, albatri e simili volatili, dal porto peruviano di Callao, quale comandante della Carmen, un barcone di 400 tonnellate, armatore un certo Pietro Denegri, - genoveese di stirpe neh! -, negriero patentato e proprietario anche di miniere (che altri scrive don Pedro De Negri, nome emblematico), destinazione Canton in Cina.
    Noi non vogliamo rimanere spettatori passivi del coro e perciò abbiamo deciso di parteciparvi, ma né come serpenti né come bruciatori d’incenso, anche se ben altro dovrebbe essere il nostro sentimento, considerando che il maledetto ha portato alla distruzione della Patria Due Sicilie ed ha consentito che gli infami savoia ci riducessero a colonia da cui non è possibile risollevarsi neppure con questo Stato repubblicano, i cui presidenti si sbracciano a proclamare urbi et orbi di voler essere presidenti di tutti gli italiani.
    Abbiamo perciò deciso di esperire le opportune ricerche, per dare pane al pane e vivo al vino, e ben consci che, a trattare di colui che fu il «Primo Massone d‘Italia» (grado 33 ad personam per i grandi servigi resi a calderai, a carbonari e settarii simili, in sintesi alla Massoneria), nonché «Presidente del Supremo Consiglio del Grande Oriente d‘Italia» (vedi scheda nella pagina seguente), si rischia di risultare blasfemi e per conseguenza di scottarsi le dita. E dunque per prima cosa ci siamo accinti a compulsare, dopo i tre inchini di rito e lettura dell’incipit del vangelo di Giovanni, le sacre Memorie dell’eroe per vedere se qualche traccia, anche labile, dell’infame commercio non gli sia caduta dalla penna per perdita di smalto in un momento di languidezza senile, o se invece la diceria non sia per caso una bieca calunnia messa in giro da qualche irriducibile suo nemico.

    Una pagina autobiografica

    Proclamano dunque le sacre Memorie, estasi degli agiografi garibaldesi: «Il sig. Pietro Denegri mi diede il comando della Carmen (15 ottobre 1851, ndr), barca di 400 tonnellate, e mi preparai per un viaggio in China… Veleggiai… colla Carmen verso le isole di Cincia (esattamente «Islas de Chincha», isolotti di fronte alla costa peruviana a circa 100 km a sud di Lima, all‘altezza della città di Ayacucho, ndr), ove si caricò guano, destinato per la China; e tornai a Callao per le ultime disposizioni del lungo viaggio. Il 10 gennaio 1852 salpai dal Callao per Canton. Impiegammo circa 93 giorni nel viaggio, sempre con vento favorevole. Passammo alla vista delle isole di Sandwich, ed entrammo nel mare di China tra Luzón e Formosa nelle Filippine. Giunto a Canton, il mio consegnatario mi mandò ad Amoy, non trovandosi a vendere il carico guano nella prima piazza. Da Amoy tornai a Canton: e non essendo pronto il carico di ritorno caricai per Manilla differenti generi. Da Manilla tornai a Canton, ove si cambiarono gli alberi della Carmen, trovati guasti, ed il rame (da usare per il rivestimento protettivo della chiglia, data la sua natura, tossica per i crostacei, che appesantiscono i velieri e ne riducono la velocità, ndr). Pronto il carico, lasciammo Canton per Lima … Dopo una traversata di circa 100 giorni … si sbarcò il carico a Lima» (da edizione BUR n. L1235, G. Garibaldi, Memorie, 1998).

    Un dubbio

    Dunque, neppure per lapsus, non una parola sulla natura del carico, né nel viaggio di andata alle isole di Cincia, né in quello di ritorno da Canton. Noi, da quelle righe, al massimo possiamo domandarci in quali tasche scivolarono i proventi del viaggio non programmato da Canton a Manilla e viceversa, perché poco dopo (per l’esattezza 9 righe dopo) la stessa biografia riferisce che, dopo il ritorno, in prosieguo di viaggio da Lima a Valparaiso e a Boston via Capo Horn, il ligure duce giunto a Boston ebbe «l‘ordine di andare a New York, ove giunto ricevetti una lettera, con alcuni rimproveri dal proprietario della Carmen, che mi sembrò di non meritare; e per cui lasciai il comando di detto legno...». E qui ci viene il tormentoso dubbio se il gran capitano dica la verità o se, invece destituito per appropriazione indebita, menta spudoratamente, perché arrivato a Genova il 10 maggio 1854 se ne stette da quella data fino a febbraio 1859 a Caprera ammazzando il tempo «parte navigando, e parte coltivando un piccolo possesso da me acquistato», un piccolo possesso che poi risultò essere mezza Caprera (sí, proprio mezza isola).
    Donde gli vennero i soldi per l’acquisto di tale proprietà visto cha a New York, a Staten Island, precedentemente al viaggio, per sopravvivere si era messo nella fabbrichetta del Meucci a produrre candele di sego che non rendevano un cent e che il comando di due navi poteva avergli fatto guadagnare al massimo cinquecento dollari, chiaramente insufficienti per l’acquisto del «piccolo possesso»?

    La leggenda nera.

    Circa il carico di ritorno della Carmen da Canton, visto che il nizzardo non ne indica la natura, donde allora è saltata fuori la leggenda nera del capitano Garibaldi negriero? Giuliano Bertuccioli, un sinologo che ricostruí il viaggio del plurimondiale eroe, affermò trattarsi di calunnie propalate dal clero retrogrado (?) di Hong Kong o Macao, ma contemporaneamente asseriva essere impossibile stabilire la natura del carico della Carmen.
    Qui, in Italia, la calunnia è invece contenuta in un libro di un certo A. V. Vecchj (pseudonimo Jack La Bolina, prolifico scrittore di cose di mare), pubblicato nel 1882, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi, a cui ha fatto forse riferimento (ma la cosa non è certa perché non menzionata esplicitamente), in una intervista del 20 gennaio 1982 (giornale La Repubblica), nel centenario della morte del plurieroe, anche Giorgio Candeloro, storico del cosiddetto risorgimento. In quella intervista, alla giornalista Laura Lilli che chiedeva una «valutazione su un Garibaldi «vero«, fuori retorica», lo storico confidava: «Comunque Garibaldi, un po‘ avventuriero, un po‘ uomo d‘azione, non era tipo da lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perú; e, come capitano di mare, prende un «comando« per dei viaggi in Cina. All‘andata trasportava guano (depositi di escrementi di uccelli che si trovano nelle isole al largo del Perú), al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitú in Perú era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo piú nessuno. Insomma un lavoretto un po‘ da negriero. Era un avventuriero, un uomo contraddittorio, fantasioso, un personaggio da romanzo».
    In sostanza – come afferma Guido Rampoldi – «Candeloro dava per scontato che la Carmen avesse trasportato coolies». Quei cinesi, come già detto, venivano venduti come bestiame, per l’esattezza «come cani e maiali», sui mercati di carne umana di Cuba, Stati Uniti e Perú, e in quest’ultimo paese, guarda un po’, venivano dirottati nelle cave di guano, le cosiddette guaneras, dove il manico del mestolo lo manovrava anche quel Don Pedro Denegri armatore della Carmen.

    Un mito infrangibile o quasi

    Non siamo in grado di dire se il sasso lanciato da Candeloro nello stagno abbia fatto gracidare i ranocchi, cioè se altri storici si siano degnati di approfondire lo scottante argomento. Forse al vero personaggio nessuno vuol stracciare il manto di retorica e mitologia che lo avvolge, gli storici soprattutto, organici signorsí al potere italiano, temono di mandare in polvere «la ininterrotta, capillare, imponente opera di persistente rivitalizzazione del mito di Garibaldi, culminato nello scoprimento del suo monumento equestre al Gianicolo, opera del Fratello (massone, ndr) Emilio Gallori» (Aldo A. Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 848, Bompiani). Eppure nella stessa intervista, il Candeloro aveva aggiunto: «La storia del Risorgimento non è sacra; è fatta da uomini, non da eroi».

    Un cuor di leone non colluso

    A puntino calzano qui le parole che il v. direttore del quotidiano IL GIORNALE, Paolo Granzotto, ha rivolto domenica 18 luglio c.a., ad un lettore di Padova: «Caro XXX, prenda Voltaire. Chi non lo ama? Chi non lo rispetta? Voltaire è un mito inattaccabile perché – cosí recita la vulgata – riassume in sé tutte le virtú intellettuali possibili e immaginabili. E se le dicessi – senza affermare nulla che non corrisponda alla verità – che il campione dell‘egalité, della giustizia sociale, dei diritti dell‘uomo, possedeva quote nel mercato degli schiavi o, per essere precisi, nella compagnia di navigazione che si incaricava di trasportarli negli Stati Uniti? Potrei stilarle una lista di mostri sacri, da Rousseau a Garibaldi, dei quali si potrebbe, senza dar torto alla storia, anche parlar male. Ma non lo si fa perché lo vietano le convenzioni o le consuetudini ...». Ma noi che non vogliamo lasciarci condizionare da consuetudini o pruderie o reticenze storiche, come l’Edipo Re di Sofocle vogliamo conoscere la verità anche se per noi il suo valore è molto relativo, e perciò ripeteremo insieme al poeta: «Ed io ti lascerò, sí: ma non prima // di avere detto a te quella parola // per cui venni».

    Dalla Cina con odore

    Passano gli anni, si arriva al 1998, ancora una volta, un altro linguacciuto, un giornalista di La Repubblica, il già citato Guido Rampoldi, in qualità di inviato speciale del foglio, approdato su suolo cinese, rapito dall’incanto della baia di Hong Kong, una delle tappe dell’antico lupone di mare, dal profumo dell’immenso oceano squassato dai monsoni e dal verde dell’ampio golfo, comincia a navigare gratuitamente nell’internet della memoria, un cui file gli ricorda che il navarca Garibaldi aveva fatto scalo nella bellissima baia molti lustri prima con una checchia carica di guano. Destatosi dall’onirico incanto, il nostro, invaso da eroico furore pennarulo, documentatosi a puntino, invia alla redazione un articolo (4 marzo 1998) dal titolo «Garibaldi fu negriero?»
    Cosí da lui apprendiamo che anche in Oriente, dove sorge la stella del mattino, nonostante la distanza galattica da Roma, questo superlibertador della Nazione Duosiciliana era odiato, nonostante la dottrina proclami di porgere l’altra guancia, con sincero profondo sentimento dalle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, come risulta da qualche nota schernitrice di un certo mons. Rizzolati, vicario apostolico di Hukwang, intrufolatosi nelle pagine della storia solo per essersi accoccolato all’ombra del Grande Fratello: «L‘ex Maresciallo Garibaldi è qui giunto dall‘America con un carico della piú eccellente Merda d‘uccellame di quelle contrade ...» ed ancora, ad un altro destinatario: «Il suo carico di sterco d‘uccelli, onorifica proprietà d‘un Maresciallo di quella serenissima repubblica (romana, ndr) … Ecco quei grandi avventurieri che tiranneggiarono la Santa Città (Roma, ndr) ritornare a quella vile bassezza da cui indarno cercarono di emergersi». Modi molto eleganti, circonlocuzioni raffinate, da vero mandarino cinese, per comunicare la considerazione che in quelle contrade si aveva di colui che era ritenuto il nemico numero uno della Chiesa, l’incarnazione del demonio, il 666 dell’Apocalisse. E, sul retro di una comunicazione alla Propaganda Fide, da una mano sconosciuta, impropriamente, ma significativamente: «Il diavolo di Garibaldi è andato in Cina con la squadra (navale) peruviana».

    La lode che uccide

    Ciò che inchioda l’eroe è una frase pronunciata dal Denegri e ripetuta dal Vecchj autore della citata biografia stillante gloria e apoteosi. Come dice Rampoldi, «la sua voleva essere una lode. Ma una di quelle lodi che affossano un uomo».
    In che consisteva la lode riferita dal Vecchj, alias Jack La Bolina? Leggiamola insieme: Garibaldi – avrebbe detto l’armatore Denegri a Jack: «m‘ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi ed in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie». La quale frase è citata da Jack in una pagina di esaltazione dell’eroe, quindi con assoluto rispetto nei suoi confronti. Tra l’altro era figlio di un compagnone di bagordi rivoluzionari del Titano, aveva avuto con lui dimestichezza da lunga data, ne aveva conservato l’amicizia fino alla morte e perciò è da credergli senza ombra di dubbio.
    Tanta lode capace di far precipitare l’eroe dal superbo piedistallo, che gli compete di diritto quale Gran Maestro Massonico di grado 33 della gerarchia iniziatica di Rito Scozzese Antico e Accettato, non poteva ovviamente rimanere senza antidoto antiofidico. I bonzi del mito garibaldino, con la faretra pregna di folgori contro i blasfemi, vegliano amorevolmente sulla loro olimpica creatura.

    Il Difensore

    E dunque nella rivista Rassegna Storica del Risorgimento (fasc. III, luglio/settembre 1998) [fare attenzione a questo titolo!] a firma di un certo Phillip K. Cowie è riportato un articolo, non sappiamo se in originale o in traduzione, che vorrebbe smontare la lode propalatrice dell’immagine di un Garibaldi «negriero»: «A mio avviso, l‘infelice frase riportata dal Vecchi (questo avvocato d‘ufficio scrive Vecchi, non Vecchj, il che dimostra che non ha mai aperto il libro del Vecchj) e ripetuta continuamente attraverso gli anni, non è storia. La frase del Vecchi non è altro che il frutto di un lamentevole malinteso linguistico». Cioè, invece di apportare prove inoppugnabili sull’inconsistenza dell’eventuale calunnia, ‘sto avvocato cerca di aggirare l’ostacolo brigando sulle parole. Seguiamolo dunque passo passo nella sua arringa filologica.
    In che consisterebbe il malinteso linguistico? Nella somiglianza fonetica di chino «che nello spagnolo ufficiale significa cinese» e che in Perú, per derivazione della lingua Quechua, avrebbe significato o significherebbe anche «mezzosangue» o meticcio «figlio di negro ed una donna indiana» il cui mestiere era di solito quello del contadino (colono). E, secondo il Cowie, il «Vecchi tradusse – male – quel poco di spagnolo che conosceva». E dunque fa una disamina in cinque punti:

    Analisi della frase del Vecchj (cioè Jack) e studio della parola «chino», origine del malinteso linguistico;
    La testimonianza del Vecchj che, a conclusione della sua difesa, il Cowie rettifica come segue: «M‘ha sempre portati los chinos nel numero imbarcato e tutti grassi ed in buona salute, perché li trattava come uomini e non come bestie» mentre, abbiamo visto, il Vecchj parla di Chinesi non di los chinos sinonimo peruviano, a suo dire, di contadini (colonos);
    Il carico della Carmen;
    Analisi di un libro di Pino Fortini che nel 1950 scrisse del plurieroe;
    Ipotesi finale.
    Punto primo: riferisce sinteticamente il Cowie che «nel 1865, Vecchi, ventitreenne, si trovava a Lima in servizio militare. Era sulla fregata «Principe Umberto», nave scuola del 2° corso suppletivo, «per far sventolare la bandiera italiana nei mari americani meridionali lungo le due costiere dell‘Atlantico e del Pacifico», nave italiana di nome, di fatto piemontese. La retorica è, secondo il costume del tempo, di prammatica. Vogliamo qui brevemente segnalare che le navi duosiciliane avevano solcato il Pacifico fin dal 1839.
    A Lima il Vecchj conobbe il Denegri del quale fu ospite, guarda un po’, con raccomandazione del Garibaldi. Durante una conversazione amichevole, allietata da piatti della cucina ligure, ebbe la confidenza su riportata. Il Vecchj riferisce che l’idioma usato era «un conglobamento» di genovese e castigliano (cioè spagnolo). Ma lui non conosceva il castigliano, come risulta dal fatto che, facendo l’occhio di triglia a una bella signora di Lima, era costretto a interloquire in francese, e poiché l’altra era digiunissima di lingua gallica il contubernio non andò in porto. E proprio a questa misconoscenza dello spagnolo da parte del Vecchj si appella il Cowie. In sostanza il Vecchj avrebbe capito fischi per fiaschi.
    Noi possiamo invece opporre che, per la misconoscenza del castigliano da parte del Vecchj, il Denegri, per non mancar di cortesia nei riguardi dell’ospite, avrebbe dovuto parlargli, per farsi intendere, se non in italiano, almeno in genovese, lingua comprensibile al suo quasi corregionale che non capiva un’acca di spagnolo e interloquire coi commensali (impiegati della ditta) in castigliano. Infatti il Denegri era di Chiavari e il Vecchj nativo di Torino, ma genovese di adozione. A Genova infatti si era diplomato nel 1862 nella Regia Scuola di Marina (corso di cinque anni), che allora «reclutava solo tra i nobili piemontesi e savoini» e a Genova stessa la famiglia Vecchj possedeva una ricca dimora, la cosiddetta Villa Spinola. Quindi, anche se a tavola si parlava in «conglobamento», la parola per forza di cose doveva essere rivolta al Vecchj in genovese, né poteva essere altrimenti.
    Allora il Vecchj capí bene quel che si diceva, essendoci anche differenza fonetica tra chino, che si pronuncia «cino» e chinese, che si pronunciava allora «kinese» (infatti ancora oggi si parla di inchiostro di China). E infatti il Vecchj non smentí mai quanto ebbe a scrivere, se si consideri pure che morí nel 1932 e che, lui vivente, ombre sinistre aleggiavano sul mito del Garibaldone. Ma noi non ci siamo fermati alle sue parole. Abbiamo interpellato il Consolato del Perú a Milano. Dal Console, signor Torres, gentiluomo dai modi raffinati e disponibile alle informazioni nonostante l’afosa calura, apprendiamo invece che la parola chino ora, come pure allora, in Perú indica e indicava solamente una persona di etnia cinese, mentre per un meticcio, incrocio di indio con donna nera o di nero con donna india, si usava e si usa il termine zambo. Questa precisazione è il classico colpo che taglia la testa al toro. Dunque nessun fraintendimento da parte di Jack La Bolina.

    Reticenze e logorrea

    Il punto 3: lo stesso Cowie afferma che «lo stesso Garibaldi, nelle diverse redazioni delle Memorie, non ci ha aiutato, perché non precisò mai la natura di quel cargo che portò dalla Cina a Callao. Ma, per lui, non c‘era bisogno di alcuna spiegazione: era stato un cargo come tutti gli altri, niente di particolare».
    Però – osserviamo noi che teniamo moltissimo a mantenere immacolata la fedina penale dell’eroe senza macchia e senza paura – il memorialista Garibaldi ci tiene a far sapere (ahi, ahi!) che nel viaggio dalle isole di Cincia (Islas de Chincha) per Canton trasportava guano, ma non precisa la natura del carico sia nell’andata alle Cincia che nel ritorno da Canton. E ci fa sapere pure che dopo il ritorno a Lima e nella immediata prosecuzione del viaggio da Lima a Boston trasportava rame e lana: «si partí in zavorra (perché senza carico commerciale, ndr) per Valparaiso, ove giungendo, si noleggiò la Carmen per un viaggio dal Chilí (cioè dal Cile, ndr) a Boston con rame. Approdammo in vari porti della costa del Chilí: Coquimbo, Guasco, Herradura, e si terminò (cioè si completò, ndr) il carico con lana sopra il rame, a Islay (Perú)». E inoltre ci fa sapere che da Baltimora a Londra trasportava farina e grano, e da Newcastle a Genova carbon fossile. Prosegue infatti la biografia (subito dopo, nella medesima pagina): «Rimasi alcuni giorni a New York … ed in quel mentre, essendo giunto nel porto il capitano Figari, con intenzione di comprare un bastimento, mi propose di comandarlo per condurlo in Europa. Io accettai, e fummo col capitano Figari a Baltimore, ove si acquistò la nave «Commonwealth». Si caricò di farina e grano, e veleggiai per Londra ove giunsi in febbraio del ‘54. Da Londra andai a Newcastle, ove caricammo carbon fossile per Genova, e giunsimo in quest’ultimo porto il 10 maggio dello stesso anno».
    Dunque nel viaggio da Lima a Genova viene indicato tappa su tappa la natura del carico. È solo nell’andata alle Cincia e nel ritorno da Canton a Lima che il nostro ne omette la specificazione. In termini legulei su questi due punti il romantico eroe verrebbe accusato di reticenza interessata.

    Rimozione freudiana

    È legittimo dunque il sospetto che il nostro abbia compiuto una rimozione consapevole o freudiana per non deflorare la sua immagine eroica? Parrebbe di sí, checché ne dica il Cowie, il quale tiene a precisare di aver ritrovato nel giornale El Comercio di Lima, datato 25 gennaio 1853, la nota delle merci portate dalla Carmen dalla Cina, nella quale nota, sulla cui autenticità nutriamo forti dubbi non essendo copia anastatica e autenticata da notaio, ma semplice trascrizione, effettivamente non risultano esservi cinesi.
    In Perú la schiavitú sarebbe stata abolita con due decreti del grande Presidente Maresciallo Ramon Castillo datati 5 luglio e 5 dicembre 1854, come tiene a precisarci il Console peruviano signor Torres, e pertanto, il commercio di schiavi all’epoca dei fatti non era perseguito dalla legge. Per inciso, con gli stessi decreti veniva soppresso anche il tributo che gli indios erano tenuti a pagare fin dall’epoca della conquista spagnola.
    I fazenderos avevano bisogno di operai per l’estrazione del guano nelle guaneras e per i lavori delle miniere e dei campi, di qui l’importazione dei chinos, che per il governo erano coloni, ma per i fazenderos invece schiavi a tutti gli effetti. Pare che lo stesso identico trattamento subissero gli zambos locali. Il Garibaldi ottenne il comando della nave il 15 ottobre, ma la partenza avvenne il 10 gennaio dell’anno successivo.
    Cosa fece in quei tre mesi? Fu forse in questo periodo che trasportò sempre los chinos da un porto all’altro? La distanza delle Cincia da Callao è di circa 100 km. Una nave a vela, pur movendosi come lumaca, in capo a due giorni riusciva a coprire tale distanza. Una nave efficiente, con venti favorevoli, sappiamo, poteva però percorrere fino a 12 miglia nautiche all’ora, cioè circa 23 km, come dire che in cinque o sei ore avrebbe potuto percorrere la distanza di 100 km.
    Dal 15 ottobre al 10 gennaio sono esattamente 87 giorni. Poiché per la Cina fu fatto un solo viaggio, dobbiamo arguire, se non vogliamo dire che la nave rimase alla fonda alle Cincia per quasi tutto quel tempo e che i marinai se ne siano stati con le mani in mano ad osservare il volo dei cormorani, il che è molto improbabile, che, per giustificare l’avverbio sempre usato dal Denegri, Garibaldi abbia fatto la spola per le isole Cincia. E che cosa avrebbe trasportato? La risposta non dovrebbe lasciare dubbi: los chinos, cioè i cinesi ossia i coolies, poveri disgraziati che venivano rapiti e deportati dalle coste della Cina.

    L’inferno delle Chinchas

    Quando si parla di schiavitú si pensa sempre a quella negra. Quella gialla tuttavia non fu meno imponente, terribile, dolorosa anche se consumata in tempi piú ristretti rispetto a quella negra iniziata a sua volta fin dai primi anni del ‘500, addirittura con la benedizione della Chiesa, che trovava la giustificazione dell’immorale commercio e sfruttamento in Sant’Agostino che sosteneva avere Dio «giustamente introdotta la schiavitú nel mondo come pena del peccato» e abolirla avrebbe significato andare contro la volontà di Dio (De Civitate Dei, lib. XIX, cap. 15). A quegli schiavi gialli fu dato il nome di coolies, dalla parola Kuli «affitto, noleggio» delle lingue Tamíl e Urdu. In lingua cinese i coolies venivano chiamati sprezzantemente chu-tsai, cioè porci.
    La tratta iniziò, pare, nel 1847, prima dal porto di Macao e poi anche da quello di Canton, che ci interessa in modo particolare per il viaggio di cui argomentiamo. Gli schiavi venivano portati a Cuba o lungo la costa sud-occidentale del Pacifico, soprattutto a Callao in Perú, da cui una parte cospicua di loro finiva, almeno fino al 1858, come risulta da statistiche peruviane, nell’inferno delle Islas de Chincha, chiamate anche genericamente Chinchas.
    In territorio cinese c’erano sensali (corretores) o pirati che provvedevano alla «merce» che veniva accatastata nei baraccamenti (estabilimientos o chu-tsai-kwan, cioè porcili) degli agenti di Macao e Canton, addirittura con la connivenza di criminali corrotti funzionari cinesi che ne ricavavano il pizzo, oppure scambiata direttamente in mare dai pirati. Le turbolenze e i tentativi di fuga di questi poveri diavoli, che non si arrendevano alle catene della prigionia, venivano domate con la frusta, le torture e perfino con la morte per dare il buon esempio. Ma spesso non occorreva la mano del trafficante-boia per spedire all’altro mondo quei poveracci, che in fin dei conti costituivano una «merce» preziosa: in quei baraccamenti la morte per epidemie e suicidi, persino collettivi, imperversava.
    Proviamo ad auscultare quello che ne riferisce Pino Fortini che fece uno studio molto accurato sull’argomento nel suo libro «Audacie sui mari. Ardimenti di navigatori, avventure di pirati e di trafficanti di carne umana» (anno 1940), un libro che andrebbe letto e meditato da tutti per capire anche gli orrori della seconda guerra mondiale e quelli di cui siamo oggi muti spettatori:

    «Gradatamente, all‘arrivo delle navi-trasporto, la massa dei coolies era avviata verso i luoghi di destinazione fra cui tetramente famose le Chinchas, tre isolotti a sud di Callao fra il 14° e 13° grado lat. Sud … Fu in quel torno di tempo (1850) che nelle Chinchas cominciarono a penare i cinesi; senza pausa, senza sosta, nudi sino alla cintola nella tormenta del polverone. E la pena veniva resa ancor piú grave dall‘ingordigia degli imprenditori. Don Domingo Elias, difatti, appaltatore del governo peruviano, riceveva quattro scellini e mezzo per tonnellata di guano, ma egli subappaltava il suo contratto a capiciurma senza scrupoli, che comprimevano le spese vive sino a ridurle sui tre scellini a tonnellata. Questo margine era raggiunto forzando senza pietà i cinesi a dare il massimo rendimento fino ai limiti estremi delle forze; costringendoli con la frusta a zappare un quantitativo non minore di sei–otto tonnellate per ciascuno al giorno. In compenso i viveri erano insufficienti e spesso avariati; gli alloggi sordidi, mentre l‘alcole correva a fiumi. E quasi ciò non bastasse, la disciplina era affidata ad un ufficiale peruviano di severità proverbiale. Il pontone ove egli alloggiava portava, di consueto, alle gru o ai pennoni, dall‘alba al tramonto un grappolo di otto o dieci coolies, sospesi per la cintola, lasciati sotto il sole tropicale privi di acqua e di cibo. Ma non mancavano torture anche piú sadiche; una di esse, ad esempio, era costituita da una vecchia chiatta che faceva acqua, e nella quale il punito, incatenato, doveva disperatamente aggottare (cioè rigettare l‘acqua in mare con la gottazza, una specie di cucchiaia di legno di circa 30 cm, con manico corto, ndr) per non farsi trascinare al fondo. Un altro supplizio era quello di mettere il colpevole su di una boa spazzata continuamente dal mare; si esauriva naturalmente il disgraziato nel tentativo di mantenervisi aggrappato».

    Uno studioso americano, Basil Lubbock, nel suo libro «Coolies ships and oil sailors», Boston, 1935, citato da P. Fortini, ibidem, pag. 120, ecco che cosa riferisce circa l’inferno delle Chinchas: «Le crudeltà delle Chinchas sono appena credibili e pochissimi cinesi riuscivano a sopravvivere piú di qualche mese …; chi non si suicidava in un modo o nell‘altro, periva per il lavoro eccessivo, il polverone respirato, la deficienza di cibo adatto». Altro che Buchenwald o Auschwitz. Dov’era il cuore «generoso» dell’eroe dei due mondi quando vi si recò? Il lugubre racconto di Pino Fortini cosí continua:

    «Ma per arrivare a questo … placido sito o nelle piantagioni, il coolie doveva passare attraverso un altro inferno, quello del trasporto marittimo… Una nave trasporto-coolies era identificata da lontano <<per lo spaventoso puzzo che emanava>>… Per meglio domare le possibili rivolte, l’interponte delle navi-coolies veniva di regola ripartito stabilmente in parecchi compartimenti mediante robuste sbarre metalliche … due cannoni a poppa, sempre carichi a mitraglia in posizione tale da dominare il ponte; pochi metri piú avanti un‘altra barricata, alta sino a tre metri, da murata a murata, cosí spessa da arrestare una pallottola. E sulla barricata come sugli spalti delle antiche città, sentinelle armate; tutto l‘equipaggio del resto era costantemente armato. I diabolici metodi dell‘ufficiale peruviano alle Chinchas e dei suoi dipendenti furono ben presto noti nel mondo a mezzo delle navi che andavano a caricare guano, cosicché, nel 1858, il «reclutamento« dei cinesi per quelle isole fu impedito dall‘intervento delle grandi potenze .. Non si può non ricordare che fra tutti i capitani nostri che navigarono in questo traffico, sotto bandiera italiana (??) o peruviana, uno si distinse di mille cubiti per l‘umanità sua; un capitano dalla rossa cappelliera: … Giuseppe Garibaldi».

    Il quale venne, vide … chiuse gli occhi su quella terrificante tragedia umana e ci mangiò sopra, perché quelli erano tempi in cui la coscienza, la cultura bianca accettava come normale quell’ignobile rivoltante attività. Vedete dunque da che razza di briganti noi del Regno delle Due Sicilie fummo liberati. E da che pulpito tuonava lo schiavista Lord Palmerston, il losco figuro che infangava il Reame nelle cancellerie d’Europa, il comparone, con altri suoi connazionali, di portoghesi, spagnuoli, francesi, americani, liguri (tra cui molto attivo il famigerato Denegri ed altri suoi corregionali i cui nomi possono essere degustati nel libro del Fortini) e piemontesi, i trafficanti di carne umana, tra i quali si trovava a suo bell’agio il cosiddetto eroe dei due mondi, che, prudentemente, nella sua autoagiografia tace riferimenti scottanti sui suoi viaggi alle Chinchas e a Canton in servizio del genovese negriero Denegri, un nome che è tutto un programma.
    Alla luce di questi selvaggi precedenti si chiarificano le stragi di Bronte, Biancavilla, Siracusa, Pontelandolfo, Casalduni, Montefalcione, Auletta, Scurcola Marsicana, Pizzoli, Fiammignano, etc, e la frase che S.M. il Re delle Due Sicilie, l’eroico Francesco II, scrisse nel suo proclama agli Abruzzesi il 28 dicembre 1860: «Abruzzesi. Allorquando lo straniero minacciava di distruggere i fondamenti della nostra Patria; allorquando egli non risparmiava nulla per annientare la prosperità del nostro bel regno, e fa di noi suoi schiavi …» (vedi Nazione Napoletana n. 4/1999).
    Riusciremo a spezzare le catene di questa schiavitú? Oppure il nostro Popolo vi si è talmente assuefatto da non saperle riconoscere piú?
    Qualche dato sul losco traffico dei coolies, sempre secondo Pino Fortini che attinse a fonti americane: su mille schiavi catturati, circa 500 perivano alla cattura per maltrattamenti, torture e sevizie varie; 125 circa nel tragitto; 75 nel periodo di acclimatamento nelle nuove terre.
    Sin dal 1841 le grandi potenze, Inghilterra, Francia, Austria, Russia, Prussia, stipularono un trattato che, a chiacchiere, parificava la tratta degli schiavi neri alla pirateria. Da quell’epoca cominciò a scemare la tratta dei negri dal continente africano, ma iniziò quella dei gialli, con metodi non meno brutali e bestiali. Ma solo nel 1854 il Perú aboliva sulla carta, come abbiamo visto, ma con scarsissimi risultati, quel flagello in danno dei Neri, ma non del popolo cinese, in notevole anticipo sugli Stati Uniti (unionisti) d’America, che a loro volta l’abolirono con legge 1° gennaio 1863, estesa, alla fine della guerra di secessione, agli Stati della ex confederazione sudista. Tuttavia ciò che diede il colpo di grazia alla tratta degli schiavi fu l’inizio dell’esportazione dei nitrati del gran deserto salato di Tarapaca: solo allora (1884) suonò a morto la campana per il guano e di conseguenza per le guaneras. Intanto, i negrieri sguazzavano già nell’oro insanguinato … e qualcuno si era comprato mezza Caprera.

    Ancora la difesa di Cowie

    Al punto 4. della difesa, il Cowie riferisce la tesi del Fortini. Pino Fortini in una altro «suo fondamentale studio» (anno 1950) intitolato «Garibaldi marinaio (pagine di storia marinara)» affermava «che il Vecchj è l‘unico biografo, ma mai da nessuno smentito» che coinvolgeva il Garibaldi nel losco traffico un po’ negriero. Il Cowie riferisce che esiste un libro pubblicato a Londra nel 1881, autore un certo J. T. Bent, dal titolo «Life of Giuseppe Garibaldi» in cui l’eroe avrebbe detto all’armatore che gli imponeva di completare il carico con schiavi cinesi: «Never will I become a traffiker in human flesh», cioè «non diventerò mai trafficante di carne umana». Già, ma come era venuta in mente al Bent l’idea provocatoria e irriverente di domandargli se era mai stato trafficante di schiavi? Come è possibile che il gianicolato eroe si metta al servizio di un negriero come Denegri senza diventare negriero, connivente, a sua volta? E come mai alle Chinchas non impugnò la durlindana, se ne stette inerte e non fece nulla per liberare gli schiavi?

    Ambigua conclusione

    Punto 5: alla fine dell’arringa, la conclusione a cui perviene il Cowie è possibilista: «Ovviamente non si può né si deve escludere alcunché circa la testimonianza del Vecchi», ma si contraddice immediatamente in modo lapidario: «La frase del Vecchi non è altro che il frutto di un malinteso linguistico», malinteso che abbiamo visto essere inconsistente. Due posizioni chiaramente antagoniste.

    Il negriero dei due mondi

    Che il romantico eroe sia stato per un certo tempo un po’ negriero era convinzione del Candeloro, che è uno storico che ha sempre soppesato le parole. Ne parlano i preti di Hong Kong, che videro e riferirono e che chissà perché vengono definiti retrogradi. È probabile che, se avessero bruciato incenso in favore dell’eroe e cosparso il suo cammino di fiori, sarebbero stati definiti progressisti. Il Vecchj, amico di famiglia, parla esplicitamente di chinesi senza ombra di scandalo. E ciò è comprensibile. Per la mentalità schiavistica del secolo scorso, lo schiavismo delle etnie diverse dalla bianca non costituiva elemento di scandalo. Il caso Voltaire, il gran repubblicano, il predicatore della libertà e dell’eguaglianza e … della fraternité, insegna. Il console peruviano ha categoricamente precisato che con la parola los chinos i peruviani indicano e indicavano solamente i cinesi e perciò l’escamotage filologico del Cowie fa acqua da tutte le parti. Inoltre il silenzio sul carico per le Chinchas e da Canton è molto eloquente.
    Dunque, considerato, visto, ritenuto, etc., etc., secondo la formula stereotipata dei legulei, per questi motivi

    P.Q.M.

    sentenziamo che l’epiteto negriero usato dal Candeloro non possa essere scrollato di dosso al massonico eroe, una macchia nera come il carbone che gli lorderà la fedina penale fino alla fine dei secoli, a meno che non subentrino elementi probanti inoppugnabili, di cui però dubitiamo.
    Deliberiamo altresí che questa sentenza sia pubblicata su Nazione Napoletana – Due Sicilie perché abbia la massima diffusione tra il popolo duosiciliano.
    Nei riguardi della gente delle Due Sicilie il discorso merita una considerazione in piú.
    A prescindere dai crimini immediati consumati nel 1860, costui è moralmente responsabile, insieme a tutti i banditi del governo piemontese, da lui stesso definito «Governo di ladri» (biografia, pag. 189), della diaspora inarrestabile del Popolo Duosiciliano che, per sopravvivere, ha dovuto abbandonare la sua Patria, le sue radici, andare a produrre ricchezza e a potenziare l’apparato produttivo di altri paesi, lasciando in desolazione il proprio.
    Considerato inoltre che, se fosse caduto nelle mani del Regio Governo delle Due Sicilie, sarebbe stato fucilato entro le 24 ore per atti di pirateria, ci è lecito trasformare l’epiteto zuccheroso di «eroe dei due mondi» di quel bandito, coniato dai suoi compari di ideologia, in «Pirata dei due mondi» o meglio «Negriero dei Due Mondi».
    Così è detto, così sia (ed è) fatto.

    RIN



    il por*o massone in divisa da 33° grado.
    per risorgere bisogna insorgere

 

 
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