I semi della crisi sono stati gettati quando una politica monetaria estremamente permissiva e prolungata da parte della Banca centrale americana, volta a sostenere i mercati finanziari dopo lo scoppio della bolla dotcom e gli scandali finanziari immediatamente successivi, ha innescato un boom nel settore immobiliare statunitense.
La crescita esponenziale dei prezzi delle case ne ha fatto crescere il rapporto coi canoni d'affitto di oltre il 30%. Ciò è stato accompagnato da un aggravio significativo del peso del debito delle famiglie americane. Infatti, il boom si è sviluppato con la concessione di crediti ipotecari più o meno a chiunque ne facesse richiesta, spesso senza alcuna garanzia (i famigerati subprime). È esemplare il caso dei cosidetti prestiti Ninja, ardito e al contempo sinistro acronimo che sta per “No income, no job, no asset”, a segnalare il forte rischio di insolvenza del contraente. Questi crediti ipotecari molto rischiosi venivano trasferiti a società veicolo e quindi impacchettati loro tramite in obbligazioni strutturate da collocarsi a tranches. Normalmente le maggiori agenzie di rating attribuivano a tali strumenti merito creditizio elevato, spesso massimo, in virtù del fatto che le tranches più rischiose erano destinate a fondi speculativi o trattenuti dall'emittente. Inoltre, si dava per estremamente improbabile che tutti i mutuanti risultassero insolventi contemporaneamente. Ciò facilitava tra l'altro l'assicurazione dell'obbligazione da parte di compagnie specializzate (le assicurazioni monoline). Il rating elevato rendeva questi prodotti di ingegneria finanziaria facili da collocare presso fondi pensione e altre istituzioni che non possono investire statutariamente in attività finaziarie ad alto rischio, generando lucrose commissioni di intermediazione e liberando al tempo stesso i bilanci delle banche da posizioni a rischio, cosicché ne risultasse accresciuta la disponibilità di capitale. Come si è rivelato drammaticamente in seguito, gran aprte di questi strumenti non avevano un prezzo di mercato significativo perché venivano collocati su abse bilaterale ed erano spesso privi di un effettivo mercato secondario. In mancanza di meglio il loro prezzo veniva determinato in base a modelli matematici – in gergo “price-to-model” invece che “price-to-market” - la cui affidabilità si rivelò dubbia già in occasione delle prime turbolenze del marzo 2007.
Con queste nuove architetture finanziarie i banchieri e la maggior parte degli esperti che si occupano di finanza avevano pensato che il rischio si sarebbe distribuito in modo più efficiente. In realtà il rischio di credito non è stato ridotto dalla diversificazione, ma nascosto tramite la sua polverizzazione su quello che Ken Rogoff ha chiamato “settore bancario ombra”, composto da financial conduit, hedge funds e fondi di private equity, cioè da soggetti che fuoriescono in buona parte dal perimetro di controllo delle autorità di vigilanza. Tant'è che la stessa Banca dei regolamenti internazionali ammetteva già nella primavera del 2007 di non essere in grado di stabilire con sufficiente precisione quale fosse l'entità dell'esposizione globale ai nuovi strumenti e quali fossero i soggetti che li detenevano nei propri portafogli. Infine, la mancanza di controllo da parte delle banche rispetto ai propri (ormai ex) debitori completa il quadro di un sistema svilupaptosi a dismisura salla leva del debito, in cui i rischi sia dei singoli intermediari che a livello sistemico risultano analogamente ingigantiti.
Di fronte alla crisi dei subprime, ormai estesa anche ad altri strumenti e mercati finanziari, come le carte di credito, l'assicurazione obbligazionaria o i mercati dei bonds municipali, le banche hanno dovuto riportare in parte le perdite all'interno dei propri bilanci. Per conseguenza la struttura bancaria americana si trova oggi sottocapitalizzata. Per adesso viene soccorsa da iniezioni di capitale che provengono dai fondi sovrani cinesi, di Singapore e delle petromonarchie, nonché da un massiccio intervento della Federal Reserve e del Tesoro americano. Tutti eventi che stanno cambiando le caratteristiche fondamentali dell'economia americana.
La crisi nata dai subprime è stata affrontata da parte della Banca centrale americana innanzitutto come una crisi di liquidità, sulla scia di quanto avvenne nel 2001, quando l'allora Governatore Alan Greenspan abbassò dodici volte in modo drastico il saggio d'interesse. Ciò finì per favorire, come già accennato, il boom dei prestiti ipotecari e del settore residenziale, oltre che il consolidarsi nel mondo della finanza della convinzione che qualcun altro avrebbe pagato il conto qualora gli affari troppo rischiosi fossero andati male – la cosidetta Greenspan put.
Ben Bernanke ha seguito la stessa politica, ma la situazione economica in cui opera è molto più difficile della precedente. È colpito il sistema nervoso centrale dell'economia americana: l'apparato finanziario e bancario che avrebbe dovuto essere il settore trainante della nuova economia americana insieme all'high tech e all'agricoltura, essendo il sistema manifatturiero indebolito dalla politica di delocalizzazione da parte delle multinazionali americane, ha mostrato tutta la sua fragilità. Anche l'attuale miglioramento della bilancia commerciale americana è dovuto alla maggior esportazione di beni agricoli e minerari e non di sofisticati prodotti del sistema industriale. È un salto di qualità che pone alla classe dirigente statunitense il problema di ripensare la struttura produttiva di tutta l'economia. Basti pensare alle difficoltà del settore automobilistico, che non solo ha problemi produttivi e di rinnovamento della gamma dovuta all'innalzamento del prezzo del petrolio, ma è coinvolto direttamente nella crisi finanziaria dal momento che le tre principali case automobilistiche americane fanno oramai più profitti nel finanziamento all'acquisto dei veicoli che non sulla vera e propria attività industriale. È ancora fresca la richiesta al governo da parte delle medesime industrie di interventi diretti pari a circa 50 miliardi di dolalri per porre riparo alla crisi del settore. Questo aiuta a capire che negli USA il legame fra l'attività finanziaria e quella industriale è talmente stretto che la distinzione tradizionale fra Wall Street e Main Strett ha perso molto della sua capacità interpretativa.




In uno dei blog per economisti più frequentati, il 10 gennaio di quest'anno uno dei partecipanti al dibattito scrive: “Economic power comes with money, and today the US dosn't have it: Asia and the Gulf have. And so US economic power is declining and theirs is rising. We are in the midst of the most important shift in economic power since World War 2. And there is no way for the US to reverse the process.” Al di là della riconosciuta necessità di un'entrata giornaliera di oltre due miliardi di dollari per bilanciare il deficit di conto corrente, la crisi dei subprime dell'agosto 2007 ha rivelato la fragilità del capitalismo finanziario americano in quelle che in altri tempi si sarebbero chiamate le commanding heights del sistema, cioè le investment banks che ne costituiscono il cervello collettivo. Per non peggiorare la situazione Wall Street ha chiesto aiuto in misura elevata ai fondi sovrani.
I fondi sovrani possiedono attività finanziarie in moneta straniera generati da un surplus nella bilancia in conto corrente superiore alle ncessità di pagamento delle importazioni. Negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta la disponibilità dei fondi sovrani ammontava a circa 500 miliardi di dollari, mentre attualmente la stima del Fondo monetario internazionale è di circa 2-3 mila miliardi di dollari. Se Cina, Russia e altri paesi produttori di petrolio e materie prime continueranno ad avere saldi si conto corrente crescenti, nel 2012 i fondi sovrani avranno attività in valuta estera per circa 10 mila milairdi di dollari.
Nell'attuale crisi di Wall Street la somma totale investita alal fine del 2007 dai sovereign wealth funds era di circa 28,4 miliardi di dollari, divisa nel modo seguente:
  • 7,5 miliardi di dollari a Citigroup da parte del fondo di Abu Dhabi;
  • 5 miliardi di dollari a Morgan Stanley da parte della China Investment Corporation;
  • 4,4 miliardi di dollari a Merril Lynch da parte del fondo sovrano di Singapore Temasek;
  • 11,5 miiardi di dollari a Ubs da parte di Temasek.
Per avere una idea di quanto sia rilevante l'apporto finanziario dei fondi sovrani, basti ricordare che il Fondo monetario internazionale, nel suo intervento più importante, ha erogato nel terzo trimeste del 2001 a Turchia e Argentina 13,7 miliardi di dollari.
Ma le vere novità non sono tanto gli investimenti dei fondi sovrani delle petromonarchie o del fondo sociale norvegese, quanto l'entrata in scena della Cina che non è esattamente né una democrazia liberale né una monarchia controllabile politicamente. Se attualmente la Cina non è fra gli investitori maggiori, non si deve dimenticare che le riserve in dolalri della Banca centrale e delle altre istituzioni finanziarie cinesi ammontano a circa 1.800 miliardi di dollari, pari a circa 2/3 del reddito nazionale cinese. È quindi evidente che la Cina può in ogni momento decidere di investire attraverso le proprie istituzioni finanziarie una parte delle proprie riserve: una potenza di fuoco che nessun paese ha mai avuto.
La domanda inquietante che circola nei circoli finanziari e accademici è se gli investimenti finanziari cinesi si literanno a un ruolo puramente passivo o se si tradurranno in interventi nella gestione delle imprese americane, perseguendo anche interessi geopolitici.
È ora certo che gli acquisti di attività americane sotto forma di obbligazioni e azioni è maggiore dell'acquisto di merci cinesi da parte degli Stati Uniti. Nessun economista fino a due-tre anni fa scriveva di una Cina potenza finanziaria. Semmai era considerata come nuova potenza manifatturiera e industriale. Era anzi usuale leggere articoli di economisti americani sulla fragilità finanziaria del sistema bancario cinese, articoli che invitavano a riformarlo avendo come modello quello statunitense.
Lo spostamento di potere finanziario dagli Stati Uniti ad altre parti del mondo – Cina, Giappone, Europa – è facilmente riscontrabile nell'elenco delle più importanti banche mondiali per capitalizzazione: le banche cinesi sono in testa alla classifica, con una sostanziale retrocessione di quelle americane che testimonia la perdita di potere finanziario statunitense rispetto a quattro anni e mezzo fa.
Che un paese in via di sviluppo come la Cina, con un reddito pro capite comunque molto minore di quello statunitense, sia una potenza finanziaria planetaria è sicuramente un fatto che nella storia del capitalismo degli ultimi duecento anni non si è mai verificato e che apre scenari difficili da disegnare con qualche pretesa di attendibilità. La Cina peraltro è un caso molto particolare nel panorama economico mondiale, con elementi di diversità su tre sfere: assetto economico-istituzionale, dimensioni geografiche, forma politica.
Per quanto riguarda l'assetto economico-istituzionale, ricordiamo che il modello di pianificazione centralizzata è stato dal 1978 in poi ampiamente cambiato, garantendo alla Cina una crescita del reddito attorno al 10% annuo. Questa crescita è continuata ininterrotta per trent'anni, il che ha significato più che triplicare il reddito pro capite per un miliardo e trecento milioni di cinesi. Mentre lo sviluppo di Giappone, Corea e Taiwan è avvenuto in un quadro capitalistico con l'appoggio politico, economico e militare degli Stati Uniti, lo sviluppo cinese ha preso le mosse da un'economia pianificata ed esterna alle correnti del commercio mondiale, fino ad arrivare a costruire un sistema economico che è la combinazione di pezzi di economia governata da un ufficio centrale di painificazione, di una regolazione macroeconomica di tipo occidentale, più un capitalismo che si sviluppa senza regole, con caratteristiche ottocentesche, nelle zone costiere. Questa singolare combinazione è stata costruita senza seguire un piano prestabilito e senza accettare i dettami delle teorie economiche correnti, ispiratrici dei piani di stabilizzazione e trasformazione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, ma seguendo un processo del tutto autonomo, empirico e graduale.
Il successo ottenuto non dipende soltanto da quanto è stato fatto, ma anche da come è stato fatto. I criteri d'attuazione delle riforme sono stati la lentezza e la gradualità, che hanno permesso di valutare i pro e i contro di ogni roforma e di affrontare il cambiamento solo quando lo si riteneva idoneo a garantire crescita e sviluppo.
Questo ha permesso alla popolazione di abituarsi ai cambiamenti e di prendere confidenza con i nuovi meccanismi economico-amministrativi e con le nuove istituzioni, in un clima di crescita continua. La dirigenza politica ha avuto la capacità di non distruggere le istituzioni destinate a scomparire prima che le nuove istituzioni fossero già operanti ed efficienti; questo ha fatto sì che siano coesistite – e in parte coesistano ancora – un piano centralizzato e la Borsa valori, istituzioni simbolo di due sistemi teoricamente incompatibili.
Date le sue dimensioni la Cina è in grado di concentrare in ogni settore economico una tale quantità di risorse da raggiungere in poco tempo risultati altrimenti impossibili. L'estensione del territorio e la vastità della popolazione hanno permesso al governo centrale di mettere in atto politiche sperimentali su territori ristretti per utilizzarli come banchi di prova, prima di estenderle a tutto il sistema economico. Il grande numero degli operatori economici cinesi rende molto più probabile, rispetto a paesi più piccoli, quel processo di ricerca, investimento, imitazione che porta alla realizzazione di nuove attività redditizie.
Ovviamente l'elemento dimesionale da solo non è sufficiente a spiegare lo sviluppo cinese. L'India ha più o meno le stesse dimesioni in termini di popolazione, ma i primi trent'anni del suo sviluppo postbellico sono stati caratterizzati dalla cosidetta maledizione del tasso di crescita indù (3%), per poi avvicinarsi ai tassi di crescita cinesi nell'ultimo decennio. Risultato: il reddito pro capite indiano è meno della metà di quello cinese, il peso dell'industria manifatturiera indiana sul pil sta fra il 10% e il 20% mentre in Cina è circa il 50%. E se si confrontano i vantaggi comparati indiani e cinesi, appare immediatamente la grande diversità fra le due economie.
La terza diversità della Cina risiede nella macchina politico-amministrativa che sovraintende lo sviluppo cinese. Un Partito comunista organizzato in modo leninista, che dopo aver adottato il piano di tipo sovietico ha intrapreso la costruzione sempre più consapevole di un sistema di mercato che nelle condizioni cinesi unisce le caratteristiche di un capitalismo ottocentesco,a ccompagnato da un controllo in parte ancora centralizzato di settori dell'economia, con strumenti macro di tipo occidentale. Una ricetta e una combinazione difficilmente ritrovabili sui libri di testo di economia. Tutto questo è possibile per l'essitenza di una struttura di controllo estremamente efficiente costituita dal Partito comunista cinese, che ha la crescita economica come unico obiettivo per ridare ai cinesi il posto nel mondo che essi pensano sia loro dovuto dopo le umiliazioni patite dai trattati ineguali in poi, per colpa delle potenze occidentali e del Giappone.




Estratto da: Limes n° 5/2008 pgg. 36-40 e 41-44, di Gian Paolo Caselli (professore ordinario di economia politica all'università di Modena e Reggio nell'Emilia).