Negli scorsi mesi a lungo si è dibattuto de “La paura e la speranza”, il libro-manifesto del Ministro dell’economia nel quale si auspica un rafforzamento del ruolo dello Stato per arginare un presunto eccesso di mercato, fenomeno che è stato spregiativamente ribattezzato come mercatismo. Un volume, quello di Tremonti, non privo di contraddizioni e nel quale, oltre ad argomentare contro la libertà di commercio fra soggetti che vivono in condizioni di sviluppo diseguali come gli europei ed i cinesi, si fanno ricadere sul mercato colpe che non gli appartengono come il declino demografico dell’Europa e si presenta la questione ecologica con toni quasi apocalittici. Assai più limitata eco ha avuto un altro volume, uscito lo scorso anno in edizione italiana presso la Firenze University Press, opera di Vito Tanzi, già sottosegretario del 2° governo Berlusconi e per vent’anni al Fondo Monetario Internazionale, e di Ludger Schuknecht, economista della Banca Centrale Europea. Il libro si intitola “La spesa pubblica nel XX secolo” e potrebbe rivelarsi un’ottima lettura estiva per chi, come il Presidente del Consiglio, si è detto intenzionato a invertire la rotta rispetto a quanto accaduto con il precedente esecutivo da lui guidato ed a ridurre le uscite dello Stato, condizione imprescindibile per la diminuzione del prelievo fiscale.
Il libro si apre con un excursus sulla crescita dell’intervento statale negli ultimi 150 anni. Gli autori si dicono sorpresi per aver scoperto che nell’800 e nella prima parte dello scorso secolo il livello di spesa pubblica era molto più basso di quello attuale sia nei Paesi ricchi che in quelli in via di sviluppo: negli Stati Uniti e nei maggiori Paesi europei, la quota di ricchezza prelevata dallo Stato era inferiore al 10% del totale. Economisti e filosofi politici di quel periodo erano convinti che il ruolo del governo dovesse essere limitato a pochi compiti necessari per adempiere alla funzione della tutela dei diritti individuali: la difesa nazionale, la polizia e l’amministrazione. Una spesa dell’ordine del 20% era giudicata “esorbitante” e dannosa per l’economia.
Da allora, la rilevanza dell’intermediazione dello Stato nell’uso delle risorse è andata via via crescendo. Ancora agli inizi degli anni ’60 la spesa pubblica era però a livelli molto più bassi di quelli attuali, intorno al 28% del PIL. Sono stati i decenni successivi, quelli, nell’azzeccata definizione di Tremonti, della “moltiplicazione e la sublimazione dei diritti rispetto ai doveri”, che hanno visto regredire ulteriormente lo spazio del mercato a favore del settore pubblico nelle cui mani oggi, in molti Paesi occidentali, passa la metà della ricchezza prodotta.
Tale evoluzione era fondata su una visione “angelicata” dell’azione di un governo, perfettamente razionale e trasparente, capace di rimediare con prontezza agli errori commessi, non insidiato da rent seekers e così via idealizzando. Solo negli anni ’80 e ’90 è emerso un forte scetticismo sulla “benevolenza del principe” e sulla sua abilità di attuare politiche economiche efficienti.
Il confronto fra Paesi con diverso peso del settore pubblico effettuato da Tanzi e Schuknecht mostra come, in presenza di governi più grandi, il declino della crescita economica rispetto agli anni ’60 sia stato più accentuato, il deficit pubblico e la disoccupazione siano cresciuti di più. A fronte di tali impatti negativi non sembrano essersi registrate ricadute positive dal punto di vista degli indicatori sociali ed ambientali. Nei Paesi con governi piccoli, l’aspettativa di vita e la mortalità infantile sono pressoché identiche rispetto a quelle che si registrano in Paesi con più alta spesa sanitaria. Né si rilevano differenze significative nell’ambito dell’istruzione. Per quanto concerne la distribuzione del reddito, poi, si evidenzia come i governi grandi, pur spendendo più del 30% del PIL in trasferimenti e sussidi, ottengono un incremento del reddito disponibile della fascia più povera della popolazione solo marginalmente superiore – lo 0,6% del PIL - rispetto agli Stati che trasferiscono in media il 14% della ricchezza prodotta.
L’esiguità della differenza fra i risultati raggiunti in Paesi con welfare state di dimensioni assai diverse porta a ritenere che la vera finalità dei trasferimenti pubblici non sia soprattutto quella di migliorare le condizioni di coloro che stanno peggio ma, come insegna la scuola della public choice, l’acquisizione del consenso di particolari gruppi sociali. Non bisogna poi trascurare il fatto che l’intervento dello stato riduce gi incentivi per i soggetti più svantaggiati ad intraprendere autonomamente azioni volte a proteggere se stessi ed a migliorare la propria situazione economica.
La conclusione di Tanzi e Schuknecht è che l’incremento della spesa pubblica non costituisce in generale un’adeguata risposta ai problemi socio-economici cui è teoricamente finalizzata e che, con politiche intelligenti, sarebbe possibile invertire la tendenza degli ultimi decenni.
A supporto di tale valutazione viene descritta l’esperienza di alcuni Paesi, come la Nuova Zelanda ed il Cile che, grazie alla riorganizzazione dello Stato e del suo coinvolgimento nella produzione di beni e servizi oltre che nell’offerta di sicurezza sociale, hanno ridotto la spesa pubblica in misura assai rilevante, dal 10 al 20% del PIL con benefici effetti di crescita economica e senza ricadute negative sotto il profilo del benessere sociale.
Gli esempi da seguire, dunque, non mancano. Serve “solo" il coraggio di contrastare gli interessi particolari a favore di quello generale.
Da Libero Mercato, 12 agosto 2008
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