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    Predefinito CULTURA - Bush, The Lonesome Cowboy



    La Storia sarà più clemente con George W. Bush

    di David Frum


    Potrà anche essere uno dei presidenti più impopolari dei nostri tempi, un irresponsabile cowboy unilateralista; ma la storia sarà più clemente con George W. Bush che con gli altri personaggi ombra che popolano le cronache contemporanee. Dopo otto anni, Bush si lascia alle spalle molto più che un dittatore iracheno sconfitto: legami più stretti con l’India, pressioni sull’Iran, relazioni più pragmatiche con la Cina. Tutto questo darà i suoi frutti negli anni a venire. Ecco alcuni luoghi comuni che hanno accompagnato la presidenza Bush e che vanno puntualmente sfatati.

    “L’Iraq è l’unico lascito della politica estera di Bush”. Non proprio. Sebbene sia innegabile che la guerra in Iraq abbia caratterizzato la presidenza di George W. Bush in maniera decisa, la storia presumibilmente non ricorderà questo conflitto in maniera così negativa come viene spesso affermato in modo superficiale.
    Questa guerra già claudicante avrà esiti probabilmente incerti. Le sacche di insorgenza si ridurranno senza scomparire del tutto. Il governo locale sarà in grado di operare ma resterà diviso; la presenza militare statunitense verrà ridimensionata ma non si ridurrà completamente; e gli Stati confinanti amici dell’Iraq ne usciranno ammaccati, sebbene le loro politiche internazionali rimarranno invariate. Ciò nonostante, l’aver rovesciato Saddam Hussein e posto in sua vece un regime non aggressivo ed eletto democraticamente, seppur debole, ha fatto sì che gli Stati Uniti abbiano portato un miglioramento reale nella regione. Nonostante tale miglioramento sia stato conseguito pagando un prezzo alto, sia in termini economici che di vite umane, ha di fatto mostrato la falsità delle previsioni fosche e terribili presentate da chi si opponeva alla guerra. Mentre il conflitto in Iraq sta per essere archiviato, verrà sempre più percepito come la frustrante guerra di Corea o come l’insurrezione delle Filippine, piuttosto che come il disastro del Vietnam. Sarà certamente una parte importante dell’eredità di Bush, ma difficilmente l'unica.
    Con il passare del tempo, saranno ben altre le decisioni di Bush che si riveleranno fondamentali. Tra queste, la più importante sarà la creazione dell’alleanza militare tra India e Stati Uniti. Durante l’amministrazione Bush, i due paesi hanno intrapreso manovre navali comuni, insieme ad Australia, Giappone e Singapore. Nel 2007 Stati Uniti e India hanno firmato un trattato per la condivisione di materiale nucleare; gli Usa si sono inoltre offerti di vendere all’India aerei caccia, navi da guerra e ulteriori equipaggiamenti il cui valore complessivo potrebbe raggiungere i 100 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Otto von Bismarck un tempo pronosticò che a caratterizzare la geopolitica del XX secolo sarebbe stato il linguaggio comune di Gran Bretagna e Stati Uniti. In questo secolo, l’elemento geopolitico più importante potrebbe rivelarsi l’emergere di principi condivisi tra Stati Uniti e India.
    L’eredità di Bush per la politica estera annovera inoltre la firma di un nuovo accordo bilaterale per il commercio, la prima convention mondiale sul crimine cibernetico, la saggia decisione di lasciare a Hugo Chávez abbastanza corda affinché si impicchi da solo, e il successo costante delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Contrariamente a ciò, se all’Iran verrà permesso di seguire la Corea del Nord nel circolo degli appassionati di armi atomiche, sarà la mancanza di volontà ad agire contro i restanti due terzi dell’"asse del male" – e non l’intervento in Iraq – a venire ricordata come la decisione più rilevante della presidenza Bush.

    “La guerra in Iraq ha reso l’America meno sicura”. Questo è ancora da verificare. Nei due anni che hanno preceduto l’elezione di Bush, gli Stati Uniti e i loro alleati sono stati colpiti da un numero crescente di ambiziosi attentati terroristici, violenti e letali: il dirottamento del volo TWA 847 nel 1985; la bomba in una discoteca di Berlino nel 1986, quella a Buenos Aires nel 1992 e poi ancora nel 1994, al World Trade Center nel 1993 e nella metropolitana di Parigi nel 1995; il piano per colpire i monumenti di New York e i jet di linea della Pacific Ocean nel 1995; le bombe alle Khobar Towers nel 1996 e all’ambasciata africana nel 1998; la USS Cole nel 2000 e infine l’11 settembre.
    Ora, confrontando questi dati con il periodo iniziato con l’invasione dell’Iraq, si nota come dal 2003 gli Stati che finanziavano il terrorismo hanno cominciato a comportarsi con maggiore cautela. La Libia, ad esempio, ha abbandonato completamente il campo; il terrorismo al di fuori del Medio Oriente è diminuito in maniera continuativa, con un drastico calo di efficienza e tecnologie; l’attentato del 2004 a Madrid era molto meno organizzato rispetto a quanto accadde l’11 settembre, e quello alla metropolitana di Londra nel 2005 lo era ancora meno rispetto a Madrid. E i progetti falliti in Germania, Canada e all’aeroporto di Heathrow nell’estate 2006 erano tutti ancor meno rifiniti di quelli messi in atto a Londra.
    Il territorio statunitense è stato quasi completamente immune dagli attacchi del terrorismo internazionale, e i piani sventati si sono sinora dimostrati tranquillamente amatoriali nella loro ideazione e nei loro tentativi di esecuzione. Persino nel cuore dell’Islam il terrorismo sta scomparendo. L’attentato di Abu Musab al-Zarqawi in un hotel della Giordania nel 2005, in occasione di un matrimonio, ha alienato Al Qaeda agli arabi mediorientali. I comandanti di quest’organizzazione in Iraq hanno riconosciuto pubblicamente che le loro tattiche sanguinarie hanno avuto ripercussioni negative sugli abitanti locali, e hanno lasciato il movimento a se stesso in circostanze economiche difficili. Sarebbe assurdo attribuire questi progressi unicamente al Presidente Bush, ma sarebbe altrettanto irragionevole negare che le cose stanno migliorando.

    “Bush ha rovinato i rapporti con gli alleati dell’America”. Errore. Certo, l’alleanza con gli altri paesi occidentali sta attraversando una fase difficile; ma questo accadeva anche prima della presidenza Bush. Le tensioni interne alla NATO, ad esempio, si potevano già percepire durante la crisi dei Balcani verso il finire degli anni Novanta. È anche opportuno ricordare che il Presidente Bush fu accolto con manifestazioni di protesta in occasione del suo primo viaggio in Europa, nell’estate del 2001, e dunque prima dell’11 settembre – e prima della guerra in Iraq. All’epoca, tra le questioni che indisponevano i suoi alleati ci fu la decisione di Bush di non sospendere l’esecuzione di Timothy McVeigh, il terrorista che aveva ucciso 168 americani facendo esplodere una bomba fuori dall’ufficio federale di Oklahoma City nel 1995. Sarebbe più esatto affermare che l’unilateralismo statunitense è un sintomo dei problemi dell’Alleanza, piuttosto che una loro causa.
    Molti hanno affermato che l’amministrazione Bush ha in qualche modo gettato al vento la disponibilità dimostrata dall’Europa verso gli Stati Uniti, decidendo di affrontare da sola la guerra in Iraq. In realtà questo non è vero: secondo i sondaggi condotti subito dopo l’11 settembre, e dunque ben prima del conflitto iracheno, solo un sesto degli europei approvava l’uso della forza contro gli Stati finanziatori del terrorismo. Se questo non ha evitato che la NATO legittimasse la missione in Afghanistan – la prima approvata in base all’articolo 5 del suo Trattato –, ha tuttavia reso difficile per molti paesi membri impegnarsi seriamente con le proprie truppe nel suo svolgimento. Il motivo per cui la NATO si è trovata a dover richiedere in seguito truppe aggiuntive è precisamente che fin troppi soldati europei, già di stanza in Afghanistan, erano stati attentamente posizionati lontani da ogni pericolo. Persino quegli alleati che fin da subito inviarono le proprie truppe ancora oggi insistono spesso su clausole che precludono ai propri uomini d’intervenire in quasi tutte le missioni più importanti.
    Nel corso del mandato di Bush, si sono sicuramente verificati episodi che denotano mancanza di tatto. L’amministrazione troppo spesso ha perso di vista l’importanza della condotta diplomatica; tuttavia, ogni presidente americano, Bush incluso, preferisce collaborare con gli alleati – se non altro per la copertura politica che sono in grado di garantire. È per questo motivo che Bush ha partecipato al “Tavolo dei sei” per discutere delle ambizioni nucleari della Corea del Nord, e al “Quartetto” che si è occupato della questione israelo-palestinese. Per la stessa ragione, ha sfoderato il sorriso quando ha assicurato che gli alleati arabi hanno fatto tutto ciò che l’America ha chiesto loro di fare per combattere il terrorismo. In un certo senso, si potrebbe quasi sostenere che Bush è stato fin troppo influenzato dai suoi alleati, o quantomeno da alcuni di loro. Dal 2006 ha appaltato le politiche per l’Iran alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Germania. Oggi, le politiche statunitensi in Iran sono dettate in gran parte dalle ansietà e dalle necessità politiche dei suoi alleati mediorientali a maggioranza sunnita. La politica di Bush in Corea del Nord consiste nel ritirarsi da confine a confine, in segno di riguardo per la Corea del Sud.

    “Bush ha voluto la democrazia ad ogni costo”. Falso. Sarebbe più corretto dire che la retorica del presidente riguardo a questo tema è qualche volta salita alle stelle. Tuttavia, alle parole non sono sempre seguite le azioni: in Egitto, Pakistan e Arabia Saudita, l’amministrazione Bush ha ricalcato la propria abituale strategia politica che conferisce un’importanza relativamente ridotta alla promozione della democrazia; lo stesso si può dire dell’Iraq. Qui infatti la guerra è stata combattuta per la tradizionale motivazione richiesta dalla dottrina dell’equilibrio tra i poteri: quella di rovesciare un regime ostile e pericoloso, reputato impegnato a dotarsi di armi di distruzione di massa.
    Per questo motivo, il dibattito sulla democratizzazione in Medio Oriente resta fondamentalmente un dibattito che riguarda le radici dell’estremismo. Coloro che sono contrari alla democratizzazione percepiscono l’estremismo mediorientale come una risposta alle difficoltà sorte dall’incontro tra l’Occidente e il Medio Oriente. Essi sostengono che il modo migliore di gestire tali problematiche è di ricondurle a un qualche metodo di conciliazione – il che in pratica solitamente significa che si persegue la creazione di uno Stato palestinese. D’altro canto, coloro che sono favorevoli alla democratizzazione hanno evidenziato come l’estremismo nasce da disfunzioni interne alla realtà mediorientale: tribalismo, autoritarismo e corruzione. Essi argomentano che il modo migliore di affrontare questi problemi siano le riforme interne al Paese.
    Queste persone tendono ad essere scettiche verso l’idea di uno Stato palestinese, poiché a loro parere l’estremismo viene spesso deliberatamente fomentato dai governi mediorientali per i loro fini privati, e la creazione di uno stato palestinese che non sia di per sé intrinsecamente moderato, probabilmente finirebbe per istigare, piuttosto che placare, la violenza e l’instabilità in quella regione. In questo dibattito, l’amministrazione Bush ha nel tempo modificato, seppur in maniera sottile, la propria posizione: pur avendo sostenuto inizialmente nel 2002 che una Palestina libera sarebbe sorto soltanto in seguito all’adozione di riforme da parte dei palestinesi, ora ha cambiato idea e ribadisce l’esistenza di uno Stato palestinese come precondizione per le riforme stesse.
    La democrazia ha certamente costituito una priorità importante per Bush, così come per la maggior parte dei suoi predecessori. Tuttavia, come nel caso di questi ultimi, il presidente è stato spesso costretto ad anteporre altre necessità a questo obiettivo. Nella sua politica verso la Libia, il presidente ha preferito il disarmo alla democratizzazione; in Cina, ha proseguito sulla strada già tracciata in passato e ha privilegiato la stabilità e il commercio rispetto alle riforme; una Russia sempre più autoritaria rimane benvenuta nel gruppo un tempo conosciuto come il G7, nonostante la sua economia sia oggi meno robusta di quella della Cina e dell’India – che però ancora non sono state invitate a parteciparvi. Bush inoltre non ha esitato a porre forti obiezioni affinché Taiwan non ribadisca il proprio diritto all’autogoverno: questa difficilmente può essere chiamata "promozione della democrazia ad ogni costo".

    “Mentre Bush era distratto, la Cina cresceva”. Non esattamente. Se l’economia statunitense continuerà a crescere con la media di 3 punti percentuali l’anno, persino una Cina in piena espansione economica non potrà superare il PIL americano per circa 50 anni. Se il tasso di crescita cinese rallenterà, il momento del "sorpasso" slitterà ancora più avanti e un rallentamento simile sembra inevitabile. In ambito finanziario, la Cina è instabile e ha quasi raggiunto il punto di collasso: l’inflazione è in crescita, il paese sta rapidamente scontrandosi con i limiti del proprio settore manifatturiero a basso costo, energia e acqua scarseggiano sempre più, il degrado ambientale sta diventando un serio problema politico, le tensioni tra il governo centrale e le amministrazioni regionali sono sempre più forti, e molto presto la popolazione cinese, che sta invecchiando sempre più rapidamente, lascerà il lavoro e inizierà ad attingere ai propri risparmi. Anche se la Cina in qualche modo dovesse sottrarsi alle leggi della gravità economica, esattamente cosa dovrebbe fare un presidente degli Stati Uniti a riguardo? Dovrebbe forse tentare di rallentare lo sviluppo della Cina? Ma come, e a quale scopo?
    A differenza della sua crescita economica, le politiche strategiche cinesi rappresentano una preoccupazione legittima per l’America. In quest’ambito, l’amministrazione Bush si è mossa con decisione ma allo stesso tempo con prudenza, proseguendo sulla tradizionale via statunitense dello sperare per il meglio e prepararsi al peggio. Sono stati promossi legami tattici più stretti con Australia, India, Giappone, Singapore e altre potenze locali tra le quali il Vietnam e le navi da guerra americane fanno ora nuovamente sosta nella baia di Cam Ranh. Se la Cina decidesse di far seguire alle parole i fatti, si troverebbe circondata, in parte proprio grazie alle relazioni strette dagli Stati Uniti – uno scenario ancora più plausibile date le recenti elezioni in Giappone, Corea del Sud e Taiwan che hanno portato al potere capi di stato filoamericani. Nel complesso, Bush lascerà al suo successore una situazione in Asia che appare strategicamente molto più favorevole agli Stati Uniti di quella che aveva ereditato.

    “L’America non è mai stata così odiata”. E chi lo dice? Su quali basi possiamo iniziare ad argomentare che questa affermazione sia corretta? I sondaggi d’opinione più diffusi sono inesatti, per usare un eufemismo; ad esempio, un sondaggio condotto dal “Pew Research Center” suggerisce che un quinto della popolazione spagnola avrebbe cambiato il proprio giudizio riguardo agli Stati Uniti nei dodici mesi che vanno dalla primavera 2005 alla primavera 2006. Ora, qualsiasi esperto di sondaggi sa che le opinioni serbate con convinzione non cambiano così rapidamente: dunque un dato che oscilla in questo modo riflette nel migliore dei casi un’opinione transitoria, se non un mera distorsione statistica. Al di fuori del mondo che conosciamo, in Paesi poveri dove predominano l’analfabetismo e in un ambito rurale, questi sondaggi ci dicono ancora meno.
    Persino nel caso in cui scegliessimo di credere alle valutazioni espresse nei sondaggi, quello che realmente essi ci dicono è che gli Stati Uniti avevano un serio problema di immagine già da parecchio tempo prima che Bush entrasse alla Casa Bianca. Nei mesi di dicembre 2001 e gennaio 2002, la Gallup ha condotto una serie di sondaggi nell’opinione pubblica islamica, riportando che nella maggior parte delle regioni islamiche gli Stati Uniti figuravano in modo sfavorevole – dove il Pakistan, l’Arabia Saudita e l’Iran erano tra i Paesi più ostili. Un numero significativo di persone considerava giustificabili gli attacchi dell’11 settembre, e nemmeno un quinto degli intervistati ammetteva che gli attentati erano stati compiuti da arabi – due terzi negarono esplicitamente. In Arabia Saudita, il governo proibì che questa domanda venisse rivolta alla gente.
    Gli americani amano raccontarsi che il mondo si unì in partecipazione al dolore dei tremila nostri cittadini morti l’11 settembre 2001; in realtà, l’attentato portò un brivido di piacere al suo diffondersi in Medio Oriente. Il Middle East Media Research Institute ha tenuto un archivio dei più orrendi titoli di stampa, e molti tra i peggiori vengono dall’Egitto, un nostro alleato chiave in Medio Oriente. Su un giornale islamico di opposizione, il giornalista Salim ’Azzouz ha scritto "Ci è stato proibito di mostrare la felicità e la gioia che proviamo per non ferire i sentimenti degli americani, ma in questo caso la contentezza è un dovere nazionale e religioso". Questo genere di malignità ha radici profonde, che vanno oltre una singola presidenza.

    “Il prossimo presidente trasformerà radicalmente la linea politica di Bush”. Improbabile. Certo, il prossimo presidente avvertirà il bisogno di frapporre una certa distanza tra sé e gli aspetti più impopolari di Bush; ciò tuttavia non rappresenta certo una novità. George H.W. Bush fece esattamente la stessa cosa quando succedette al popolarissimo Ronald Reagan. Indubbiamente i mutamenti climatici avranno una priorità elevata con una presidenza McCain o una presidenza Obama; e la prigione di Guantánamo Bay verrà quasi certamente chiusa. Gli Stai Uniti assumeranno un ruolo più attivo all’interno delle organizzazioni internazionali, e il futuro presidente tenterà sicuramente di negoziare più alacremente un accordo di pace tra Israele e Palestina.
    Ciò nonostante, gli elementi di continuità tra Bush ed il suo successore saranno notevoli. Qualsiasi progetto di ritiro dall’Iraq procederà più lentamente di quanto si aspetti la maggior parte della gente, le relazioni con India, Giappone e Vietnam continueranno a migliorare, gli Stati Uniti seguiteranno a investire nel loro potere militare per un totale superiore alla somma di tutti gli altri paesi più importanti, le pressioni economiche sull’Iran diverranno più forti, l’America continuerà a premere per il libero commercio, e persino la promozione della democrazia – l’obiettivo di Bush in politica estera più fortemente calunniato – figurerà per ancora molti anni tra i temi più autorevoli nei discorsi inaugurali.
    Gli oppositori di George W. Bush seguiteranno certamente a criticarlo per molto tempo a venire. Potete tuttavia star certi di una cosa: così come la presidenza Bush ha portato i Democratici a nutrire un’inaspettata nostalgia per Ronald Reagan, il prossimo presidente Repubblicano può aspettarsi dai commentatori politici, così come dagli accademici, un giudizio certo: che la sua presidenza non è in grado di raggiungere gli alti livelli del suo predecessore.


    David Frum, ex autore di discorsi e assistente speciale del Presidente George W. Bush, è oggi resident fellow presso l’American Enterprise Institute e autore di Comeback: Conservatism That Can Win Again (Doubleday 2007).

    http://www.loccidentale.it/articolo/...bush+7.0060832

  2. #2
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    Economia, la crisi finanziaria ha radici che vanno cercate indietro negli anni

    di Flavio Felice


    Tanto i critici quanto i sostenitori di George W. Bush tendono a dipingere la sua Presidenza in campo economico come un punto di svolta. Alcuni ritengono che sia stato il migliore presidente della storia statunitense, altri il peggiore, come ha recentemente sostenuto Zbigniew Brzezinski nel suo libro "Second Chance: Three Presidents and the Crisis of American Superpower". L’ex National Security Adviser, ha intitolato il capitolo dedicato a Bush "Catastrophic Leadership. A calamity", definendo la presidenza di Bush "A historical failure". In realtà, sostiene Jonathan Rauch, analista del “National Journal”, la sua politica economica sarebbe stata in continuità con quella dei suoi predecessori e, date le premesse, è presumibile che chiunque andrà alla Casa Bianca non si distaccherà di molto dall’attuale presidente. In definitiva, secondo il nostro analista, sotto il profilo economico Bush Jr. sarà ricordato come un personaggio minore nella storia dei presidenti statunitensi.
    L’analisi del lascito economico di Bush non può non condurci a guardare criticamente quanto sta avvenendo sui mercati finanziari di tutto il mondo e spingerci ad una considerazione che incontra la puntale osservazione di Ettore Gotti Tedeschi pubblicata su “L’osservatore Romano” di martedì 24 settembre: il “mondo occidentale […] non ha saputo definire un modello di sviluppo capace di garantire una ricchezza stabile. La lezione è semplice: lo sviluppo finanziario non è sostenibile, quindi o si ritorna a uno sviluppo reale, fatto di equilibrata crescita demografica, o ci si deve preparare a vivere con sobrietà”. In questo contesto, anche il più insolente ed ottuso dei sostenitori dell’attuale presidente USA dovrà ammettere che l’eredità economica di Bush è pesante ed amara. Le stime dicono che, sommando il costo del “Piano Paulson”, circa 700 milioni di dollari, i 50 milioni per sostenere il mercato monetario e gli 85 milioni di prestito all’AIG, si sfiora la cifra di 1.000 miliardi di dollari.
    Alessandro Merli, su “Il Sole 24 Ore” di domenica 21 settembre, ha fatto notare che, ad ogni modo, una simile fantasmagorica cifra rappresenta appena il 7% del PIL statunitense e che il salvataggio delle “Seavings & Loans” negli anni ottanta attraverso la Resolution Trust Corporation costò il 3,2% del PIL, mentre il salvataggio delle banche svedesi nei primi anni novanta significò il 4% del PIL. In realtà, l’aspetto più significativo di quest’ultima crisi e dei rimedi adottati dall’Amministrazione Bush risiederebbe nel fatto che sembrerebbe farsi strada l’opinione che sia necessario un ripensamento delle regole che disciplinano l’industria finanziaria. Merli sostiene che sarebbe ormai finita un’epoca durata circa vent’anni, l’epoca nella quale il denaro a buon mercato e l’innovazione finanziaria hanno contribuito a ridurre in modo drastico la percezione del rischio. La fine di un’epoca nella quale la “distrazione” dei regolatori e “l’ingordigia” e/o “l’ignoranza” dei manager hanno consentito lo sviluppo di prodotti ad alta tossicità. La fine di un’epoca nella quale l’offerta di finanza era eccessiva e l’uso della leva finanziaria del tutto fuori controllo. Di fronte ad un simile cambio di scena, l’intervento dell’Amministrazione Bush, tardivo e necessario, appare come il tentativo di aprire una nuova epoca, nella quale assumono rilevanza gli strumenti del “contenimento”, della “ristrutturazione” attraverso l’intervento pubblico e della “riforma della regolamentazione”. In altri termini, argomenta Gotti Tedeschi, “Il sistema bancario dovrà tornare al mestiere originale di intermediazione e di raccolta attraverso depositi (come avvenuto per Morgan Stanley e Goldman Sachs), dovrà assorbire le conseguenze degli eccessi ricapitalizzandosi e dovrà probabilmente anche sottoscrivere i titoli emessi dai Governi per gestire la crisi. Conseguentemente, sarà obbligato a ridurre drasticamente i costi e dovrà essere più selettivo nel credito, con effetti immaginabili sull'economia reale”.
    Nel corso dell’estate era già intervenuto Mario Monti con una bella intervista rilasciata a “Il Sole 24 Ore”, nella quale metteva il dito nella piaga, affermando che “gli Stati Uniti hanno fallito in quella ‘specialità’ che per molti decenni avevano invece insegnato con successo all'Europa e ai Paesi emergenti: la governance dell'economia di mercato. Con la crisi finanziaria che si è generata al loro interno, hanno inflitto un vulnus severo e durevole all'immagine e all'accettabilità, nel mondo, dell'economia di mercato. Ha ragione Alan Greenspan a temere (Financial Times, 5 agosto) che questa crisi indurrà molti Governi a ‘intensificare la presa sulle questioni economiche’ e che questo potrebbe ‘invertire il corso della globalizzazione’.
    Invero, fu proprio Greenspan nel 2005 ad invitare il Congresso americano a considerare quanto fosse urgente agire nel modo più chiaro possibile e, con riferimento alla Fannie Mae e Fraddie Mac, affermò: “Se Fannie e Freddie continuano a crescere, se continuano ad avere il basso capitale che hanno, se continuano a gestire i loro portafogli con dinamiche hedging, potenzialmente creano un rischio sistematico ed esponenziale fuori controllo” e concludeva: “Stiamo posizionando l’intero sistema finanziario futuro in un sostanziale rischio”. A questo punto – siamo nel 2005 –, il Senato americano, su proposta di un ristretto gruppo di tre senatori repubblicani, volendo far proprio l’avvertimento di Greenspan, in sede di Senate Banking Committee approvò una norma che se fosse divenuta legge avrebbe, presumibilmente, aumentato il livello dei controlli e tentato di arginare l’irresponsabilità di alcuni potenti operatori finanziari. La norma prevedeva un potere regolatore che avrebbe potuto operare un significativo giro di vite e avrebbe obbligato le compagnie a rinunciare ad investimenti “tossici”. Quella norma non divenne mai legge per l’opposizione dura del partito democratico e per la decisione dei repubblicani di non procedere a colpi di maggioranza.
    Non è affatto vero che la storia non si fa con i “se”. Per comprendere le ragioni di un fenomeno è necessario procedere per via congetturale, e l’ipotesi di una legge che andasse nella direzione auspicata da Greenspan, così come evidenziata dall’intervista di Monti, avrebbe potuto contribuire ad evitare l’attuale disordine finanziario ed il discredito degli strumenti della concorrenza e dell’economia di mercato. È interessante ricordare che tra i tre senatori che presentarono la riforma mai approvata c’era anche il senatore McCain che oggi compete per la Casa Bianca.
    Abbiamo introdotto il tema così attuale e complesso della crisi finanziaria mondiale per sottolineare un doppio approccio all’analisi in merito all’eredità economica di George W. Bush. Esiste una dimensione internazionale ed una domestica, in entrambi i casi i giudizi sono controversi e meritano di essere attentamente valutati.
    Rispetto alla dimensione domestica della politica economica americana, i critici di Bush argomentano che egli avrebbe ridotto la finanza statunitense a mera spazzatura. Avrebbe operato un taglio delle imposte estremamente selvaggio, avrebbe affrontato una guerra assai dispendiosa senza copertura finanziaria, avrebbe, infine, ampliato il sistema sanitario, lasciando senza controllo la spesa federale, trasformando il surplus in deficit cronico; il tutto, mentre l’economia statunitense e quella mondiale cominciavano a dare segni di cedimento.
    “Abbiamo una forma fiscale di gran lunga peggiore oggi che nel 2001”: sono le dure parole di David Walker, l’economista che fino a non molto tempo fa guidava il Government Accountability Office (GAO) e che attualmente presiede la Peter G. Peterson Foundation. Secondo gli analisti del GAO, l’esposizione fiscale degli USA sarebbe più che duplicata tra il 2000 e il 2007, passando da 20,4 trilioni di dollari a 52,7 trilioni. Inoltre, Walker afferma che il buco di 53 trilioni di dollari sarebbe cresciuto di due-tre trilioni di dollaro ogni anno a causa dell’aumento dei costi sanitari, dei mutamenti demografici (un numero sempre minore di lavoratori mantiene un numero sempre maggiore di pensionati) e del pagamento degli interessi passivi sul debito nazionale.
    Molto probabilmente, sostiene Rauch, la spericolatezza fiscale rappresenta l’argomento più forte contro la Presidenza Bush, benché non manchino possibili contro argomenti.
    Grazie soprattutto ad un’economia in crescita durante il secondo mandato di Bush il deficit è diminuito in ragione dell’andamento economico. Durante l’anno 2007, il deficit era l’1,2% del prodotto interno lordo, ben al di sotto della media degli ultimi quarant’anni. Nel 2008 il deficit è salito a circa il 2,9% del PIL, in linea con le proiezioni dell’Amministrazione, sebbene sia rimasto ancora leggermente al di sotto della media degli ultimi quarant’anni e le cause siano innanzitutto cicliche piuttosto che strutturali, dal momento che lo sviluppo economico ha cominciato a rallentare.
    Ed ancora, per quanto concerne la critica di aver posto fuori controllo la spesa pubblica, un possibile contro argomento sarebbe che le uscite sono rimaste nella media degli ultimi quarant’anni; invero, afferma Rauch, le politiche di spesa federale eccezionali furono quelle di Ronald Reagan e di Bill Clinton, non certo di Bush.
    Riguardo al taglio delle tasse, assumendo una prospettiva storica, esso rappresenta certo un segnale importante, un indicatore rilevante della politica economica di Bush, ma non certo un punto di svolta epocale. Dopo tutto, le tasse sono scese all’inizio di questa decade per poi tornare a crescere di nuovo. Nel 2007, il prelievo federale era il 18,8% del PIL, leggermente al di sopra della media degli ultimi quarant’anni che si attesta al 18,3%. Volendo assumere che le conseguenze della politica fiscale di Bush si estenderanno al 2010, oltre la fine del suo mandato, ed assumendo che il Congresso fissi una “minimum tax”, frenando la lenta tendenza al rialzo, il Congressional Budget Office prevede che il prelievo fiscale ruoterà intorno al 19% del PIL.
    L’opinione di Rauch è che Bush e il Congresso, dunque, non avrebbero distrutto l’erario, bensì lo avrebbero semplicemente ricondotto nel proprio solco tradizionale. Tale solco sembra delineare una sorta di margine storico, così come suggerito dal recente rapporto del Tax Policy Center in merito al programma fiscale di Obama, il quale dovrebbe mantenere le entrate all’incirca al 18,4% del PIL fino al 2018; esattamente in regola con la media storica.
    Con riferimento all’allocazione del peso fiscale, Obama promette di tagliare le tasse alla base e di alzarle al vertice. Innalzerebbe l’aliquota fiscale sul reddito al 39,5%, riportandola esattamente lì dove il presidente Clinton l’aveva lasciata.
    Non v’è alcun dubbio, afferma Rauch, che Bush abbia fallito rispetto al problema di lungo periodo. Lascia un bilancio peggiore di quello che aveva trovato e i suoi tentennamenti sulla riforma della previdenza sociale l’hanno resa politicamente più difficile. È stato Stuart Butler, analista dell’Heritage Foundation (storico think-tank repubblicano) ad affermare: “Credo che abbiamo perso una grande opportunità durante il periodo di Bush e, invero, nell’ultima parte dell’amministrazione Clinton”.
    Dunque, stando al giudizio di Butler, gli errori di Bush non sarebbero stati una sua esclusiva. I suoi predecessori hanno evaso molti problemi e si teme che chi gli succederà non potrà, non vorrà o non saprà fare meglio. Il fallimento fiscale di Bush, in breve, rischia di non essere eccezionale, bensì drammaticamente ordinario.
    Una riflessione (spero percepita) onesta sull’eredità economica della Presidenza Bush ci ha condotto ad esaminare, sebbene in modo succinto, la dimensione internazionale e quella domestica. In entrambi i casi abbiamo evidenziato luci ed ombre; probabilmente più ombre che luci. Un verdetto netto di assoluzione o di colpevolezza appare impossibile, anche perché bisognerebbe sempre distinguere tra “eredità” e “responsabilità”. Sembrerebbe che, almeno a livello politico, la responsabilità della drammatica situazione dell’industria finanziaria sia in gran parte condivisa tra repubblicani e democratici, anche se è indubbio che si tratta di un’eredità dell’Amministrazione Bush. La speranza è che la consapevolezza che sia finita un’epoca conduca le classi dirigenti economiche, politiche e culturali a livello globale a riconsiderare la rilevanza delle regole per la disciplina dei mercati. La libera concorrenza è un bene troppo importante perché affondi sotto i colpi dell’irresponsabilità, dell’ingordigia o dell’ignoranza di banchieri, manager e politici. È necessario comprendere che il libero mercato non esiste al di fuori delle regole della libera concorrenza, così come ci hanno insegnato teoricamente e nella quotidiana azione politica i padri dell’economia sociale di mercato. Autori ai quali dobbiamo l’elaborazione dei principi economici e giuridici che, all’indomani della seconda guerra mondiale, hanno consentito alla vecchia e distrutta Europa di rialzare il capo, garantendo anni di pace e di prosperità.

    http://www.loccidentale.it/articolo/...i+anni.0058624

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    Ambiente, Kyoto era un'utopia ed è stato giusto non firmare

    di Ezio Bussoletti


    Fra poco più di 30 giorni gli americani sceglieranno chi tra McCain o Obama li governerà e con quale visione dei problemi. Gli avvenimenti di questo ultimo periodo, tra i danni del tornado IKE e quelli ancora più rilevanti e pervasivi della crisi dei subprime e della finanza senza controlli, determineranno comportamenti elettorali forse diversi da quello che gli analisti si attendevano in condizioni diverse.
    Molte certezze sono saltate, un modello è crollato ed uno nuovo deve essere creato, possibilmente facendo tesoro degli errori del passato. In ogni caso le elezioni del 2008 saranno quelle che i media hanno da tempo definito “energy elections”, le elezioni dell’energia perché questo elemento determinante giocherà nei prossimi anni un ruolo ancor più importante che nel passato. Quando si discute di problemi ambientali un numero sempre maggiore di americani è meno interessato al problema del riscaldamento globale e sempre più, invece, ai problemi degli approvvigionamenti energetici e del costo dell’energia.
    Ma energia e ambiente sono strettamente legati e non si può discutere della prima senza necessariamente tener conto del secondo; in questo contesto è interessante fare oggi un bilancio delle scelte dell’Amministrazione Bush di questi anni. In primis va riconosciuto l’approccio pragmatico che è stato seguito: piuttosto che vincolarsi a target precisi, spesso irraggiungibili ed irrealistici se non utopici, gli USA hanno privilegiato una politica che fosse efficace in termini ambientali ma economicamente sostenibile. Questa è la stessa linea che sostengono per portare avanti la Bali Roadmap, il cammino da intraprendere per costruire il dopo Kyoto, soprattutto alla luce dei risultati non particolarmente brillanti che il Protocollo ha prodotto sino ad oggi.
    Possiamo dare torto ad una scelta come questa che, sostanzialmente, dice: sono d’accordo nel farmi carico del problema ma questo deve essere affrontato da tutti gli attori, condiviso e, soprattutto, non vedo per quale ragione le mie scelte debbano indebolire la mia struttura industriale depotenziandola e rendendola meno competitiva in un mercato globalizzato?
    Precisamente l’approccio appare logico e pienamente giustificato: semmai è da chiedersi perché discorsi simili non li abbiano fatti gli europei. Proviamo, infatti, a chiederci quale sia la logica della scelta, affrettata e mal ponderata, del famoso traguardo 20-20-20 (20% maggiore efficienza energetica, 20% uso di energie rinnovabili, 20% di riduzioni di emissioni) mentre tutti gli altri competitori vanno in direzioni diverse senza porsi limiti effettivi perché consci dei pericoli di simili scelte. Il risultato è che a Bruxelles si litiga regolarmente ad ogni Consiglio dei Ministri perché ogni paese vuole salvaguardare le proprie quote o si è accorto, tardi, che la propria industria è penalizzata da questa scelta.
    Molto più realisticamente, gli USA considerano che il nuovo Protocollo dovrà essere economicamente sostenibile e promuovere, non inibire, la crescita economica di tutti gli attori garantendo sicurezza energetica e condizioni ambientali migliori. Consci che la domanda energetica crescerà entro il 2050 di oltre il 50%, maggiormente sulla spinta dei Paesi in Via di Sviluppo, l’accento è stato posto sullo sviluppo e l’adozione di tecnologie avanzate con un occhio alla limitazione e riduzione dei costi attraverso sforzi che consentano un miglioramento nel modo di “produrre ed usare” l’energia mettendo in piedi incentivi ed investimenti che favoriscano il processo.
    I programmi, sviluppati sia a livello nazionale che internazionale, sono sia di tipo obbligatorio, che stimolati da incentivi o dal mercato, e persino su base volontaria: prevedendo il coinvolgimento sia pubblico che privato. Gli incontri con le 16 Maggiori Economie Mondiali, che rappresentano circa lo 80% dell’economia del pianeta, è stato il primo passo verso la creazione di una nuova fase di accordi per la riduzione dei gas serra come contributo ad un rilancio della Convenzione sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite.
    Fin dal 2001, l’Amministrazione Bush ha impegnato oltre 45 miliardi $ a sostegno della ricerca nel settore del clima cui vanno aggiunti altri 7,4 miliardi per il 2008. Ancora, gli investimenti in ricerche tecnologiche sull’energia sono cresciute da 1,7 miliardi del 2001 a quasi 4 miliardi per anno. Globalmente poi, il bilancio del settore energia ha sostenuto le tecnologie per l’energia “pulita” con circa 38,5 miliardi $ all’anno. Va anche ricordata l’azione congiunta USA-Europa a favore del trasferimento tecnologico di tecnologie “per il clima” nell’ambito del WTO i cui paesi caricano fino al 70% di tasse su vari prodotti ambientali impedendo, di fatto, l’uso di queste tecnologie da parte di nazioni meno fortunate. Come ha mostrato un recente studio della World Bank, la rimozione di questi vincoli incrementerebbe il livello del commercio tra il 7 ed il 14% all’anno.
    Che giudizio dare al complesso di questi sforzi? Non può essere che positivo; quasi di invidia di fronte ad un sano pragmatismo che, pur tenendo d’occhio gli obiettivi ambientali, non trascura gli interessi nazionali e, quindi, quelli dei cittadini; questo con buona pace di quanti si strapperanno i capelli se, forse, i nuovi limiti che saranno stabiliti nel prossimo Protocollo non saranno raggiunti nei tempi previsti.

    http://www.loccidentale.it/articolo/...+kyoto.0058823

  4. #4
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    War on Terror, gli errori in Iraq sono stati superati: la Storia gli darà ragione

    di Carlo Panella


    George W. Bush verrà ricordato da qui a qualche anno come uno di migliori presidenti americani, esattamente come è successo con Harry Truman, come lui oggetto di disprezzo e lazzi al termine del suo mandato e come lui capace però di indicare ad un’America e ad un mondo in crisi, la necessità di contrastare con energia e forza un nemico drammaticamente sottovalutato dai predecessori democratici. Questa previsione controcorrente è stata formulata giorni fa da Edward Luttwak in un lungo articolo pubblicato dal Corriere della Sera ed è - al di là del gusto per la provocazione tipico di Luttwak - assolutamente condivisibile.
    Truman terminò il suo quadriennio nella più profonda disistima del suo stesso partito, il Democratico, con un indice di popolarità infimo, soprattutto sulla stampa liberal. Due le sue colpe: innanzitutto quella di non essere stato all’altezza del suo predecessore, Franklin Delano Roosevelt, la seconda, aver trascinato l’America in una sanguinosa guerra, quella di Corea, dai costi umani ed economici enormi, che aveva diviso in due il mondo e di averla condotta in modo tale da essere entrato in rotta di collisione con lo stesso generale MacArthur, l’eroe del Pacifico.
    Passati pochi anni, i suoi detrattori hanno dovuto ammettere che Truman aveva avuto ragione in ogni passo delle sue scelte. Soprattutto che, a differenza di F. D. Roosevelt, aveva compreso la natura espansiva e pericolosa del comunismo e che aveva condotto in maniera egregia gli anni iniziali - quindi determinanti- della Guerra Fredda, correggendo i terribili errori della gestione Roosevelt, incapace di comprendere, come si era drammaticamente visto a Yalta, le mire e i progetti di Stalin e del comunismo internazionale. Come Truman, George W. Bush in Iraq e Afghanistan ha saputo indicare al mondo la necessità di contrastare qui e subito, con pari energia morale, l’emergenza e i piani di un’altra e diversa forma di totalitarismo che minaccia il mondo: il terrorismo islamico. Soprattutto, ha saputo sottrarsi al ricatto morale di chi - i democratici delle due sponde dell’Oceano - non comprendendo la natura dell’avversario, metteva e mette in primo piano il tema del “multilateralismo” a scapito della risposta rapida, efficace, intransigente contro il terrorismo islamico. Basta leggere i compitini di Massimo D’Alema e di Piero Fassino sulla situazione internazionale per comprendere quale sia il male oscuro che corrode le menti della sinistra e impedisce - Obama incluso - di elaborare strategia internazionali corrispondenti alle necessità.
    La sinistra mondiale commette oggi due errori: il primo è quello classico di non comprendere che in alcuni paesi islamici il nazionalismo (dei palestinesi, come degli iraniani) si è integrato con una visione apocalittica della Storia e che quindi non è possibile - sul lungo periodo - alcuna mediazione. Obama, come Fassino - si parva licet componere magnis - non capiscono che gli ayatollah puntano diritti al Giudizio Universale e che questi sia imminente, e che pertanto è ben difficile trovare una mediazione politica con loro. Il secondo errore che la sinistra democratica commette oggi, conseguente al primo, è quello di ragionare solo e unicamente in termini di costruzione di una “governance”, di una definizione di strutture decisionali e di gestione delle crisi (tutte lette come crisi tra nazionalismi, mai antagoniste in senso totalitario, quindi) che coinvolgano tutti i paesi con un ruolo di primo piano nel pianeta.
    E’ la logica che porta la gauche mondiale a ritenere prioritario il “patto di Kyoto”, la fondazione del “Tribunale Internazionale per i crimini di guerra”, che ha portato ad accordi totalmente inadeguati del WTO e ad altri disastri del genere. Una logica tutta ideologica, sempre tendente all’utopia del “governo mondiale”, in Italia terribilmente influenzata dai cascami soviettisti e terzinternazionalisti, molto, molto suggestionato da cascami ideologici terzomondisti e dalla necessità di contrastare l’imperialismo. Una logica che predica l’immobilismo, che delega alla diplomazia la risoluzione dei contrasti, che è perfettamente sviluppata dall’Ue, che ha il suo simbolo somatico in Javier Solana e nei suoi infiniti insuccessi, che fa del “dialogo” un valore assoluto, invece che uno strumento. Una logica, infine, che produce guerre, perché non affronta i problemi alla radice, perché pretende che non esistano forze totalitarie che puntano alla sopraffazione e al totalitarismo e costringe a prenderne atto solo un attimo prima che sia troppo tardi.
    E’ una logica con una lunga tradizione storica, che inizia con i 14 punti del presidente Wodroow Wilson, che ha segnato tutta l’esperienza della Società della Nazioni, che ha portato diritto diritto, grazie al suo esponente più nobile, Neville Chamberlain, alla logica di Monaco e alla seconda guerra mondiale. Bush, dunque, è stato l’opposto di Chamberlain, perché ha saputo vedere in Bin Laden e in Ahmadinejad quel “pizzico” di diabolico che fa la differenza, che distingue Hitler da Ataturk. Nella piena tradizione di Ronald Reagan - altro presidente deriso dai Democratici, oggi considerato un sommo - Bush ha indicato nell’Asse del Male il problema ed ha agito di conseguenza.
    Poi ha fatto altro, e anche di questo gli verrà dato merito solo tra alcuni anni. Ha commesso un mare e mezzo di errori in Iraq, ma poi li ha saputi superare. Dopo in 2003, Bush ha infatti esaurito in Mesopotamia - ma anche in Afghanistan - tutti gli errori possibili e immaginabili che un approccio superficiale all’Islam poteva produrre. Fino al 2006 l’esperienza irachena ha pagato il vizio antico della cultura politica americana, e ancor peggio di quella europea, che si rifiutano di comprendere e analizzare lo specifico dei paesi musulmani e pretendono che essi funzionino secondo le regole successive al patto di Westfalia in Occidente.
    Toccato il fondo, Bush ha però compiuto la più grande rivoluzione concettuale nella politica estera americana dopo i 14 punti di Wilson: ha accettato la nuova strategia del generale David Petraeus che ha rivoluzionato il principale caposaldo di tutti gli interventi militari Usa all’estero. Delegare il consenso politico delle popolazioni locali alle èlite nazionali: questo è stato per più di un secolo il dogma di tutti gli interventi militari statunitensi, da Cuba in poi. Paradigma che ha funzionato in Europa e in Giappone, ma che già era fallito con Batista e aveva da solo portato al fallimento epocale del Vietnam (in cui l’esercito Usa uscì vincitore sul terreno, ma perdente a causa del fallimento dei disastrosi alleati vietnamiti, cattolici, autoritari e fanatici).
    Il surge di David Petraeus ha funzionato, invece, perché ha imposto per la prima volta nella storia alle truppe americane di conquistare a sé, in prima persona, il consenso delle popolazioni locali nelle zone di intervento. Rivoluzione concettuale fondamentale, purtroppo non praticata ancora in Afghanistan (là dove il gruppo dirigente legato a Karzai si rivela peraltro incapace di conquistare consenso), che verrà affinata e sviluppata da qui ai prossimi decenni. Tanto basta, dunque, per confermare la statura eccellente di un Bush che paga sicuramente una sua incapacità di rimanere in sintonia con buona parte del suo stesso elettorato e che però può sicuramente contare sulla sindrome dei 20 anni, il lungo periodo che serve sempre alla sinistra americana ed europea per accorgersi di avere sbagliato tutto e per riconoscere ai grandi di parte avversa, i meriti che si sono conquistati sul terreno.

    http://www.loccidentale.it/articolo/...or%2C+.0058834

  5. #5
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    La Storia giudicherà Bush per i meriti nella guerra al terrorismo

    di Charles Krauthammer


    Negli ultimi 150 anni, la maggior parte dei Presidenti statunitensi eletti in un periodo di guerra -tra tutti Lincoln, Wilson, Roosevelt - hanno accettato (o riconfermato) la propria nomina consapevoli dei conflitti che si profilavano all’orizzonte. Nel caso di George Bush e della guerra al terrore invece, le aggressioni dell’11 settembre sono piovute letteralmente dal cielo.
    Difatti, le tre campagne presidenziali tra la fine del crollo del muro di Berlino e l’11 settembre sono tra quelle che in maggior misura hanno mancato di suscitare il dibattito sulla politica estera del Ventesimo secolo. La questione del ruolo di Comandante in Capo, che al momento sembra dominare la campagna presidenziale, pareva non emergere in alcun modo durante la “vacanza dalla storia” della quale abbiamo beneficiato negli anni Novanta.
    Nel corso di un’intervista lo scorso lunedì, ho chiesto al Presidente Bush di riflettere com me su tale particolarità dei nostri tempi. Bush ha ricordato il 2001, quando le sue convinzioni lo portavano a credere che la sua Presidenza sarebbe stata incentrata sull’istruzione, sulle riforme, sui tagli alle tasse e soprattutto sulle trasformazioni strategiche necessarie a sostituire una struttura appartenente alla guerra fredda con forze maggiormente mobili, in grado di adattarsi con facilità ai conflitti minori del Ventunesimo secolo. Tuttavia, George W. Bush è diventato il Presidente di un periodo di guerra, e questo è il modo in cui la storia lo ricorderà e lo giudicherà.
    Cercando di anticipare la storia, molti non hanno esitato a formulare già un giudizio. L’ultimo libro di Bob Woodward, ad esempio, descrive il Comandante in Capo come eccessivamente freddo e distaccato. Un biografo più benevolmente disposto avrebbe parlato piuttosto di imparzialità.
    Nell’ora trascorsa con il Presidente (nella quale si è discusso principalmente di politica estera), il suo spirito equanime si è palesato in ogni considerazione: non si è trattato tuttavia della rassegnazione di un uomo che assiste al tramonto della sua presidenza, bensì di un senso di calma pervasiva, della fiducia in un giudizio ultimo da parte della storia.
    È precisamente l’imparzialità che ha permesso a George W. Bush di decidere a favore del surge in Iraq, affrontando la fiera opposizione dell’establishment politico (da parte di entrambe i partiti), quella degli studiosi di politica estera (culminato nell’inutile Iraq Study Group), quella militare (ricostruita nei dettagli da Woodward) ed infine dell’opinione pubblica. La volontà di intraprendere il surge è stata in grado di dare vita, all’interno di uno scenario di guerra, al cambiamento più radicale favorevole agli americani sin dall’estate del 1864.
    Una simile decisione richiede fermezza di carattere. Molti hanno sostenuto che è proprio l’eccessivo affidarsi del Presidente alla propria “bussola interiore” che ci ha portati alla guerra in Iraq; tuttavia, è bene ricordare che Bush non prese quella decisione da solo. La maggioranza dell’opinione pubblica era con lui, così come i commentatori politici ed il Congresso. Inoltre, la storia non ha ancora emesso il proprio verdetto sulla guerra in Iraq. Certamente possiamo affermare che sia durata - e costata - molto più di quanto ci si aspettasse inizialmente; tuttavia, resta in discussione se il risultato ad oggi più probabile - ovvero l’aver trasformato uno stato nemico e prepotentemente aggressivo nel cuore del Medio Oriente in un alleato strategico nella guerra al terrore - ben valesse la nostra decisione. Credo che a conti fatti la risposta sarà più favorevole di quanto non lo sarebbe oggi.
    Quando ho domandato al Presidente del suo più evidente successo, ovvero l’aver mantenuto sicura l’America per 7 anni - circa 6 anni e mezzo in più di quanto chiunque ritenesse possibile dopo l’11 settembre -, George Bush ha subito suddiviso il merito tra i soldati che hanno tenuto a bada il nemico oltreconfine, e l’insieme delle leggi attuate e il lavoro dell’intelligence che hanno permesso di rafforzare le nostre difese internamente.
    Il Presidente ha inoltre fatto riferimento ad alcune misure da lui stesso adottate, tra le quali le strategie di “ascoltare di nascosto il nemico” e “chiedere agli assassini professionisti dei loro progetti”. La CIA ha già reso noto come gli interrogatori di pericolosi terroristi come Khalid Sheik Mohammed hanno costituito una fonte preziosa di informazioni, molto più di qualsiasi altro mezzo impiegato. Parlando delle misure implementate, il Presidente non ha tuttavia fatto riferimento a quest’ultimo episodio per argomentarne l’efficacia, né alla campagna di denigrazione che ne è seguita. Altro esempio di imparzialità.
    Ciò che invece il Presidente ha sottolineato con orgoglio è che, oltre a prevenire un secondo attacco, lascerà in eredità al suo successore quel genere di potere e di istituzioni necessari a lottare contro possibili attentati e a proseguire con successo la guerra al terrore. Con la Presidenza di George W. Bush è stato difatti creato il Dipartimento per la Sicureza Nazionale, i servizi di intelligence sono stati riorganizzati ed hanno nuove possibilità di condividere informazioni, mentre il FISA (Foreign Intelligence Surveillance Act) è stato rivisto per garantire maggiore autorità alle intercettazioni su una scala più vasta e moderna.
    Sotto questo aspetto, Bush ricorda Truman, il Presidente in grado di dare vita a strutture adeguate ad una nuova era di guerra (il Dipartimento della Difesa, la CIA, l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale), espandere i poteri dell’Amministrazione, formulare una nuova dottrina per l’intervento oltreconfine e da ultimo intraprendere un conflitto (in Corea) che - mancando anche in quel caso l’intenzione ufficialmente dichiarata di fare guerra agli Stati Uniti - si rivelò estremamente impopolare.
    Fu proprio in seguito a tale impopolarità che Truman terminò la propria Presidenza scoraggiato ed estremamente malvisto. Con il tempo, la storia ha formulato un giudizio differente; senza dubbio, anche la figura di George W. Bush sarà oggetto di una simile rivalutazione.


    © Washington Post
    Traduzione Alia K. Nardini


    http://www.loccidentale.it/articolo/...udizio.0059031

  6. #6
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    Sull'ambiente Bush ha rotto con Kyoto ma non con il populismo verde

    di Carlo Stagnaro


    Bocciato in ambiente, promosso sul clima. Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, difficilmente sarà considerato un esempio da seguire per le sue politiche ambientali. Il responso non viene solo dal fronte ecologista, che vede in lui (erroneamente) il nemico pubblico numero uno, ma dalla galassia free market americana, che accusa l’inquilino della Casa Bianca di non aver invertito e neppure rallentato le tendenze all’interventismo verde. Non che Bush abbia introdotto regole particolarmente negative; e, tranne qualche inasprimento degli standard sulla qualità dell’aria (che gli analisti ritengono ingiustificati), ha sostanzialmente lasciato le cose come stavano. Ma non è un’attenuante.
    Quando venne eletto nel 2001, Bush si impegnò a rappresentare la “leave us alone coalition” – la coalizione lasciatecistare – che, in campo ambientale, chiede una semplificazione delle regole, in modo da semplificare i processi di diffusione delle nuove tecnologie, gli investimenti e l’innovazione. Il presidente ha preferito seguire una strada diversa: prestare poca attenzione ai sentieri regolatori, confidando che le cose si sarebbero messe a posto da sole. Così non è stato, producendo un esito paradossale: l’evoluzione del contesto regolatorio è proseguita indisturbata lungo le direttrici ereditate dall’era Clinton, ma nel contempo Bush non ha trovato un punto di contatto politico con i movimenti ambientalisti. Una doppia sconfitta, resa più cocente da alcune scelte oggettivamente molto criticabili compiute dall’amministrazione. Una riguarda l’accelerazione impressa sui biocarburanti, come risposta di sistema al rampante populismo energetico. Nel sostegno all’etanolo si nascondono, infatti, diversi filoni: uno, ovvio, è quello dell’assistenzialismo agricolo. Altri sono più sottili e ideologici, e vanno dal sentimento anti-arabo (incattivito dalla crescita dei prezzi del petrolio) all’eterna chimera dell’indipendenza energetica, dalle pressioni (ancora una volta) ambientali fino alle aspirazioni geopolitiche a sganciarsi dal Medio Oriente (da cui, in verità, la dipendenza americana non è poi così pronunciata). Analogamente contestati, e più o meno per le medesime ragioni, i sussidi (o crediti d’imposta) concessi alle fonti rinnovabili, in particolare l’eolico, di cui molti hanno denunciato l’effetto distorsivo sul mercato elettrico.
    L’altro gesto eclatante, firmato dal segretario all’Interno, Dick Kempthorne, riguarda l’inserimento degli orsi polari nella lista delle specie in via di estinzione. L’effetto pratico della decisione è colossale, poiché in questo modo i plantigradi (e le aree da essi popolate) ricadrebbero sotto le ferree regole dell’Endangered Species Act, con ricadute enormi sulla possibilità di svolgere attività di esplorazione e produzione di idrocarburi. Non solo, secondo i critici, non c’è ragione di considerare gli orsi bianchi a rischio, ma la manovra ha destato l’immediata e forte reazione del governatore dell’Alaska, e oggi candidata vicepresidente del repubblicano John McCain, Sarah Palin, che ha immediatamente presentato ricorso.
    Dove, invece, il giudizio sull’operato di Bush cambia è sulle politiche del clima. Non tanto per quello che il presidente ha fatto – sebbene il lancio dell’Asia Pacific Partnership sia stato un colpo di genio – quanto per quello che ha saputo disfare. Il naufragio (pur non formale) del protocollo di Kyoto lo si deve, sul piano politico, proprio all’opposizione americana. Va pure detto che il Senato (a cui spetta il compito di ratificare i trattati internazionali) ha sempre mantenuto un orientamento chiaramente anti-Kyoto, sia quando la maggioranza era repubblicana, sia ora che è democratica. Ma l’esplicita avversione della Casa Bianca a un meccanismo basato su obblighi vincolanti di riduzione delle emissioni, orientati al breve termine e controllati a livello internazionale, ha chiuso molte prospettive. Basta questo a dire che gli Stati Uniti, durante l’era W., hanno condotto una politica ambientale liberista? Certamente no. Però è sufficiente ad affermare che, negli ultimi otto anni, essi hanno condizionato il dibattito internazionale in modo senz’altro positivo, costringendo pure i “kyotisti” a rivedere molte delle loro posizioni, sia tattiche sia strategiche. La grande incognita è in che modo il futuro presidente raccoglierà, su questo fronte, l’eredità di Bush, e solo in parte ciò dipende da chi uscirà vincitore dalle prossime elezioni. L’effetto fondamentale del bushismo, sotto tale profilo, è stato infatti quello di mandare avanti l’Ue, e rendere evidente a tutti il fallimento delle politiche europee. Se poi la storia sarà maestra di vita, lo dirà la cronaca.


    http://www.loccidentale.it/articolo/...verde+.0059229

  7. #7
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    Bush ha garantito la sicurezza dell'America subendo critiche ingiuste

    di Robert Royal


    Dopo otto anni di presidenza, George W. Bush non è molto popolare negli Stati Uniti anche se per motivi differenti rispetto all’Europa. Un terzo degli americani, tuttavia, né offre ancora una valutazione positiva; può sembrare poca cosa, ma solo il 17 per cento approva l’operato del Congresso e del Senato, entrambi controllati dai democratici.

    Gli americani in questo momento sono disincantati nei confronti della classe politica. L’impopolarità di Bush è dovuta per lo più non alla decisione di andare in Iraq, ma alla cattiva gestione dell’intervento e all’economia. La sinistra ha provato a chiamare in causa l’elezione “rubata” da Bush nel 2000, per accreditare l’immagine di un’amministrazione moralmente in bancarotta sin dall’inizio. Passerà qualche anno prima di poter esprimere un giudizio equilibrato e giusto, ma quando arriverà il momento probabilmente Bush non ci sembrerà così cattivo.

    Alcune delle accuse mosse a Bush scompariranno rapidamente. Ad esempio, Bush non ha mentito sulle armi di distruzione di massa in Iraq. Prima che la coalizione entrasse in guerra, tutti - Tony Blair, Jacques Chirac, Gerhard Schroeder, e persino Hans Blix (l’ispettore delle Nazioni Unite) - ritenevano che Saddam le avesse. Il Consiglio di Sicurezza discusse su come affrontare la faccenda. Colin Powell aveva ricevuto informazioni ingannevoli quando riferì alle Nazioni Unite che Saddam stava cercando di procurarsi uranio dal Niger. Ma Saddam aveva già impiegato armi chimiche contro l’Iran e i curdi, ed era in possesso anche di armi batteriologiche. L’amministrazione era convinta – erroneamente – che Saddam stava espandendo il suo arsenale, ma se questi avesse avuto altro tempo certamente l’avrebbe fatto. Sulla questione la storia non giudicherà Bush con severità.
    Un’altra ragione è che Bush si è opposto fermamente e con successo al jihad islamico. Nessuno avrebbe mai immaginato che a otto anni dall’11 settembre non ci sarebbero stati più attentati terroristici in territorio americano. Questo è stata in larga parte il risultato di un’altra decisa e controversa mossa del presidente: il Patriot Act. Coloro che diffidano di Bush lo considereranno come un provvedimento lesivo della libertà. Ma la storia su Bush darà il beneficio del dubbio.
    Al di là delle polemiche, l’America non è uno stato di polizia ed è lontana anni luce dal diventarlo. Gli abusi nel mantenimento della sicurezza, a volte sperimentati dai cittadini stranieri negli aeroporti, sono censurabili. Ma l’America si è trovata in una nuova e inconsueta posizione, e ha fatto ciò che era necessario per proteggere se stessa. Le risorse d’intelligence impiegate nell’antiterrorismo – che è certamente una buona causa – dalle forze di sicurezza in Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Italia, non casualmente è frutto del lavoro di agenti americani.

    Due nomi, d’altro canto, macchieranno per sempre la reputazione di Bush: Abu Ghraib e Guantanamo. Abu Ghraib è stato un incubo. Ci sono state imperdonabili omissioni nella vigilanza da parte dell’esercito, ma quello che è accaduto in quella terribile prigione non corrisponde in alcun modo alla politica degli Stati Uniti. Purtroppo, però, Bush sarà per sempre e ingiustamente associato a questo episodio. Guantanamo è un caso più controverso. Gli Stati Uniti hanno trattenuto come prigionieri uomini di forze irregolari senza sapere che farne. Non pochi tra quelli rilasciati sono stati poi catturati nuovamente nel corso di azioni militari contro gli Stati Uniti e i suoi alleati. I critici di Bush, specie quelli che si oppongono al water-boarding, hanno ragione nel dire che questa tecnica supera e forse va di molto oltre i metodi d’interrogatorio ammessi nelle società civilizzate. Ma va anche detto che al water-boarding è stato fatto ricorso solamente nel caso di tre prigionieri sospettati speciali.

    Semmai, Bush è più vulnerabile per la scelta dei collaboratori. Ha sostenuto il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, anche quando la sua strategia di mantenere un basso livello di truppe in Iraq si era già rivelata un fallimento. Il successo del surge sotto la guida del Generale Petraeus, insieme alla diplomazia, è la prova di come le cose potevano andare fin dall’inizio. Bush ha pure manifestato una certa debolezza per la nomina in posti chiave di uomini a lui fedeli. Il disastro successivo all’uragano Katrina a New Orleans non è dovuto, come ha accusato Barack Obama, al razzismo della Casa Bianca (un’accusa assurda, al pari di quelle avanzate alla politica ambientale di Bush). Si è trattato invece di una combinazione tra fallimenti locali e fallimenti al livello statale, unitamente all’incompetenza dell’incaricato voluto da Bush.

    L’integrità morale di Bush è poi finita nel mirino per i presunti legami del presidente con i giganti della finanza, specie le compagnie petrolifere, e la sua presunta indifferenza verso i cittadini comuni. Ci dimentichiamo, tuttavia, che nelle settimane successive all’11 settembre 2001, dallo stock mercato americano sono stati erogati ben sette trilioni di dollari, come ai tempi della dotcom bubble (la bolla della new economy, ndt), che diede all’amministrazione Clinton un’apparenza di successo in politica economica. L’economia Usa è così riuscita a riprendersi velocemente, continuando la sua crescita con un tasso di disoccupazione relativamente basso. E’ vero che Bush e il Congresso a maggioranza repubblicana hanno fatto quello di cui i democratici li accusano, cioè spendere soldi quasi senza freno. Ciononostante, se non fosse intervenuta la crisi immobiliare l’economia oggi sarebbe forte grazie al taglio delle tasse voluto da Bush. Negli Stati Uniti si parla adesso di “prestiti predatori”, crediti rilasciati durante il boom delle case a soggetti a rischio. Quella stessa gente ora accusa le banche di aver avuto il braccio troppo corto nei confronti delle minoranze e dei redditi inferiori, impedendogli di accedere al mercato immobiliare. E’ difficile dire quanto ciò abbia a che fare con George Bush e la sua Amministrazione. Bush non ha incoraggiato la concessione di crediti rischiosi e il suo governo si è dimostrato fermo nel combatterne le conseguenze negative.
    George W. Bush ha ricoperto l’incarico di presidente nel momento più difficile dalla fine della Guerra Fredda. Le sue maniera brusche e la mancanza di un’oratoria brillante hanno dato l’impressione, soprattutto in Europa, che fosse una figura inaffidabile e arrogante, non solo politicamente ma moralmente. Bush ha limiti e difetti, come tutti noi. Ma quando le cronache dell’inizio del XXI secolo verranno scritte, è più probabile che Bush verrà giudicato per aver fatto un buon lavoro, e in particolare per aver resistito alle critiche e per aver affrontato la minaccia posta all’Occidente dal terrorismo globale.


    Robert Royal è presidente del Faith & Reason Institute di Washington.
    Traduzione Emiliano Stornelli


    http://www.loccidentale.it/articolo/sicurezza.0058882

  8. #8
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    Contro l'aborto e per la vita: la morale di George W. Bush

    di Stefano Fontana


    E’ notizia recente che la United States Agency for International Development (USAID) ha tolto ogni appoggio a Mary Stop International, leader dell’aborto mondiale e, secondo l’amministrazione USA, molto attiva nella collaborazione con i programmi forzati di limitazione delle nascite del governo cinese. La decisione è in armonia con il famoso emendamento Kemp-Kasten che divenne legge nel 2002 e secondo cui non possono ricevere aiuti internazionali dagli Stati Uniti i promotori e attori di programmi di aborto coatto o di sterilizzazione forzata. E’ la stessa legge che ha permesso a Bush di togliere i finanziamenti americani al United Nations Population Fund (UNFPA) che, notoriamente, è impegnato a livello planetario sul fronte dell’aborto e della sterilizzazione. Steve Mosher, del Population Research Institute, sostiene che Bush ha ritirato quei finanziamenti su pressione della sua organizzazione, la più importante agenzia pro-life americana, ma non si può negare una chiara volontà politica dell’amministrazione Bush dato che i tagli all’UNFPA furono decisi appena eletto presidente, in simbolica controtendenza con Bill Clinton che li aveva ripristinati nel 1993, anche lui appena insediato alla Casa Bianca, dopo che Ronald Reagan li aveva censurati nel 1984.
    Dopo il taglio dei fondi alle agenzie pro-aborto, venne l’altra “scandalosa” decisione del governo Bush, il divieto dell’aborto a nascita parziale, praticato nelle ultime settimane di gravidanza, mediante l’aspirazione del cervello del bambino partorito a metà (altrimenti sarebbe omicidio): “solo” 5.000 su un totale di 1 milione di aborti annui negli Stati Uniti, ma particolarmente riprovevoli. Nel 2003 il Congresso a guida repubblicana approvava il Partial-Birth Abortion Ban Act. Anche nel 1996 e nel 1997 il Congresso aveva deciso in questo senso ma si era sempre scontrato con il veto di Clinton. Il 18 aprile 2003 la Corte suprema con una votazione di 5 a 4 ha poi respinto gli argomenti contrari al "Ban Act": decisivi sono stati i voti dei due giudici nominati da Bush: Samuel Alito e John Roberts. Nell’aprile scorso, Barak Obama si lasciò sfuggire la infelice frase: “Se le mie figlie facessero un errore, non dovrebbero essere punite con un bimbo”. Un lapsus, certamente. Sta di fatto che nel 2003 lo stesso Obama si era dichiarato fermamente contrario (“I strongly disagree”) alla decisione della Corte suprema. Opinione uguale a quella espressa da Hillary Clinton che vi aveva visto un "attacco alle libertà civili".
    Bush è stato accusato di "epurare" dal Consiglio di bioetica (sotto la Presidenza) alcuni esperti non allineati con la difesa della vita, come il teologo William May e la biologa Elizabeth Blackburn. Insomma l’accusa è stata di politicizzare la bioetica. Appena nominato, nel 2001, il Comitato ha pubblicato un libro bianco sulle “fonti alternative alle cellule staminali pluripotenti”, valutando con saggezza le diverse alternative. Ha poi pubblicato due Rapporti, il secondo dei quali è uscito quest’anno con il titolo Human Dignity and Bioetichs e contiene contributi di alto valore, indirizzati ad “allargare la ragione”, fino a rilanciare temi ormai desueti come anima, sostanza, natura umana. Non si tratta di politica, ma di politica culturale sì. Del resto, che altro modo c’è di invertire la tendenza di una cultura scientifica che si propone come neutra, ma che in realtà fa ideologia? Sulla questione delle staminali, il presidente Bush ha posto per 4 volte il suo veto – solo nel secondo mandato – alla legge che prevedeva il finanziamento con fondi federali alla ricerca sulle staminali embrionali. L’ultima volta è stato il 20 giugno 2007. In quell’occasione ha dichiarato l’impegno del governo di finanziare la ricerca sulle staminali adulte, perché “Dobbiamo perseguire le possibilità della scienza in una modalità che rispetti la dignità umana e che sostenga i nostri valori morali”.
    Non c’è dubbio che uno dei principali lasciti politici di George Bush è l’impegno per la vita e, in generale, l’impegno per una bioetica rispettosa della dignità umana. Su questo argomento c’è stata spesso una significativa convergenza con la diplomazia della Santa Sede. Vaticano e governo americano hanno svolto insieme diverse battaglie contro i progetti sanitari dell’UNICEF che comprendevano la garanzia dell’aborto e contro la Convenzione ONU sui diritti dei disabili, laddove si prevedeva esplicitamente la possibilità di abortire in caso di feto malformato. Anche la dura presa di posizione del Cardinale Martino contro Amnesty International nel giugno 2007 lasciava trasparire una unità di visione con l’amministrazione americana. Non è un caso che nel corso dell’attuale campagna elettorale, i vescovi americani, sia collettivamente che attraverso loro singole personalità, siano intervenuti a chiarire la responsabilità degli elettori proprio sulle questioni della vita. Lo scorso settembre, l’Arcivescovo di Denver è subito intervenuto per contestare le tesi del candidato alla vicepresidenza Biden e della speaker della Camera Nancy Pelosi. Nei giorni scorsi i vescovi del Texas hanno chiarito che in presenza di una alternativa, i cattolici non possono votare per un candidato pro aborto. Essi hanno anche fornito il criterio etico per spiazzare Obama: la questione dell’aborto non può essere paragonata a quella della lotta alla povertà, dell’ingiustizia o della guerra. Questi temi sono oggetto di giudizio prudenziale, l’aborto no.


    http://www.loccidentale.it/articolo/....+bush.0060964

 

 

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