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    Predefinito FORMAZIONE - Burke: Riflessioni sulla Rivoluzione francese_2

    Riflessioni sulla Rivoluzione francese (Seconda Parte)



    La seconda pretesa manifestata dalla Revolution Society consiste nel Diritto di deporre i governanti per la loro “cattiva condotta”. Forse la preoccupazione che i nostri antenati hanno dimostrata per evitare che si formasse un precedente come quello della "Deposizione per cattiva condotta" fece sì che la dichiarazione dell'atto che implica l'abdicazione di Re Giacomo risentì (se mai alcun difetto in essa può venir notato) di una eccessiva cautela o dì uno scrupolo troppo circostanziato (3).

    Ma tutti questi riguardi e tutto questo cumulo di avvedutezze serve a dimostrare quale spirito di cautela predominasse nel Concilio Nazionale allorché un gruppo di uomini irritati dall'oppressione e riusciti trionfalmente vittoriosi su di essa, sarebbero stati pronti ad abbandonare sé stessi ad una violenta ed esasperata rappresaglia. Tutto questo dimostra anche la ansietà con la quale i grandi uomini che diressero la cosa pubblica in così gravi frangenti vollero che la rivoluzione fosse generatrice d'ordine e non fomite di ulteriori tumulti.

    Nessun governo potrebbe stare in piedi, nemmeno un momento, se potesse venire deposto in base ad un criterio così vago ed indefinito come quello derivante dall'opinione di "cattiva condotta". Coloro che hanno diretto il movimento rivoluzionario non hanno voluto giustificare la virtuale abdicazione di Re Giacomo basandola su l'incertezza di un tale criterio. Essi invece mossero contro il Sovrano l'accusa gravissima di aver mirato (secondo l'evidenza palmare di illegalità ripetutamente compiute) a sovvertire la chiesa protestante e l'ordine dello Stato insieme con le leggi fondamentali e con le inderogabili prerogative della libertà inglese; essi lo incolparono addirittura di avere violato il contratto originale intervenuto tra lui e popolo. Questo è ben più che parlare di cattiva condotta.

    Una necessità grave e incoercibile obbligò quegli uomini a compiere il passo che essi compirono; ma ciò fu fatto con estrema riluttanza e quasi obbedendo alla imposizione della più rigorosa fra le leggi. Essi ponevano la loro fiducia nella futura preservazione del sistema costituzionale e non già nella preparazione o nell'attesa di ulteriori moti rivoluzionari. Il fine politico che animava tutti questi grandi sforzi disciplinatori era quello di mettere ogni futuro sovrano quasi nella impossibilità di spingere nuovamente gli eventi del reame fino al punto da rendere necessario l'intervento di rimedi coattivi e violenti.

    La Corona fu lasciata nei riguardi del diritto in quella condizione di perfetta irresponsabilità nella quale era sempre stata considerata; ma per elevare ancor di più la posizione della Corona si pensò allora di intensificare la responsabilità sui ministri di Stato. Nello Statuto del primo regno di Re Guglielmo (sez. 2) chiamato "Atto per la dichiarazione dei diritti e delle libertà dei sudditi e per il regolamento di successione alla Corona o fu sancito che i ministri sarebbero stati sottoposti al monarca secondo i termini di quella stessa dichiarazione. E ben tosto fu provveduto a disporre frequenti adunate parlamentari, mediante le quali l'intero governo si sarebbe trovato sottoposto all'ispettorato costante ed al controllo attivo dei rappresentanti popolari e dei magnati del regno.

    Nel grande atto costituzionale che seguì a quello indicato, atto del 12° e del 13° anno di regno di Re Guglielmo, a fine di limitare ulteriormente la posizione della Corona e meglio assicurare i diritti e le libertà dei sudditi, fu provveduto a che "nessun motivo di perdono sanzionato col grande Sigillo d'Inghilterra potesse mai essere opposto come eccezione contro un'accusa intentata dai Comuni riuniti in Parlamento". Le norme d'amministrazione sancite nella "Dichiarazione di Diritto", la costante funzione ispettiva esercitata dal Parlamento, 1'azione pratica dell’ impeachment, parvero mezzi infinitamente più adatti a garantire la sicurezza delle libertà costituzionali e a neutralizzare i difetti della pubblica amministrazione che non la riserva generica di un diritto così difficile ad essere tradotto in pratica, così incerto nelle sue espressioni e bene spesso così dannoso nelle sue conseguenze, come quello di "deporre i propri governanti".

    In quel medesimo discorso si condanna, e a ragione, l'uso invalso di presentare ai sovrani delle petizioni concepite in forma adulatoria e ripugnante. Invece di impiegare questo stile sconveniente, si propone che nelle occasioni in cui vengono rivolte al sovrano espressioni congratulanti, si faccia presente "dover essere Sua Maestà riguardato piuttosto come servitore, anziché come sovrano del suo popolo". Per essere un complimento, questa nuova forma di appellativo non sembra contenere invero una troppo intensa adulazione. Coloro che esercitano funzioni di servizio, tanto di nome quanto di fatto, non desiderano venga fatto richiamo alla loro effettiva condizione e tanto meno ai doveri e alle obbligazioni che essa comporta. In una commedia classica uno schiavo dice al suo padrone : Haec commemoratio est quasi exprobatio.

    Tutto questo dunque non riesce né piacevole come complimento, né benefico come istruzione. Dopo tutto, anche se il re acconsentisse a fare eco, rispondendo a questo nuovo genere d'appellativo, adottandolo nei medesimi termini e accettando anche nel protocollo dello stile reale l'appellativo di "servitore del popolo", io non posso immaginare come né il Sovrano né i sudditi potrebbero trar giovamento da un tal fatto. Ho visto lettere molto serie firmate con l'espressione "vostro obbedientissimo ed umile servitore". La più orgogliosa tra le potestà dominatrici che mai abbiano esteso sulla terra la propria sovranità assumeva un titolo infinitamente più umile di quello che i nuovi apostoli di libertà vorrebbero proporre ai loro sovrani. Molti sovrani ed intere nazioni furono schiacciati sotto i piedi di un signore che assumeva l'appellativo di "servo dei servi"; e per deporre dei sovrani furono scagliate delle bombe che erano sigillate col titolo di un "pescatore".

    A tutta questa faccenda io non avrei dato maggior peso che ad una chiacchierata vana e futile, nella quale alcune persone lasciano svaporare lo spirito della facoltà in una nuvolaglia di fumo; se tutto questo non fosse addotto in appoggio alla teoria che predica la cacciata dei re per cagione della loro cattiva condotta. A questo proposito è opportuno aggiungere qualche osservazione.

    I re, sotto un certo aspetto, sono senza dubbio i servitori del popolo, giacché il potere che essi esercitano non presenta altro scopo razionale se non quello di procacciare il bene comune; ma non è niente affatto vero che i sovrani siano nel senso ordinario (e tanto meno in conformità della nostra costituzione) qualche cosa di simile ai servitori; e infatti la situazione di questi ultimi è caratterizzata dal dover essi obbedire al comando di altri e dal poter essere deposti per arbitrio del padrone. Invece il Re d'Inghilterra non obbedisce a nessun altro; anzi tutte le altre persone, sia individualmente che collettivamente, si trovano a lui sottoposte e gli devono obbedienza in conformità della legge. E appunto la legge, alla cui espressione è estranea l'adulazione al pari della contumelia, definisce quest'alto magistrato non già "nostro servitore" (secondo l'espressione tirata fuori da questo povero predicante) ma anzi lo chiama "nostro Sovrano Lord il Re" ; e noi per parte nostra abbiamo imparato a parlare secondo l'antico linguaggio del diritto e non nel gorgo confuso ammannito dal pulpito di questa nuova Babilonia.

    Come il re non deve obbedienza a noi, ma noi dobbiamo obbedire alla legge rappresentata nella sua persona, così la costituzione inglese non ha concepito alcuna misura per rendere il sovrano comunque responsabile, come accadrebbe di un subalterno. La nostra costituzione non conosce alcun istituto o magistratura comparabile a quella di Arragon, né alcuna Corte legalmente costituita, né alcuna procedura giuridicamente determinata per sottomettere il re a quel controllo di responsabilità che invece è caratteristico di tutti coloro che detengono posti di servizio. In questo il Sovrano non si distingue dai Comuni né dai Lords, che nell'ambito delle proprie capacità di diritto pubblico non sono tenuti a rendere conto della loro condotta, sebbene alla Revolution Society piaccia di asserire (in diretto contrapposto con uno dei motivi più saggi e più felici del nostro sistema costituzionale) che "un re non è niente di più che il primo servitore della collettività pubblica, da essa creato e responsabile verso la medesima".

    Certamente i nostri antenati, al tempo della Rivoluzione, avrebbero demeritata la loro fama di saggezza se non avessero trovata altra garanzia a tutela delle loro libertà che quella di un indebolimento dell'autorità governante, col rendere precario il titolo della sovranità, se cioè essi non avessero trovato miglior rimedio contro l'esercizio arbitrario del potere se non quello di provocare l'anarchia collettiva. Attendiamo che quei tali signori indichino quale sia il pubblico rappresentante davanti al quale, a detta loro, il Re dovrebbe tenersi responsabile a guisa di un servitore. E allora sarà tempo che io metta loro dinanzi agli occhi il testo della legge positiva che sconfessa pienamente tale pretesa.

    La cerimonia della deposizione del re, della quale questi messeri parlano con tanta facilità, ben raramente potrebbe essere effettuata senza l'impiego della violenza; e perciò essa determinerebbe un caso di guerra e non uno sviluppo costituzionale. La voce delle leggi è destinata a tacere sotto il fragore delle armi e l'esercizio della giustizia viene meno quando viene meno quella condizione di pace che le stesse leggi non sono in grado di garantire più a lungo. La rivoluzione del 1688 si svolse coll'impiego di mezzi guerreschi ispirati a ragion di giustizia, in quel solo caso in cui una guerra, e per di più una guerra civile, può dirsi giusta. Justa bella quibus necessaria.

    Il problema che riguarda la detronizzazione o, per usare una frase che piace meglio a quei signori, " la deposizione " dei Re, sarà sempre, come è sempre stato, un procedimento di Stato con carattere eccezionale e assolutamente fuori dalle norme del diritto; tale questione di stato (al pari di ogni altra simile) si fonda sopra un calcolo di circostanze, sopra una valutazione di mezzi e sopra una presunzione delle conseguenze probabili; non costituisce un problema di diritto positivo. E siccome tale evento sorpassa l'ambito di una consueta infrazione dell'ordine, non può essere discusso né risolto sulla base di un criterio comune.

    La linea teorica di demarcazione, dove 1'obbedienza viene a cessare e comincia ad esercitarsi una resistenza, è quant’altra mai dubbia, oscura e di non facile definizione. La resistenza non può venire determinata né da un singolo atto né da un singolo evento. Prima che sia lecito pensare ad un tale estremo bisogna che si siano verificati enormi abusi nel governo e conseguenze di gravissimo danno; e bisogna pure che la prospettiva dell'avvenire sia così malvagia e disperata come l'esperienza del passato. Quando le cose sono arrivate in tale deplorevole estremo la natura stessa del danno deve indicare il rimedio da seguire a quelle persone che per natura sono state designate a somministrare l'amaro medicamento onde salvare in questa critica e ambigua situazione le disperate sorti dello stato. Il tempo, le circostanze e il grado della minaccia sapranno fornire allora il necessario insegnamento.

    L'uomo saggio sarà indotto ad agire secondo la gravità del caso; l'uomo irritabile sarà mosso dalla insofferenza dell'oppressione; l'idealista dal disgusto e dall’indignazione che in lui provoca l'evidenza di una potestà, abusivamente esercitata da mani indegne; il polemista passionale affronterà l'onorato cimento per amore di una causa generosa; ma, sia o non sia conforme a diritto, una rivoluzione deve sempre considerarsi come l'estremo espediente a cui possono fare ricorso uomini assennati ed onesti.

    Il terzo tra i capisaldi giuridici che vennero sanciti dalla cattedra di Old Jewry, vale a dire il diritto a costituire un Governo da noi stessi, non presenta né in linea di fatto né in linea di principio alcuna relazione con gli eventi svoltisi durante la crisi rivoluzionaria; e, se è possibile, ne sta ancor più lontano di quanto non fossero gli altri due capoversi della dichiarazione sopraindicata. La rivoluzione si concretò a fine di preservare i nostri antichi diritti e le nostre libertà, l'antica costituzione del governo d'Inghilterra che è la nostra unica garanzia di diritto e di libertà. Se mai voi siete desideroso di conoscere lo spirito che sorregge la nostra costituzione e la direzione di vita politica dominante in quel glorioso periodo nel quale si sono consolidate le garanzie di un ordine perenne che a tutt'oggi si conserva, vi prego di attingere informazione dalle nostre storia, dai nostri ricordi nazionali, dagli Atti e dai Giornali Ufficiali del Parlamento, anziché dai sermoni tenuti in Old Jewry e dai brindisi postprandiani della Revolution Society.

    Leggendo quei documenti autentici voi troverete espresse ben altre idee e con ben altro linguaggio.

    Quella terza e indebita pretesa è altrettanto destituita di qualsiasi apparenza d'autorità quanto disadatta alle condizioni della nostra vita nazionale.
    La semplice idea di una riedificazione ex novo del Governo è tale che ci riempie di disgusto e di orrore. Al tempo della rivoluzione, come ancora oggi, noi intendiamo sempre derivare ogni attuale possesso da una ragione ereditaria che scende dai nostri padri. Abbiamo sempre avuto cura di non innestare sopra la continuativa struttura di ereditarietà alcun virgulto alieno alla natura della pianta originaria. Tutte le riforme che noi abbiamo fino ad ora avanzate sono procedute dal principio di uno scrupoloso riferimento a tradizioni antiche; ed io spero, anzi sono convinto che anche tutte le altre riforme destinate a realizzarsi in un eventuale avvenire vorranno essere analogamente strutturate e giustificate in ossequio alla autorità di precedenti che servono d'esempio.

    La più antica delle nostre riforme è la Magna Charta. Ebbene, voi vedrete che Sir Edward Coke, nostro grande maestro di diritto, ed anche i maggiori pensatori che seguirono a lui, fino a Blackstone (4), tutti si sono ingegnati a dimostrare l'ordine genealogico delle nostre libertà. Essi cercarono di provare che quell'antico testo costituzionale, la Magna Charta sancita sotto Re Giovanni, si riconnetteva ad un altro testo precedente di diritto positivo sancito sotto Enrico e che tanto l'uno quanto l'altro non erano se non la riconferma di una norma legislativa emanata nel regno in epoca ancor precedente.

    In linea di fatto questi autori paiono avere in massima parte ragione; forse non sempre; ma se tali giuristi hanno commesso alcun errore in materia di dettaglio, ciò ritorna a più forte sostegno della mia tesi, poiché dimostra il potentissimo attaccamento verso l'antichità che caratterizza l’intendimento di tutti i nostri giuristi e legislatori ed anche del popolo intero che essi venivano ad influenzare; e dimostra pure il carattere persistente e continuativo del nostro andamento politico nazionale, per cui i diritti più sacri e le più gelose franchigie di libertà vengono considerati come un patrimonio ereditario.

    In quel famoso testo legislativo, che risale al terzo anno del regno di Carlo I e che si intitola Petizione di Diritto, il Parlamento dice al Re : "I vostri sudditi hanno ereditati questi diritti di libertà": dove si vede che il reclamo non si fonda sopra gli astratti principi dei pretesi "Diritti dell'uomo", ma sopra un preciso patrimonio giuridico derivante ai sudditi inglesi, per ragione atavica, dai loro progenitori. Il Selden e tutti gli altri dottissimi scienziati che redassero quella Petizione di Diritto conoscevano del resto tutte le teorie generali riguardanti i "Diritti dell'Uomo" al pari di quanto le conoscono gli attuali teorici inglesi che vanno proclamandole dai pulpiti o quelli francesi che le agitano dalla tribuna; e cioè in materia la sapevano lunga tanto il Dr. Price quanto l'Abbé Sieyés. Ma per ragioni conformi a quella pratica saggezza che prevaleva sulla astratta teoreticità del loro sapere, essi preferivano attenersi all'osservanza di questo titolo di ereditarietà positiva e tradizionale anziché indulgere a ciò che può solleticare le astrazioni individualistiche dell'uomo e del cittadino, secondo il criterio di un diritto vago e astratto che avrebbe posto quel sicuro patrimonio ereditario in balìa di ogni spirito selvaggio e litigioso, onde ne sarebbe stato fatto scempio.

    Il medesimo criterio politico pervade tutte le leggi che sono state fin qui emanate a difesa delle nostre libertà. In quel famoso Statuto, che si data dal primo anno di Regno di Guglielmo e di Maria e si intitola "Dichiarazione di Diritto", le due Camere non hanno formulata neppure una sillaba per accennare ad un preteso diritto a che il popolo si costituisca da sé medesimo i suoi governanti. Leggendo quell'atto voi vedrete come l’intera preoccupazione del legislatore fosse diretta ad assicurare le sorti della religione, del diritto e delle libertà popolari, quali beni da lungo tempo posseduti e solo allora messi in pericolo. Il legislatore, "prendendo nella più seria considerazione i mezzi che sarebbero apparsi meglio idonei per porre le sorti della religione, del diritto e delle libere franchigie popolari al sicuro dalla minaccia di ulteriori sovvertimenti, cercò di garantire i propri procedimenti segnalando come mezzi meglio idonei a raggiungere lo scopo: in primo luogo il proposito di comportarsi così come in casi analoghi si erano comportati gli antenati per rivendicare i loro antichi diritti e le loro antiche libertà; e in seguito essi pregarono il Re e la Regina perché fosse dichiarato e ordinato che i diritti e le libertà, considerati tanto nel loro insieme quanto singolarmente, erano l'esatta e indubitabile corrispondenza di quei diritti e di quelle libertà medesime onde consisteva l'antico appannaggio del popolo d’Inghilterra".

    Voi potrete dunque vedere come dalla Magna Charta fino alla Dichiarazione di Diritto il nostro sistema costituzionale si sia conformato ad una direttiva politica uniforme, facendo ricorso alle nostre asserite libertà come a un patrimonio di carattere ereditario che a noi deriva dai progenitori e che dobbiamo trasmettere ai posteri, essendo questa una dotazione particolare e privilegiata del popolo inglese senza alcun riferimento a qualsivoglia sistema teorico di diritto affermato in via generica ed aprioristica. In questo modo il nostro sistema costituzionale riesce a conservare la propria unità pur nella grande differenza delle partì che lo compongono. Noi abbiamo una corona ereditaria, una nobiltà egualmente ereditaria; anche la Camera dei Comuni ed il popolo godono ereditariamente di privilegi, di franchigie, di libertà derivati da una lunga serie di antenati.

    Un'organizzazione politica di questo genere mi sembra essere frutto e risultato di profonda riflessione; o, meglio ancora, il prodotto felice di una risultanza naturale onde la saggezza si esprime spontaneamente senza essere frutto di sforzate meditazioni.

    La mania della innovazione improvvisata rivela di solito il risultato di temperamenti egoistici e di angusti orizzonti mentali. Essa è caratteristica di gente che non si preoccupa di guardare innanzi verso la posterità né di volgere il pensiero ai propri antecessori.

    Al contrario, il popolo d'Inghilterra ha capito molto bene che il criterio della ereditarietà fornisce un principio sicuro di conservazione e dà anche un principio sicuro di trasmissibilità dell'idea, senza affatto escludere le ragioni di un progressivo incremento. Tale criterio lascia libera la possibilità di nuovi acquisti, ma fornisce la garanzia assicurata di ogni acquisto. Tutti i vantaggi che si conseguono in uno stato secondo l'osservanza di un tale principio, vanno riguardati come una sorta di acquisizione famigliare e quasi afferrati in perpetuo da una forma di manomorta. Secondo quest'ordine di vita costituzionale e di educazione politica conformantesi ai procedimenti della natura medesima, noi riceviamo, teniamo e trasmettiamo il governo e le prerogative nella stessa maniera con la quale usufruiamo della nostra vita e della proprietà privata, ritrasmettendole nuovamente ad altri. Le istituzioni politiche, i beni della fortuna, i doni della Provvidenza, vengono a noi affidati e sono da noi riconsegnati con vicenda uniforme e regolare. Il nostro sistema di vita politica è ordinato in giusta e corrispondente simmetria con l'ordine stesso della vita universale e col modo di esistenza che è proprio degli organismi, che permangono pur essendo composti di elementi transitori; come del pari, per il disposto di una meravigliosa sapienza che fonde insieme la grande e misteriosa compagine della razza umana, l'intera collettività ad ogni istante di sua esistenza non è mai né vecchia, né di mezza età, né giovane, ma si trova in una condizione di inalterabile costanza, intimamente rimossa dal flutto variato di un eterno declinare, soccombere, rinnovarsi e progredire.

    Così, conservando anche nell'organismo statale i metodi che sono propri della natura, non ci troviamo interamente nuovi per ogni progresso conseguito, non ci troviamo interamente vecchi per ogni tradizione conservata. Aderendo in questo modo e secondo questi principi ai valori del passato noi non ci lasciamo guidare dalla idolatria superstiziosa dell'antico, ma dalla coscienza filosofica di una analogia continuativa. Nella scelta di un tale criterio di ereditarietà abbiamo ricostituita la nostra organizzazione politica a immagine delle relazioni di consanguineità, abbiamo stretta intimamente la costituzione del nostro paese con i più cari vincoli della vita domestica, accogliendo lo spirito fondamentale delle nostre leggi nel cuore delle affezioni famigliari; ed uniamo indissolubilmente con un vincolo di caldo amore tutti questi sacrati doni che mutuamente si integrano e si combinano: la nostra Patria, i nostri focolari, le nostre tombe e i nostri altari.

    Attenendoci al medesimo criterio di conformità alle leggi di natura nella formazione delle nostre istituzioni politiche e richiamandoci sempre per aiuto all'infallibile istinto della natura medesima per corroborare le fragili ed imperfette costruzioni della nostra ragione astratta, noi abbiamo ottenuto alcuni altri vantaggi e di non piccolo conto, sempre con l'intendere le nostre libertà come espressioni di un principio di ereditarietà. Tenendo ognora presente nei nostri comportamenti l'ammaestramento esemplare dei progenitori e quasi ergendo a valore di canone i loro precetti, lo spirito della libertà, che per sua natura tende all'eccesso ed alla prevaricazione, è stato contenuto nella temperanza e nel rispetto di una maestosa gravità. Questa idea della trasmissione ereditaria della libertà ispira a noi il sentimento di una dignità naturale e nativa, la quale ci preserva da quella forma di grossolana arroganza che è la infelice e quasi inevitabile caratteristica di coloro che solo di recente sono assurti a qualche distinzione. Ed in questa maniera la nostra libertà diviene un titolo di distinzione nobiliare. Essa porta con sé un carattere di imponente maestà; vanta una genealogia di illustri predecessori; vanta saldi fondamenti ed insegue illustri. I suoi fasti sono consacrati da una galleria di ritratti o da una serie di monumentali iscrizioni; i suoi archivi annoverano una serie di titoli insigni e di egregi ricordanze. Noi portiamo verso le nostre istituzioni civili quel medesimo rispetto che la natura c'insegna a portare verso l'individuo umano; rispetto che aumenta coll'avanzare dell'età e con la maggiore dignità della discendenza atavica. Tutte le nuove sofisticherie bandite in terra di Francia non possono produrre alcun risultato che si adatti al fine di una libertà ragionevole e costante, meglio che il corso dell'esperienza fino ad oggi compiuta da noi Inglesi; esperienza secondo la quale, a preservazione e tutela del nostro grande patrimonio di diritti e di privilegi, abbiamo preferito sempre seguire l’ordine della natura anziché l'astrazione speculativa, e l'osservazione profonda anziché l'escogitazione teorica.

    Voi Francesi avreste potuto, se aveste voluto farlo, trarre profitto dal nostro esempio; e ricostituendo i principi della libertà civile avreste potuto conferire ad essa tali dignità. I vostri antichi privilegi, sebbene storicamente interrotti, non erano tuttavia cancellati dalla memoria. E' bensì vero che la vostra costituzione sofferse devastazione e rovina durante il tempo nel quale cessavate di usufruirne; ma tuttavia di essa voi possedevate ancora in parto le vecchie mura ed erano interamente conservate le fondamenta di quel nobile antico castello. Ben potevate restaurare quelle mura; ben potevate su quelle antiche fondamenta cominciare l'opera di ricostruzione. Il vostro sistema costituzionale sofferse interruzioni innanzi di giungere a compimento; ma pure voi avevate già in mano gli elementi di una costituzione assai prossima al raggiungimento della desiderata perfezione. Nell'aggregato dei vostri antichi stati voi già possedevate la varietà di elementi parziali che corrispondevano a quella molteplicità di composizione la quale felicemente caratterizza l'insieme della vostra comunità nazionale. Voi avevate già tutta quella armonia e quella opposizione di interessi, quel sistema di azioni e di reazioni, che nel mondo politico, a somiglianza di quello naturale, crea l'armonia della vita universale traendola dall'antagonismo reciproco di energie discordi.

    Questo gioco di interessi opposti e contradditori che voi Francesi considerate come un danno grave dell'antico vostro sistema costituzionale e del sistema inglese a tutt'oggi vigente, è invece quello che oppone una resistenza salutare a tutte le risoluzioni precipitate, che rende ogni pubblica deliberazione oggetto non di scelta arbitraria ma di necessità e fa sì che ogni mutazione operata nell'ordine pubblico si riguardi come frutto di un compromesso richiedente una moderazione naturale. Per tal modo esso produce dei contemperamenti che prevengono e neutralizzano i danni di riforme precipitate, violente e cervellotiche, rendendo così irrealizzabili una volta per sempre i maneggi abusivi di un potere arbitrario, sia esso esercitato da pochi oppure da molti. Attraverso questa molteplicità di organi e di interessi la libertà generale trova altrettante guarentigie quante sono le differenti opinioni manifestantisi in ogni singolo ordine; e traendo l’intera collettività dentro l’orbita organizzata di un potere monarchico efficiente, le singole parti costitutive sarebbero state salvaguardate dal rischio di disgiungersi allontanandosi dal posto d'ordine loro assegnato.

    Voi avevate già tutti questi vantaggi nel vostro antico stato; ma avete preferito agire come se foste un popolo che non vanta alcun passato di civiltà e deve riprendere la sua vita tutta da capo. Avete cominciato male, perché avete cominciato col disprezzare tutto ciò che già vi apparteneva. Avete intrapresa la vostra organizzazione commerciale senza possedere sufficiente capitale. Se la generazione che immediatamente precedette la vostra non vi sembrava sufficientemente provvista di prestigio, avreste potuto fare riferimento ad una più antica schiera di predecessori, trascurando quella. Nutrendo un religioso culto verso le memorie dei predecessori, in esse voi avreste potuto rappresentare le immagini esemplari della virtù e della saggezza, molto al di sopra di quanto sia stato compiuto nella pratica volgare del tempo presente; ed avreste riconosciuto fin dagl'inizi i grandi esempi ai quali aspirate oggi conformarvi. Tributando omaggio ai vostri predecessori avreste sentita maggior dignità anche di voi stessi; e non avreste preferito considerare il popolo francese come se fosse un popolo sorto ieri, o come una nazione di miserabili perdurata nella condizione del più vile servaggio fino all'anno di emancipazione 1789. Per fornire, a scapito del vostro stesso onore, un titolo di scusante a coloro che intessono le vostre apologie e per giustificare alcune enormità che da voi si compiono, non avreste dovuto accontentarvi di rappresentare la parte di tanti servi appena scampati dalle strettoie della galera, e quindi perdonabili se abusano di quella libertà che non sono abituati a godere.

    Non sarebbe stato meglio, mio caro amico, che invece di tutto questo voi aveste pensato, come io ho sempre pensato per mio conto, esser la Francia una nazione generosa e nobilissima, per lungo tempo fuorviata a proprio danno a cagione di un romanzesco sentimento di fedeltà, di lealismo, di onore; e aveste pensato pure che gli eventi virarono bensì sfavorevoli ma che voi, per interna disposizione d'animo, eravate tutt'altro che ridotti in condizioni di schiavitù o di servilità; e che nella vostra maggior devozione di sudditanza operavate in conformità a un principio di onore nazionale, per cui riverendo la persona del monarca voi intendevate porgere omaggio all'idea stessa della Patria?

    E se voi aveste lasciato capire che riconoscevate d'esser giunti assai più lontano dei vostri stessi antenati proseguendo nella via errata ed elusiva di questo equivoco ispirato a sentimento d'onore, e che sarete stati pronti ad invocare nuovamente i vostri antichi diritti e privilegi conservando inalterato lo spirito del vostro antico e recente lealismo; o se pure, diffidando di voi stessi e non discernendo più con chiarezza le linee della quasi obliterata costituzione che i vostri antenati sancirono, voi aveste tratto esempio da paesi vicini al vostro, nei quali gli antichi principi e i grandi modelli del vecchio comune diritto europeo, migliorato ed adattato alle condizioni dell'epoca nostra, erano stati preservati in piena, efficienza, allora soltanto seguendo i dettami della saggezza voi Francesi avreste offerte al mondo prove rinnovate di senno e di prudenza.

    Avreste reso così la causa della libertà venerabile agli occhi di ogni retta coscienza, a qualunque nazione appartenga. Ed avreste al cospetto di tutto il mondo coperta di obbrobrio la causa del dispotismo dimostrando che la libertà non soltanto è conciliabile col principio del diritto ma, se ben disciplinata, torna ad esso di rinforzo. Ne avreste avuto un risultato non oppressivo, anzi fecondo. Avreste anche avuto un commercio florido, atto ad alimentare le rendite; ed anche un libero sistema costituzionale, una potente monarchia, un esercito disciplinato, un clero rinnovato e degno di venerazione, una nobiltà regolata e pur valorosa, capace di sollevare il prestigio della vostra virtù anziché deprimerlo, e un ordinamento liberale dei Comuni onde trarre e reclutare la classe dirigente; ed avreste potuto vantare ugualmente una popolazione ben difesa nei suoi diritti, soddisfatta nei suoi bisogni, laboriosa nei suoi compiti, consapevole del fatto che la felicità, quando si fondi sulla virtù, può essere conseguita in qualsiasi condizione sociale; e che appunto in essa consiste il vero principio egualitario dell'umanità, e non nella mostruosa finzione che, ispirando idee fallaci e vane speranze ad uomini destinati a lavorare nelle oscure strade di un'esistenza faticosa, serve soltanto a rendere più grave e più amara quella reale forma di ineguaglianza che nessuno potrà mai sopprimere e che l'ordine della vita civile ribadisce, tanto a beneficio di coloro che sono destinati a vivere in umile condizione quanto di coloro che possono aspirare a gradi più alti e più brillanti ma non più felici.

    Era aperto dinanzi a voi un largo e facile cammino di felicità e di gloria, forse più di alcun altro che la storia del mondo abbia sin qui annoverato; ma voi avete preteso che le difficoltà tornano utili all'uomo. Fate il computo dei vostri guadagni; calcolate qual frutto avete ricavato da quelle stravaganti e presuntuose teorie che appresero ai vostri capi a disprezzare tutta l'esperienza dei predecessori e quella dei contemporanei e perfino la propria, così da giungere al punto che il disprezzo ricadde sopra loro medesimi. Mettendosi a seguire così falsi miraggi la Francia è andata incontro ad inenarrabili calamità, pagandole a più caro prezzo di quanto non fecero altre nazioni per l'acquisto di sicuri benefici. La Francia ha fatto acquisto di miseria a prezzo di delitti! E non è a dire che essa abbia sacrificato il proprio onore al proprio interesse, ma anzi ha trascurato l'interesse per prostituire il suo onore. Tutte le altre nazioni, trattandosi dì costituire un nuovo sistema di governo o di riformare un sistema antico, hanno cominciato col creare dalle basi o col rinvigorire quanto più tenacemente possibile una serie di riti e di principi religiosi. Tutti gli altri popoli hanno stabiliti i fondamenti della libertà civile istituendo severe discipline ed inaugurando sistemi, di più austera e di più maschia moralità. Invece la Francia, nel momento stesso in cui spezzò le redini della autorità regia, raddoppiò la licenziosità feroce e dissoluta dei costumi e l'insolenza dei pensieri e delle pratiche antireligiose; e in tutti i ranghi della vita vide estendersi (quasi che si trattasse di ridistribuire privilegi o di elargire benefici per lungo tempo rimasti occulti) tutte quelle malaugurate forme di corruzione che sono per solito il triste privilegio conseguente alla condizione dei ricchi e dei potenti. E questo è uno dei nuovi prìncipi d'eguaglianza che si bandiscono in Francia.

    La Francia, per la perfidia di coloro che comandano, ha completamente messo in discredito il gabinetto del Re per il tono e lo stile della conciliatezza garbata che neutralizza l'efficacia degli argomenti più forti. Basa ha consacrato le oscure e sospettose massime proprie della tirannide diffidente, insegnando ai sovrani la paura (come in seguito sarà detto) di fronte al plauso ingannatore dei teorizzanti della politica. I sovrani riguarderanno d'ora innanzi quelli che loro consigliano di collocare illimitata confidenza nel popolo come sovversivi che minacciano la sicurezza del trono, come traditori che mirano alla sua distruzione inducendo le nature facili e confidenti dei principi, mediante pretesti cavillosi, ad accogliere una divisione di potere con uomini audaci e senza scrupoli.

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    Se non vi fosse altro danno, questa sola sarebbe e per la Francia e per l'umanità intera una irreparabile calamità. Ricordatevi che il vostro Parlamento di Parigi ha detto al Re di Francia come, convocando gli Stati Generali, il Sovrano non dovesse temere altro se non la prodigalità eccessiva dello zelo che essi avrebbero manifestato a beneficio e difesa del Trono. Si capisce come quelli che così parlavano abbiano sentito il bisogno di nascondere le loro gesta. E' giusto che essi prendano la loro parte nella rovina in cui per loro consiglio sono stati trascinati insieme il Sovrano di Francia e la Nazione intera. Dottrinari di carattere così sanguinario e violento tendono ad eludere la forza dell'autorità e ad addormentarla. La incoraggiano a compromettersi in una serie di avventure politiche sconsiderate, a trascurare per tal modo quei provvedimenti preparatori e quelle precauzioni preventive che distinguono la benevolenza delle intenzioni dalla imbecillità degli azzardi, e senza le quali nessuno può rendersi garante che un astratto programma di governo libertario possa sortire salutari effetti.

    Per avere trascurate tali preoccupazioni il popolo francese ha visto corrompersi quello strumento salutare che è lo Stato, al punto da diventare un veleno. E fu portata la ribellione contro un legittimo sovrano che teneva moderata condotta; e questo con una forza d'oltraggio e con una violenza d'ingiuria più gravi di quanto alcun altro popolo mai abbia fatto contro il più illegale degli usurpatori o il più sanguinario tra i tiranni. I Francesi hanno creata una resistenza contro chi era pronto a fare concessioni; si sono ribellati contro chi li proteggeva; la mano assalitrice del popolo si diresse contro chi largheggiava di grazia, di favori, di condiscendenze.

    Questo è un fatto contro natura. Tutto ciò che seguì è invece nell'ordine normale. Nel successo medesimo dell'azione ribelle i re trovarono giustizia vendicatrice. Rovesciate le leggi, sconvolta la giustizia, svigorita l’industria, rovinato il commercio, non pagate le rendite, e nondimeno impoverita la massa popolare; depredata la Chiesa senza avere rafforzato lo Stato; l'anarchia civile e militare divenuta fondamento della costituzione nazionale; ogni valore umano e divino sacrificato all'idolo della pubblica demagogia, con la conseguenza di una bancarotta generale; e per compire l’opera ecco giungere la nuova carta moneta sotto la pretesa garanzia di un potere precario, vacillante; quella screditata valuta, che corrisponde a una frode miserabile e ad una spoliazione da pezzenti, è adottata ora come strumento di circolazione monetaria per tenere in piedi un vasto impero, in luogo di quei due metalli preziosi che hanno un riconoscimento ufficiale per rappresentare in via convenzionale il credito dei valori nell'umanità intera; metalli che sono scomparsi ma quasi nascondendosi di bel nuovo nelle viscere della terra dalle quali erano stati tratti; e questo dal momento in cui cominciò ad essere sistematicamente rinnegato il principio della proprietà privata del quale essi erano espressioni rappresentative.

    Tutti questi eventi disastrosi erano forse necessari? Erano forse essi il risultato inevitabile di uno sforzo disperato che un gruppo di patrioti, spinti al coraggio delle estreme risoluzioni, compirono a fine di raggiungere la garanzia pacifica di una libertà prosperosa col mezzo fatale di tumulti sanguinari? No! Niente di simile. Le rovine recenti che devastano la Francia e che commuovono l'animo nostro dovunque giriamo gli sguardi, non rappresentano il risultato devastatore di una guerra civile; sono invece i monumenti tristi ma istruttivi di una propaganda dissennata e violenta, ammannita in tempo di profonda pace. Documentano le malefatte di una autorità sconsiderata che presuntuosamente si ingrandì perché alla sua forza irresistibile non fu opposta arginatura. Le persone che hanno in tal modo profusi i tesori della loro attività criminale, le persone che hanno sparso con prodigalità selvaggia la pubblica rovina (estremo pegno di riscatto che in ultima istanza sia riservato allo Stato), nel seguito dello loro azioni non hanno incontrato che una piccola e addirittura inefficace resistenza. Tutto il cammino che questa gente ha compiuto è stato simile piuttosto ad una marcia trionfale che non alle tappe successive di un procedimento guerresco. I loro pionieri hanno aperto il cammino precedendoli e preparando ai loro piedi un terreno livellato dalle demolizioni. Essi non hanno versato una sola goccia del loro sangue par la causa del paese che stavano in tal modo rovinando. La loro avanzata non è costata altro sacrificio che il logorio delle scarpe adoperate per camminare, mentre al tempo medesimo essi imprigionavano il Re, massacravano i loro concittadini pacifici, gettando nella disperazione, nella povertà e nella miseria migliaia di degne persone e di ottime famiglie.

    E non si può nemmeno dire che la loro crudeltà sia stata il risultato vergognoso della paura provata. Essa al contrario fu l'effetto del sentimento di perfetta sicurtà nella quale si trovavano coloro che operavano così, autorizzando tradimenti, ruberie, rapine, assassini!, massacri, incendi, in lungo e in largo traverso quella devastata landa. Ma la causa che determinava tutto ciò era evidente fin dal primo momento.

    Questa volontà arbitraria di operare il male senza bisogno, potrebbe apparire assolutamente inconcepibile se non tenessimo conto del modo con cui l'Assemblea Nazionale è costituita. Non intendo parlare qui della sua costituzione formale che rappresenta, così com'è ora, un fatto abbastanza eccezionale, ma della composizione sostanziale di cui per gran parte essa consta, e che importa conseguenze diecimila volte più grandi di quanto sia mai accaduto in altro caso del genere. Se noi non conoscessimo di quella Assemblea niente più che il suo titolo e la sua funzione, essa non potrebbe apparire alla nostra fantasia in un colore di maggiore dignità o di maggiore imponenza. Sotto questo riguardo il giudizio di chi si accingesse a una ricerca di merito, trovandosi abbagliato da una visione così dignitosa come quella che scaturisce dai princìpi della virtù e della saggezza raccolti nella espressione centrale della collettività popolare, subirebbe un attimo di arresto e di perplessità prima di condannare azioni ed eventi che pur si presentano nelle peggiori evidenze. Tutto questo anziché sembrare biasimevole, apparirebbe soltanto strano.

    Ma nessun nome, nessun potere, nessun artificio istituzionale, comunque presi, valgono a rendere gli uomini (chiamati a comporre un sistema di autorità) diversi da come Dio, la natura, l'educazione e l'abitudine stessa della vita li hanno effettivamente resi. Il popolo non ha modo di conferire alcuna capacità di azione oltre questo limite. La virtù e la saggezza possono ben essere oggetto della scelta popolare; ma l'avvenuta scelta in sé medesima non basta a conferire né l'una né l'altra virtù a coloro sui quali ricade la consacrazione ufficiale dell'elezione. Nell'esercizio di tali poteri il popolo non vanta né privilegio di natura, né promessa di rivelazione. Dopo aver letta la lista delle persone che compongono il Tiers Ètat, e la descrizione delle loro qualifiche, nulla di quanto esse operarono poteva più stupirmi. Fra quelle persone in verità ne ho ravvisate alcune di rango conosciuto, alcune di elevato ingegno; ma non una sola fu possibile trovare che presentasse qualche esperienza pratica negli affari dello Stato. I migliori, tutt'al più, erano uomini di pura teoria. Ma comunque potessero essere quei pochi che costituivano la élite distinta, è pur sempre la grande massa del corpo collettivo quella che costituisce il suo carattere determinando le direzioni ed i comportamenti di esso. In tutte le organizzazioni collettive i leaders del movimento sono anche costretti a seguire per buona parte l'imposizione della totalità. Costoro devono conformare i loro propositi d'azione al gusto, al talento, alla disposizione di quelli che essi intendono capitanare; e per questo se una assemblea consta per la maggior parte di elementi deboli o viziati, nulla varrà ad evitare il rischio che i pochi uomini di senno sparsi nella moltitudine non divengano se non istrumenti esecutivi della demenza collettiva, a meno che non entri in funzione quella virtù di grado superiore che è ben difficile riscontrare nelle cose di questo mondo e appunto per ciò stenta ad entrare in circolazione.

    Ma se, invece di questa particolarissima ed eccezionale virtù avviene (come nella maggior parte dei casi) che prevalga negli uomini della classe dirigente l'impulso di una sinistra ambizione e la tendenza a prostituirsi per ottenere il favore popolare, allora accade che la parte scadente dell'Assemblea, alla quale da principio i leaders hanno dovuto fare buon viso, diventi a sua volta il perfido istrumento di ogni intenzione disonesta. In questo mercato politico i leaders si troveranno costretti a curvare la schiena di fronte all'ignoranza dei loro seguaci, e vicendevolmente questi ultimi a divenire strumenti d'attuazione dei più loschi disegni concepiti da coloro che li guidano.

    Affinchè si potesse assicurare fino a un certo limite la moderazione nei propositi manifestati dai capì del movimento politico in ogni pubblica assemblea, bisognerebbe che questi ultimi imponessero ai loro seguaci un sentimento di rispetto capace di rasentare in certo grado il timore. E perché la collettività potesse venire guidata senza lasciarsi accecare, bisognerebbe che essa esercitasse controllo di giudizio e non funzioni d'iniziativa; la maggioranza appunto nella sua funzione giudicatrice dovrebbe essere insignita di sufficiente e naturale autorità. Niente può dar sicurezza che lo svolgimento di queste assemblee si contenga nei limiti di una azione ponderata e costante qualora tali organismi collettivi non presentino una composizione degna di rispetto per ciò che concerne la condizione sociale dei membri che li costituiscono, il loro grado di censo o di educazione e la loro disposizione alla aperta e liberale intelligenza dei fatti e degli eventi.

    Nella convocazione degli Stati Generali avvenuta in Francia la prima cosa che mi ha colpito fu l'abbandono deciso di tutta la tradizione. Ho notato che la rappresentanza del Terzo Stato constava di seicento persone. Questa, da sola, eguagliava numericamente la rappresentanza degli altri due ordini presi insieme. Se i diversi ordini avessero dovuto agire separatamente, a parte la considerazione della spesa, la composizione numerica non avrebbe avuto grande importanza. Ma siccome invece si è reso evidente che i tre ordini stavano per essere riuniti in un gruppo solo, risultò chiaro quale grave effetto dovesse conseguire da tale sproporzione numerica nella rappresentanza. Anche la più piccola sottrazione di autorità compiuta a danno dell'uno o dell'altro tra i due primi ordini avrebbe fatto sì che il potere di entrambi cadesse nelle mani del terzo ordine. E difatti l'intero potere dello Stato ben presto sì ridusse in balia di quel terzo. Perciò il contingente intrinseco della sua composizione venne ad acquistare un'importanza infinitamente più grande.

    Giudicate voi, o Signore, quanto viva sia stata la mia sorpresa allorché mi accorsi che la grande maggioranza dell'Assemblea (la maggioranza io credo dei suoi membri effettivi) consisteva di praticanti in uffici legali. L'Assemblea non era dunque composta di magistrati egregi che già avessero dato al loro paese prova di dottrina, di prudenza, di integrità; non di avvocati principi che costituissero la gloria del foro; non di celebrati professori universitari; ma per gran parte era composta di elementi inferiori, di gente indotta, di artigiani che esercitavano professioni subalterne e mestieri meccanici. Si davano bensì alcune eccezioni degne di nota; ma il grosso della collettività consisteva pur sempre di oscuri avvocati di provincia, di piccoli ufficiali addetti a giurisdizioni locali, di procuratori da villaggio, di modesti scribi insieme con una turba di azzeccagarbugli suburbani e di sobillatori camorristi di pessima lega provinciale. Dal momento in cui io ho gettato uno sguardo su quella lista di composizione, ho visto distintamente e da vicino tutta la serie degli eventi che sarebbero seguiti.

    Il grado di autorevolezza che viene attribuito ad ogni singola professione corrisponde di solito alla dignità assunta da quegli stessi che tale professione esercitano. Qualunque potesse essere il merito personale dei singoli individui esercitanti la professione del giurista (e in certuni di essi tal merito era effettivamente elevatissimo) sta di fatto che in una monarchia di carattere militare come quella francese tale professione non è mai assurta in alto grado di dignità, quando si eccettui il caso di coloro che, occupando sommi gradi gerarchici, univano sovente all'esercizio professionale del loro ufficio lo splendore di un grande casato ed erano investiti di alta potenza e di forte autorità. Tali personaggi certamente erano tenuti in somma considerazione ed ispiravano anche soggezione e timore in grado non piccolo. Ma tutti gli altri non partecipavano di eguale prestigio; ed anzi quelli che componevano la massa degli esecutori processuali erano tenuti in basso grado di reputazione.

    Quando accade che l'autorità suprema è attribuita a un organismo collettivo composto in tale maniera, ciò produce evidentemente conseguenze analoghe a quelle che derivano quando l'autorità suprema è rimessa nelle mani di uomini che non possiedono un forte sentimento della loro dignità, di uomini che hanno poco da perdere e dai quali nessuno aspetta di vedere usato con moderazione e neppure esercitato con discrezione un potere di comando quale essi medesimi, forse più degli altri, devono essere sorpresi di trovare nello proprie mani.

    Chi potrebbe mai lusingarsi sperando che tipi cosiffatti (repentinamente e quasi per virtù di incantesimo portati su dai ranghi più umili delle professioni subordinate) non si lascino inebriare o abbagliare dalla potenza alla quale non sono abituati! Chi potrebbe mai pensare che uomini adusati all'esercizio di arti subdole, procaccianti, litigiose, animati da una insaziabile voglia di arrivismo, consentirebbero facilmente a ritornare indietro nella loro antica condizione di travaglio oscuro e mal remunerato? E chi mai potrebbe mettere in dubbio che tal gente, gravando a qualunque prezzo sulla cosa pubblica della quale non capiscono niente, cerchi invece di conseguire il proprio tornaconto privato, cosa della quale s'intendono fin troppo bene? Tutto questo non è dunque un fatto occasionale o contingente; ma è invece una conseguenza inevitabile, necessaria, intrinseca alla natura stessa delle cose. Quegli uomini fatalmente erano portati a mescolarsi (anche se la loro incapacità mentale non consentiva che degli eventi prendessero l'iniziativa ed il comando) in tutti quei progetti e quei maneggi che potessero procurare uno stato di cose litigioso o disordinato aprendo dinanzi alla loro voracità le innumerevoli occasioni di lucro che sono la conseguenza fatale di tutti i grandi moti convulsivi e rivoluzionari dello Stato, e particolarmente di tutte le permutazioni violente e profonde intervenute nell'ordine della proprietà. Come si sarebbe potuto aspettare che operassero a ristabilire o consolidare il regime di essa proprietà quegli uomini appunto i quali hanno fatto dipendere l'esistenza loro dagli eventi che rendono tale proprietà problematica, ambigua e malcerta? Senza dubbio l'improvvisa elevazione di grado può avere allargate le cupidigie di tal gente sopra una sfera più ampia di oggetti; ma le disposizioni o il temperamento abituale di essi, insieme con le modalità impiegate al conseguimento dei propri fini, non possono che essere rimasti inalterati.

    Uomini di tal sorta avrebbero dovuto essere fronteggiati dall'azione moderatrice e restrittiva di mentalità ben diverse, di coscienze più equilibrate, di più vasti intelletti. Dovevano forse questi ultimi subire la imposizione autoritaria e la prepotenza presuntuosa di un branco di zotici buffoni che si erano cacciati a sedere nell'Assemblea e dei quali parecchi non sapevano né leggere né scrivere? O da un numero non più grande di mercenari i quali, sebbene potessero talora presentare un più alto grado di cultura ed una più elevata condizione sociale, non avevano però altra preoccupazione se non della loro bottega e della loro cassetta? No di certo! Entrambe queste categorie d'individui erano piuttosto adatte ad essere soggiogate e turlupinate dagli artifici dei giuristi anziché a divenire un prevalente contrappeso ad essi. Data una simile sproporzione, la totalità dovette subire l'autorità imperativa di quei gruppi.

    Alla facoltà di legge si univa in proporzione considerevole anche la facoltà di medicina. Quest'ultima, al pari della prima, non aveva mai avuto in Francia il riconoscimento della sua giusta autorità. Per questo anche i professionisti di scienza medica non avevano le qualità caratteristiche degli uomini che sono avvezzi ad un proprio indiscusso grado di dignità. Ma anche supponendo che oasi fossero valutati in conformità del loro merito, cosi come lo sono oggi giorno, sta pur sempre il fatto che le corsie degli ospedali non sono accademie adatte alla formazione degli uomini di Stato e dei legislatori.

    Venivano in seguito gli affaristi maneggiatori di denaro e lettere di credito, i quali dovevano essere smaniosi di cambiare a qualunque costo il valore impalpabile della loro carta monetata contro benefici fondiari di più solida consistenza. A questi si aggiungevano uomini di un'altra categoria, dai quali si doveva aspettare che prestassero ben poca attenzione e manifestassero assai scarsa competenza in ordine agli interessi di un grande Stato, essendo scarsamente tenuti a garantire la stabilità delle pubbliche istituzioni; alludo a quegli uomini che sono fatti per esercitare funzioni esecutive ma non per assumere il controllo degli affari generali.

    Tale, per grandi linee, era la composizione del Tiers Etat nell'Assemblea Nazionale; cosicché in essa era difficile riconoscere la traccia anche più esigua di ciò che noi chiamiamo il naturale interesse fondiario (natural landed interest) legato alle sorti del paese.

    Noi sappiamo che in Inghilterra la Camera dei Comuni, pur senza chiudere le sue porte ad alcun elemento di merito che si venga manifestando in ogni classe sociale, è però, per la concordanza precisa di coefficienti adeguati, composta di tutto quanto di meglio la Nazione possa produrre in fatto di discendenza, di rango, di censo (sia esso ereditato od acquisito), di superiorità culturale, di distinzione nelle gerarchie militari, civili, marinare e politiche. Ma supponiamo, e già è difficile avanzare tale supposizione in pura via ipotetica, che la nostra Camera dei Comuni sia composta nella stessa maniera come il vostro Tiers ètat in Francia. Potrebbe mai la dominazione di una tal sorta di pezzenti essere tollerata con pazienza o soltanto concepita senza un sentimento di orrore?

    A Dio non piaccia che io sembri insinuare alcunché per denigrare quella professione che costituisce quasi un secondo sacerdozio nel l'amministrare i diritti di una sacra giustizia. Ma mentre io rispetto gli uomini nell'esercizio delle funzioni che loro appartengono e sebbene al pari di chiunque altro io desideri prevenirli e difenderli contro qualsiasi minaccia d'esclusione da tali attività di competenza, tuttavia non posso, per adulare questi uomini dare una smentita ai fatti di natura. Tali individui sono benefici ed utili quando entrano come elementi nella composizione dell'organismo collettivo; ma tornano di danno se assumono una preponderanza tale che li renda virtualmente pari alla totalità. L'indiscussa superiorità che li caratterizza nei limiti della loro competenza professionale è ben lungi dal potersi estendere oltre quei limiti medesimi. Non posso far a meno di osservare che gli individui troppo angustamente confinati nell'ambito di esercizi professionali e specializzati, e per necessità di cose stretti nel breve circolo di abitudini inveterate e persistenti, sono piuttosto disadatti anziché indicati per tutte quelle attività che richiedono larga conoscenza delle cose umane, esperienza degli affari complessi, colpo d'occhio comprensivo e sintetico su quell'insieme di interessi interni ed esterni variamente intrecciati, che costituisce la totalità formativa del multiforme organismo che noi chiamiamo lo Stato.

    Dopo tutto, se la Camera dei Comuni dovesse avere una composizione di natura interamente professionale e specializzata, a che cosa si ridurrebbe la sua potestà, circoscritta e rinchiusa come essa è dentro le barriere irremovibili del diritto, delle tradizioni, delle norme positive dettate dalla dottrina o sancite dall'uso pratico, nonché controbilanciata dalla funzione costituzionale della Camera Alta e sottoposta in ogni istante della sua esistenza alla discrezione della Corona, che può continuare l'esercizio di essa, prorogarne le funzioni, o dissolverla a suo piacimento?

    Il potere della Camera dei Comuni, sia esercitato direttamente o indirettamente, è invero assai grande; e possa a lungo conservarsi mie in quello che è lo spirito verace e pieno della grandezza; e sia esso in grado di mantenersi cosi lungamente da impedire che i violatori del diritto in India vengano a dettare legge in Inghilterra. Ma tuttavia il potere posseduto dalla Camera dei Comuni, pur nella integrità delle sue funzioni, è sempre una goccia d'acqua nell'oceano, quando lo si paragoni con quello posseduto dal gruppo di maggioranza insediatesi nella vostra Assemblea Nazionale.

    Codesta Assemblea dal momento in cui è stata operata la distruzione degli antichi ordini non ha più avuto di fronte a sé alcuna norma fondamentale da seguire; nessuna convenzione disciplina il suo operato, nessun rispetto di norma tradizionale frena il suo arbitrio. I componenti di tale Assemblea, anziché riconoscersi obbligati a conformarsi ad un sistema costituzionale determinato, hanno la potestà di creare una costituzione che si conformi all'arbitrio dei loro divisamenti. Non vi è nulla né in cielo né in terra che valga a controllo del loro operato. Quali mai dovrebbero essere i cervelli, i cuori, le disposizioni mentali di coloro che si ritengono capaci, o quanto meno hanno l'ardire, non soltanto di emanare leggi dentro l'ambito di un sistema costituzionale definito, ma anche di buttar fuori in un colpo e per intero una nuova costituzione per un grande reame, elaborandola in ogni sua parte, dalla funzione del monarca sul trono fino a quella dell'ultimo sagrestano di parrocchia? Ma i pazzi irrompono là dove gli angeli temevano di porre piede. In una situazione simile dove è concesso illimitato potere per il raggiungimento di finalità indefinite ed indefinibili, il danno derivante dalla inettitudine morale e direi anche fisiologica degli uomini preposti a tali funzioni è il più spaventoso che mai si possa concepire in riguardo al governo degli affari umani.

    Avendo considerato la composizione del Terzo Stato così come essa si presentava nella sua forma originale, io ho preso visione anche di un'altra rappresentanza; quella del clero. Anche qui è apparso con tutta evidenza che ben poche precauzioni si erano adottate a fine di tutelare la proprietà dal punto di vista della sicurezza generale, e tanto meno per accertare la attitudine dei deputati all'esercizio delle loro pubbliche funzioni secondo i risultati delle elezioni. Appunto queste elezioni furono fatte in modo che una grande quantità di piccoli curati di campagna assunsero l'arduo e gravissimo compito di ricostituire lo Stato; gente che non aveva forse neppure una lontana idea dello stato medesimo e nulla conosceva del mondo oltre i limiti di una oscura parrocchia rurale, e trovandosi in condizione di povertà senza scampo doveva necessariamente riguardare ogni dato di proprietà privata, sia di pertinenza civile sia ecclesiastica, in nessun altro modo che non fosse quello dell'invidia; e tra questi uomini molti ve n'erano i quali, nella sola speranza di essere ammessi a partecipare dei risultati dì un saccheggio, si sarebbero prontamente mescolati a qualunque attacco venisse mosso, per la conquista della pubblica ricchezza; ricchezza della quale difficilmente avrebbero potuto in alcun modo fruire se non per via di un disordine pubblico generale.

    Anziché costituire una forza di resistenza la quale fronteggiasse il turbolento potere degli avventurieri insediati nell'alta Assemblea, questi curati dovevano necessariamente divenire i coadiutori attivi o quanto meno gli strumenti passivi di coloro dai quali si lasciavano abitualmente imporre nelle piccole contingenze della vita provinciale. Ed era anche difficile che tali uomini assumessero contegno molto coscienzioso rispetto agli altri, dato che (montando in presunzione per l'insufficienza medesima della preparazione culturale) erano ormai indotti a procacciarsi per via di intrighi un mandato fiduciario onde intraprendere la ricostruzione generale dello Stato, dopo avere spezzato tutto il sistema delle loro precedenti relazioni nella etera ormai abbandonata delle loro attività nazionali. Questo peso preponderante aggiunto alla forza organizzata della canaglia del Terzo Stato completava quel monumento di ignoranza, di balordaggine, di presunzione, di libidine spoliatrice, al quale nulla più poteva porre argine.

    Un attento osservatore deve aver già capito fin dall'inizio che la maggioranza costituitasi nel Terzo Stato operando d'accordo con le rappresentanze del clero testé descritte e mirando alla distruzione della classe nobiliare, doveva inevitabilmente diventare strumento delle più losche macchinazioni di individui che appartenevano alla stessa nobiltà. Nella distruzione a cui sarebbe andato incontro il loro medesimo ordine sociale tal gente avrebbe trovato un mezzo sicuro per offrire un compenso agli uomini del seguito. Il togliere di mezzo gli oggetti che creavano la felicità e la distinzione dei loro pari di grado non sarebbe costato alcun sacrificio ad uomini di tal fatta.

    Gli individui appartenenti a classi sociali elevate ma turbolenti e scontenti di se stessi, appunto in ragione che si sentono gonfi di prestigio personale e di arroganza sono generalmente i primi a disprezzare la classe sociale alla quale appartengono. Uno dei primi sintomi che rivelano nefasta ambizione ed egoistico risentimento è appunto il fatto di disprezzare quel grado di dignità, che è comune con altri uomini del medesimo rango sociale. Il principale fondamento (potremmo dire il germe) di ogni retto sentimento politico sta nell'attaccamento alla categoria sociale e nell'amore al piccolo gruppo di cui un individuo fa parte nella totalità collettiva. E' questo il primo anello affettivo di una serie graduale, secondo la quale l'uomo procede attraverso l'amore della propria terra nativa fino a quello dell'umanità intera. Gli interessi che contraddistinguono ogni singolo gruppo dell'aggregato sociale costituiscono più che una garanzia rimessa nelle mani di tutti coloro che lo compongono; e mentre nessuno, eccezion fatta dei malvagi, vorrebbe giustificare quegli interessi in quanto rappresentino abusi di parte, allo stesso modo nessuno, eccezion fatta dei traditori, vorrebbe barattare quegli interessi medesimi in cambio di vantaggi personali.

    Vi furono nel tempo dei sommovimenti interni verificatisi in Inghilterra (non so se anche voi ne verifichiate di simili entro l'ambito dell'Assemblea Nazionale di Francia), alcuni, come il Conte di Polland, che o personalmente o per via delle loro famiglie ebbero a suscitare odio contro il Trono in conseguenza delle prodighe elargizioni di benefici di cui essi medesimi erano stati oggetto. Costoro presero parte ai movimenti di ribellione suscitati da un malcontento del quale essi stessi erano stati causa; volevano cioè scalzare le basi di quel trono al quale in parte erano debitori della loro esistenza medesima e in parte di quel potere che essi impiegavano ai danni del proprio benefattore.

    Se mai si pongano limitazioni alle rapaci cupidigie di tal sorta di gente o se alcun altro si permetta di partecipare al godimento di quegli oggetti sui quali essi hanno rivolto lo sguardo, ben tosto la vendetta e l'invidia vengono a riempire il vuoto lasciato dalla avarizia dei primi. Trovandosi confusa dalla congestione di tante tumultuose passioni, la ragione di costoro perde ogni equilibrio; il loro modo di guardare alle cose diviene indefinito e malcerto; riuscendo inesplicabili agli altri, essi rimangono malcerti anche di fronte a se medesimi. Da ogni parte incontrano limiti e ostacoli all'esplicarsi di una ambizione spoglia di principi direttivi in qualsivoglia ordine di cose che sia fisso e definito. Mentre invece quando si trovano in mezzo ai fumi del disordine l'orizzonte di ogni loro attività sembra allargarsi oltre ogni limite.

    Allorquando uomini appartenenti a classi elevate sacrificano ogni idea della propria dignità sull'altare di una ambizione senza scopo definito e si prestano con mezzi loschi alla esecuzione di imprese indegne, tutta la compagine sociale si trova moralmente degradata. E infatti alcunché di simile non avviene ora in Francia? Non si verificano laggiù, eventi ignobili ed ingloriosi? Una sorta di abbassamento in tutte le manifestazioni della vita politica? E una tendenza generale ad abbassare insieme con la dignità degli individui singoli anche il prestigio e l'importanza dello Stato?

    Altre rivoluzioni furono capitanate da uomini che, mentre si sforzavano di mutare l'ordine della cosa pubblica, sapevano però sublimare la loro stessa ambizione elevando la dignità di quel popolo medesimo del quale venivano turbando la pace. Quelli avevano una vista lungimirante. Tendevano alla riorganizzazione, non alla distruzione del proprio paese. Erano uomini di alto valore civile o militare e costituivano al tempo stesso il terrore, ma anche l'ornamento della loro Patria. Essi non agivano come gli usurai ebrei che attaccano lite l'un con l'altro per vedere chi possa meglio rimediare, con una fraudolente circolazione cartacea di valore deprezzato, ai mali e alle rovine portati nel paese in conseguenza dei loro dissennati consigli. Lo laudi indirizzate a uno di quei terribili uomini del vecchio stampo (Cromwell) da parte di uno dei suoi congiunti che era anche un poeta favorito del tempo, dimostrano bene quale fosse la meta dei suoi propositi e quali fossero in massima parte i risultati conseguiti dalla sua ambizione :

    "Finché voi salite, lo Stato, nel suo splendore, non soffre danno subendo mutazioni per mano vostra e si trasforma come la grande scena del mondo, allorché, senza bruschi passaggi, il nascente sole soverchia le deboli costellazioni della notte".
    Siffatti sconvolgitori dell'ordine pubblico somigliavano assai più ad uomini che volevano asserire il loro naturale diritto e prendere posto nella società anziché a volgari usurpatori del pubblico potere. La loro elevazione era destinata a portare luce e bellezza nel mondo; la loro prevalenza sopra gli antagonisti derivava da una ragione di intrinseca superiorità. La mano che, simile a quella di un angelo sterminatore, colpiva il paese, comunicava ad esso insieme con la sofferenza cagionata anche il dono della forza e dell'energia.

    Io non voglio dire (Dio lo vieta), io non voglio dire che le virtù di tali uomini fossero sufficienti a controbilanciare il peso dei loro procedimenti; ma in certo modo esse rappresentavano un correttivo agli effetti di questi ultimi. Tale era, come ho detto or ora, il nostro Cromwell. Tale presso di voi in Francia era l'intera classe dei Guisa, Condé, Coligny. Tali erano anche i Richelieu, che in tempi più tranquilli operavano ispirandosi a princìpi di guerra civile. Tali (uomini assai migliori che agirono per meno dubbia causa) erano in Francia Enrico IV e Sully, sebbene nutriti in mezzo ai tumulti della guerra civile e non interamente immuni dall’averne sorbiti alcuni effetti.

    E' cosa meravigliosa il vedere come rapidamente la Francia, appena ebbe trovato un momento di respiro, seppe risollevarsi e ricostituirsi dai danni delle più lunghe e spaventose guerre civili che mai siano scoppiate in alcuna Nazione.

    E questo perché? Perché quegli uomini, pur avendo fatto scempio di molte cose, ne avevano rispettata una: la coscienza ideale (the mind) del loro paese. Non era stato soffocato lo spirito di dignità, il giusto orgoglio, il sentimento generoso della gloria e dell'emulazione. Al contrario, tutto questo aveva subito un ardente incentivo. Anche gli organi dello stato, quantunque danneggiati, persistevano in funzione. Erano pure conservati tutti i premi dell'onore e della virtù insieme col riconoscimento ufficiale dei meriti e della distinzione. Ma, a differenza di tutto questo, il disordine che oggi si è verificato in Francia ha intaccato a guisa di paralisi i fondamenti stessi della vita. In codesto paese ognuna di quelle persone che si trovano in condizione di operare secondo i principi dell'onore cade fatalmente in disgrazia e non può avere altra sensazione di partecipare alla vita se non quella di trovarsi sottoposta alle più umilianti mortificazioni.

    E anche questo rango di persone sarà ben presto spazzato via. Nel ceto nobiliare la prossima generazione confonderà le proprie caratteristiche con quelle degli artigiani, degli zotici, degli strozzini, degli usurai e dei giudei, i quali saranno d'ora innanzi loro compari e magari loro padroni. Credete a me, o Signore, quelli che cercano di livellare la società non introducono mai vera eguaglianza. In ogni aggregato sociale che consiste di varie classi di cittadini qualcuna di esse necessariamente deve acquistare un grado di superiorità.

    E per questo i teorici del livellamento assoluto non fanno che travolgere e pervertire l'ordine naturale delle cose; essi aggravano l'edificio sociale mettendo in alto ciò che la solidità della struttura richiederebbe fosse messo alla base. Le associazioni di sarti e di carpentieri, delle quali per esempio si compone la repubblica di Parigi, non potranno mai giungere a quel grado al quale voi vorreste costringerle ad arrivare operando la peggiore di tutte le usurpazioni, l'usurpazione sulle prerogative stesse della natura.


    Note

    (3) "Re Giacomo II avendo cercato di sovvertire la costituzione del regno spezzando il contratto originale tra re e popolo ed avendo per istigazione dei Gesuiti e di altri individui nefasti, violate lo leggi fondamentali, essendosi quindi posto da sé medesimo fuori dal diritto del Regno ha abdicato alle funzioni del Governo e per questo il trono diviene vacante "

    (4) Vedi l'edizione Blackstone della Magna Charta (Oxford 1759).




    (Fine della Seconda Parte)

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    Burke prosegue l’analisi del sermone del Dott. Price discutendo il secondo il punto, quello che afferma il Diritto di deporre i governanti per “cattiva condotta”. Per l’Autore, dinanzi ad un criterio così vago e indefinito nessun governo potrebbe rimanere a lungo in piedi. E ricorda come l’abdicazione di Re Giacomo non fu basata dai rivoluzionari su una “cattiva condotta”, ma sull’accusa gravissima di aver violato il contratto originale tra lui e il popolo mirando a sovvertire le leggi e le libertà inglesi. Viene sottolineato anche come i rivoluzionari ponessero la loro fiducia nella preservazione del sistema costituzionale e non nell’attesa di ulteriori moti rivoluzionari.
    Burke si chiede quindi dell’opportunità, reclamata dal ministro non conformista, di considerare i Re unicamente come “servitori” del proprio popolo. Sotto un certo aspetto essi lo sono, in quanto il potere che esercitano è volto unicamente a procacciare il bene comune, tuttavia la loro posizione è tutt’altra rispetto a quella di un servitore. Questi infatti è tale in quanto deve obbedire al comando del padrone che ha l’autorità di deporlo per arbitrio; il Re d’Inghilterra invece non è sottoposto ad alcuno e per legge tutti – individualmente e collettivamente - gli sono sottoposti e gli devono obbedienza. La Gloriosa Rivoluzione si è guardata bene dall’indebolire l’autorità governante rendendo precario il titolo della sovranità perché ciò avrebbe rischiato di provocare l’anarchia collettiva.

    Il terzo e ultimo punto riguardava il Diritto a costituire Governo da se stessi. Ciò per Burke non presenta relazioni, né di fatto né di principio, con gli eventi della crisi rivoluzionaria. Allora come oggi gli inglesi, ci dice Burke, hanno sempre inteso derivare ogni possesso da una ragione ereditaria che discende dai loro padri, avendo cura di innestare le riforme sulle basi solide delle tradizioni antiche. Persino la Magna Charta, la loro più antico testo di riforma costituzionale, rimandava ad uno precedente, ed entrambi riconfermavano una norma legislativa ancora più antica. Ciò dimostra il carattere persistente e continuativo dell’andamento politico degli Inglesi, per i quali i diritti e le franchigie di libertà di cui sono orgogliosi sono considerati un patrimonio ereditario.
    Questo patrimonio giuridico viene opposto dal Burke agli astratti principi che fondano i Diritti dell’uomo innalzati dai rivoluzionari francesi. Burke si compiace di come presso i padri del diritto inglese la pratica saggezza prevalesse sull’astratta teoricità del sapere e come essi preferissero attenersi all’osservanza di questo titolo di ereditarietà piuttosto che indulgere in astrazioni individualistiche dell’uomo e del cittadino.
    Nella Declaration of Right, ci dice Burke, non si accenna per nulla ad un preteso diritto che il popolo si costituisca da sé i suoi governanti. Dalla Magna Charta a quest’ultima Dichiarazione il sistema costituzionale inglese si è confermato ad una direttiva politica uniforme che riconosce le libertà inglesi come un patrimonio di carattere ereditario, derivato da progenitori e trasmesso ai posteri, lontano da qualsivoglia sistema teorico di diritto affermato in via generica e aprioristica.
    Per gli Inglesi il criterio di ereditarietà fornisce un sicuro principio di conservazione e conferisce all’idea un principio di trasmissibilità, senza eludere le ragioni di un progressivo incremento. In questo modo la vita costituzionale si conforma ai procedimenti della natura: il popolo inglese riceve, tiene e trasmette il governo e le prerogative allo stesso modo in cui usufruisce della vita e della proprietà privata ritrasmettendole nuovamente ad altri. Burke sottolinea come la vita politica inglese segua l’ordine della vita universale, col modo di esistenza proprio degli organismi “che permangono pur essendo composti di elementi transitori”.

    “Conservando anche nell’organismo statale i metodi che sono propri della natura, non ci troviamo interamente nuovi per ogni progresso conseguito, non ci troviamo interamente vecchi per ogni tradizione conservata. Aderendo in questo modo e secondo questi principi ai valori del passato noi non ci lasciamo guidare dalla idolatria superstiziosa dell’antico, ma dalla coscienza filosofica di una analogia continuativa.”

    Burke si compiace di come seguendo nei comportamenti i propri progenitori, “quasi ergendo a canone i loro precetti”, gli Inglesi siano riusciti a far sì che lo spirito di libertà, tendente per natura all’eccesso e alla prevaricazione, venisse contenuto “nella temperanza e nel rispetto della maestosa gravità”. La libertà, attraverso la trasmissione ereditaria, ispira il sentimento di una dignità naturale e nativa, preservandoli da quella grossolana arroganza tipica di coloro che sono assurti di recente a qualche distinzione. In tal modo, ci dice Burke, la libertà assurge per gli inglesi a titolo di distinzione nobiliare.
    Burke sottolinea come più delle sofisticherie francesi è l’esperienza volta alla preservazione dei diritti e dei privilegi degli Inglesi che può portare a risultati adatti ad una libertà ragionevole e costante. Diversamente da questi ultimi, che hanno seguito l’ordine della natura anziché le astrazioni speculative, il popolo francese ha azzerato il suo passato, senza pensare che avrebbe potuto ricostruire il suo edificio su antiche e ancora solide fondamenta. Viene citato a proposito un sistema costituzionale caratterizzato dall’armonia e dall’opposizione di interessi che nella politica come in natura crea l’armonia dall’antagonismo reciproco di energie disaccordi. I Francesi hanno considerato questo gioco di interessi opposti e contraddittori un danno per il loro sistema costituzionale e se ne sono disfatti mostrando disprezzo per tutto quanto apparteneva loro. Viceversa questo sistema, vigente in Inghilterra, ha il vantaggio di eludere ogni riforma precipitata rendendo irrealizzabili gli abusi di un potere arbitrario.
    Burke stigmatizza la mancata osservanza, da parte dei Francesi, di un culto “religioso” della memoria dei loro predecessori, in mancanza del quale ci si accontenta di “rappresentare la parte di tanti servi appena scampati dalle strettoie della galera”.

    L’operato dei rivoluzionari francesi viene fatto oggetto di sferzanti critiche. La felicità, se fondata sulla virtù, può conseguirsi in qualsiasi condizione sociale e in ciò - dice l’Autore - consiste la vera uguaglianza, a differenza di quella “mostruosa finzione” che

    “… serve soltanto a rendere più grave e più amara quella reale forma di ineguaglianza che nessuno potrà mai sopprimere e che l’ordine della vita civile ribadisce, tanto a beneficio di coloro che sono destinati a vivere in umile condizione quanto di coloro che possono aspirare a gradi più alti e più brillanti ma non più felici.”

    Per Burke, “la Francia ha fatto acquisto di miseria a prezzo di delitti”, “ha trascurato l’interesse per prostituire il suo onore”. Ha operato contrariamente a tutte le altre nazioni, che per costituire un nuovo sistema di governo o per riformare quello antico sono partite dai principi religiosi, mentre per stabilire i fondamenti della libertà civile si sono serviti di discipline e sistemi di “maschia moralità”. Viceversa la Francia, dopo aver spezzato le redini dell’autorità regia ha seguito la strada della dissolutezza dei costumi e delle pratiche antireligiose, estendendo “quelle malaugurate forme di corruzione che sono per solito il triste privilegio conseguente alla condizione dei ricchi e dei potenti”.

    Riguardo all’Antico Regime, Burke sottolinea come i Francesi abbiano visto corrompersi lo Stato, che da strumento salutare è diventato veleno. A causa di ciò essi si sono ribellati contro un Sovrano che teneva moderata condotta e che è stato perseguito come il più illegale e sanguinario dei tiranni. I Francesi si sono ribellati contro chi li proteggeva e gli elargiva favori, hanno rovesciato le leggi, depredato la Chiesa e posto l’anarchia civile e militare a fondamento della costituzione nazionale. I valori sono stati sacrificati all’altare della pubblica demagogia, mentre la nuova carta moneta – “frode miserabile e spoliazione da pezzenti” – ha sostituito i due metalli preziosi, simbolo del principio della proprietà privata, anch’esso rinnegato.

    Burke nega la necessità di simili eventi disastrosi, frutto di “propaganda dissennata e violenta, ammannita in tempo di profonda pace”. Questa volontà di operare il male senza bisogno alcuno per l’Autore è riconducibile al modo stesso in cui l’Assemblea Nazionale si è costituita. Mancano, tra coloro che compongono il Terzo Stato, persone che possano vantare esperienze pratiche negli affari di Stato. Gli uomini migliori sono di “pura teoria” e comunque è sempre l’insieme del corpo collettivo quello che – ci dice Burke – costituisce il carattere delle èlites determinandone le azioni. In tutte le organizzazioni collettive i leaders devono infatti conformare i loro propositi ai gusti e ai talenti di coloro che dovrebbero seguirli. Dunque, in un’assemblea composta per la maggior parte di uomini deboli e viziati, è naturale che i migliori diventino strumenti dei peggiori.

    Burke esprime tutto il suo stupore per l’abbandono deciso della tradizione durante la convocazione degli Stati Generali. Per prima cosa sottolinea come il numero dei rappresentanti del Terzo Stato sia tale da equiparare i restanti due. Quindi si sofferma sulla mediocrità che caratterizza la composizione del Terzo Stato nell’Assemblea Generale.
    In primis vengono i praticanti in uffici legali, elementi inferiori quali avvocati di provincia, piccoli ufficiali addetti a giurisdizioni locali, modesti scribi, con contorno di “azzeccagarbugli” e “camorristi”. Seguono i professionisti in medicina, anche loro privi delle caratteristiche necessarie ad uomini dall’indiscusso grado di dignità, e oltretutto inadatti per la loro qualifica ad essere dei buoni legislatori e uomini di Stato. Dietro di essi stanno poi gli affaristi e un’ultima categoria di uomini adatti ad esercitare funzioni esecutive, ma non ad assumere il controllo degli affari generali. Mancano invece del tutto i rappresentanti degli interessi fondiari.
    Burke evidenzia come gli individui dediti ad esercizi professionali e specializzati siano poco adatti a diventare uomini di Stato, essendo privi della necessaria esperienza e larghezza di vedute.

    L’Autore sottolinea come in Francia la maggioranza di persone costituitasi come Terzo Stato, insieme ad alcune rappresentanze del clero (piccoli curati di campagna), fosse divenuta strumento di un’opera di distruzione della classe nobiliare macchinata da elementi appartenenti alla stessa nobiltà. Questi ultimi, che Burke descrive quali individui “turbolenti e scontenti di se stessi”, in ragione della propria arroganza e brama di prestigio personale sono i primi a disprezzare la propria classe di appartenenza. Il fondamento di un retto sentimento politico sta, a detta dell’Autore, proprio nella lealtà e nell’amore verso la categoria sociale della quale si fa parte, primo “anello affettivo di una serie graduale, secondo la quale l’uomo procede attraverso l’amore della propria terra nativa fino a quello dell’umanità intera”.

    Il capitolo qui preso in esame si conclude quindi con un oscuro presagio: in Francia la prossima generazione francesi vedrà le caratteristiche del ceto nobiliare confondersi con quelle “degli artigiani, degli zotici, degli strozzini, degli usurai e dei giudei, i quali saranno d’ora innanzi loro compari e magari loro padroni”. Chi cerca di livellare la società non introduce mai nuova eguaglianza, in quanto in un sistema strutturato in classi una di esse necessariamente prevarrà. Il risultato grottesco ottenuto dagli apologeti del livellamento assoluto è dunque solo quello di pervertire l’ordine naturale delle cose, sistemando in alto ciò che servirebbe di base, a svantaggio di quell’edificio sociale che si è voluto correggere ma che, sovvertendone la composizione tradizionale, si è di fatto affossato.


    Florian

  4. #4
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    Il circolo culturale de IL CONSERVATORE ha iniziato le sue attività proponendo lo studio di un classico del pensiero politico europeo che ha costituito il fondamento del conservatorismo liberale occidentale: le Riflessioni sulla Rivoluzione francese, di Edmund Burke.

    La seconda delle dieci parti in cui è stato suddiviso il libro contiene vari paragrafi che illuminano le coordinate del pensiero di Burke e di un vero conservatorismo liberale. Tuttavia tanto il conservatorismo quanto il liberalismo contemporaneo (nelle sue varianti liberal e libertarian) sembrano aver dimenticato la ragionevolezza burkeana e fatto proprio quel pensiero razionalista, astratto in teoria e rivoluzionario nella pratica, che originò la Rivoluzione francese e che Burke sempre osteggiò opponendovi un riformismo continuista (conservatorismo) basato sui valori dell'esperienza e della tradizione.

    Per Burke:

    1) Il principio di conservazione si basa sull’ereditarietà. E’ il carattere ereditario, dunque persistente e continuativo, di un sano sistema costituzionale, che il saggio statista deve preoccuparsi di preservare da inutili e deleteri moti rivoluzionari.

    2) Chi mantiene viva la tradizione è un conservatore e altresì un riformista. Egli opera affinché sulle fondamenta delle antiche leggi vengano innestate riforme che ne rinvigoriscano la forma, mantenendone però inalterata la sostanza. Conservare non vuol dire quindi cristallizzare, ma al contrario riformare in uno spirito di continuità.

    3) Un saggio statista fa affidamento sulla pratica piuttosto che sulle teorie astratte, in quanto giudica l’esperienza preferibile alla pura ipotesi.

    4) L’andamento della vita politica deve conformarsi all’ordine naturale e lo stato va considerato alla stregua di un organismo che permane, pur essendo composto di elementi transitori. In ragione di ciò non si è mai vecchi per le tradizioni conservate né mai nuovi per i progressi conseguiti.

    5) Lo spirito di libertà tende per natura all’eccesso e alla prevaricazione, dunque deve essere contenuto “nella temperanza e nel rispetto della maestosa gravità”.

    6) Quando la libertà si trasmette per via ereditaria ispira il sentimento di una dignità naturale e nativa, ben distinta dall’arroganza grossolana dei parvenu. In questo modo la libertà assurge a titolo di distinzione nobiliare.

    7) Un sano sistema costituzionale è caratterizzato dall’armonia e dall’opposizione di interessi che, in politica come in natura, crea l’armonia dall’antagonismo reciproco di energie disaccordi.

    8) Un popolo per avere dignità di se stesso deve professare un culto “religioso” della memoria. Chi non ha passato è destinato a non avere un futuro.

    9) Se la felicità è fondata sulla virtù può conseguirsi in qualsiasi condizione sociale. In ciò risiede infatti la Vera Uguaglianza. L’uguaglianza livellatrice dei rivoluzionari rende invece soltanto più amara la reale e insopprimibile disuguaglianza che è propria di un sistema di vita civile.

    10) Alla base di un sistema di governo stanno i principi religiosi e alle fondamenta della libertà civile le discipline e i sistemi morali.

    11) Lo Stato è uno strumento salutare che l’uomo può corrompere in veleno.

    12) In un sistema collettivo le èlites sono soggette ai gusti e ai talenti del corpo sociale.
    Ragion per cui gli elementi migliori diventano inevitabilmente lo strumento dei peggiori.

    13) L’arroganza e la brama di prestigio portano al disprezzo della propria classe sociale.

    14) Il fondamento di un retto sentimento politico risiede nel sentimento di appartenenza, in una catena affettiva che porta gradatamente l’uomo a procedere dall’amore della propria terra nativa fino a quello dell’umanità intera.


    Florian

  5. #5
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    Ho stampato il tutto. Interverrò non prima di stasera, conto comunque di lasciare il mio commento di rientro dal lavoro.
    www.interamala.it - Visitatelo che ci tengo

  6. #6
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    Intervengo a seguito della Prima parte dove ho compreso alcuni punti di un certo interesse che qui voglio spiegare a me stesso più che agli esperti di filosofia politica che qui navigano con competenza.

    A)-"principio autoritario del governo e principio individuale di libertà"-, qui Burke osserva che,in astratto,ambedue sono buoni ma un diverso valore in quanto l'autorità dell Stato è una necessità in funzione della buona amministrazione dello Stato e del monopolio della forza pubblica ,del buon funzionamento del sistema produttivo e distributivo della ricchezza sociale nonchédei modi del vicere civile(i costumi insomma); ebbene la sola libertà individuale che non sappia ottenere ordinariamente quanto il principio d'autorità è destinata a soccombere in breve durata.
    B)-La libertà degli individui non preparati alle responsabilità si trasforma in (volontà) di potenza da cui ci si deve guardare perchè é una grande incognita. ( in queste parole Burke è buon profeta nei riguardi del Bonaparte che non era ancora all'orizzonte politico europeo per non parlare di Hitler e Stalin ).
    Mi sovviene che Bobbio,nelle sue lezioni,affermava che per i teorici quali Hobbes e Bodin,ma vi aggiungerei anche Burke,lo Stato è una Monarchia assoluta con poteri accentrati il cui fine è l'"Ordine."
    Per Burke-così mi pare implicito-tutti i sistemi politici che non siano retti dal "Principio d'Autorità" non possono essere "Stato" che possa durare.E la ragione è molto semplice:
    a)-Lo Stato è al centro dell'organizzazione politica del potere;è esso stesso il Potere;
    b)-Il Potere(lo Stato) implica un rapporto fra un soggetto attivo ed uno passivo ;
    c)-Lo Stato(il POtere) si mantiene con la forza.
    In questi rapporti la libertà politica dell'individuo non può che essere una "concessione" dello Stato non un diritto del cittadino,e dev'essere subordinata alle finalità dello Stato, che ,SE VI RINUNCIA-come in Italia,non può essere rispettato nè garantire nulla ai contropoteri che lo hanno reso impotente ma che non demordono a chiedere tutto e troppo allo Stato senza dare nulla.
    Tornando a Burke,egli scrive della Rivoluzione francese nei suoi effetti ma non ancora sulle cause,così a me pare,ma confido che vi arrivi alla prossima dispensa.
    Egli è preoccupato giustamente,sottolineo, delle dottrine politiche che nei suoi tempi circolano e che sostengono il primato della volonta popolare su cui si fonderebbe la regalità del Monarca e la legalità dello Stato.
    Fra i suoi ragionamenti afferma l'infondatezza di tali dottrine ,messe in circolazione da un teologo( un prete) ,prestato alla politica diremmo noi oggi, per preparare il terreno al futuro che metterebbe in discussione le Istituzioni monarchiche millenarie che si fondano non sul diritto divino ,non sull'elezione come si vorrebbe ma sul diritto che è tutt'uno con il "principio giuridico dell'ereditarietà nella successione dinastica" .Tale principio per Burke è una garanzia di libertà e non un vincolo di servitù etc.
    Ecco, qui in questa difesa del diritto al potere della dinastia monarchica inglese ,avrei gradito un po' di maggior onestà intellettuale da parte di Burke perchè non ci ha spiegato come si possa essere nella condizione politica di suddito senza essere anche un po' servo.
    Florian ,o qualche altro esperto, potrebbe chiarirmi la questione mentre sottolineo che non è una domanda provocatoria o retorica?
    Cordialità.

  7. #7
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    Ho letto per ora solo le prime quattro-cinque pagine, ma mi fermo già un attimo.
    E' infatti secondo me molto interessante discutere a riguardo dell'asserzione dell'autore, secondo il quale è molto più utile e meno rischioso pensare alle libertà e ai diritti come a "un patrimonio di carattere ereditario che a noi deriva dai progenitori e che dobbiamo trasmettere ai posteri (...) senza alcun riferimento a qualsivoglia sistema teorico di diritto affermato in via generica ed aprioristica", piuttosto che parlare di "diritti dell'uomo", come facevano i teorici del diritto di allora e come facevano a fil di spada i rivoluzionari francesi.

    Voi che ne pensate?
    Posto che Burke non nega affatto che esistano dei diritti inalienabili generali, lui pensa concretamente al miglior modo per difenderli. Ed in effetti, se pensiamo anche oggi a quante dichiarazioni di diritti (specialmente diritti sociali, cosiddetti "di secondo grado") sono state fatte dal secondo dopoguerra ad oggi, e sono drammaticamente disattese ovunque...

  8. #8
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    Citazione Originariamente Scritto da tucidide Visualizza Messaggio
    Intervengo a seguito della Prima parte dove ho compreso alcuni punti di un certo interesse che qui voglio spiegare a me stesso più che agli esperti di filosofia politica che qui navigano con competenza.

    A)-"principio autoritario del governo e principio individuale di libertà"-, qui Burke osserva che,in astratto,ambedue sono buoni ma un diverso valore in quanto l'autorità dell Stato è una necessità in funzione della buona amministrazione dello Stato e del monopolio della forza pubblica ,del buon funzionamento del sistema produttivo e distributivo della ricchezza sociale nonchédei modi del vicere civile(i costumi insomma); ebbene la sola libertà individuale che non sappia ottenere ordinariamente quanto il principio d'autorità è destinata a soccombere in breve durata.
    B)-La libertà degli individui non preparati alle responsabilità si trasforma in (volontà) di potenza da cui ci si deve guardare perchè é una grande incognita. ( in queste parole Burke è buon profeta nei riguardi del Bonaparte che non era ancora all'orizzonte politico europeo per non parlare di Hitler e Stalin ).
    Mi sovviene che Bobbio,nelle sue lezioni,affermava che per i teorici quali Hobbes e Bodin,ma vi aggiungerei anche Burke,lo Stato è una Monarchia assoluta con poteri accentrati il cui fine è l'"Ordine."
    Per Burke-così mi pare implicito-tutti i sistemi politici che non siano retti dal "Principio d'Autorità" non possono essere "Stato" che possa durare.E la ragione è molto semplice:
    a)-Lo Stato è al centro dell'organizzazione politica del potere;è esso stesso il Potere;
    b)-Il Potere(lo Stato) implica un rapporto fra un soggetto attivo ed uno passivo ;
    c)-Lo Stato(il POtere) si mantiene con la forza.
    In questi rapporti la libertà politica dell'individuo non può che essere una "concessione" dello Stato non un diritto del cittadino,e dev'essere subordinata alle finalità dello Stato, che ,SE VI RINUNCIA-come in Italia,non può essere rispettato nè garantire nulla ai contropoteri che lo hanno reso impotente ma che non demordono a chiedere tutto e troppo allo Stato senza dare nulla.
    Tornando a Burke,egli scrive della Rivoluzione francese nei suoi effetti ma non ancora sulle cause,così a me pare,ma confido che vi arrivi alla prossima dispensa.
    Egli è preoccupato giustamente,sottolineo, delle dottrine politiche che nei suoi tempi circolano e che sostengono il primato della volonta popolare su cui si fonderebbe la regalità del Monarca e la legalità dello Stato.
    Fra i suoi ragionamenti afferma l'infondatezza di tali dottrine ,messe in circolazione da un teologo( un prete) ,prestato alla politica diremmo noi oggi, per preparare il terreno al futuro che metterebbe in discussione le Istituzioni monarchiche millenarie che si fondano non sul diritto divino ,non sull'elezione come si vorrebbe ma sul diritto che è tutt'uno con il "principio giuridico dell'ereditarietà nella successione dinastica" .Tale principio per Burke è una garanzia di libertà e non un vincolo di servitù etc.
    Ecco, qui in questa difesa del diritto al potere della dinastia monarchica inglese ,avrei gradito un po' di maggior onestà intellettuale da parte di Burke perchè non ci ha spiegato come si possa essere nella condizione politica di suddito senza essere anche un po' servo.
    Florian ,o qualche altro esperto, potrebbe chiarirmi la questione mentre sottolineo che non è una domanda provocatoria o retorica?
    Cordialità.

    Caro Tucidide, ti ringrazio di questo tuo post che alimenta la discussione su Edmund Burke e al tempo stesso sui principi conservatori.

    A mio modo di vedere la domanda che poni nasce da un presupposto inesatto. Banalizzando, mi sembra che tu abbia un po’ confuso Burke con Hobbes. Burke è sì un difensore strenuo dell’istituzione monarchica, tuttavia non crede affatto come Hobbes che il potere debba intendersi in maniera assoluta, e che si identifichi con lo Stato e lo Stato con la Monarchia stessa. Per Burke il principio d’Autorità non è proprio dello Stato e nemmeno della Monarchia che lo regge. L’Autorità ultima, per Burke, risiede nella Legge, nel Diritto.
    Il Re, infatti, se non è un tiranno, è il primo difensore della Legge e in base a questa può essere dai suoi sudditi giudicato e persino detronizzato. Ricordiamoci che Burke è un Whig e dunque un assertore delle legittime prerogative del Parlamento. Su tali basi oppone alla Rivoluzione francese la Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688, fatta non per sovvertire l’Ordine ma per ristabilirlo nella sua giusta misura. E sempre per tal motivo sarà, diversamente dai tories lealisti, accanto ai rivoluzionari americani nella loro guerra per l’Indipendenza.
    Per rispondere quindi alla tua domanda, il suddito è lontano dall’essere un “servo” proprio in quanto un monarca “giusto” è lontano dall’essere un “padrone”. Entrambi partecipano, in una diversa ma al tempo stesso legittima posizione gerarchica a quell’ordine sociale che Burke riverisce in quanto modellato sull’ordine naturale.

  9. #9
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    Posto la prima parte del mio intervento su questa dispensa.
    La prossima arriverà domani (spero di farcela!).
    Ditemi pure se ci sono errori, oppure se ho interpretato male il senso del testo. Grazie


    ------------------------------------------

    Burke respinge con forza la pretesa avanzata dalla Revolution Society, per la quale il popolo ha il diritto di disfarsi dei Governi colpevoli di "cattiva condotta". Una simile affermazione non trova innanzitutto alcuna base nei fatti accaduti con la Gloriosa Rivoluzione del 1688. Re Giacomo II fu deposto non già con l'intento di fomentare ulteriori moti rivoluzionari, per modificare le leggi fondamentali e la forma di governo inglesi, ma proprio con lo scopo di tutelare e ribadire la loro esistenza ed integrità. Fu Giacomo, e non il Parlamento, a causare una condizione di caos e disordine, contrassegnata dal continuo sovvertimento delle libertà del popolo e delle prerogative parlamentari, nonchè della Chiesa protestante. Il sovrano decise da sè di porsi al di fuori del diritto del Regno, giustificando quindi la sua conseguente abdicazione. Fu infatti il re a rompere il "contratto originario" con i suoi sudditi, i quali non si sentirono più tutelati nelle proprie libertà e nei propri diritti inviolabili.
    Questa fantomatica "cattiva condotta" non può certo definirsi come motivo sufficiente per un cambio di Governo; è un criterio palesemente vago ed indefinito, capace di indebolire qualsiasi esecutivo o costituzione. E i padri della Gloriosa Rivoluzione, non a caso, lo rifiutarono in toto per ribadire la loro fiducia nelle antiche leggi e consuetudini garanti dell'ordine. Per rafforzare quest'ultimo, anzi, fu previsto di mantenere sì l'irresponsabilità assoluta del sovrano, ovvero l'impossibilità di essere condotto in giudizio, ma al contempo di garantire al Parlamento un continuo controllo delle attività statali ed amministrative, attraverso frequenti riunioni ed adunate parlamentari, e l'esercizio dello strumento ispettivo. Per controbilanciare l'irresponsabilità regia, fu adottata la responsabilità piena dei ministri del Governo, sempre con lo scopo di preservare i diritti e le libertà di tutti, ed evitare così ogni vulnus pericoloso e il ripetersi di situazioni gravissime come quella provocata da Giacomo II.
    Burke respinge anche la concezione del sovrano come "servo del suo popolo". Un simile appellativo contrasta con la legge e con il buon senso. Infatti, il re senz'altro ha il compito di perseguire il bene comune, ma egli non deve obbedire a nessuno. A lui semmai è dovuta obbedienza, da parte delle singole persone e dalle collettività, in conformità alla legge. A differenza di quanti occupano un servizio e sono responsabili rispetto ad un proprio superiore, il Re d'Inghilterra è irresponsabile, non può essere soggetto alla magistratura e al giudizio. Allo stesso modo, anche i Lords e i Comuni, nell'ambito della loro capacità giuridica, non devono rispondere della loro condotta. Burke osserva inoltre che spesso nella storia proprio i cosiddetti "servitori" si sono dimostrati i più oppressivi dominatori. Il riferimento al Pontefice Romano, "pescatore" in quanto erede di Pietro, è evidente e caustico.
    I padri della Gloriosa Rivoluzione non vollero indebolire l'autorità e rendere precaria la monarchia, causando l'anarchia collettiva, bensì precisare meglio le prerogative di ciascuno, per impedire eccessi e violazioni delle leggi fondamentali. Vollero pertanto garantire il sistema, non capovolgerlo o attaccarlo dalle fondamenta.
    E tuttavia è ben vero che Giacomo II fu detronizzato, a seguito di una guerra civile, che ad ogni modo può definirsi come "giusta". Il momento fu del tutto eccezionale, e non diede luogo ad una prassi o ad un criterio comune. La decisione sì grave trovò compimento non già in seguito ad un atto o ad un fatto specifico, ma solo dopo una serie circonstanziata di comportamenti che posero al di là del diritto il sovrano, per sua sola colpa.
    Si verificarono infatti enormi abusi nel governo, che costrinsero ad una resistenza legittima per preservare l'ordine (non per attaccarlo!). L'espediente fu comunque estremo ed eccezionale, attuato con l'unico scopo di salvaguardare lo Stato legittimo.
    Ed è altresì da rifiutare, per Burke, il fatto che sia lecito formare ex-novo un Governo in grado di sostituirsi completamente al precedente. Questo "diritto", proclamato dai club e dalle società inglesi favorevoli alla Rivoluzione francese, provoca un senso di orrore e di disgusto. Burke sottolinea che ogni riforma inglese ha sempre avuto una base solida, un riferimento alle antiche tradizioni e consuetudini, senza alcuna violenza sull'impianto originario. Quest'ultimo lentamente si evolve, ma non può essere sovvertito e stravolto.
    Persino la Magna Charta Libertatum (rilasciata su pressione dei baroni da Giovanni Senza Terra nel 1215), che impediva al sovrano di imporre nuove tasse senza l'assenso del Parlamento, ed affermava il diritto di regolare processo, in realtà si fondava su dei precedenti, che a loro volta risalivano a tempi ancora più antichi. Tutto il sistema costituzionale, quindi, traeva origine e giustificazione dal continuo succedersi di atti legati fra loro in modo indissolubile, fino a caratterizzarsi per una solidità e persistenza significative.
    Quando nel 1628 il Parlamento presentò a Carlo I Stuart la Petition of Right, non si vollero reclamare nuovi diritti in sfregio alle leggi, ma si intese solamente richiamare il sovrano al rispetto delle antiche norme e consuetudini, facenti parte del patrimonio giuridico inglese frutto di una plurisecolare elaborazione. Furono pertanto ecluse rivendicazioni vaghe e astratte, portatrici di disordini e dalle conseguenze imprevedibili; ma si valorizzò il lascito dei progenitori, senza chiedere di più. Il "principio di ereditarietà", a base della legittimazione dinastica, può quindi essere a buon ragione applicato anche per la continuità e la giustificazione delle norme di diritto.
    Nel 1689, con il Bill of Rights, non si fece la minima allusione ad un presunto diritto del popolo di formare da sè un Governo e di scegliere i propri governanti, ma si mantennero intatte le antiche consuetudine ereditate dai secoli addietro, e anzi si sancì il loro pieno ripristino dopo il periodo di sovvertimento causato dalle azioni pericolose di Giacomo II, in spregio alla religione ed alle franchige popolari. Un unico filo unisce quindi la Magna Charta con il Bill of Rights, con una garanzia di uniformità.
    L'Inghilterra si giova di un sistema resistente, che si basa sull'ereditarietà (per la successione monarchica, per la nobiltà, per i privilegi del Parlamento, per i diritti dei sudditi); un sistema refrattario alle innovazioni radicali, ma pronto ad accogliere -sempre sulla base di tale principio- le esperienze rivelatesi positive e utili per il bene comune: i "nuovi acquisti" di comprovata affidabilità sono dunque sempre possibili.
    La costituzione inglese riflette il passato ed è destinata ad essere trasmessa ai posteri, in un processo senza fine, che garantisce la massima stabilità. Essa rassomiglia quasi ad una eredità famigliare che viene ricevuta, tenuta e poi passata ai successori. Gli inglesi, ormai abituati da secoli al principio di ereditarità, sono intimamente legati a questa costituzione, e la tengono fermamente come un valore da difendere ad ogni costo, e da consegnare ai propri figli, esattamente come la propria casa o la proprietà.
    Nulla può turbare quest'ordine stabilito da lunghissimo tempo, da epoche remote, e sancito in ogni occasione, persino in quelle più instabili. Dopo il momento provvisorio di caos, esso ritorna sempre, per fermo desiderio dello stesso popolo inglese.
    Come l'uomo è generato da un padre e da una madre, e a sua volta genera i suoi eredi, così il patrimonio delle leggi e delle consuetudini d'Inghilterra trae origine dal passato, vige per il presente, e continuerà a permanere per il futuro, trasmesso di generazione in generazione. Esso non è mai nè vecchio, nè di mezza età, nè giovane, ma sussiste e si trasmette indefinitamente, senza conclusione o traumi rilevanti, accogliendo solo quanto di buono è stato provato a sufficienza per poter essere accolto, con un arricchimento progressivo. Conservazione infatti non significa idolatria dell'antico, incapacità di trovare risposte nuove ed adeguate a nuovi problemi, ma il mantenimento di ciò che si è dimostrato positivo ed utile, e il rigetto invece di quanto non è apparso soddisfacente. Il criterio di ereditarietà salvaguarda questo sistema dall'entrata aggressiva e turbolenta di innovazioni pericolose, in grado di scardinare il sistema e di condurlo ad una degenerazione caotica.
    La libertà inglese, che sottostà a tale principio, può dunque vantare origini antichissime, illustri precedenti, una genealogia inattaccabile, una permanenza unica rispetto agli altri Stati europei. Essa si è forgiata nelle difficoltà, ha trapassato i secoli per giungere intatta sino all'epoca contemporanea, e si è contraddistinta per la temperanza ed una maestosa gravità, di cui il popolo può andar fiero. Rispetto alle astrazioni teoriche, alle speculazioni, la libertà inglese è stata sperimentata in modo concreto, si è affermata e radicata stabilmente presso i sudditi, impregna le istituzioni e si fa rispettare, costituisce una preziosissima eredità da proteggere e consegnare con fiducia ai posteri.
    La storia francese, all'opposto, è contrassegnata da innovazioni continue della costituzione, da una instabilità che impedisce l'affermarsi di un sistema certo e riconoscibile. Eppure, erano state poste delle fondamenta, esistevano delle basi su cui formare una costituzione capace di ricomporre i diversi interessi. In una società esistono infatti differenti istanze, che possono scontrarsi in un vero e proprio conflitto esplosivo (e alla fine deleterio per il bene di tutti), oppure, attraverso un'opera di mediazione, riequilibrarsi e trovare soluzione in compromessi avanzati. La salda società inglese si contraddistingue proprio per questa capacità di ricomposizione, che frena il conflitto e lo assorbe in modo positivo, accogliendo le parti buone delle più variegate opinioni; all'opposto la debole e frantumata società francese soffre per questi interessi opposti e contraddittori, che rischiano di mandare all'aria l'ordine, ed annullano qualsiasi possibilità di ricomposizione (con possibili sbocchi nel potere assoluto, per cui decide uno solo e tutte le altre opinioni non valgono nulla, oppure nell'anarchia generale).


    (1. Continua)

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    Citazione Originariamente Scritto da UgoDePayens Visualizza Messaggio
    Ho letto per ora solo le prime quattro-cinque pagine, ma mi fermo già un attimo.
    E' infatti secondo me molto interessante discutere a riguardo dell'asserzione dell'autore, secondo il quale è molto più utile e meno rischioso pensare alle libertà e ai diritti come a "un patrimonio di carattere ereditario che a noi deriva dai progenitori e che dobbiamo trasmettere ai posteri (...) senza alcun riferimento a qualsivoglia sistema teorico di diritto affermato in via generica ed aprioristica", piuttosto che parlare di "diritti dell'uomo", come facevano i teorici del diritto di allora e come facevano a fil di spada i rivoluzionari francesi.

    Voi che ne pensate?
    Posto che Burke non nega affatto che esistano dei diritti inalienabili generali, lui pensa concretamente al miglior modo per difenderli. Ed in effetti, se pensiamo anche oggi a quante dichiarazioni di diritti (specialmente diritti sociali, cosiddetti "di secondo grado") sono state fatte dal secondo dopoguerra ad oggi, e sono drammaticamente disattese ovunque...
    mi pare coerente con un sano tradizionalismo ritenere che i diritti inalienabili siano in sostanza il frutto delle battaglie dei padri e che dovere dei posteri sia quello di garantirli con leggi giuste e ragionevoli,invece di costruire utopie a tavolino che sotto il sipario nascondono solo dei campi di concentramento.
    quindi direi che il modo migliore per garantire i diritti siano delle buone costituzioni e dei ragionevoli trattati internazionali,anzichè delle dichiarazioni universali che pretendono di disegnare un uomo che nella realtà non esiste

 

 
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