Una nota per il lettore
La scorsa primavera, quando sembrava che in Iraq stesse andando tutto storto, un'epidemia di amnesia ha cominciato a diffondersi per tutto il paese. Intrappolati nelle notizie e nei dettagli con cui venivamo bombardati ventiquattro ore al giorno, sembrava che avessimo perso di vista il contesto sulla base del quale questi dettagli potevano essere valutati e connessi l'uno all'altro. Piccole cose sono diventate enormi, cose importanti sono divenute invisibili e l'isteria si è fatta galoppante. Da allora, naturalmente, e specialmente dopo il trasferimento d'autorità a un governo provvisorio iracheno avvenuto il 30 giugno, la situazione si è fatta più complessa. Ma l'inarrestabile pressione degli eventi, e il continuo attacco sia dei dettagli sia della loro spesso tendenziosa interpretazione, non si è affatto allentata. E' per questo motivo che, nelle pagine che seguono, ho cercato di tenermi fuori dal battage quotidiano e di ricomporre la storia di ciò che questa nazione ha cercato di realizzare fin dall'11 settembre 2001.
Facendo questo, ho usato diversi miei scritti già pubblicati in passato, e in particolare tre articoli apparsi su questa rivista poco più di due anni fa. In alcuni casi, ho inserito alcuni passaggi di questi articoli in un nuovo contesto, altri passaggi sono stati rivisti e aggiornati.
Per raccontare in modo appropriato questa storia non bastava un semplice resoconto dei fatti avvenuti dall'11 settembre ad oggi. Da un lato, ho dovuto interrompere più volte la narrazione degli eventi per discutere ed eliminare parecchi fraintendimenti, distorsioni e vere e proprie mistificazioni.
Inoltre, ho dovuto ampliare la prospettiva per sottolineare che la grande battaglia in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti dopo l'11 settembre può essere compresa soltanto se la concepiamo come la quarta guerra mondiale.
La mia speranza è che raccontare la storia da questa prospettiva e in questo modo servirà a dimostrare che la strada sulla quale ci siamo incamminati dopo l'11 settembre è la sola sicura da seguire. Mentre procediamo su di essa, sorgono inevitabilmente questioni sulla necessità o la giustezza di una determinata scelta; e tali questioni faranno a loro volta sorgere preoccupazioni e persino richieste di un ritiro dal campo di battaglia. Cose analoghe sono avvenute durante la seconda guerra mondiale e ancor più durante la terza guerra mondiale (ossia la guerra fredda); e ora avvengono di nuovo, in particolare in riferimento all'Iraq.
Ma, come cercherò di dimostrare, siamo soltanto nella fasi iniziali di quella che promette di essere una guerra molto lunga, e l'Iraq è soltanto il secondo fronte che si è aperto in questa guerra: la seconda scena, per così dire, del primo atto di una commedia in cinque atti. Nella seconda guerra mondiale, e poi anche nella terza, siamo andati avanti nonostante insofferenze, scoraggiamento e opposizioni per tutto il tempo necessario fino al giorno della vittoria, e questo è esattamente ciò che siamo chiamati a fare oggi nella quarta guerra mondiale. Perché oggi, proprio come durante quei titanici conflitti, dobbiamo combattere contro una forza assolutamente malvagia: l'islamismo radicale e gli Stati che appoggiano, proteggono e finanziano il terrorismo. Questo nuovo nemico ci ha già attaccato sul nostro stesso territorio (cosa che né i nazisti né tanto meno la Russia sovietica erano mai riusciti a fare), e minaccia di colpirci di nuovo, ma questa volta con armi infinitamente più potenti di quelle usate l'11 settembre. Il suo obiettivo non è semplicemente quello di uccidere il maggior numero possibile di americani e di conquistare la nostra terra. Come già i nazisti e i comunisti prima di lui, vuole la distruzione di tutto ciò per cui l'America ritiene giusto combattere. E' proprio questo, quindi, che (per parafrasare George W. Bush e numerosi suoi predecessori, sia repubblicani che democratici) noi, non meno della "grande generazione" degli anni quaranta e della sua erede spirituale degli anni cinquanta, abbiamo il dovere e l'onore di difendere.
Un fulmine a ciel sereno
L'attentato è avvenuto, metaforicamente ma anche letteralmente, come un fulmine a ciel sereno. Letteralmente, nel senso che gli aeroplani dirottati schiantatisi contro il World Trade Center la mattina dell'11 settembre stavano volando in un cielo di un blu così limpido da sembrare irreale.
Quel giorno mi trovavo, come membro della giuria, in un'aula di giustizia a circa settecento metri da quello che è stato poi chiamato Ground Zero. Poche ore dopo lo schianto dei due aeroplani, uscimmo tutti in strada, proprio mentre la seconda torre stava crollando. Questo tremendo spettacolo, come se non fosse già quasi impossibile da credere di per sé, fu reso ancora più incredibile dal colore terso e meraviglioso del cielo.
Mi sembrava di essere stato catapultato in uno di quei vecchi film del genere catastrofico girati in technicolor. Ma l'attacco è stato un fulmine a ciel sereno anche in senso metaforico.
Circa un anno dopo, nel novembre 2002, sarebbe stata nominata una commissione per svolgere un'inchiesta sui motivi per cui un simile attentato ci abbia potuti cogliere di sorpresa e per verificare se fosse stato possibile evitarlo.
Poiché sono cominciate soltanto dopo l'inizio della accesissima campagna elettorale americana, le udienze della commissione sono ben presto degenerate in un tentativo da parte dei democratici di dimostrare che l'amministrazione Bush aveva ricevuto sufficienti avvertimenti ma che li aveva semplicemente ignorati.
Questo tentativo ha ricevuto un'ulteriore spinta dalla testimonianza di Richard A. Clarke, che era stato il direttore delle operazioni antiterrorismo all'interno del Consiglio di sicurezza nazionale durante la presidenza di Clinton e poi anche di Bush, fino alle sue dimissioni all'indomani dell'11 settembre. Ciò che in pratica ha fatto Clarke (sia alle udienze sia nel suo libro "Against all Enemies") è stato dare la colpa a Bush, il quale, al momento degli attentati, era salito alla Casa Bianca soltanto da otto mesi, ed escludere da ogni accusa Clinton, che aveva passato otto lunghi anni senza fare nulla di significativo per rispondere alla serie di attacchi terroristici contro obiettivi americani in varie parti del mondo.
Il punto che voglio sottolineare non è che Clarke abbia esagerato o addirittura mentito. Il fatto è che l'attentato dell'11 settembre è stato effettivamente improvviso nel senso che nessuno aveva mai preso veramente sul serio una simile possibilità. Persino Clarke ha dovuto ammettere che se anche tutte le sue raccomandazioni fossero state rispettate l'attentato non sarebbe stato in ogni caso prevedibile.
E nel suo rapporto finale, reso noto il 22 luglio di quest'anno, la commissione, pur evidenziando non meno di dieci episodi che si possono considerare come mancate "opportunità operative", ha concluso che queste opportunità non sarebbero comunque servite a impedire l'attacco. O almeno non nell'America di quei giorni: un'America in cui erano state messe le catene alla Cia e all'Fbi; in cui era stato eretto un "muro di separazione" per impedire la comunicazione e la collaborazione tra le forze di polizia e gli agenti della sicurezza nazionale; in cui, infine, i politici e tutta l'opinione pubblica erano ancora incapaci e non disposti a credere che il terrorismo potesse rappresentare un'autentica minaccia.
Contraddicendo in parte sé stessa, la commissione ha detto che "gli attentati dell'11 settembre sonto stati uno shock, ma non avrebbero dovuto essere considerati come una sorpresa".
Forse è proprio così; ma non c'è una sola persona, all'interno del governo o al di fuori, che non li abbia considerati una sorpresa. La commissione ha parlato anche di un "fallimento della capacità d'immaginazione". Ancora una volta, può essere che sia così; ma la parola "fallimento" può essere inappropriata in quanto implica che un successo fosse possibile. Un fallimento così completo deve essere considerato inevitabile.
Per il New York Times, tuttavia, il fallimento non era affatto inevitabile. In un editoriale di prima pagina camuffato da "resoconto", questo giornale ha scritto che il rapporto finale della commissione indicava che "un attacco descritto come inimmaginabile era stato in realtà immaginato, varie volte".
Ma nessuna delle testimonianze citate dal Times per la sua categorica affermazione prediceva in realtà che al Qaida avrebbe dirottato aerei di linea per farli schiantare sugli edifici di New York e Washington. Per di più, tutte queste testimonianze appartenevano agli anni Novanta.
Ciononostante, il "resoconto" del Times cercava di convincere i suoi lettori che, nell'autunno del 2000, l'Amministrazione Bush (in quel momento non ancora in carica) aveva ricevuto sicuri avvertimenti di un attacco imminente. Per rafforzare quest'impressione, il Times ha citato un briefing fatto a Bush un mese prima dell'11 settembre. Ma il documento in questione era piuttosto vago e, in ogni caso, era soltanto uno dei tanti briefing fatti dall'intelligence, senza alcuna speciale pretesa di credibilità rispetto ad altre informazioni che lo contraddicevano.
Così l'Amministrazione Bush, che era appena stata severamente criticata nelle udienze tenute dal Senate intelligence committee per avere invaso l'Iraq sulla base di sbagliate informazioni di intelligence, veniva ora ulteriormente criticata per non avere agito sulla base di informazioni ancora più vaghe al fine di prevenire gli attentati dell'11 settembre.
Questa contraddizione ha suscitato un sarcastico commento di Charles Hill, ex funzionario di governo che era stato un abituale "consumatore" di informazioni d'intelligence: "La raccolta e l'analisi dell'intelligence è un'attività molto imprecisa. Il rifiuto di ammettere questo fatto ha prodotto la davvero ridicola contraddizione del Senate intelligence committee che critica l'Amministrazione Bush per avere agito sulla base di informazioni scadenti, nello stesso momento in cui la commissione di indagine sull'11 settembre la critica per non avere agito sulla base di informazioni dello stesso tipo".
Comunque, il punto che mi preme sottolineare è che nelle recriminazioni su tale questione c'era qualcosa di immorale, per non dire di sacrilego, che ha insudiciato le udienze pubbliche della commissione e alcuni dei rapporti preliminari dello staff. E' stata perciò allo stesso tempo uno shock e una sorpresa che questo stesso spirito sacrilego sia stato quasi interamente esorcizzato dal rapporto finale. Alla fine la commissione ha concluso che nessun presidente americano poteva essere ritenuto responsabile per l'aggressione subita dagli Stati Uniti l'11 settembre 2001.
Punto e a capo. Infatti, la semplice verità è che la responsabilità tocca esclusivamente ad al Qaida, insieme ai regimi che le hanno dato appoggi e protezione. Inoltre, se è vero che la passività e l'inazione dell'America ha aperto le porte all'11 settembre, è anche vero che né i democratici né i repubblicani (né tantomeno i liberal o i conservatori) possono trarne qualche vantaggio ideologico. La ragione, molto semplicemente, è che le amministrazioni di entrambi i partiti hanno sempre usato praticamente gli stessi metodi per affrontare il terrorismo, a cominciare da Richard Nixon nel 1970, passando attraverso Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Reagan (sì, pure lui), George H. W. Bush, Bill Clinton, fino a George Bush.
(continua)