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    Predefinito FORMAZIONE - Burke: Riflessioni sulla Rivoluzione francese_1

    EDMUND BURKE


    RIFLESSIONI SULLA RIVOLUZIONE FRANCESE


    Parte I


    Signore,
    Vi siete compiaciuto di chiedermi nuovamente e con certa sollecitudine, le mie opinioni intorno agli ultimi avvenimenti di Francia. Non crediate che io attribuisca ai miei pensieri una importanza tale da meritarmi di essere richiesto e interrogato intorno ai medesimi. Essi sono di troppo piccola importanza perché debbano venire esposti oppure accettati con soverchia sollecitudine. Se ho esitato a farveli conoscere allorché voi me ne avete richiesto la prima volta, ciò fu per riguardo a voi e a voi solo. Nella prima lettera che io ho avuto l'onore di scrivervi e che poi vi ho anche trasmessa, non mi fondavo su giudizi altrui, né pro, né contro; ugualmente in questa. Se commetto qualche errore, colpa mia. Ne è responsabile solamente la mia propria reputazione.
    Voi avrete veduto, Signore, leggendo la lunga lettera da me inviatavi, che (sebbene io abbia il più vivo desiderio di veder regnare in Francia uno spirito di ragionevole libertà e sebbene io pensi che secondo tutte le regole di una buona politica voi dovreste affidare ciò a un corpo permanente nel quale tale spirito risieda o ad un organo esecutivo per mezzo del quale esso trovi attuazione) tuttavia con sommo rammarico devo dire che nutro molti dubbi intorno a varie circostanze di fatto inerenti alle ultime vicende politiche del vostro paese.
    Voi pensavate, scrivendo la vostra ultima lettera, che io potessi essere annoverato tra coloro che hanno approvato i più recenti avvenimenti di Francia, come è accaduto in due Clubs londinesi chiamati Constitutional Society e Revolution Society che li hanno solennemente sanciti e suggellati.
    Io ho certamente l'onore di appartenere a più di un Club nel quale la costituzione di questo regno e i principi della nostra gloriosa rivoluzione sono tenuti in grande riverenza; ed annovero me stesso fra i più decisi difensori di questa costituzione per conservare i principi ai quali essa si informa nella loro massima purezza e nella loro piena efficienza.
    E’ appunto per questo mio deciso atteggiamento che desidero togliere di mezzo ogni equivoco. Coloro che hanno il culto delle nostre grandi memorie rivoluzionarie e che si sentono attaccati alla costituzione di questo regno hanno cura di non venire confusi con certuni che, protestandosi zelatori della rivoluzione come della costituzione, troppo di frequente si allontanano dai veri principi dell'una e dell'altra; o sono pronti in ogni occasione a dipartirsi da quello spirito tenace, cauto e deciso, che ha prodotta la prima e che sorregge continuamente la seconda.
    Prima ancora che io entri a discutere in merito ai problemi fondamentali proposti nella vostra lettera, permettete che io vi comunichi quelle informazioni che sono riuscito ad ottenere intorno ai deliberati di quei Clubs, che hanno creduto opportuno interferire ufficialmente quali enti collettivi, pronunciandosi in merito agli affari di Francia. Ma innanzitutto vi assicuro che io non sono e non sono mai stato membro di quelle società.
    Il primo di tali Clubs che si è attribuito il nome di Constitutional Society o Society for Constitutional Informations (o quale altro titolo si voglia) esiste, io credo, non più che da sette oppure otto anni. Deve la sua esistenza a un motivo lodevole in ragione che è ispirato da benefica intenzione. Questo istituto si è costituito per mettere gratuitamente in circolazione a spese degli associati un certo numero di libri che poca gente avrebbe voluto acquistare e che sarebbero rimasti per ciò nella bottega del libraio, a gran detrimento di questa utile categoria di commercianti. Che questi libri così caritatevolmente messi in circolazione siano anche stati letti con uguale spirito di carità, non potrei assicurarlo. Forse alcuni di essi sono stati esportati in Francia e al pari di altra mercé che qui non trova acquirenti, ha avuto invece nel vostro paese un certo mercato. Ho sentito molto parlare dei lumi che sarebbero scaturiti dai libri inviati laggiù. Quale pregio essi abbiano acquistato attraversando lo stretto (o se sia avvenuto di essi come di quei tali liquori che si migliorano durante il viaggio di trasporto in mare) non saprei dire; io però non ho mai sentito un solo uomo di criterio comune, che avesse un minimo di cultura, spendere una parola di lode per la più gran parte delle pubblicazioni messe in giro da tale società; e le voci sui vantaggi da essa procurati non hanno credito che tra pochi membri della società medesima.
    Pare che la vostra Assemblea Nazionale abbia concepita la stessa opinione mia nei riguardi di questo povero Club di carità. Come nazione, voi avete riservati i fiumi della vostra riconoscente facondia per la Revolution Society; quantunque a tale riconoscenza avessero avuto parzialmente diritto anche i signori della Constitutional, per esser giusti. Poiché voi avete voluto scegliere la Revolution Society per farne oggetto fondamentale dei vostri ufficiali ringraziamenti esaltatori, mi scuserete se io appunto muovo le mie osservazioni intorno alla condotta recente di quest'ultima.
    La Assemblea Nazionale di Francia ha conferito importanza a quei signori, nominandoli; essi ricambiano il favore operando come un'agenzia inglese per la divulgazione dei principi della Assemblea Nazionale. Per questo noi dobbiamo considerare quella gente come una categoria di persone privilegiate e membri non trascurabili del corpo diplomatico. La vostra è una di quelle rivoluzioni che hanno conferito splendore a cose oscure e distinzione di merito a valori sconosciuti. Fino a quel momento infatti io non ricordo di aver mai sentito parlare di tale associazione. E sono anche certissimo che essa non ha mai occupato per un solo istante il mio pensiero; né quelli, credo, di alcun'altra persona ad eccezione dei suoi affiliati. Sono venuto a conoscere, dietro inchiesta, che ricorrendo l'anniversario della Rivoluzione del 1688 un Club di dissidenti, di non so qual denominazione, ha avuto per lungo tempo l’abitudine di adunarsi in una delle sue chiese per ascoltarvi un sermone; e dopo questo gli associati, come avviene di solito in tutti i Clubs andavano a godersi la giornata all'osteria. Ma non ho mai sentito che in tali festini si siano prese formali deliberazioni inerenti ai problemi della vita pubblica, ai sistemi politici, e tanto meno al merito di costituzioni straniere. Se non che un bel momento, con mia indicibile sorpresa, vedo che quel Club assurge a una specie di pubblica dignità, inviando una espressione di plauso ufficiale a sanzionare gli atti della Assemblea Nazionale di Francia.
    Negli originari principi e nella condotta del Club, almeno per quanto viene dichiarato, non vedo nulla a cui si possa muovere eccezione. Credo molto probabile che nuovi membri siano entrati ad ingrossare le file con particolari finalità, e che alcuni cristianissimi politicanti di quelli che amano dispensare i benefizi ma nascondere la mano che li ha prodotti, abbiano fatto di quel Club uno strumento dei loro timorati progetti.
    Quali possano essere le ragioni che mi inducono a sospettare circa le manovre private di costoro, io non parlerò con sicurezza se non di quelle cose che sono di dominio pubblico.
    Quanto a me sarei spiacente si credesse che io sia direttamente o indirettamente compromesso in queste vicende. Certamente, secondo l'uso generale, io prendo la mia piena parte, in quanto sono un privato cittadino, nell'indagare ciò che è stato fatto o che sta per essere fatto sulla scena pubblica del mondo, cosi nei tempi antichi come nei moderni, sia nella repubblica romana come in quella di Parigi. Ma siccome non mi sento insignito di una apostolica missione e sono cittadino di uno stato singolo e mi trovo quindi vincolato dalla pubblica volontà di questo, io crederei, quanto meno, di commettere azione impropria e scorretta se volessi aprire una formale corrispondenza con il governo attuale di una nazione straniera, senza previa autorizzazione espressa del mio proprio governo.
    E tanto meno io vorrei impicciarmi in una tale corrispondenza sotto pretesto di enunciazioni fittizie, le quali potrebbero far credere ai profani che un appello cosiffatto sia opera di persone realmente investite di pubblica autorità sanzionata dalle leggi di questo regno ed autorizzate ad operare in qualità di enti organici rappresentanti una parte di esso. A motivo della ambiguità e della incertezza a cui si ispirava questa presentazione fraudolenta (e non per mera questione formale), la Camera dei Comuni avrebbe respinta qualsiasi petizione, fosse pure sopra un oggetto di importanza non trascurabile.
    Al contrario quella denominazione insincera è valsa presso l'Assemblea Nazionale di Francia a far sì che i battenti si aprissero per una accoglienza più cerimoniosa e decorativa di quanto sarebbe accaduto se l'intera rappresentanza ufficiale del popolo inglese avesse dovuto essere colà ospitata ed accolta. Se l'appello che la suddetta società ha creduto opportuno di inviarvi fosse stato semplicemente un brano di dissertazione teorica, importerebbe poco di conoscere il suo contenuto. Non aggiungerebbe e non toglierebbe niente a favore del partito da cui è scaturito tale appello. Ma qui si tratta dì ben altro. Si tratta di ciò che noi chiamiamo voto e risoluzione. In tal caso la forza di un tale documento consiste solo nel suo grado di autenticità ; ma in questo caso la semplice autorità degli individui è assai minore di quanto non sembri. A me pare che, comunque, la loro firma avrebbe dovuto essere annessa al documento. Così il mondo avrebbe avuto modo di conoscere il numero dei firmatari, la loro identità personale; e avrebbe potuto vagliare l'importanza delle loro opinioni secondo il grado di prestigio, di valore sociale, dì cultura, di autorità, che tali firmatari presentano ciascuno per sé. Quanto a me che sono un uomo di idee chiare e semplici, ho l'impressione che il contegno di quei tali signori sia fin troppo ingegnoso e sottile, avente tutta l'aria di uno stratagemma politico usato allo scopo di accrescere, con una qualificazione pomposa, importanza alle pubbliche dichiarazioni del loro Club; importanza che, a esame sostanziale delle circostanze di fatto, apparirebbe molto sminuita. Questo genere di politica somiglia molto alla frode.
    Tengo anch'io moltissimo, né più né meno che i componenti di quel Club, alla instaurazione di una libertà moralmente disciplinata; e anzi credo di aver portati buoni servigi a servizio di questa causa durante il corso intero della mia vita pubblica. E la libertà delle altre nazioni è per me oggetto di gelosia né più né meno che per i signori di quel Club.
    Ma non posso farmi avanti a distribuire lode o biasimo in ciò che si riferisce alle azioni umane, sulla semplice constatazione di un proposito privo di relazioni con la realtà sperimentata e campato sulla teorica nudità di una astrazione metafisica. Giacché proprio quelle relazioni (che certi signori trascurano di considerare) conferiscono ad ogni principio politico un suo tono particolare traducendolo in un effetto circostanziato. Sono appunto le circostanze di fatto quelle che traducono ogni schema di dottrina politica o in risultati benefici o in risultati nocivi per l’umanità.
    Da un punto di vista astratto si può dire che è buono tanto il principio autoritario del governo quanto il principio individuale della libertà. Ma, in norma di senso comune, avrei potuto io dieci anni or sono felicitarmi con la Francia per il suo governo (giacché allora un governo esisteva) senza accertarmi previamente in linea di fatto quale fosse la natura reale di questo governo e quale la sua struttura amministrativa? E posso congratularmi oggi con la stessa nazione a riguardo della sua attuale libertà?
    Forse per il fatto che la libertà (intesa astrattamente) può essere classificata tra i benefici dell'umanità, io sarei tenuto a felicitarmi con un pazzo fuggito dalla oscurità protettiva della sua cella, il quale in tal modo abbia riconquistata alla luce del giorno la libera disponibilità di sé stesso? E ancora dovrò rallegrarmi con un ladrone o con un assassino evaso dalla galera per il fatto che egli si è reintegrato nei suoi pretesi diritti naturali di libertà? Ciò equivarrebbe a rinnovare la scena dei criminali condannati al carcere, che vengono liberati dal metafisico eroismo del Cavaliere dalla Triste Figura.
    Quando io osservo l'idea della libertà tradotta in forza operativa, non posso fare a meno che riconoscere la potenza efficace di questo principio. E mi limito per ora a questa constatazione di fatto. Somiglia al primo momento di una fermentazione allorché si sprigionano selvaggiamente i gas. Per giudicare i risultati del fenomeno bisogna attendere che la prima effervescenza sia un po’ calmata, che il liquido ritorni trasparente permettendo di scorgervi qualche cosa di più che un semplice ribollimento di superficie. Allo stesso modo, prima che io possa felicitarmi pubblicamente con alcuno per un beneficio è ben certo che io debba preventivamente sincerarmi esser quel beneficio effettivo e reale.
    La adulazione corrompe al tempo stesso colui che la riceve e colui che la esprime; è deleteria moralmente ai popoli né più né meno che ai re. Per questo devo sospendere ogni espressione di compiacimento per la nuova libertà di cui gode la Francia fino a che io non abbia assunte informazioni sul modo con cui questa libertà è stata realizzata in rapporto alle funzioni del governo, agli strumenti della forza pubblica, alla disciplina dell'organizzazione militare, al sistema produttivo e distributivo della ricchezza sociale, ai principi della morale o della religione, alla tutela della proprietà, alle garanzie dell'ordine pacifico, alle modalità del vivere civile e sociale. Tutte queste cose in sé medesime rappresentano considerevoli valori; senza di esse la libertà non costituisce un beneficio sostanziale e non può avere lunga durata.
    L’effetto della libertà per gli individui è questo; che essi possono fare ciò che loro piace: noi dobbiamo aver modo di verificare quale uso praticamente essi facciano della libertà medesima, prima di arrischiare congratulazioni che possono ben presto esser trasformate in compianto. E' cosi che la prudenza ci consiglia di agire verso gli uomini, considerati come individui separati.
    Quando poi gli uomini agiscono come gruppi organizzati, allora la libertà si trasforma in potenza. La gente assennata non esprimerà il proprio giudizio in proposito senza aver vagliato preventivamente l'uso che si farà di questa potenza. Giacché l’uso di un potere nuovo in mano di persone nuove costituisce una grande incognita in quanto non si conoscono ancora i prìncipi, i caratteri, le disposizioni di questi individui e ben sovente coloro che figurano sulla scena come direttori del movimento sono invece rimorchiati da altri che rimangono nascosti.
    Ma tutte queste considerazioni non toccano la dignità trascendentale della Revolution Society. Mentre stavo alla campagna, donde ho avuto l'onore di scrivervi la prima volta, non avevo che una idea imperfetta delle attività di tale sodalizio. Ma appena ritornato in città mi sono procurato una informazione generale delle direttive a cui esso si ispira. Queste sono state pubblicate e rese note ufficialmente per ordine della società stessa: sono contenute in un sermone del Dr. Price, in una lettera del Ittica De la Rochefoucault e dell'Arcivescovo di Aix, oltre che in pochi documenti allegati. L'insieme di questa produzione, il cui disegno manifesto era di stabilire una connessione reale tra le cose nostre e quelle di Francia e di trascinarci ad imitare la condotta dell'Assemblea Nazionale, mi ha data un’impressione assai penosa.
    L'influenza di tale condotta sul potere pubblico, sulle condizioni del credito, divenne di giorno in giorno più evidente; e la forma della costituzione che si sarebbe stabilita divenne pure ad ogni ora più palese. Siamo oggi arrivati al punto da poter discernere con sufficiente chiarezza la natura verace dell'oggetto che ci viene proposto ad esempio. Se vi sono circostanze in cui la prudenza, la riservatezza e una certa dignità suggeriscono che si conservi il silenzio, ve ne sono altre nelle quali una prudenza di ordine superiore giustifica il fatto che si dia pubblicità ai propri convincimenti. Il principio della confusione che si è generata è in verità al presente abbastanza tenue; ma in Francia ne abbiamo visti di ancora più tenui acquistare improvvisamente una forza impreveduta, accumulare montagne su montagne e finire per dichiarare la guerra ai cieli.
    Quando la casa del vicino comincia a bruciare non è male che le pompe lavorino un poco anche sulla nostra. E' meglio peccare per eccesso di precauzione che andare in malora per aver nutrito troppa fiducia.
    Siccome la tranquillità del mio paese è cosa che mi sta a cuore sopra tutto, senza per questo che io trascuri di considerare ciò che riguarda le cose del vostro paese, io darò a questa comunicazione un'ampiezza maggiore di quanto non avevo precedentemente destinato di fare a soddisfazione soltanto della vostra richiesta. Ad ogni modo terrò sempre presenti gli affari che vi interessano e continuerò a indirizzarmi a voi. Permettendomi pure di proseguire nella forma di una conversazione epistolare, vi prego di lasciare che io esponga i miei pensieri ed esprima i miei convincimenti con quella libertà con cui essi si presentano alla mia mente, facendo poca attenzione alla forbitezza formale dell'eloquio.
    Comincerò col prendere in considerazione gli atti della Revolution Society, ma non mi limiterò a questi soltanto. E infatti come sarebbe ciò possibile? Mi sembra di trovarmi in mezzo ad una grande crisi, nella quale non è interessata solamente la Francia, ma l'Europa intera; e forse neppure soltanto l'Europa. Considerando tutte le circostanze, bisogna riconoscere che la Rivoluzione Francese è l'avvenimento più stupefacente che nella storia del mondo si sia mai prodotto fino ad ora. Le cose più sorprendenti sono state eseguite in parecchie circostanze con mezzi assolutamente assurdi e ridicoli, ed evidentemente con l'impiego di strumenti e di metodi spregevoli. Tutto sembra fuori di natura in questo strano caos in cui si mescolano leggerezza e ferocia, in questa confusione di delitti e di follie travolti insieme. Nella visione di questa scena tragicomica vediamo succedersi necessariamente conflitti di opposte passioni che talvolta si mescolano bizzarramente le une con le altre; il riso si confonde colle lacrime, lo scorno si mescola all'orrore.
    Tuttavia non si può negare che a taluno questo strano spettacolo appare da un punto di vista affatto differente, cosicché esso non ha ispirati altri sentimenti se non di esultanza ed estasi. Gente così fatta non ha visto negli eventi della Francia che una manifestazione gagliarda e affinata dello spirito di libertà; e nel complesso così concorde con i principi della morale umana e della pietà religiosa, da conformarsi non soltanto alla approvazione secolare di quei politici che fanno professione di machiavellismo, ma anche alla effusione di sentimenti devoti e di sacra eloquenza.
    Il 4 novembre ultimo scorso il Dott. Richard Price, ben conosciuto ministro di fede non conformista, predicava nella riunione dei dissidenti tenuta in Old Jewry, come sede sociale del suo Club, sfoggiando nella sua eloquenza un sermone di gusto veramente eccezionale. In esso si mescolavano le espressioni di alcuni sentimenti morali e religiosi indiscutibilmente buoni e bene manifestati, con una serie ben differente di opinioni e di riflessioni d'altra natura; ma l'ingrediente fondamentale di questa eterogenea composizione era la rivoluzione francese. L'appello che la Revolution Society ha lanciato all'Assemblea Nazionale per mezzo del Conte Stanhope trae indubbiamente origine dai principi di quel sermone ed è al tempo medesimo un corollario di esso. E' il predicatore medesimo che lo ha promosso. Gli ascoltatori che ne avevano tratta ispirazione entusiastica lo hanno adottato così come stava, senza sottoporlo a censura o a controllo, né espresso né implicito. Se tuttavia taluno dei signori che sono interessati in questa faccenda desidera far questione distinta del sermone così com'era, dai risultati che ad esso sono conseguiti, sa come deve fare per accettare rimo e disapprovare gli altri. Egli può bensì far questo; io no.
    Quanto a me, dunque, considero l'avvenuta predica come dichiarazione pubblica di un uomo che si è molto immischiato in cabale letterarie e intrugli filosofici con politicanti della teologia e teologi politicastri, così in patria come all'estero. So benissimo che questo autore è stato portato avanti come una specie di oracolo perché, con le più belle intenzioni del mondo, egli è naturalmente portato a filippizzare e canta i suoi inni profetici perfettamente all’unisono con le mire dei suoi ammiratori.
    Questo sermone è di tale stile e di tale gusto che io credo sia senza esempio nella storia del nostro regno, almeno per quanto è stato detto fin qua dall'alto di pulpiti o tollerati o protetti dopo l’anno 1648, allorché un predecessore del Dr. Price, il Rev. Hugh Peters, fece rintronare le volte della stessa cappella reale nei palazzo di St. James parlando dei privilegi dei santi, i quali "avendo nella bocca gli elogi di Dio e nelle mani una spada a doppio taglio, stavano per eseguire il giudizio sui pagani e per esercitare la punizione sul popolo; caricare di catene i sovrani medesimi e mettere in ceppi ferrei i loro stessi vassalli" (Salmo 149). Poche arringhe pronunciate da un pulpito, quando si eccettuino i tempi della Lega di Francia o quelli pure della nostra solenne Lega e del nostro Covenant in Inghilterra, possono essere paragonate con quella tenuta ad Old Jewry quanto alla mancanza di spirito di moderazione in essa manifestatosi.
    Ma anche ammettendo che in quella predica a scopo politico si fosse potuto notare qualche cosa di simile al sopraccennato spirito, tuttavia sta sempre il fatto che la politica e il pulpito sono due termini che vanno poco d'accordo l'uno coll'altro. In chiesa non si deve intendere altra voce che quella moderatrice ispirantesi alla carità cristiana. La causa della libertà, civile e del pubblico reggimento, al pari come la causa della religione stessa, ha poco da guadagnare da questa confusione. Quando si vedono uomini che si spogliano delle loro caratteristiche per assumerne altre che loro non appartengono, si può esser certi che costoro in massima parte sono incapaci di rappresentare e neppure di esercitare decisamente così la parte che hanno abbandonata come quella che hanno assunta. Costoro, trovandosi affatto nuovi ed inesperti di quel mondo di cose nelle quali hanno fretta di mescolarsi e privi di esperienza nelle vicende che ad esso conseguono e negli affari sui quali essi sentenziano con tanta disinvoltura, dalla vita politica non sanno trarre altro se non incentivo alle passioni inferiori che questa viene eccitando. Certamente la chiesa è il posto dove le inquietudini quotidiane devono trovare sosta affinchè si ricompongano in armonia le animosità e i dissensi del genere umano.
    Ho considerato questa strana ripresa di predicazione polemica che ritorna dopo cosi lungo intervallo, come un fatto nuovo; ma di una novità che non va priva di rischio.
    Non voglio attribuire effetti ugualmente pericolosi a tutto il discorso pronunciato, in ciascuna delle sue parti. L'allusione fatta a un nobile e reverendo teologo laico, che si suppone tenga un alto ufficio in una delle nostre università, (1) e ad altri teologhi laici "che occupano un certo grado nel mondo e nella letteratura" sarà conveniente e opportuna, ma alquanto nuova. Se i nobili — ricercatori — non trovassero sul vecchio mercato della chiesa nazionale o in tutto il ricco e vario assortimento dei magazzini delle congregazioni dissenzienti, nulla che soddisfi le loro pie fantasie, il Dott. Price li consiglia di perfezionare il non conformismo e di impiantare, ciascuno di essi separatamente, una casa di riunione, sui propri particolari principi (2). È abbastanza notevole che questo reverendo teologo sia così zelante per la costituzione di nuove chiese e così perfettamente indifferente circa la dottrina da insegnarsi in esse. Il suo zelo ha un curioso carattere. Non è per la diffusione di opinioni sue proprie, ma di qualunque opinione. Non per la diffusione della verità, ma per spargere la contraddizione. Purché i nobili maestri dissentano, non ha importanza per lui precisare da chi o da che cosa dissentano. "Una volta garantito questo punto essenziale, è ovvio che la loro religione sarà razionale e seria. Io dubito se la religione raccoglierà tutti i benefici che il teologo calcolatore attende da questa "Grande compagnia di grandi predicatori". Sarà certamente una pregevole aggiunta di campioni non ancora descritti alla vasta collezione di classi, generi e specie che sono già noti e che attualmente abbelliscono l’hortus siccus dello scisma. Il sermone di un nobile duca o di un nobile marchese o di un nobile conte o di un baldo barone, accrescerà e varierà certamente i divertimenti, di questa città, che incomincia a esser sazia della giostra monotona creata dai suoi insipidi passatempi. Io potrei a mala pena ammettere che questi nuovi curati in toga e corona siano in grado di mantenere qualche aderenza ai principi democratici ed egualitaristi banditi ufficialmente dai loro pulpiti. Io scommetto che i nuovi evangelisti deluderanno le speranze in essi poste. Essi non diventeranno, nella lettera come nell'aspetto, dei teologhi battaglieri, né saranno così preparati a addestrare le loro congregazioni in modo ch'esse possano, come nei beati tempi passati, predicare le loro dottrine ai reggimenti di dragoni e ai corpi di fanteria e di artiglieria. Tali compromessi, favorevoli d'altra parte alla imposta libertà civile e religiosa, non saranno allo stesso modo apportatori della tranquillità nazionale. Io spero che queste poche restrizioni non saranno considerate come segni manifesti di intolleranza, né esplicazioni di dispotismo violento.
    Ma io ben posso dire del nostro predicatore: "utinam nugis tota illa dedisset tempora saevitiae".
    Ma non tutto è cosi innocuo come sembra. Le dottrine di quest’uomo intaccano la nostra costituzione nelle sue parti vitali. Appunto nel suo sermone politico egli dice dinanzi alla sopraindicata società che il Re d’Inghilterra "è pressoché il solo sovrano che al mondo eserciti legalmente i suoi diritti, perché è il solo che deve la sua corona alla scelta fatta dal popolo". Quanto a tutti gli altri sovrani dell'universo, che questo pontefice massimo dei diritti dell'uomo (dall'alto del suo grado dignitario e con una solennità più grande di quella con cui parla il Papa e con un fervore più ardente di quello che emanava dal Soglio Pontificio nella meridiana pienezza del secolo XII) fa oggetto di bando e di anatema proclamandoli usurpatori per fatta l'estensione delle longitudini e delle latitudini che ricoprono l'intero globo terrestre, a me pare che spetti proprio ad essi di considerare in qual modo possono venire ammessi nei loro territori missionari apostolici di tal fatta, i quali vanno dichiarando presso i sudditi la illegalità dei titoli sui quali si fonda la sovranità regia. Facciano bene attenzione a codesta gente. Quanto a noi inglesi, importa che prendiamo in seria considerazione il grado di fondatezza della opinione sopra espressa, che afferma essere il consenso popolare unico titolo giustificatore dei diritti sovrani; cosicché il Re d'Inghilterra è riconosciuto da tal gente unicamente sotto quel punto di vista e per quel motivo. Ognuno comprende che questo problema c'interessa urgentemente e da vicino.
    Una dottrina di tal genere, quando venga applicata al principe che ora siede sul trono d'Inghilterra, deve considerarsi o un assoluto non senso, e in tal caso essa non è né vera né falsa; oppure bisogna riconoscere che essa sancisce un punto di vista completamento infondato, pericoloso, illegale e contrario al principi della costituzione. Secondo il ragionamento di quel metafisico professore di politica, bisognerebbe arrivare alla conclusione che, ove S. M. non dovesse la corona al fatto della elezione popolare, il diritto sovrano non sarebbe legittimato. Orbene, non v'è niente che sia così falso come affermare che il nostro Re detiene la corona sotto questo titolo. Tanto è vero che se dovessimo accettare un tale sofisma ne conseguirebbe che il re d'Inghilterra (il quale certamente non ripete le origini del suo alto ufficio da alcuna forma di elezione popolare) non sarebbe degno di maggior rispetto che tutto il resto della sopra accennata banda di usurpatori in veste sovrana; usurpatori che, a detta di quel tal signore, più che regnanti non sarebbero altro che una compagnia di delinquenti, sparsi su tutta la faccia di questo miserabile globo terrestre a rapinare i popoli soggetti, senza alcuna sorta di diritto né alcun titolo di sovranità.
    Le conclusioni politiche derivanti da un tal principio astratto saltano all'occhio con sufficiente evidenza. I propagandisti di questo Vangelo politico sperano che i principi da loro affermati in via teorica (e cioè che l’elezione popolare è condizione necessaria alla esistenza legale del potere sovrano e della magistratura) possano venire più facilmente accettati dimostrando che il re d'Inghilterra non viene da essi intaccato nella sua posizione; e sperano che nel tempo medesimo le orecchie del pubblico si vengano gradualmente abituando a tali enunciati teorici così che alla fine questi sarebbero accettati come postulati fondamentali e fuori discussione. Per il momento queste idee agirebbero soltanto in via astratta, preservata nell'ambito privilegiato dell'eloquenza religiosa; e sarebbero così tenute pronte per una eventuale realizzazione avvenire. Condo et compono quae mox de promere possim. Il fine di questa mossa politica è di togliere al nostro Governo (allontanandone i sospetti con una lusinghiera riserva enunciata in suo favore e della quale, per vero, esso non ha alcun bisogno) il fondamento sul quale posa la sua sicurezza; fondamento comune a tutti i governi, almeno per quanto l'opinione pubblica possa costituire un dato di garanzia.
    Questo è il modo col quale procedono i politicanti di tal fatta, per quanto le dottrine che essi bandiscono possano parere trascurabili; ma quando i medesimi vengano messi alle corte dietro un esame serrato delle loro parole e delle finalità a cui si ispirano le loro dottrine, allora entrano in gioco gli equivoci le sofisticherie. Quando, ad esempio, essi dicono che il re deve il suo privilegio sovrano al fatto di essere stato eletto dal popolo deducendo che il re d'Inghilterra è il solo sovrano legittimo in tutto il mondo, mostrano di professare tale teoria solo in quanto questa si riferisce al fatto che alcuni predecessori dell'attuale re d'Inghilterra sono effettivamente stati chiamati al trono con una sorta di elezione popolare. E di qui deducono che anche l'attuale sovrano debba il suo potere a quella circostanza medesima. Cosi tal gente spera di mettere al sicuro la propria posizione con un miserabile gioco di sotterfugi equivocando sopra un'interpretazione grottesca.
    Essi ben meriterebbero dì essere puniti per l'offesa che recano al principio sovrano, se pure non trovino scusante diretta nella loro demenza medesima. Giacché se si accetta una interpretazione di tal fatta, come può l'idea che essi hanno della elettività differire da quella che noi abbiamo della ereditarietà? E come potrebbe l’investitura della corona nel ramo di Brunswick, discendente da Giacomo I, costituire un titolo legale che sia valido per il nostro monarca più che per il sovrano di qualsivoglia nazione vicina alla nostra! E’ certo che in un tempo o nell'altro tutti coloro che hanno fondato dinastie sono stati eletti al governo da parte del sudditi. Su questa base è abbastanza fondata l'opinione che tutti i regni d'Europa furono in un tempo remoto di natura elettiva, trovandosi l'eletto più o meno vincolato nell'esercizio del potere conferitegli. Ma comunque i re possano aver assunto il potere qui o altrove, magari mille anni or sono, e comunque possa aver avuto principio l'autorità dinastica delle stirpi regnanti in Inghilterra o in Francia, sta di fatto che il re della Gran Bretagna è oggi investito della sua alta funzione in base ad una norma fissa che regola la successione al trono in conformità con i princìpi costituzionali del popolo inglese. E se le condizioni legali che determinano l'esercizio del potere sovrano sono dal re osservate (ed effettivamente lo sono), egli detiene la sua corona a dispetto delle velleità elettorali manifestate dalla Revolution Society; la quale per di più non possiede nel proprio seno né individualmente né collettivamente neppure un singolo voto che le dia diritto di influire sull'elezione del re; sebbene io non metta in dubbio che i sullodati signori abbiano in animo di costituirsi ben presto in collegio elettorale non appena gli eventi sembrino maturi per tradurre in effetto il loro proposito. E del resto la corona continuerà ad essere trasmessa per via di regale successione a tempo e luogo dovuto, con pieno scarto della scelta elettiva di cui va arrogandosi il diritto tale società, allo stesso modo come la sovranità è stata fino ad oggi trasmessa.
    Comunque si possa tentare di evadere dal grossolano errore di fatto che suppone essere il diritto della sovranità fondato sulla elezione popolare, tuttavia non può venire messa in dubbio la esplicita dichiarazione avanzata da quei signori, secondo la quale il popolo avrebbe diritto di scelta sui propri governanti; diritto che essi ribadiscono tenacemente ed affermano con piena aderenza. Tutte le equivoche insinuazioni riguardanti il principio elettivo si fondano su questa proposizione e sono riferibili ad essa; e per timore che l'esclusione accordata al re d'Inghilterra in favore del titolo legale della sua sovranità fosse considerata come una semplice dichiarazione fatta con fine adulatorio, il predicatore politicante procedette addirittura ad un asserto dogmatico ed affermò che in base ai principi della rivoluzione il popolo inglese ha acquistato tre diritti fondamentali, i quali — a dire di quel signore — costituirebbero un sistema organico e si combinerebbero insieme quasi in una formula sentenziosa; quanto a dire che il popolo inglese ha acquistato diritto:
    1) di scegliere i propri governanti.
    2) di deperirli se essi tengano cattiva condotta.
    3) di costituire un governo da sé medesimo.
    Siamo qui di fronte a un Bill of rights di nuovo genere e mai conosciuto fino ad oggi; sebbene esso sia stato dichiarato in nome del popolo intero, appartiene invece di fatto alla iniziativa privata, di quei tali signori, e basta. Il popolo d'Inghilterra come collettività non ha alcuna parte in questa dichiarazione; anzi la disapprova colla massima forza ed è pronto ad opporsi alle conseguenze pratiche che eventualmente derivassero da tale asserto anche a prezzo della vita e di tutti i suoi beni. Questo deve esser fatto come obbligo derivante dai principi del diritto nazionale sancito al tempo della grande rivoluzione; rivoluzione il cui nome viene abusato a pretesto di un fittizio diritto da parte di un sodalizio che ha usurpato il nome stesso.
    I signori che hanno firmato la dichiarazione di Old Jewry in tutti i loro ragionamenti sulla rivoluzione dei 1688 hanno davanti agli occhi e dentro la loro fantasia i modelli degli eventi rivoluzionari che agitarono l'Inghilterra circa 40 anni addietro e quelli recentissimi che sconvolgono la Francia, a tal punto che finiscono per confondere insieme quelle tre cose diverse. Ma è necessario che noi teniamo ben separato ciò che essi indebitamente mescolano. Noi dobbiamo richiamare le fantasie degenerate di codesta gente ai veri "atti" della Rivoluzione, che teniamo in grande reverenza, a fine di scoprire i principi veraci sui quali essa si fonda.
    Se vi è alcunché in cui è possibile precisare l'intima essenza dei principi rivoluzionari del 1688, ciò si trova nello statuto chiamato Declaration of Right.
    In questa dichiarazione che è supremamente saggia, sobria ed avveduta, e che è stata formulata per opera di grandi giuristi e di grandi uomini di Stato e non già da individui con la fantasia riscaldata e privi d'esperienza, non è detta neppure una parola, non è fatta neppure un'allusione ad un preteso diritto generico "riguardo alla scelta dei governanti, alla loro deposizione per motivi di cattiva condotta, e alla costituzione di un governo che il popolo dia a sé medesimo".
    Questa Dichiarazione di Diritto (atto del primo anno di regno di Guglielmo e di Maria, sess. 2, c. 2) essendo stata ribadita ed arricchita e posta come un principio fondamentale, con un valore perpetuo, costituisce la pietra angolare della nostra costituzione. Si intitola "Atto per la dichiarazione dei diritti e della libertà dei sudditi e per fissare l'ordine di successione alla corona". Ben si vede di qui come quei diritti e quella successione siano stati dichiarati in un sol corpo e figurino indissolubilmente vincolati gli uni all'altra. (continua)

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    Pochi anni dopo quest'epoca si offerse una nuova opportunità per asserire un diritto di elezione alla corona. Prospettandosi il caso di una totale mancanza di discendenza da parte di Re Guglielmo e della Principessa che a lui succedette poi come Regina Anna, tornò a presentarsi di fronte al Parlamento il problema della successione alla Corona e della conseguente difesa delle libere franchigie popolari. Forse che in quel secondo tempo si procedette alla legalizzazione della corona secondo gli spuri principi rivoluzionari di Old Jewry? Niente Affatto. I legislatori seguirono i principi che già erano invalsi nella Dichiarazione di diritto e indicarono con la maggior precisione le persone che nell'ordine protestante erano tenute alla legittima eredità.
    Anche in questo secondo atto dunque, per il medesimo principio d'ordine politico, le libertà nazionali inglesi figurano disciplinate simultaneamente al problema della successione ereditaria. Invece di un generico diritto alla scelta dei propri governanti da parte del popolo, i legislatori dichiararono allora che la successione secondo la linea stabilita (quella protestante che discendeva da Giacomo I) era assolutamente necessaria "per la pace, la quiete, la sicurezza del Regno"; e che a quel fine medesimo si rendeva ugualmente urgente per gli interessi nazionali" il mantenimento di un ordine certo e preciso nella successione al Trono al quale i sudditi potessero sempre ricorrere per ottenerne protezione".
    Entrambi questi atti, dai quali traspariscono gli infallibili ed inequivocabili principi politici della Rivoluzione, anziché presentare le enigmatiche e fallaci enunciazioni di qualsivoglia "diritto alla scelta dei propri governanti" stanno a dimostrare come la saggezza dello spirito nazionale sia fondamentalmente avversa al voler trasformare un caso di necessità in un principio di diritto.
    Senza dubbio nel tempo della Rivoluzione si verificò una tenue e temporanea deviazione dall'ordine stretto e regolare della successione ereditaria nella persona di Re Guglielmo; ma è cosa contraria a tutti i buoni principi giurisprudenziali il dedurre una massima generica da un provvedimento emanato in circostanze specifiche e riguardante una singola persona. Privilegium non transit in exemplum. Se mai si è data circostanza propizia per stabilire il principio che solo re legittimo sia quello eletto dal popolo, senza dubbio ciò sarebbe avvenuto durante la Rivoluzione stessa. Il fatto che ciò non sia stato proclamato allora è prova che la coscienza nazionale avversava quel principio in tesi generale. Non vi è alcuno che ignori tanto la nostra storia da non sapere che nel Parlamento la maggioranza di ciascuno dei due partiti avversari era così lontana dall’accettare un tale principio che in un primo tempo tutti erano decisi a porre la corona vacante non sul capo del principe d'Orange, ma su quello di sua moglie Maria, la figlia di Re Giacomo e primogenita nella discendenza di questo re, che tutti riconoscevano come erede legittima.
    Voler richiamare alla memoria tutte le circostanze che dimostrano come l'assunzione al trono di Re Guglielmo non sia stata propriamente una scelta, vorrebbe dire insistere sopra una verità trita e conosciuta; invero tutti coloro che non potendo più richiamare al trono Re Giacomo cercavano di evitare una sanguinosa guerra civile salvando le sorti della religione, del diritto e della libertà dalla rinnovata minaccia di un pericolo appena scampato, compirono quell'atto colla coscienza che esso si rendeva necessario nel più preciso significato in cui la necessità si impone al senso morale.
    In questo medesimo atto, nel quale eccezionalmente e con riferimento al caso particolare il Parlamento dovette allontanarsi dall'ordine stretto della successione ereditaria in favore di un principe che, sebbene non fosse discendente immediato, era tuttavia molto prossimo alla linea di successione, è interessante osservare come Lord Somers, che tracciò il Bill chiamato "Dichiarazione di Diritto", seppe comportarsi in così delicata circostanza. Giova notare con quale destrezza sia stata dissimulata ed occultata questa temporanea soluzione di continuità; in questo atto compiuto sotto l'urgenza della necessità tutto ciò che fu possibile trovare per mantenere il principio della successione ereditaria, fu messo innanzi e proclamato con la maggiore evidenza possibile da parte di quel grande uomo che lo redasse e del Parlamento che ne seguì le orme. Abbandonando lo stile secco e imperativo che è caratteristico degli atti parlamentari, l'abilissimo redattore del documento fece si che i Lords e i Comuni figurassero assumere un atteggiamento di slancio appassionato nel dettare quel principio legislativo; considerando essi "come un meraviglioso beneficio della Provvidenza e della misericordiosa protezione Divina sul destino nazionale il fatto che venissero conservate le Reali persone dei Sovrani riportandole felicemente sul soglio che già era stato trono dei loro antenati; per il qual beneficio essi levavano al Cielo dal più profondo cuore l'espressione della loro umile e devota riconoscenza". Il Parlamento con tutta evidenza aveva sott'occhio l’Act of Recognition del primo anno di regno di Elisabetta (c. 3) e quello di Giacomo I (c. 1): entrambi questi atti contenevano un'energica dichiarazione del principio ereditario che disciplina la successione al trono; e in molte parti essi seguivano con una precisione quasi letterale le parole ed anche la forma della dichiarazione di grazia contenuta in quegli antichi Statuti dichiarativi.
    In questo atto che riguarda il Re Guglielmo le due Camere non hanno espresso il loro ringraziamento verso Dio per il fatto di aver trovato una buona occasione onde asserire un diritto alla scelta dei loro propri governanti, e tanto meno per dichiarare che tale scelta elettiva costituisce il solo titolo legittimo della dignità regia. Al contrario, l'avere potuto evitare al massimo grado di porre in evidenza un passato fu considerato allora da quei legislatori come un dato provvidenziale di salvezza.
    Le due Camere seppero occultare con un velame di ordine politico abilmente intessuto tutte quelle circostanze che avrebbero potuto menomare i diritti di successione; diritti che così intendevano ribadire e perpetuare non appena tempi migliori lo avessero consentito.
    Si volle così evitare il costituirsi di pericolosi precedenti che in avvenire cagionassero violazioni di un principio stabilito con carattere di perpetuità. In conseguenza di questo, non volendo dissolvere le intime strutture dell'istituto monarchico e intendendo conservare quest'ultimo in una stretta aderenza con gli usi e con le tradizioni dei predecessori (e ciò appare chiaramente negli statuti dichiarativi della Regina Maria e della Regina Elisabetta) i Lords e i Comuni con la clausola seguente vollero rivestire la personalità del Sovrano di tutte le prerogative regali della corona, dichiarando "che tali prerogative sono pienamente, a buon diritto e senza eccezione, attribuite al Monarca e figurano incorporate unite ed annesse alla sua persona".
    E vi è poi una clausola ulteriore intesa a prevenire tutte le domande che potessero essere sollevate per motivo di un preteso titolo alla successione dinastica; questa (osservando anche nelle forme tradizionali del linguaggio le consuetudini politiche della Nazione e ripetendo quasi in forma di rubrica l'espressione contenuta negli atti precedenti di Elisabetta e di Giacomo) dichiara che "l'unità, la pace e la tranquillità del reame sotto la protezione di Dio dipendono fondamentalmente dal fatto che alla successione dinastica sia assicurata certezza e regolarità".
    Si riconobbe dunque allora che ove il principio della successione fosse messo in dubbio, ciò avrebbe dato luogo ad una situazione di cose troppo simili al principio dell'elezione popolare; e questo principio elettivo avrebbe fatalmente compromessa "l'unità, la pace e la tranquillità dello stato", cose ritenute come oggetto di massima importanza.
    A fine di provvedere alla realizzazione e alla tutela di così gravi obiettivi e quindi di escludere una volta per sempre la teoria professata dai signori di Old Jewry riguardante il preteso diritto dei popoli alla scelta dei loro governanti, le assemblee legislative fecero seguire allora una clausola tratta dal precedente atto della Regina Elisabetta, contenente la più esplicita dichiarazione che mai sia stata fatta o potesse esser fatta in favore del principio di successione ereditaria, sconfessando nel modo più solenne e più esplicito quei principi che la sopraindicata società va imputando ad esse: "I Lords spirituali e temporali insieme con i Comuni, nel nome del popolo intero, sottomettono con la maggiore umiltà e fedeltà i medesimi ed i loro eredi per una successione indefinita di posterità e promettono fedelmente di appoggiare, difendere e sostenere le persone dei sovrani ed anche l'ordine di successione al trono in quest'atto contenuto e specificato con ogni loro energia ecc. ecc.".
    Dunque non è niente affatto vero che in conseguenza della rivoluzione il popolo inglese abbia acquistato il diritto alla elezione dei propri sovrani; anzi se mai avesse precedentemente posseduto un tale diritto, la Nazione stessa abdicandovi in quel momento vi avrebbe rinunciato nella maniera più solenne, anche per ciò che riguarda gli eventi di una indefinita posterità. I signori di Old Jewry possono compiacersi a loro pieno arbitrio dei princìpi Whig che vanno strombazzando; quanto a me non desidero di passare per Whig più di quanto sia stato Whig Lord Somers, né desidero di interpretare i principi della rivoluzione più a fondo di quanto fecero gli stessi uomini che di essa furono autori; e tanto meno pretendo di scoprire nella "Dichiarazione di Diritto" alcun principio occulto che sia rimasto ignoto a quegli stessi uomini che incisero con penetrante stile negli ordinamenti del nostro paese e nella nostra stessa coscienza tradizionale la lettera e lo spirito di quell'immortale atto legislativo.
    E' bensì vero che per le circostanze speciali di quel tempo la nazione, facendo uso della forza, sarebbe stata libera in certo modo di assegnare allora la successione al trono a suo pieno arbitrio; ma nella stessa maniera, se così vogliamo ragionare, essa poteva dirsi libera allora di buttare in aria lo stesso istituto monarchico o quale altro organo costituzionale avesse mai voluto. Tuttavia nessuno pensò allora che un tale sovvertimento fosse legittimato da alcuna competenza.
    E' certamente difficile, forse impossibile, definire con un limite preciso la competenza che da un punto di vista teorico era attribuita allora al potere supremo; potere che durante gli eventi rivoluzionari era esercitato dal Parlamento. Ma dal punto di vista morale un ordine di competenza (che disciplina anche i poteri sovrani della più indiscussa autorità, sottomettendone gli atti di deliberazione occasionale a un criterio di ragione costante e ai principi stabili della religione, della giustizia e della disciplina politica) è sempre perfettamente intelligibile e inevitabilmente imperativo nei riguardi di coloro che esercitano a qualsivoglia nome o per qualsivoglia titolo una autorità nello stato.
    Per esempio, la Camera dei Lords non è moralmente competente a dissolvere la Camera dei Comuni e neppure a dissolvere sé stessa, né a rinunciare (se mai lo volesse) a quella parte che le spetta nella funzione legislativa del Regno d'Inghilterra.
    Un Re può bensì abdicare per riguardo alla propria persona singola, ma non può abdicare all'istituto monarchico. Per eguale motivo, anzi a più forte ragione, la Camera dei Comuni non può rinunciare all'esercizio della funzione autoritaria che le spetta.
    Quel sistema di vincoli e di pattuizioni sociali che generalmente va sotto il nome di costituzione proibisce gli abusi e le diserzioni di competenza. Le parti costitutive dell'organismo statale sono obbligate a conservare con fedeltà il sistema dei vincoli reciproci e a mantenere la propria posizione anche verso tutti coloro che ne derivano interessi d'ordine fondamentale, allo stesso modo che l'intera compagine statale è obbligata a tener fede verso i singoli organismi delle comunità separate. Se così non fosse l’ordine di competenza si confonderebbe col potere materiale e ben presto non rimarrebbe altro diritto che l'arbitrio prevalente del più forte.
    Per questo la successione al trono è sempre stata disciplinata dal principio che ancora oggi la sorregge, cioè una continuità ereditaria segnata dal diritto. Nell'ordine antico ciò consisteva in una successione ordinata secondo le norme del Common Law, in quello nuovo dallo Statute Law, che opera sui principi del Common Law senza cambiarne la sostanza ma regolandone le modalità con indicazione di persona. Entrambe queste due formazioni di diritto possiedono la medesima forza e derivano da eguale autorità poiché emanano dal concordato originale e dalla contrattazione collettiva onde nacque lo stato medesimo, communi sponsione Republicae, e come tali hanno pari forza coercitiva sul Re e sul popolo fino a tanto che perdura la loro osservanza nella continuità di un medesimo organismo politico.
    Senza cadere vittime di inganno e senza cedere alle lusinghe di sofismi metafisici non è impossibile conciliare il criterio di una norma costante col fatto di una eccezione occasionale; quanto a dire, conciliare il significato sacrale del principio di successione dinastica vigente nel sistema di governo inglese con la facoltà di apportare ad esso alcune deroghe o modificazioni occasionali in caso di estrema necessità. E anche in queste circostanze supremamente occasionali (se vogliamo prendere a criterio del nostro diritto il modo col quale esso venne esercitato nel tempo della rivoluzione) la deroga si riferisce solo a quella parte che commette infrazione di legittimità; vale a dire, alla parte che rende necessaria quella deroga medesima. E anche in tal caso ciò deve effettuarsi senza pervenire alla dissoluzione dell'intero organismo politico civile nel proposito di riorganizzare una forma nuova di reggimento collettivo, traendola dagli elementi primi del vivere sociale.
    Uno stato che non possegga la possibilità di compiere alcun mutamento sarebbe anche privo di mezzi auto-conservativi. Mancando queste risorse di adattabilità, anche quella parte dell'organismo costituzionale che si vorrebbe preservare intatta con la maggiore religiosità rischierebbe di andare perduta.
    Le due forze di conservazione e di riadattamento operarono energicamente in due periodi assai critici della storia d'Inghilterra; al tempo della Restaurazione ed a quello della Rivoluzione, allorché venne a mancare la presenza del Sovrano. In entrambi questi momenti la Nazione aveva perduto il vincolo che la univa alla continuità della propria antica tradizione storica; ma non per questo andò in rovina l'intero edificio costituzionale. Al contrario, tanto nell'uno quanto nell'altro momento la Nazione inglese seppe rigenerare le parti difettose del suo antico sistema costituzionale salvando quelle che non apparivano intaccate. Queste ultime furono conservate nella loro genuina essenza cosicché anche gli elementi ammodernati poterono ad essa conformarsi. Il popolo inglese operò allora movendo le antiche masse organizzate dello Stato nella loro vecchia saldezza e non già dissolvendosi nel molecolarismo di una collettività frantumata.
    Forse in nessun tempo il sovrano potere legislativo manifestò più profonda considerazione verso la politica costituzionale britannica quanto durante i frangenti rivoluzionari, allorquando dovette portare eccezione al principio della successione ereditaria. La corona fu allora in certo modo dislocata dalla linea continuativa che precedentemente aveva conservato; ma la nuova dinastia ripeteva origine dal medesimo ceppo. Si trattava pur sempre d'una linea di successione ereditaria e di una discendenza pro-erede nel medesimo sangue, secondo un criterio di successione indicato dal ramo protestante. Ne possiamo dedurre che quando il potere legislativo, pure alterando la direzione dell'eredità, volle tuttavia conservare intatto il principio, dichiarò implicitamente che quest'ultimo veniva considerato come inviolabile.
    Per questa medesima ragione il diritto ereditario ammetteva nel tempo antico alcune eventualità di deroga, prima ancora che l'epoca della Rivoluzione apparisse. Alcun tempo dopo la Conquista sorsero grandi questioni attorno ai principi legali dell'eredità. Si cominciò a discutere se dovesse ammettersi la successione per capita oppure per stirpes: ma sia che l'eredità per capita sia stata esclusa per far posto all'eredità per stirpes, sia che l’erede protestante sia stato preferito a quello cattolico, il principio della successione ereditaria sopravvisse sempre, quasi per una forza incoercibile di immortalità, traverso mille trasmissioni. Multosque per annos stat fortuna domus et avi numerantur avorum.
    Questo è lo spirito che regge la nostra costituzione; e non soltanto nel corso delle vicende normali ma anche durante tutte le traversie rivoluzionarie. Chiunque sia salito al trono e in qualsivoglia modo l'avvento si sia verificato, abbia egli conseguita la corona per vie legali o per impiego di violenza, il principio della successione ereditaria trovò sempre applicazione e continuità.
    I signori della Revolution Society non hanno saputo vedere altro negli avvenimenti del 1688 se non l'aspetto che violava il principio costituzionale con una deviazione momentanea; e scambiavano questa deviazione dal principio con l'essenza del principio medesimo. Essi ben poco si preoccuparono delle ovvie conseguenze che da cosi fatta dottrina sarebbero derivate; eppure facilmente avrebbero potuto riflettere che essa era tale da non lasciare forza d'autorità positiva che a pochissime tra le istituzioni giuridiche del sistema costituzionale inglese. Se mai dovesse valere un tale ingiustificabile criterio (secondo il quale nessuna autorità regia sarebbe legittima se non quella derivante da elezione popolare), non potrebbe ritenersi valido alcuno degli atti emanati da regnanti che esercitarono il potere anteriormente alla data di questa pretesa elezione.
    Hanno forse in animo questi teorici di imitare alcuni dei loro predecessori, che violarono i corpi del nostri antichi Sovrani traendoli fuori dalla quiete dei loro sepolcri? Mirano essi forse a colpire e a squalificare retroattivamente tutti i sovrani che regnarono in Inghilterra prima della Rivoluzione, e conseguentemente ad infamare il trono britannico con la calunnia di una usurpazione continuata? O ancora pensano di invalidare, annullare o mettere in dubbio, insieme coi titoli legittimi della intera continuità dinastica, anche la imponente massa del nostro Statute Law che si trova sotto la sanzione di coloro che quei messeri trattano come usurpatori? O vogliono rinnegare quei diritti che tornano di inestimabile valore a tutela delle nostre libertà, diritti di importanza non minore di quelli sanciti al tempo della Rivoluzione, ed anche in seguito fino ad oggi! Se mal fosse vero che i Sovrani non coronati in forza d'elezione popolare non hanno titolo legittimo alla creazione del diritto, qual sorte toccherebbe allo statuto de tallagio non concedendo? O alla stessa "Petizione di Diritto"? O ancora all'atto dell’Habeas Corpus?
    Credono forse questi nuovi dottori dei diritti dell'uomo di poter affermare che Re Giacomo II (il quale pervenne al trono secondo i principi di una successione non ancora a quel tempo sancita giuridicamente, ma per diretta prossimità di sangue) non era sotto tutti i riguardi e per ogni finalità un legittimo Re d’Inghilterra prima ch'egli commettesse alcune di quelle azioni che giustamente vennero considerate come abdicative alla sua regale dignità? Se egli non lo fosse stato, molte turbolenze che scompigliarono il Parlamento al tempo che quei signori commemorano) si sarebbero potute evitare.
    Ma sta invece il fatto che Giacomo era un pessimo re insignito di un titolo legittimamente ineccepibile, e non già un usurpatore. I principi che a lui succedettero secondo l'atto del Parlamento che attribuì la corona alla elettrice Sofia e ai suoi discendenti secondo la linea protestante, vantavano titolo ereditario di successione nè più ne meno che lo stesso Re Giacomo. Costui era venuto al trono in conformità del diritto, come confermò la sua accessione alla corona; o a loro volta i principi della Casa di Brunswick succedettero al trono ereditario non per elezione ma per diritto, come altra volta fu confermato dall'avvento ereditario dei principi di discendenza protestante; e spero di aver dimostrato questo fatto a sufficienza.
    La legge, in conformità della quale la famiglia reale figura destinata in modo specifico alla successione, è l'atto del 12° e 13° anno di regno di Re Guglielmo. Il testo di questo atto viene a vincolare noi ed i nostri eredi ed anche la nostra posterità verso quella dinastia considerata nella sua successione ereditaria di continuità "e per un tempo indefinito nel quale si prolunghi la linea protestante; secondo le medesime espressioni che nella "Dichiarazione di Diritto" vincolano il popolo inglese ai successori di Re Guglielmo e della Regina Maria.
    Per tal modo vengono assicurati al tempo medesimo i principi della ereditarietà dinastica e della fedeltà che pure in via ereditaria è dovuta. Quale altro motivo, se non fosse stato quello di determinare secondo lo spirito della nostra costituzione politica un metodo capace di fissare questo procedimento di successione destinato ad escludere per sempre l'idea della elezione popolare, avrebbe potuto far sì che il Parlamento respingesse sdegnosamente la lusinghiera possibilità di compiere una libera scelta del Sovrano, scelta che si sarebbe potuta svolgere entro i limiti del territorio nazionale, cercando poi in una terra straniera una degna Principessa dalla quale avrebbe potuto discendere la schiatta continuativa dei nostri sovrani e a cui si sarebbe riconosciuto il diritto di governare milioni d'uomini per una indefinita continuità di tempo?
    La Principessa Sofia fu nominata nell'Act of Settlement del 12° e 13° anno di Regno di Re Guglielmo e di lei si parla come della "fonte" e della radice "ereditaria" di tutti i nostri re; e questo non già a cagione dei suoi meriti personali di esercizio della pubblica potestà; potestà che ella non avrebbe potuto esercitare da sé medesima e che di fatto non esercitò mai. Il suo grado autoritario si doveva ad un motivo, ed a questo solo; in quanto il testo dell'atto dice: "La eccellentissima Principessa Sofia, Elettrice e Duchessa di Hannover, è figlia della eccellentissima Principessa Elisabetta, già Regina di Boemia, a sua volta figlia del nostro antico Sovrano e signore Re Giacomo I di felice memoria; e per questo si dichiara che ella è in ordine di successione la più vicina secondo la linea di ereditarietà protestante ecc. ecc. e la corona sarà trasmessa agli eredi della sua schiatta in ordine continuativo, essendo essi egualmente di successione protestante".
    Il Parlamento volle dunque precisare questo fatto facendo rilevare che la Principessa Sofia, in quanto insignita di potestà ereditaria, non solo era destinata a trasmettere l'eredità in futuro ai suoi discendenti ma altresì (cosa che importava assai) appariva collegato per egual vincolo continuativo con l’antica schiatta ereditaria di Re Giacomo I, così che l'istituto monarchico potesse conservare in ogni tempo una unità ininterrotta e potesse mantenersi salvando il principio della religione nazionale, conforme all'antico principio della discendenza, nella quale le nostre originarie libertà, pure attraverso i frequenti rischi e le frequenti insidie verificatesi nei contrasti violenti a cui diede luogo la polemica per i privilegi e per le prerogative regali, furono però sempre salvaguardate. Bene dunque si comportò allora il Parlamento. L'esperienza ci ha insegnato che in nessun'altra maniera e con nessun altro mezzo, se non quello della ereditarietà dinastica, si sarebbero potute preservare e disciplinare le nostre sacre libertà al pari del nostro diritto ereditario.
    Una crisi di carattere irregolare e convulsivo può rendersi necessaria come rimedio contro una malattia irregolare e convulsiva. Ma l'ordine della successione rappresenta la condizione di sanità normale dell'organismo costituzionale inglese. Si crede forse che il Parlamento allorché fissò la linea ereditaria nel ramo di Hannover, segnato dalla discendenza femminile di Giacomo I, non sia stato cosciente degli inconvenienti che potevano risultare dal pericolo d'avere due, tre o magari anche più stranieri nella successione del trono d'Inghilterra? No di certo. I legislatori ebbero allora piena coscienza dei mali che sarebbero potuti derivare da un tal fatto; e forse tale preoccupazione era anche più grande del necessario. Ma appunto questo fatto costituisce la prova più decisiva dei convincimenti radicati che dominavano allora la coscienza nazionale britannica, la quale sentiva che i principi della rivoluzione non la autorizzavano ad eleggere sovrani secondo il suo arbitrio, trascurando l'osservanza degli antichi e fondamentali principi del governo inglese; tanto è vero che si continuò ad osservare l'ordine della successione ereditaria protestante secondo l'antica discendenza, nonostante gli inconvenienti e i pericoli che l'adozione di una dinastia straniera avrebbe importato; inconvenienti dei quali i legislatori avevano piena coscienza e che determinavano nei loro animi le più forti precauzioni.
    Soltanto, pochi anni addietro io mi sarei vergognato di insistere così a lungo sopra un argomento tanto evidente per sé stesso, adducendo in suffragio spiegazioni che allora sarebbero parse superflue; ma oggi lo devo fare perché la dottrina sediziosa ed anticostituzionale che io combatto viene pubblicamente professata, riconosciuta o messa in circolazione con la stampa. Il disgusto che io provo verso i movimenti rivoluzionari, il cui fomite ben sovente è stato lanciato dal pulpito, e quella tendenza che prevale in Francia e che potrebbe anche estendersi in Inghilterra, implicante un assoluto disprezzo di tutte le antiche forme istituzionali quando esse si oppongono al senso di un opportunismo immediato o al volubile capriccio del momento, tutte queste considerazioni giustificano, a mio giudizio, che si riconduca l'attenzione a quelli che sono i veri princìpi del nostro diritto nazionale; principi che voi, mio giovane amico francese, dovreste cominciare a conoscere e che noi inglesi dovremmo tenere sempre molto cari.
    Noi non dobbiamo, dall'una e dall'altra parte della Manica, lasciarci ingannare accettando la fraudolenta mercanzia che alcune persone doppiamente ingannatrici cercano di esportare anzitutto presso di voi con una finalità illecita e con lo spacciare tali prodotti come primizie fiorite sul suolo inglese, sebbene essi nulla abbiano a vedere con noi e si cerchi poi di ricacciarli nuovamente in questo nostro paese, verniciati con i colori di una libertà parigina messa in voga all'ultimo momento.
    Il popolo inglese non ha intenzione di adottare mode altrui delle quali non ha fatto esperimento e non ritornerà indietro a rifare errori dei quali ha avuto triste esperienza. Gli Inglesi considerano il principio giuridico della ereditarietà nella successione dinastica tra le conquiste del diritto e non già tra i torti da riparare; esso principio rappresenta un dato benefico e non un luttuoso malore; costituisce una garanzia di libertà e non un vincolo di servitù. L'Inglese considera il proprio organismo statale, così com'è, cosa dì inestimabile pregio; e concepisce il principio della indisturbata successione dinastica come garanzia di stabilità e di perpetuità per tutti gli altri organi dei sistema costituzionale.
    Prima di passare all'esame di un altro articolo io desidererei mettere in rilievo alcuni miserabili artifici che i fautori del principio elettivo, come solo titolo giuridico della Corona, sono pronti ad impiegare per mettere in cattiva luce i difensori dei nostri retti principi costituzionali. Questa genia di sofisti suppone una serie di motivi e di interessi personali, attribuendoli con evidente falsificazione di intento a coloro che difendono la natura ereditaria dell'istituto monarchico. Facilmente vediamo questa gente mettersi a polemizzare quasi in contraddittorio con alcuni di quei ritardatari fanatici sostenitori della schiavitù, che anticamente sostenevano una teoria alla quale oggi nessuno, io credo, presta più fede: vale a dire "che la Corona sia in sé medesima un diritto divino, ereditario e quindi inviolabile". Quegli antichi o fanatici sostenitori che optavano per un potere unico ed arbitrario ragionavano dogmaticamente, come se la dignità regale ereditaria fosse il solo governo legittimo del mondo, precisamente allo stesso modo come i nostri nuovi apologeti fanatici, che vorrebbero attribuire al popolo una somma arbitraria di potere, opinano che la elezione popolare sia l'unica sorgente legittima dell'autorità.
    Quegli antichi zelatori della prerogativa regia, è bensì vero, ragionavano in modo pazzesco e potremmo dire anche in modo empio, pensando essi che un regime a base monarchica fosse sanzionato dalla ragione divina più che da alcun sistema costituzionale, quasicchè il diritto di governare per ragione ereditaria costituisse in senso stretto per ogni persona una prerogativa assolutamente inviolabile per qualsivoglia circostanza allorché si tratti della successione al trono; inviolabilità che non può essere conferita da alcun diritto né civile né politico.
    Ma un'opinione assurda concepita nei riguardi del diritto ereditario alla corona regia non deve poi comprometterne un'altra che invece si fonda sopra principi di ragione ed è costruita sopra un fondamento solido di diritto e di politica. Se tutte le teorie assurde, fabbricate vuoi dai giuristi vuoi dai teologi, intervenissero a dissolvere e a negare gli oggetti medesimi ai quali esse fanno riferimento, non rimarrebbe nel mondo alcuna traccia né di diritto né di religione. Ma una teoria assurda concepita a risoluzione di un determinato problema non basta a giustificare un fatto falso o la promulgazione di massime pericolose a suffragio di una teoria estremamente opposta. (continua)


    Note


    (1) Discorso sull'Amore del nostro Paese, 4 nov. 1789, del Dott. Ricard Price, III ediz., pp. 17 e 18.
    (2) “Coloro a cui dispiace questo modo di culto proscritto dalla pubblica autorità, dovrebbero, se non possono trovare altro culto fuori della chiesa ch'essi approvano, stabilire un loro proprio culto separato; e, facendo questo e dando l'esempio di culto razionale e gagliardo. Accadrebbe che uomini ragguardevoli per posizione sociale e letteraria, renderebbero il più grande servizio alla società e al mondo". P. 18 del sermone del Dott. Price.

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    Edmund Burke scrisse le Riflessioni sulla Rivoluzione francese nell’inverno del 1789-90. Gli avvenimenti di Francia che vengono presi in esame sono dunque la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, avvenuta nell’agosto 1789, e la marcia dei parigini su Versailles il 5 e 6 ottobre dello stesso anno. Tuttavia, Burke fu spinto a scrivere le Riflessioni nella forma in cui le conosciamo da un avvenimento successivo che ebbe luogo a Londra. Il 4 novembre 1789 si tenne infatti nella capitale inglese una riunione della Revolution Society, un club sorto per propagandare una particolare interpretazione della Rivoluzione inglese del 1688. A questa riunione fece seguito il sermone di un ministro di culto non conformista, il Dr. Richard Price, che elogiava gli avvenimenti del 5-6 ottobre come una dimostrazione di “patriottismo” del popolo francese.
    Burke mise in relazione gli accadimenti francesi con la campagna promossa in Inghilterra da unitarians e dissenters allo scopo di ottenere alcune riforme politiche e religiose. Burke associò i rivoluzionari di Francia ai connazionali che miravano all’abolizione delle religioni di Stato. Attraverso queste rivendicazioni vide un diretto attacco al Cristianesimo che si realizzava nella confisca delle proprietà terriere della Chiesa e nella Costituzione civile del clero.
    Fu in reazione a questi eventi che il Burke trasformò la lettera che stava scrivendo al giovane francese Charles-Francois Depont in un’opera di più ampio respiro che è divenuta un classico del pensiero politico.

    * * *

    Le Riflessioni sulla rivoluzione francese si aprono con l’intento da parte dell’Autore di esprimere le proprie opinioni riguardo gli ultimi avvenimenti di Francia. Burke confessa il desiderio di vedere regnare tra i francesi uno spirito di ragionevole libertà, al tempo stesso, però, prende le distanze da coloro che in Gran Bretagna approvano manifestamente i rivoluzionari francesi e che sono attivi in clubs come la Revolution Society.
    Burke dichiara di tenere personalmente ad una libertà moralmente disciplinata e di essere geloso della libertà delle altre nazioni al pari dei membri del suddetto club. Tuttavia tende a precisare che i propositi di costoro non si basano sulla realtà sperimentata, ma su astrazioni metafisiche, quando invece sono proprio le circostanze di fatto a rivelare se una dottrina politica provocherà risultati benefici o nocivi per l’umanità.
    In base a tale assunto Burke afferma di non potersi compiacere delle nuove libertà francesi fino a quando non gli sarà chiaro il modo in cui questa libertà si realizzerà in rapporto ad una serie di valori (governo, forza pubblica, organizzazione militare, sistema produttivo e distributivo, principi morali e religiosi, tutela della proprietà, garanzie di ordine pacifico…) senza i quali la libertà “non costituisce un beneficio sostanziale”. Bisogna verificare l’uso che si fa della libertà, in quanto essa può prestarsi a congratulazioni o al compianto. E’ questo un modo di agire, ci dice Burke, che ci è consigliato dalla prudenza.

    Burke distingue la libertà del singolo individuo dalla libertà che agisce attraverso gruppi organizzati. Quest’ultima si trasforma in potenza e l’uso che ne verrà fatto rappresenta un’incognita. Chi sembra invece non avere dubbi in proposito sono i membri della Revolution Society, la cui produzione letteraria vorrebbe spingere i britannici ad imitare la condotta dell’Assemblea Nazionale di Francia. E’ dunque il timore che l’incendio possa divampare un domani anche in Inghilterra che spinge Burke a dare un risalto maggiore di quanto preventivato alle sue riflessioni.
    L’Autore presenta la Rivoluzione francese come qualcosa che travalica i confini nazionali e perfino europei, arrivando a giudicarla “l’avvenimento più stupefacente che nella storia del mondo si sia mai prodotto fino ad ora”. Mentre altri, e nella fattispecie i membri della Revolution Society, non vi vedono altro che una “manifestazione gagliarda e affinata dello spirito di libertà, concorde con i principi della morale umana e religiosa”.
    Un ministro di fede non conformista quale il Dr. Richard Price mescola nel suo sermone sentimenti morali e religiosi agli avvenimenti rivoluzionari francesi. Burke trae spunto dalla mancanza di moderazione nelle parole del ministro, che giudica pericolose, per sostenere che la politica e il pulpito non vadano d’accordo e che in Chiesa non dovrebbe ascoltarsi altra voce che quella moderatrice ispirata alla carità cristiana. Per Burke la Chiesa è infatti il luogo dove trovano sosta le inquietudini umane e dove i dissensi si ricompongono. Diversamente, lo zelo del Dr. Price sembra essere volto non alla diffusione della Verità, ma allo spargere la contraddizione. Burke nota come per i dissenters l’importante sia dissentire a prescindere da chi o cosa, quasi che servisse a scacciare la monotonia. Ci sarebbe poco di che preoccuparsi tuttavia, se le dottrine di questi uomini non si rivelassero pericolose per le nazioni. Il discorso del Price intacca infatti, secondo Burke, la Costituzione inglese nelle sue parti vitali.

    Il discorso del ministro non conformista sembra voler salvare la corona inglese dallo sdegno riservato alle altre monarchie europee, in quanto sarebbe il solo ad essere stato legittimato dal consenso popolare. Burke si oppone però con decisione all’affermazione che vuole il consenso popolare sarebbe l’unico titolo giustificatore dei diritti sovrani. Secondo Burke è falso dire che la monarchia inglese detenga la corona sotto questo titolo, mentre lo scopo di questi propagandisti è di affermare in via teorica i loro principi, affidando al tempo il compito di abituare il pubblico alla validità di tali presupposti, pronti ad essere realizzati avvenire.
    A questo punto Burke mette a confronto il sistema elettivo con quello ereditario. In un tempo o nell’altro tutte le dinastie sono state elette al governo dai loro sudditi, ciò non toglie però che in quel momento il monarca d’Inghilterra era investito della sua funzione in base ad una norma fissa che regolava la successione al trono in conformità con i principi costituzionali.
    Secondo il Dr. Price il popolo inglese successivamente alla Rivoluzione del 1688 avrebbe acquistato il diritto di scegliersi i governanti, di deperirli in caso di cattiva condotta e di costituire un governo da sé medesimo. Per Burke queste dichiarazioni costituiscono un Bill of Rights del tutto nuovo, nel quale il popolo non ha nessuna parte e che disapprova profondamente. Al contrario, l’essenza intima dei principi del 1688 risiedono nella Declaration of Right, dichiarazione nella quale non si fa menzione né allusione ai pretesi diritti enunciati dal Price.

    Riguardo il supposto diritto degli inglesi di scegliersi i propri governanti, il Burke ripercorre le vicende storiche che portarono alla successione di Re Guglielmo. In quell’occasione, mancando una discendenza si volle evitare il costituirsi di un precedente che violando il principio dell’ereditarietà avrebbe potuto favorire il principio dell’elezione popolare che avrebbe fatalmente compromessa “l’unità, la pace e la tranquillità dello stato”.
    Burke rimarca l’infondatezza che il diritto all’elezione dei propri sovrani sia conseguenza della Gloriosa Rivoluzione, dopo di che si sofferma quindi sulla differenza di vedute all’interno del raggruppamento politico Whig, del quale egli stesso fa parte al pari dei seguaci del Price. [E’ un accenno alla futura spaccatura fra gli Old Whigs conservatori di Burke e i New Whigs radicali di Charles J. Fox, che avrà come oggetto proprio la disputa sulla Rivoluzione francese.]
    Burke insiste che il principio di successione al trono inglese è sempre stato sorretto dal diritto, dal Common Law al successivo Statute Law che opera sul precedente senza tradirne la sostanza. Vengono presi in esami i due periodi più critici della storia britannica, quello della Restaurazione e quello della Rivoluzione, in cui nonostante fosse venuto meno il vincolo della tradizione, l’impianto costituzionale non andò in rovina, in quanto si operò saggiamente per rigenerare le parti difettose dell’antico sistema, salvando quelle che non erano state intaccate.
    I dissenters della Revolution Society hanno voluto vedere negli avvenimenti del 1688 la deviazione del principio costituzionale e non l’essenza del principio medesimo. Per Burke, invece, l’ordine di successione rappresenta la “condizione di sanità normale dell’organismo costituzionale inglese”.

    L’analisi del primo articolo del Price si conclude quindi con una nota polemica verso il tentativo di questi polemisti di accreditare il principio elettivo mettendolo in contrapposizione con chi si attarda ancora a sostenere la teoria del diritto divino ereditario. [La teoria che la Monarchia era stata fondata da Dio, che si basava sugli scritti di S. Paolo e di S. Agostino, era stata formulata in Inghilterra da Giacomo I e trovò opposizione in giudici come Sir Edward Coke, per i quali il Re d’Inghilterra era creazione della legge inglese e soggetto a questa. Il conflitto tra i fautori delle due dottrine portò alla guerra civile (vinta dai Parlamentari) e quindi alla Gloriosa Rivoluzione che stabilì fermamente il principio della monarchia costituzionale.]
    Burke critica i vecchi apologeti della ragione divina al pari dei nuovi fanatici dell’elezione popolare, preoccupandosi di difendere i retti principi costituzionali della nazione inglese. Per l’Autore i governanti sono solo i detentori momentanei di un potere ereditato dal passato che dovranno trasmettere non inferiore alle future generazioni. L’autorità, per Burke, ha dunque un fondamento tradizionalistico: il governo migliore è quello che perdura nel tempo.

  4. #4
    Leoni in guerra e agnelli pieni di dolcezza nelle nostre case
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    Anzitutto me lo devo stampare, altrimenti non riesco a leggerlo. Così postato risulta di difficile lettura, purtroppo.
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  5. #5
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    Citazione Originariamente Scritto da templares Visualizza Messaggio
    Anzitutto me lo devo stampare, altrimenti non riesco a leggerlo. Così postato risulta di difficile lettura, purtroppo.
    Penso anch'io che in questo caso la stampa del documento sia inevitabile. Eventualmente si potrebbe vedere di farne una copia in formato pdf. Magari Ugo potrebbe fare una prova, sempre che sia possibile postare su POL un file pdf.

  6. #6
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    Citazione Originariamente Scritto da Florian Visualizza Messaggio
    Edmund Burke scrisse le Riflessioni sulla Rivoluzione francese nell’inverno del 1789-90. Gli avvenimenti di Francia che vengono presi in esame sono dunque la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, avvenuta nell’agosto 1789, e la marcia dei parigini su Versailles il 5 e 6 ottobre dello stesso anno. Tuttavia, Burke fu spinto a scrivere le Riflessioni nella forma in cui le conosciamo da un avvenimento successivo che ebbe luogo a Londra. Il 4 novembre 1789 si tenne infatti nella capitale inglese una riunione della Revolution Society, un club sorto per propagandare una particolare interpretazione della Rivoluzione inglese del 1688. A questa riunione fece seguito il sermone di un ministro di culto non conformista, il Dr. Richard Price, che elogiava gli avvenimenti del 5-6 ottobre come una dimostrazione di “patriottismo” del popolo francese.
    Burke mise in relazione gli accadimenti francesi con la campagna promossa in Inghilterra da unitarians e dissenters allo scopo di ottenere alcune riforme politiche e religiose. Burke associò i rivoluzionari di Francia ai connazionali che miravano all’abolizione delle religioni di Stato. Attraverso queste rivendicazioni vide un diretto attacco al Cristianesimo che si realizzava nella confisca delle proprietà terriere della Chiesa e nella Costituzione civile del clero.
    Fu in reazione a questi eventi che il Burke trasformò la lettera che stava scrivendo al giovane francese Charles-Francois Depont in un’opera di più ampio respiro che è divenuta un classico del pensiero politico.

    * * *

    Le Riflessioni sulla rivoluzione francese si aprono con l’intento da parte dell’Autore di esprimere le proprie opinioni riguardo gli ultimi avvenimenti di Francia. Burke confessa il desiderio di vedere regnare tra i francesi uno spirito di ragionevole libertà, al tempo stesso, però, prende le distanze da coloro che in Gran Bretagna approvano manifestamente i rivoluzionari francesi e che sono attivi in clubs come la Revolution Society.
    Burke dichiara di tenere personalmente ad una libertà moralmente disciplinata e di essere geloso della libertà delle altre nazioni al pari dei membri del suddetto club. Tuttavia tende a precisare che i propositi di costoro non si basano sulla realtà sperimentata, ma su astrazioni metafisiche, quando invece sono proprio le circostanze di fatto a rivelare se una dottrina politica provocherà risultati benefici o nocivi per l’umanità.
    In base a tale assunto Burke afferma di non potersi compiacere delle nuove libertà francesi fino a quando non gli sarà chiaro il modo in cui questa libertà si realizzerà in rapporto ad una serie di valori (governo, forza pubblica, organizzazione militare, sistema produttivo e distributivo, principi morali e religiosi, tutela della proprietà, garanzie di ordine pacifico…) senza i quali la libertà “non costituisce un beneficio sostanziale”. Bisogna verificare l’uso che si fa della libertà, in quanto essa può prestarsi a congratulazioni o al compianto. E’ questo un modo di agire, ci dice Burke, che ci è consigliato dalla prudenza.

    Burke distingue la libertà del singolo individuo dalla libertà che agisce attraverso gruppi organizzati. Quest’ultima si trasforma in potenza e l’uso che ne verrà fatto rappresenta un’incognita. Chi sembra invece non avere dubbi in proposito sono i membri della Revolution Society, la cui produzione letteraria vorrebbe spingere i britannici ad imitare la condotta dell’Assemblea Nazionale di Francia. E’ dunque il timore che l’incendio possa divampare un domani anche in Inghilterra che spinge Burke a dare un risalto maggiore di quanto preventivato alle sue riflessioni.
    L’Autore presenta la Rivoluzione francese come qualcosa che travalica i confini nazionali e perfino europei, arrivando a giudicarla “l’avvenimento più stupefacente che nella storia del mondo si sia mai prodotto fino ad ora”. Mentre altri, e nella fattispecie i membri della Revolution Society, non vi vedono altro che una “manifestazione gagliarda e affinata dello spirito di libertà, concorde con i principi della morale umana e religiosa”.
    Un ministro di fede non conformista quale il Dr. Richard Price mescola nel suo sermone sentimenti morali e religiosi agli avvenimenti rivoluzionari francesi. Burke trae spunto dalla mancanza di moderazione nelle parole del ministro, che giudica pericolose, per sostenere che la politica e il pulpito non vadano d’accordo e che in Chiesa non dovrebbe ascoltarsi altra voce che quella moderatrice ispirata alla carità cristiana. Per Burke la Chiesa è infatti il luogo dove trovano sosta le inquietudini umane e dove i dissensi si ricompongono. Diversamente, lo zelo del Dr. Price sembra essere volto non alla diffusione della Verità, ma allo spargere la contraddizione. Burke nota come per i dissenters l’importante sia dissentire a prescindere da chi o cosa, quasi che servisse a scacciare la monotonia. Ci sarebbe poco di che preoccuparsi tuttavia, se le dottrine di questi uomini non si rivelassero pericolose per le nazioni. Il discorso del Price intacca infatti, secondo Burke, la Costituzione inglese nelle sue parti vitali.

    Il discorso del ministro non conformista sembra voler salvare la corona inglese dallo sdegno riservato alle altre monarchie europee, in quanto sarebbe il solo ad essere stato legittimato dal consenso popolare. Burke si oppone però con decisione all’affermazione che vuole il consenso popolare sarebbe l’unico titolo giustificatore dei diritti sovrani. Secondo Burke è falso dire che la monarchia inglese detenga la corona sotto questo titolo, mentre lo scopo di questi propagandisti è di affermare in via teorica i loro principi, affidando al tempo il compito di abituare il pubblico alla validità di tali presupposti, pronti ad essere realizzati avvenire.
    A questo punto Burke mette a confronto il sistema elettivo con quello ereditario. In un tempo o nell’altro tutte le dinastie sono state elette al governo dai loro sudditi, ciò non toglie però che in quel momento il monarca d’Inghilterra era investito della sua funzione in base ad una norma fissa che regolava la successione al trono in conformità con i principi costituzionali.
    Secondo il Dr. Price il popolo inglese successivamente alla Rivoluzione del 1688 avrebbe acquistato il diritto di scegliersi i governanti, di deperirli in caso di cattiva condotta e di costituire un governo da sé medesimo. Per Burke queste dichiarazioni costituiscono un Bill of Rights del tutto nuovo, nel quale il popolo non ha nessuna parte e che disapprova profondamente. Al contrario, l’essenza intima dei principi del 1688 risiedono nella Declaration of Right, dichiarazione nella quale non si fa menzione né allusione ai pretesi diritti enunciati dal Price.

    Riguardo il supposto diritto degli inglesi di scegliersi i propri governanti, il Burke ripercorre le vicende storiche che portarono alla successione di Re Guglielmo. In quell’occasione, mancando una discendenza si volle evitare il costituirsi di un precedente che violando il principio dell’ereditarietà avrebbe potuto favorire il principio dell’elezione popolare che avrebbe fatalmente compromessa “l’unità, la pace e la tranquillità dello stato”.
    Burke rimarca l’infondatezza che il diritto all’elezione dei propri sovrani sia conseguenza della Gloriosa Rivoluzione, dopo di che si sofferma quindi sulla differenza di vedute all’interno del raggruppamento politico Whig, del quale egli stesso fa parte al pari dei seguaci del Price. [E’ un accenno alla futura spaccatura fra gli Old Whigs conservatori di Burke e i New Whigs radicali di Charles J. Fox, che avrà come oggetto proprio la disputa sulla Rivoluzione francese.]
    Burke insiste che il principio di successione al trono inglese è sempre stato sorretto dal diritto, dal Common Law al successivo Statute Law che opera sul precedente senza tradirne la sostanza. Vengono presi in esami i due periodi più critici della storia britannica, quello della Restaurazione e quello della Rivoluzione, in cui nonostante fosse venuto meno il vincolo della tradizione, l’impianto costituzionale non andò in rovina, in quanto si operò saggiamente per rigenerare le parti difettose dell’antico sistema, salvando quelle che non erano state intaccate.
    I dissenters della Revolution Society hanno voluto vedere negli avvenimenti del 1688 la deviazione del principio costituzionale e non l’essenza del principio medesimo. Per Burke, invece, l’ordine di successione rappresenta la “condizione di sanità normale dell’organismo costituzionale inglese”.

    L’analisi del primo articolo del Price si conclude quindi con una nota polemica verso il tentativo di questi polemisti di accreditare il principio elettivo mettendolo in contrapposizione con chi si attarda ancora a sostenere la teoria del diritto divino ereditario. [La teoria che la Monarchia era stata fondata da Dio, che si basava sugli scritti di S. Paolo e di S. Agostino, era stata formulata in Inghilterra da Giacomo I e trovò opposizione in giudici come Sir Edward Coke, per i quali il Re d’Inghilterra era creazione della legge inglese e soggetto a questa. Il conflitto tra i fautori delle due dottrine portò alla guerra civile (vinta dai Parlamentari) e quindi alla Gloriosa Rivoluzione che stabilì fermamente il principio della monarchia costituzionale.]
    Burke critica i vecchi apologeti della ragione divina al pari dei nuovi fanatici dell’elezione popolare, preoccupandosi di difendere i retti principi costituzionali della nazione inglese. Per l’Autore i governanti sono solo i detentori momentanei di un potere ereditato dal passato che dovranno trasmettere non inferiore alle future generazioni. L’autorità, per Burke, ha dunque un fondamento tradizionalistico: il governo migliore è quello che perdura nel tempo.
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    Penso anch'io che in questo caso la stampa del documento sia inevitabile. Eventualmente si potrebbe vedere di farne una copia in formato pdf. Magari Ugo potrebbe fare una prova, sempre che sia possibile postare su POL un file pdf.
    su Pol no (non possono allegarsi file). Ma su un mio server si, e potremmo mettere su Pol il link al download.
    In ogni caso io ho stampato il tutto, e mi sto già godendo il buon Burke.
    Di ritorno dalle udienze odierne, posterò le mie riflessioni.
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  7. #7
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    Credo di essere il primo ad aver completato la lettura. Ti dico quel che ho sottolineato Antonio, frasi o riflessioni che mi hanno particolarmente ispirato:

    "Quando la casa del vicino comincia a bruciare non è male che le pompe lavorino un poco anche sulla nostrao. E' meglio peccare per ecesso di precauzione che andare in malora per aver nutrito troppa fiducia".

    Chiaro riferimento al dilagare della Rivoluzione francese e al timore, fondato, di una sua diffusione in tutta il vecchio continente. La riflessione di Burke parte dal sermone del Dr. Richard Price, e sfocia nella critica e contestazione all'operato di club, come la Revolution Society, miranti ad esportare in Inghilterra il pensiero rivoluzionario, presentandolo come prosecuzione ideale della rivoluzione inglese del 1668.

    "Secondo il ragionamento di quel metafisico professore di politica bisognerebbe arrivare alla conclusione che, ove S.M. non dovesse la corona al fatto della elezione popolare, il diritto sovrano non sarebbe legittimato. Orbene, non v'e niente che sia così falso come affermare che il nostro Re detiene la Corono sotto questo titolo".

    Altro duro attacco alle teorie dei rivoluzionari francesi, altro carattere di distinzione, secondo Burke, tra la rivoluzione inglese e quella giacobina.
    Nella Declaration of Right, carta dei valori scaturente dalla Rivoluzione Inglese del 1668, non vi è alcun accenno al principio della sovranità elettiva.
    La Declaration of Right è l' "Atto per la dichiarazione dei diritti e della libertà dei sudditi e per fissare l'ordine di successione alla corona". Intrinseco e pacifico, pertanto, il riconoscimento dell'ereditarietà della corona, neppure lontanamente messo in discussione a vantaggio di un fantomatico principio dell'elettività.
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  8. #8
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    Porgo alla vostra attenzione il mio primo intervento su questo capitolo delle Riflessioni sulla Rivoluzione Francese. Devo però avvertirvi che per me è un "esperimento" nuovo. Ho provato, in primo luogo, a leggere il testo e a capirne i contenuti, per evidenziare poi i dati essenziali. Sostanzialmente, questo intervento sembrerà una sorta di "riassunto". Niente paura: alla fine, provvederò ad una analisi globale, per giungere alle conclusioni che ritengo più adeguate e vicine al senso del testo.
    Ovviamente, anche col vostro aiuto, potremo approfondire e chiarire i dati più oscuri o poco comprensibili.
    Siate comprensivi; col tempo sarò più veloce e diretto, questo intervento serve innanzitutto a me per "prendere mano" con Burke.
    Una ultima nota: purtroppo il tempo che ho a disposizione è poco; l'intervento continuerà domani sera. Ma chi va piano, va sano e va lontano.




    --------------------------------
    I toni con i quali Burke si muove all’inizio delle Riflessioni colpiscono l’attenzione di coloro che conoscono la grande fortuna dell’uomo e delle sue opere, in particolar modo proprio quella sulla Rivoluzione Francese, da poco scoppiata con l’assalto alla Bastiglia, evento-simbolo che pose fine all’Antico Regime. Burke, anche se cerca di sminuire l'importanza del suo intervento (in forma epistolare, per rispondere alle sollecitazioni di un corrispondente francese), sa perfettamente che la sua profonda analisi è carica di conseguenze importanti, anche per gli sviluppi interni del pensiero. Burke è rivolto alla Francia, ma è consapevole che anche l’Inghilterra è toccata, e non marginalmente, da quanto accade oltre la Manica.
    Per prima cosa, Burke è preso dall’urgenza di sottolineare che quanto accade in terra francese non può essere paragonato alla Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688, anno della caduta del cattolico Giacomo II e dell’avvento al trono di Guglielmo III d’Orange, in modo sostanzialmente indolore, e con la definizione, tramite il Bill of Rights, delle prerogative del Parlamento.
    Nonostante alcuni precedenti piuttosto cruenti (si pensi alla decapitazione di Carlo I Stuart nel 1649), la Rivoluzione inglese poteva definirsi compiuta con il mantenimento del sistema monarchico, non più assolutistico, ma rispettoso dei diritti del Parlamento. Senza sconvolgimenti radicali, l’Inghilterra manteneva la Corona (passata per l’appunto ad un Orange), e poteva liberare le sue forze produttive per lo sviluppo della potenza marittima.
    Burke non può ammettere paragoni con quanto accaduto in Francia (o con quanto stava per accadere). Coloro che a Londra sostengono una vicinanza fra i due eventi, commettono un grosso sbaglio di prospettiva. I circoli politici e culturali (i cosiddetti “club”, nome sinistro apparso anche in Francia con i giacobini e gli altri gruppi rivoluzionari o di opinione), come quello della Revolution Society, che intendono instaurare un parallelo fra questi eventi, e quindi applicare alle vicende passate una interpretazione particolare del presente, portano avanti una analisi scorretta. E, per di più, si permettono di approvare e ratificare dichiarazioni di “simpatia” e vicinanza ai rivoluzionari francesi, ma senza apporre in calce a questi documenti i nomi e i cognomi delle persone favorevoli. Questa pratica, per Burke, non è lontana dalla frode, e ad ogni modo la forza di questi “club” è minore di quanto si pensi. Ma la cosa più grave sta nel loro riconoscimento dell’Assemblea Nazionale francese : che diritto hanno di compiere questo atto, visto che non costituiscono certo organi di governo, né rappresentano la posizione ufficiale del Parlamento, né possono costituirsi in “pubbliche dignità”? Pare quindi illecita qualsiasi corrispondenza formale tra i “club” ed uno Stato estero.
    Ma per che cosa poi si congratulano, queste associazioni inglesi? Burke, con sottile ironia, le avverte di stare ben all’erta, per evitare dolorose scoperte circa la crescente “libertà” in Francia. Difatti, prima di congratularsi, sarebbe saggio scoprire cosa resta al di là dell’eccitazione del momento, dell’evento. Cosa appare al di sotto della patina dell’effervescenza, delle energie spigionate dai moti rivoluzionari? Cosa si nasconde dietro questo supposto stato di “libertà”?
    Per una riflessione corretta sulle vicende francesi, sarebbe bene sospendere giudizi troppo affrettati, e verificare piuttosto la condizione di altri diritti (come quello sulla proprietà privata, ad esempio), o accertarsi della reale protezione assicurata ai principi morali e religiosi. Difatti, la “libertà” non si esprime come beneficio quando altri valori sono attaccati, e posti alla mercè dello Stato o in totale balia di altri. E’ doveroso appurare l’uso di questa “libertà”, per non cadere da frettolosi plausi a veri e propri compianti. Un ulteriore elemento di incognita sta negli sconvolgimenti in atto, propagati da personaggi e gruppi nuovi, di recente costituzione, che sobillano ed esercitano sempre maggiore influenza. Che uso faranno, costoro, della libertà, ovvero del potere in quanto gruppi organizzati?
    L’ esistenza in Inghilterra di tali società, pronte a scavalcare i legittimi organi di governo, e di sostenere incoscientemente la causa della Rivoluzione, è ovviamente per Burke un dato da non sottovalutare. L’incendio rivoluzionario, già appiccato in Francia, può estendersi da un momento all’altro verso i vicini (cosa che poi accadrà effettivamente, non in Inghilterra, ma per gran parte del continente europeo, ad opera di armate rivoluzionarie prima e di Napoleone poi), fino a sconvolgere l’assetto degli Stati. Queste fiamme, che si propagano a velocità sempre maggiori, vanno tenute sotto controllo: la prudenza, per Burke, non è mai troppa in questo caso.
    La Rivoluzione evoca forze contrastanti, ma di grande potenza: Burke si rende conto di vivere in un momento di rottura, con esiti e conseguenze di drammatica rilevanza, per tutto il Continente ed addirittura oltre.
    Un uomo ligio ai suoi doveri, pubblici e privati, e rispettoso del sistema costituzionale in vigore, non può che premunirsi ed attaccare la condotta delle società favorevoli alla Rivoluzione, e dimostrare senza ombra di dubbio che i loro documenti e dichiarazioni sono del tutto sbagliati e forieri di eventi pericolosi. Al centro della polemica, vi è un sermone del ministro di fede “non conformista” (ovvero dissidente, contrario all’esistenza di Chiese di Stato, e dunque anche alla chiesa anglicana in Inghilterra) Richard Prince, pronto a mescolare buone parole di natura religiosa a ben altre di natura politica, e per di più lontane dalla moderazione che dovrebbe caratterizzare un uomo di Dio. La “filippica” di contenuto politico, rivestita se non mascherata da sermone, attira l’attenzione di Burke, in evidente allerta su quanto può accadere in Inghilterra a causa di questi toni radicali.
    Le teorie che escono dalla bocca di questo Reverendo mettono a repentaglio le basi stesse del sistema costituzionale inglese, e quindi l’ordine e la stabilità esistenti. Quali sono, dunque, queste dottrine?
    Prince è il portavoce di una particolare elaborazione teorica sull'origine e la legittimità del potere sovrano, per cui quest'ultimo si basa sulla volontà del popolo. Il re d'Inghilterra sarebbe l'unica testa coronata legittima in tutto il globo, in quanto "eletta", e fondata sulla decisione popolare.
    Burke, di fronte a questa evidente distorsione del sistema costituzionale in vigore, ha gioco facile nel smentire simili proposizioni. Non è affatto vero che i sudditi possano scegliere il loro Governo, ed abbatterlo quando ciò loro aggradi, per sostituirlo con altri Governi.
    In primo luogo, è del tutto evidente che anche gli altri sovrani, considerati "usurpatori" alla luce di tali sciocchezze, in realtà devono la loro dinastia, in tempi remoti ed in momenti di rottura, a sconvolgimenti e rivoluzioni con cambi di governo.
    Ma in Inghilterra, e negli altri Stati, i re non sono certo eletti, e non devono il loro potere all'esclusiva volontà dei propri sudditi, pronti a fare e disfare con capriccio. Il sistema in vigore dà origine alla legittimità: il re è tale perchè sono state seguite le regole di successione dinastica contenute nella Dichiarazione di diritto emanata dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688. Questa Dichiarazione, "saggia, sobria e avveduta", non accenna neppure a qualsivoglia elezione del sovrano, ed individua con precisione le regole di successione, affinchè gli inglesi sappiano chi legittimamente li può goverare, in modo tale da tutelare la pace e la sicurezza del Regno.
    Il caso specifico della venuta e dell' "acclamazione" di Guglielmo d'Orange, erede non proprio diretto del precedente sovrano, va trattato come tale, e non può certo assurgere a regola generale e a principio costitutivo. Lo stesso Parlamento non accettò certo di innalzare a norma un caso del tutto contingente, e necessario per mantenere la tranquillità ed evitare lo scoppio di una guerra civile. Un "unicum", insomma, e nulla più, senza alcuna pretesa di costituire un precedente pericoloso.
    Per tutti questi motivi, ogni teoria che rimanda alla sovranità popolare è da escludere, e va bollata come un attentato alla stabilità e all'ordine definiti su atti e consuetudini precisi, valevoli per sempre, così come sancito con estrema chiarezza da Lords e Comuni. La Gloriosa Rivoluzione non ammise, in nessuna circostanza, un sovvertimento dell'ordine costituito, nè tantomeno la messa in dubbio del sistema monarchico.

    (1. Continua)

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    Un applauso a zaffo per la puntualizzazione e l'abnegazione!

  10. #10
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    Citazione Originariamente Scritto da zaffo Visualizza Messaggio
    Porgo alla vostra attenzione il mio primo intervento su questo capitolo delle Riflessioni sulla Rivoluzione Francese. Devo però avvertirvi che per me è un "esperimento" nuovo. Ho provato, in primo luogo, a leggere il testo e a capirne i contenuti, per evidenziare poi i dati essenziali. Sostanzialmente, questo intervento sembrerà una sorta di "riassunto". Niente paura: alla fine, provvederò ad una analisi globale, per giungere alle conclusioni che ritengo più adeguate e vicine al senso del testo.
    Ovviamente, anche col vostro aiuto, potremo approfondire e chiarire i dati più oscuri o poco comprensibili.
    Siate comprensivi; col tempo sarò più veloce e diretto, questo intervento serve innanzitutto a me per "prendere mano" con Burke.
    Una ultima nota: purtroppo il tempo che ho a disposizione è poco; l'intervento continuerà domani sera. Ma chi va piano, va sano e va lontano.


    --------------------------------
    I toni con i quali Burke si muove all’inizio delle Riflessioni colpiscono l’attenzione di coloro che conoscono la grande fortuna dell’uomo e delle sue opere, in particolar modo proprio quella sulla Rivoluzione Francese, da poco scoppiata con l’assalto alla Bastiglia, evento-simbolo che pose fine all’Antico Regime. Burke, anche se cerca di sminuire l'importanza del suo intervento (in forma epistolare, per rispondere alle sollecitazioni di un corrispondente francese), sa perfettamente che la sua profonda analisi è carica di conseguenze importanti, anche per gli sviluppi interni del pensiero. Burke è rivolto alla Francia, ma è consapevole che anche l’Inghilterra è toccata, e non marginalmente, da quanto accade oltre la Manica.
    Per prima cosa, Burke è preso dall’urgenza di sottolineare che quanto accade in terra francese non può essere paragonato alla Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688, anno della caduta del cattolico Giacomo II e dell’avvento al trono di Guglielmo III d’Orange, in modo sostanzialmente indolore, e con la definizione, tramite il Bill of Rights, delle prerogative del Parlamento.
    Nonostante alcuni precedenti piuttosto cruenti (si pensi alla decapitazione di Carlo I Stuart nel 1649), la Rivoluzione inglese poteva definirsi compiuta con il mantenimento del sistema monarchico, non più assolutistico, ma rispettoso dei diritti del Parlamento. Senza sconvolgimenti radicali, l’Inghilterra manteneva la Corona (passata per l’appunto ad un Orange), e poteva liberare le sue forze produttive per lo sviluppo della potenza marittima.
    Burke non può ammettere paragoni con quanto accaduto in Francia (o con quanto stava per accadere). Coloro che a Londra sostengono una vicinanza fra i due eventi, commettono un grosso sbaglio di prospettiva. I circoli politici e culturali (i cosiddetti “club”, nome sinistro apparso anche in Francia con i giacobini e gli altri gruppi rivoluzionari o di opinione), come quello della Revolution Society, che intendono instaurare un parallelo fra questi eventi, e quindi applicare alle vicende passate una interpretazione particolare del presente, portano avanti una analisi scorretta. E, per di più, si permettono di approvare e ratificare dichiarazioni di “simpatia” e vicinanza ai rivoluzionari francesi, ma senza apporre in calce a questi documenti i nomi e i cognomi delle persone favorevoli. Questa pratica, per Burke, non è lontana dalla frode, e ad ogni modo la forza di questi “club” è minore di quanto si pensi. Ma la cosa più grave sta nel loro riconoscimento dell’Assemblea Nazionale francese : che diritto hanno di compiere questo atto, visto che non costituiscono certo organi di governo, né rappresentano la posizione ufficiale del Parlamento, né possono costituirsi in “pubbliche dignità”? Pare quindi illecita qualsiasi corrispondenza formale tra i “club” ed uno Stato estero.
    Ma per che cosa poi si congratulano, queste associazioni inglesi? Burke, con sottile ironia, le avverte di stare ben all’erta, per evitare dolorose scoperte circa la crescente “libertà” in Francia. Difatti, prima di congratularsi, sarebbe saggio scoprire cosa resta al di là dell’eccitazione del momento, dell’evento. Cosa appare al di sotto della patina dell’effervescenza, delle energie spigionate dai moti rivoluzionari? Cosa si nasconde dietro questo supposto stato di “libertà”?
    Per una riflessione corretta sulle vicende francesi, sarebbe bene sospendere giudizi troppo affrettati, e verificare piuttosto la condizione di altri diritti (come quello sulla proprietà privata, ad esempio), o accertarsi della reale protezione assicurata ai principi morali e religiosi. Difatti, la “libertà” non si esprime come beneficio quando altri valori sono attaccati, e posti alla mercè dello Stato o in totale balia di altri. E’ doveroso appurare l’uso di questa “libertà”, per non cadere da frettolosi plausi a veri e propri compianti. Un ulteriore elemento di incognita sta negli sconvolgimenti in atto, propagati da personaggi e gruppi nuovi, di recente costituzione, che sobillano ed esercitano sempre maggiore influenza. Che uso faranno, costoro, della libertà, ovvero del potere in quanto gruppi organizzati?
    L’ esistenza in Inghilterra di tali società, pronte a scavalcare i legittimi organi di governo, e di sostenere incoscientemente la causa della Rivoluzione, è ovviamente per Burke un dato da non sottovalutare. L’incendio rivoluzionario, già appiccato in Francia, può estendersi da un momento all’altro verso i vicini (cosa che poi accadrà effettivamente, non in Inghilterra, ma per gran parte del continente europeo, ad opera di armate rivoluzionarie prima e di Napoleone poi), fino a sconvolgere l’assetto degli Stati. Queste fiamme, che si propagano a velocità sempre maggiori, vanno tenute sotto controllo: la prudenza, per Burke, non è mai troppa in questo caso.
    La Rivoluzione evoca forze contrastanti, ma di grande potenza: Burke si rende conto di vivere in un momento di rottura, con esiti e conseguenze di drammatica rilevanza, per tutto il Continente ed addirittura oltre.
    Un uomo ligio ai suoi doveri, pubblici e privati, e rispettoso del sistema costituzionale in vigore, non può che premunirsi ed attaccare la condotta delle società favorevoli alla Rivoluzione, e dimostrare senza ombra di dubbio che i loro documenti e dichiarazioni sono del tutto sbagliati e forieri di eventi pericolosi. Al centro della polemica, vi è un sermone del ministro di fede “non conformista” (ovvero dissidente, contrario all’esistenza di Chiese di Stato, e dunque anche alla chiesa anglicana in Inghilterra) Richard Prince, pronto a mescolare buone parole di natura religiosa a ben altre di natura politica, e per di più lontane dalla moderazione che dovrebbe caratterizzare un uomo di Dio. La “filippica” di contenuto politico, rivestita se non mascherata da sermone, attira l’attenzione di Burke, in evidente allerta su quanto può accadere in Inghilterra a causa di questi toni radicali.
    Le teorie che escono dalla bocca di questo Reverendo mettono a repentaglio le basi stesse del sistema costituzionale inglese, e quindi l’ordine e la stabilità esistenti. Quali sono, dunque, queste dottrine?
    Prince è il portavoce di una particolare elaborazione teorica sull'origine e la legittimità del potere sovrano, per cui quest'ultimo si basa sulla volontà del popolo. Il re d'Inghilterra sarebbe l'unica testa coronata legittima in tutto il globo, in quanto "eletta", e fondata sulla decisione popolare.
    Burke, di fronte a questa evidente distorsione del sistema costituzionale in vigore, ha gioco facile nel smentire simili proposizioni. Non è affatto vero che i sudditi possano scegliere il loro Governo, ed abbatterlo quando ciò loro aggradi, per sostituirlo con altri Governi.
    In primo luogo, è del tutto evidente che anche gli altri sovrani, considerati "usurpatori" alla luce di tali sciocchezze, in realtà devono la loro dinastia, in tempi remoti ed in momenti di rottura, a sconvolgimenti e rivoluzioni con cambi di governo.
    Ma in Inghilterra, e negli altri Stati, i re non sono certo eletti, e non devono il loro potere all'esclusiva volontà dei propri sudditi, pronti a fare e disfare con capriccio. Il sistema in vigore dà origine alla legittimità: il re è tale perchè sono state seguite le regole di successione dinastica contenute nella Dichiarazione di diritto emanata dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688. Questa Dichiarazione, "saggia, sobria e avveduta", non accenna neppure a qualsivoglia elezione del sovrano, ed individua con precisione le regole di successione, affinchè gli inglesi sappiano chi legittimamente li può goverare, in modo tale da tutelare la pace e la sicurezza del Regno.
    Il caso specifico della venuta e dell' "acclamazione" di Guglielmo d'Orange, erede non proprio diretto del precedente sovrano, va trattato come tale, e non può certo assurgere a regola generale e a principio costitutivo. Lo stesso Parlamento non accettò certo di innalzare a norma un caso del tutto contingente, e necessario per mantenere la tranquillità ed evitare lo scoppio di una guerra civile. Un "unicum", insomma, e nulla più, senza alcuna pretesa di costituire un precedente pericoloso.
    Per tutti questi motivi, ogni teoria che rimanda alla sovranità popolare è da escludere, e va bollata come un attentato alla stabilità e all'ordine definiti su atti e consuetudini precisi, valevoli per sempre, così come sancito con estrema chiarezza da Lords e Comuni. La Gloriosa Rivoluzione non ammise, in nessuna circostanza, un sovvertimento dell'ordine costituito, nè tantomeno la messa in dubbio del sistema monarchico.

    (1. Continua)
    Mannagia a te m hai fatto fare brutta figura. Te possino ..
    www.interamala.it - Visitatelo che ci tengo

 

 
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