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    Bieco reazionario colonialista
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    Post [Contributi] Hans-Hermann Hoppe, paleoconservatorismo, libertarismo di Destra

    Hans-Hermann Hoppe

    Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.



    Hans-Hermann Hoppe

    Hans-Hermann Hoppe (Peine, 2 settembre 1949) è un economista tedesco, esponente della scuola austriaca e un filosofo politico anarco-capitalista.

    Biografia

    Ha studiato filosofia, sociologia, storia ed economia all’Universität des Saarlandes di Saarbrücken e alla Goethe-Universität di Frankfurt am Main. Ha ottenuto il suo dottorato e la sua Habilitation (sui fondamenti della sociologia e dell’economia) alla Goethe-Universität.
    Hoppe ha inoltre frequentato corsi post-dottorali alla University of Michigan di Ann Arbor dal 1976 al 1978.
    Ha insegnato in varie università tedesche e anche alla Johns Hopkins University di Bologna.
    Nel 1986 ha lasciato la Germania per gli Stati Uniti, dove ha studiato sotto la guida di Murray N. Rothbard, vicino al quale è rimasto fino al gennaio 1995 (quando lo studioso americano è scomparso).
    Attualmente Hoppe è professore di economia alla University of Nevada, con sede a Las Vegas, è Distinguished Fellow del Ludwig von Mises Institute e, fino al dicembre 2004, è stato direttore del Journal of Libertarian Studies del medesimo istituto.
    Autore di molti libri e articoli altamente discussi, egli ha sviluppato una difesa dei diritti di proprietà della tradizione libertaria che muove dall’etica dell’argomentazione, così come è stata sviluppata da Jürgen Habermas (che fu relatore di Hoppe al tempo della tesi di dottorato) e Karl-Otto Apel. Nel 2005 ha fondato Property and Freedom Society.

    Il pensiero

    Seguendo le orme del suo maestro Murray N. Rothbard, col quale lavorò per dieci anni in America, concentra la sua teoria sull'anarco-capitalismo e sul fallimento dell'istituzione Stato.
    In Democrazia: il dio che ha fallito critica aspramente le democrazie moderne e la democrazia in sè, e, attraverso un paragone tra le democrazie occidentali e le monarchie ereditarie, giunge alla conclusione, supportata da dati, della maggiore efficineza delle monarchie rispetto alle democrazie.
    Dal punto di vista economico, seguendo perfettamente la teoria anarco-capitalista, sostiene la necessità di un'instaurazione di ordine policentrico, fondato sulla proprietà privata e sul libero mercato totalmente svincolato dallo Stato.
    Sicuramente degna di nota è la teoria in tema di immigrazione del filosofo tedesco, teoria che va in netto contrasto col resto del mondo libertario.

    Bibliografia
    • Handeln und Erkennen (Bern 1976)
    • Kritik der kausalwissenschaftlichen Sozialforschung (Westdeutscher Verlag 1983)
    • Eigentum, Anarchie und Staat (Westdeutscher Verlag 1987)
    • Praxeology and Economic Science (Ludwig von Mises Institute, 1988)
    • A Theory of Socialism and Capitalism (Kluwer 1989)
    • The Economics and Ethics of Private Property (Kluwer, 1993)
    • Economic Science and the Austrian Method (Ludwig von Mises Institute, 1995)
    • Democracy: The God That Failed (Transaction, 2001); trad. it. Democrazia. Il dio che ha fallito (Liberilibri, 2006)
    • Curatore: The Myth of National Defense. Essays on the Theory and History of Security Production (Ludwig von Mises Institute, 2003)
    Collegamenti esterni

    HANS-HERMANN HOPPE : DEMOCRAZIA: IL DIO CHE HA FALLITO

    Hoppe, anche se non può fornire risposte definitive, ha l’indubbio merito di avviare una riflessione perché inizia a porre seriamente la questione se si possa fare a meno dello Stato, del potere e della politica, e di come sostituirli.

    di Raimondo Cubeddu
    Il testo che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore Liberilibri è la prefazione al nuovo libro del filosofo tedesco



    Dopo essersi addottorato nella natia Germania con Jürgen Habermas, Hans-Hermann Hoppe si è imbattuto, negli Usa, in Murray N. Rothbard, l’alfiere di quel Libertarianism che ha innestato la teoria delle scienze sociali e dell’azione umana del liberalismo classico di derivazione “austriaca” con la tradizione anarchico-individualistica americana, e la dottrina della Natural Law aristotelica con quella dei Natural Rights lockeana. Dalla rilettura parimenti critica e creativa di tali filoni di pensiero, la tradizione dell’individualismo politico – secondo il quale se la coercizione non è giustificabile da parte dei privati, in quanto lesione dei diritti naturali, essa non può essere giustificata neanche se compiuta dallo Stato – ha ricevuto nuova vita.
    È vero che nell’ambito delle varie componenti del Libertarianism non tutti si richiamano a quella rothbardiana e che molti le sono anche fieramente avversi, ma è ugualmente innegabile che il rilancio di tale corrente della filosofia politica nel XX secolo è strettamente connesso a Rothbard – il quale, insieme ad Ayn Rand, è il nome più noto –, e che tale notorietà è dovuta all’apporto teorico da loro dato al revival di tale tradizione.
    Hoppe, se da una parte può essere visto come l’erede e il continuatore del pensiero di Rothbard, per molti versi ne è anche un innovatore e certamente non può essere visto come un pensatore incline a cercare compromessi teorici, ma come un pensatore che lucidamente rimarca e accentua le differenze. E non soltanto perché si confronta con una crisi della filosofia politica democratica che pure il suo maestro avvertì e denunciò con estrema chiarezza, ma anche perché si cimenta con tutta quella complessa serie di problemi che vanno sotto il nome di globalizzazione, destinati a mutare radicalmente la prospettiva della filosofia politica e della teoria delle istituzioni; e infine perché, talora senza eccessive cautele, apre un confronto, spesso aspramente polemico, con tutte quelle correnti di pensiero politico ed economico che, a loro volta, si richiamano agli ideali dell’individualismo liberale e libertario.
    Il risultato, che in questo volume appare con estrema e forse irritante chiarezza, è di mettere ancor più in discussione non soltanto l’insieme dei presupposti del liberalismo, ma anche quelli della stessa filosofia politica. Già dalla lettura dell’Introduzione ci si avvede infatti di non essere di fronte ad una di quelle opere consolatorie che mirano a rinsaldare convinzioni, ma ad un’opera che mette in discussione certezze e modi di pensare, a partire dagli stessi presupposti del Classical Liberalism contemporaneo, cioè di quello codificatosi nelle opere di Ludwig von Mises e di Friedrich A. von Hayek.
    Di essi, e di quel liberalismo, – con una sorta di impeto demolitore che a chi scrive riporta alla mente il disagio urticante che provò quando, vent’anni addietro, si imbatté nella lettura di Leo Strass – Hoppe, da conoscitore profondo, individua i limiti e soprattutto le implicite e residuali illusioni connesse alla percezione dei limiti di quel compromesso tra diritti individuali e Stato che non si riusciva a superare, o che forse si temeva di realizzare. Anche perché l’esito sarebbe stato immancabilmente quello di rigettare quasi per intero la filosofia politica del moderno liberalismo che aveva creduto nella possibilità di una costituzione che si ponesse come limite invalicabile al dilagare del potere governativo e della democrazia, e che riuscisse a conciliare la libertà individuale con un complesso, sia pure limitato, di scelte collettive.
    A ottant’anni inoltrati, Hayek, nell’Introduzione all’edizione di Law, Legislation and Liberty, del 1982 – che includeva The Political Order of a Free People, del 1979, in cui fa i conti con la teoria politica che ha dominato il XX secolo, cioè quella democrazia che non è riuscita a mantenere le proprie promesse, e della quale tenta in qualche modo di salvare lo spirito vitale – confessava il proprio disagio in termini non dissimili dall’ammissione di un fallimento suo e dell’intero liberalismo:

    Quando Montesquieu e i padri della Costituzione americana formularono esplicitamente l’idea di una costituzione come insieme di limiti all’esercizio del potere, in base ad una concezione che si era sviluppata in Inghilterra, fondarono un modello che, da allora in poi, il costituzionalismo liberale ha sempre seguito. Il loro scopo principale era di provvedere delle garanzie istituzionali per la libertà individuale, e lo strumento in cui riposero la loro fiducia fu quello della separazione dei poteri. Nella forma in cui noi la conosciamo, tale divisione tra il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, non ha raggiunto gli scopi per cui era stata progettata. Dovunque, per via di mezzi costituzionali, i governi hanno ottenuto poteri che quei pensatori non intendevano affidar loro. Il primo tentativo di assicurare la libertà individuale per mezzo di forme costituzionali è evidentemente fallito.

    Al termine di una vita dedicata alla rivalutazione del Classical Liberalism, ad Hayek, come a Bruno Leoni, mancarono il tempo e le energie per rifondarlo. Forse si avvidero che quel compromesso tra libertà individuale e scelte collettive era da abbandonare, ma non riuscirono a farlo. Al di là delle riserve, se si guarda alla storia del liberalismo come ad una tradizione viva e vitale, quel compito è stato assunto da Hoppe. Compito così arduo e impegnativo, che sarebbe ingeneroso soffermarsi soltanto sugli aspetti che del suo titanico progetto possono non convincere. In buona sostanza, va preso atto che quel “primo tentativo” è fallito; e i nomi dei personaggi coinvolti in tale evento danno l’idea immediata, senza bisogno di troppe parole, di quanto possa essere difficile il secondo.
    Si tratta quindi di un’opera che potrebbe essere definita come un susseguirsi di impietose pugnalate alle convinzioni più profonde e care ai liberali contemporanei e che, da questo punto di vista, manifesta il furore iconoclasta del suo autore nel negare ad Hayek un posto tra gli esponenti della Scuola austriaca. E questo non è ancora nulla rispetto a ciò che Hoppe riserva all’intera tradizione della filosofia politica occidentale. Le critiche che ad essa rivolge fanno infatti apparire come paludati eufemismi quelle, già pesantissime, che le aveva riservato Rothbard. Non per nulla, in un volume dedicato al fallimento della democrazia, Mises e Rothbard – gli autori ai quali Hoppe si dichiara più vicino – vengono definiti dei democratici.
    È indubbiamente vero che da secoli i pensatori tedeschi ci hanno abituati a rivoluzioni filosofiche dirompenti, ma per chi abbia a mente le critiche che la Scuola austriaca aveva rivolto alla tradizione filosofica, economica e politica tedesca, suona decisamente inaspettato che oggi sia proprio un pensatore di origine tedesca a portare alle estreme conseguenze speculative e politiche l’eredità ideale della Scuola austriaca. Un rovesciamento di prospettive che si abbatte come un devastante uragano sulla filosofia politica occidentale prendendo di mira proprio quel concetto di democrazia politica che viene quasi unanimamente considerato come il suo frutto migliore ed universale.
    La democrazia, per Hoppe, non è che un dio che ha fallito non soltanto se la si considera dal punto di vista delle promesse teoriche che si sono mostrate irrealizzabili, ma anche se la si guarda dal punto di vista dei suoi risultati storici (la transizione dalla monarchia alla democrazia, ad esempio, viene vista come un caso di declino della civiltà). Si tratta allora di un errore dal quale occorre quanto prima liberarsi non soltanto come ideale politico, ma anche come ideale di vita. Ciò, per Hoppe, comporta il dovere di riconoscere che l’intera tradizione della filosofia politica occidentale è da ripensare non solo perché i suoi risultati sono infausti, ma anche perché le sue premesse teoriche sono sbagliate. Di qui il suo insistere sulla necessità di una teoria a priori, vale a dire di proposizioni che asseriscono qualcosa di valido sulla realtà indipendentemente dal risultato di qualsiasi esperienza presente e futura, e della quale Hoppe fornisce degli esempi.
    In questo modo, con presupposti teorici e con argomentazioni in larga misura originali se non altro nel loro assemblaggio, Hoppe si ricollega a quella tradizione della filosofia politica, certamente minoritaria ma non certo marginale, che si chiede non tanto come giustificare il potere o come effettivamente ridurlo e controllarlo, ma, più radicalmente, se se ne possa fare a meno. La vena utopistica che sembra sorreggerne il pensiero politico diventa più plausibile se si prendono in considerazione le argomentazioni tese a mostrare sia il fallimento della filosofia politica nella sua ricerca di giustificazioni etiche o realistiche del potere, sia quella che appare a Hoppe come la loro insostenibilità teorica che, tuttavia, rende ineludibile la necessità di vagliare alternative allo Stato. Soprattutto se si considera che nessuna forma di Stato (vale a dire di organizzazione fondata essenzialmente sulla tassazione e sulla coercizione) può essere moralmente o economicamente giustificata per il fatto che ogni monopolio è un male per quanti sono costretti ad avvalersi dei suoi servizi.
    Dunque, non la descrizione di un possibile mondo risultante da un processo di perfezionamento e di elevazione etica degli uomini, ma la necessità di ritornare a prendere le mosse dagli enunciati di una prasseologia realistica. La democrazia, da questo punto di vista, altro non sarebbe se non il tentativo, fallimentare, di creare un ordine politico innaturale che si ostina a non prendere atto del fatto che gli individui attribuiscono minor valore ai beni lontani nel tempo rispetto a quelli temporalmente più vicini.
    Una considerazione, quindi, pienamente realistica, che Hoppe deriva dalla Scuola austriaca e che, diversamente dalla quasi totalità dei suoi esponenti, sviluppa senza curarsi di pagare un prezzo alle idee dominanti sulla bontà della democrazia, anche di quella temperata da istituzioni liberali; e nella quale possiamo anche trovare una risposta a quella geniale definizione e denuncia dello Stato fatta da Bastiat quando aveva sostenuto che esso non era altro che «la grande fiction à travers laquelle tout le monde s’efforce de vivre aux dépens de tout le monde». Una definizione tanto spesso citata quanto poco analizzata nella sua capacità esplicativa di mettere in luce l’insanabile irrazionalità che produceva da un lato il dilagare di aspettative individuali e sociali irrealizzabili, e dall’altro i meccanismi decisionali che caratterizzano la teoria democratica dello Stato contemporaneo.
    Ma se a prima vista la credenza che occorra rifare tutto può apparire temeraria, di fronte alle argomentazioni di Hoppe è difficile che un barlume di dubbio non riesca a farsi strada nella mente dei suoi lettori. E questo, anche se certamente quel dubbio non induce a dichiararsi convinti di analisi e di proposte, in fondo non è niente di diverso da quanto il filosofo politico cerca di fare fin dal sorgere stesso della filosofia: insinuare il dubbio sull’esistente, anche quando può risultare urtante ed esporre al ludibrio l’avventato denunciatore.
    Rimangono tuttavia dei problemi di fondo che non è il caso di eludere anche se fanno sorgere dubbi sulla validità di quel Libertarianism a cui Hoppe si ispira e che valuta la realtà sulla base di principî a priori indifferenti alle conseguenze delle loro applicazioni.
    Il primo è che nonostante tutto non si riesce bene a capire come mai un’impresa tanto fallimentare come quella dello Stato moderno non abbia trovato un competitore adeguato nel campo della produzione della sicurezza e della certezza. Dai tempi di Bastiat e di de Molinari i libertari hanno coltivato la speranza che il mercato potesse rivelarsi un produttore di certezza e di sicurezza migliore e meno costoso dello Stato. E tuttavia, sia perché il bisogno di quei beni sorge e si rafforza nei momenti in cui l’incertezza e l’insicurezza si presentano e crescono, sia perché lo Stato è sempre riuscito a far credere (anche se a costi sempre più alti e con una sempre maggiore compressione delle libertà individuali) che non esistono altri modi per produrli, le idee libertarie non sono mai riuscite a conquistare definitivamente le menti dei cittadini. I tentativi del libertarismo di mercato di accreditarsi come un migliore e più tempestivo produttore di certezza e di sicurezza sono pertanto falliti, per lo meno fino ad ora, ed è forse giunto il tempo di chiedersene la ragione.
    Cosa ci possa essere oltre lo Stato, non è però del tutto chiaro. Infatti il mercato, per quanto un ottimo e tempestivo produttore di beni, non è un altrettanto buono e tempestivo produttore di quella certezza e di quella sicurezza di cui si avverte la necessità al pari della soddisfazione di bisogni primari. Inoltre quello del Libertarianism è un mondo senza politica e quindi un mondo incline ad escludere che – quando cresce l’incertezza – i processi sociali debbano essere accelerati in una direzione imprimibile soltanto tramite scelte collettive. La prasseologia realistica è innegabilmente un faro, ma la sua luce non si diffonde in maniera uniforme né contemporanea. In altre parole, dal fatto che non si sia ancora riusciti a trovare di meglio, lo Stato trae un enorme vantaggio.
    Il secondo problema, connesso a quanto finora detto, è che bisogna anche chiedersi perché il potere continui ad avere la meglio sulle libertà individuali. Si potrebbe rispondere osservando che uno dei grandi difetti del liberalismo e del Libertarianism è stato quello di trascurare la realtà e anche la naturale esigenza, se non necessità, di una qualsiasi forma di potere. Ma anche a questo riguardo le tesi e le argomentazioni di Hoppe meritano attenzione.
    Si tratta di interrogativi fatali ai quali è difficile rispondere, ma coi quali bisogna pure confrontarsi. E il libro di Hoppe, anche se da questo punto di vista non può certo fornire risposte definitive, ha l’indubbio merito di avviare una riflessione perché inizia a porre seriamente la questione se si possa fare a meno dello Stato, del potere e della politica, e di come sostituirli. È certamente possibile osservare che il momento storico non è quello più adatto, ma un filosofo che non cercasse di andare oltre il proprio tempo non potrebbe seriamente rivendicare il diritto di definirsi tale e neanche quello di essere preso in considerazione.

    Hans-Hermann Hoppe
    Democrazia: il dio che ha fallito
    Prefazione di : Raimondo Cubeddu
    traduzione e cura di : Alberto Mingardi
    Edito da Liberilibri - Corso Cavour, 33/a- Macerata
    Pagine 486 Euro 19,00

    Per informazioni ed acquisti : ama@liberilibri.it

    Fonte: www.liberilibri.it


    carlomartello

  2. #2
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    Post Il manifesto reazionario e aristocratico di Hoppe

    Mi permetto di esordire [...] segnalando un libro per i tipi della casa editrice “LiberiLibri” di Macerata che ha suscitato in me un certo interesse non tanto per le tesi ivi contenute, che ovviamente non risultano -almeno in assoluto- affatto originali per coloro che si sono formati sugli autori più classici del mondo della Tradizione, quanto per la singolare posizione filosofica e politica che il suo Autore [...].
    Molti di voi sapranno che la “LiberiLibri” di Macerata è una casa editrice (probabilmente sostenuta finanziariamente dall’area della destra liberale italiana e da suoi estremamente significativi esponenti parlamentari) alquanto “ellittica”e metodologicamente vicina al radicalismo libertario anglo-sassone nella sua versione più irriducibilmente conservatrice e reazionaria (nonostante molte sue tesi siano difficilmente schematizzabili) autoidentificantesi nel mito di una “Nuova Roma Repubblicana Atlantica”erede dello spirito senatoriale e “catoniano” delle antiche elites politico-militari della Città Santa [Roma, ndr].
    [...]
    Non a caso la collana di gran lunga più importante e autenticamente caratterizzante la produzione editoriale in questione è intitolata alle “Oche del Campidoglio”.
    Espletata questa doverosa ma lunga e -ahimè- forse noiosissima premessa vorrei passare ad analizzare il libro di Hans Hermann Hoppe:“Democrazia il dio che ha fallito”.
    L’Autore, un’economista inizialmente formatosi alla Scuola austriaca di Von Mises e poi inevitabilmente approdato alle posizioni ultra-libertarie di un Rothbard o di un Block (entrambi autori economisti di origine ebraica esponenti di una corrente di pensiero libertaria dichiaratamente anti-progressista e programmaticamente “neo-tolemaica”) affronta una questione estremamente problematica: come spiegare, affrontare e sovvertire l’attuale stato di decomposizione materialista, iper-capitalista, (neo)marxista e globalista in cui versano le comunità nazionali europee schiacciate dal dominio politico e sovversivo delle forme plebee dell’attuale organizzazione della società e della politica.
    Innanzitutto Hoppe fa clamorosamente i conti con sè stesso: il pensiero libertario non può in alcun modo essere un valido elemento “teleologicamente” fondante per civiltà europea contemporanea sconquassata dalla terribile crisi modernista.
    Il libertarianesimo anglo-sassone in tutte le sue varianti storiche e filosofiche -per quanto dotato di una indomabile carica anti-marxista ed anti-collettivistica- conduce inevitabilmente ad un solo esito: il dominio americano sul mondo.
    Ora Hoppe giunge a ritenere -seguendo un percorso accademico ed intellettuale sino a questo momento completamente estraneo alle correnti di pensiero della rivoluzione Conservatrice continentale- che il processo di decadimento europeo abbia un solo vero motivo scatenante: gli Stati Uniti d’America, autentico e ottuso organismo multinazionale armato della democrazia plebea e dell’egualitarismo populistico totalitario.
    L’ideologia americana è messa quindi a nudo nella sua struttura genetica essenziale: scientifica e ossessiva massificazione planetaria e distruzione sistematica e messianicamente implacabile delle aristocrazie europee che avevano dato, nel corso dei millenni spirito, ordine, forma e autorità all’Impero del Vecchio Mondo.
    Democrazia ed egualitarismo sono dunque i due dogmi “armati”che la sovversione planetaria anglosassone -autentica chiesa armata del profetismo biblico anti-tradizionale- ha utilizzato indefessamente (scatenando terrori ideologici e sanguinosissime inquisizioni militari) contro i popoli europei e le sue aristocrazie.
    Durissime le critiche di Hoppe al patriottismo americano svelato per quello che realmente dimostra di essere : una tenaglia altrettanto materialistica, economicistica, partitocratica, plebea e totalitaria della sua presunta controparte “socialista”o “(neo) marxista”.
    Sin qui la diagnosi.
    Alquanto densa di significato la terapia che l’Autore ritiene essere l’unica davvero efficace per svellere la terrificante morsa del mondialismo egualitarista moderno: la ricostruzione di nuclei aristocratici sulla base di un utilizzo militante del diritto di proprietà mutuato - in maniera integrale- dal Diritto Romano e dal Mos Majorum.
    Il sistema è ideologicamente e strategicamente ingegnoso: attraverso la totale rivendicazione del diritto di proprietà territoriale, immobiliare e intellettuale, nuove aristocrazie europee dovrebbero rimodellare la società sino ad esprimere rinnovate ma archetipiche forme di gerarchia tradizionale, sacra e organica rappresentazione della visione del mondo dei nostri Antichi.
    In questa pars costruens (che in realtà continua ad essere perfettamente allineata con quella destruens) Hoppe si avvicina quasi in maniera assoluta (e credo del tutto inconsapevole) all’Archeofuturismo di Guillame Faye passando anche attraverso la rivendicazione di una fase insurrezionale di separatismo secessionista quale strumento di decostruzione dell’attuale sistema geopolitico e finanziario.
    Ritorno alla costituzione di una pluralità di Ordini aristocratici armati, ripristino del diritto di conio di monete metalliche, fondazione di eserciti privati di stampo schiettamente “rinascimentale”, ricomparsa di nuove Signorie territoriali e di Tribunali privati nobiliari: queste le linee di frattura e ricomposizione individuate da Hoppe.
    Da un punto di vista assolutamente generale bisogna dire che l’opera di Hoppe ha un indubbio valore critico con la sua intransigente denuncia della decadenza intrinseca del mondo moderno, della democrazia e dell’egualitarismo positivista e razionalista plebeo. Costituisce, insomma, un “unicum”nel panorama filosofico e politologico della sponda “liberale”.
    E’oggettivamente difficile, inoltre, valutare correttamente quanto quest’opera possa essere pubblica espressione di ambienti di lavoro “riservato”ed altrettanto difficile stabilire la qualificazione tradizionale di tali supposti ambienti che potrebbero denunciare -ad un’analisi più attenta- collegamenti con correnti politiche di certa post-massoneria ebraico-anglosassone rivista e corretta per scopi di inserimento egemonico nelle correnti della tradizione europea e italiana.
    Vi sono-in ogni caso- in queste pagine espliciti segnali di una irriducibile opposizione alla società multirazziale come oggi la conosciamo, la schietta considerazione - senza mezzi termini- dell’immigrazione extraeuropea come pura e semplice invasione territoriale pilotata da lobbies progressiste, nostalgismo dichiarato per gli Imperi Centrali e avversione profonda per ogni forma di nazionalismo non aristocratico ed imperiale.
    L’apologia della Monarchia assolutistica e dello Stato patrimoniale cede volentieri il passo al Repubblicanesimo Senatoriale Romano (secondo una prospettiva che ricorda molto da vicino certe pagine di Adriano Romualdi) e tuttavia risulta evidente un’impostazione di fondo più reazionaria che patriottica: il manifesto di una internazionale aristocratica,certamente, ma non di un neo-risorgimento nazionale “strictu sensu” inteso.
    Lo scenario delineato da Hoppe è indubbiamente quello di un’Europa di Signori terrieri e di Aristocrati, di Giuristi e di Saggi, ma anche [...] di corporazioni private senza alcuna considerazione della dimensione pubblica e nazionale considerata irrimediabilmente compromessa dal modernismo, dal socialismo plebeo e dalla catastrofica influenza marxista.
    [...]
    Coloro che non hanno dimestichezza con le teorie economiche (tuttavia chi fosse interessato al problema di un’economia e di una finanza tradizionali avrà la possibilità di accedere a spunti interessanti) possono leggere direttamente i capitoli dell’opera che ritengono di maggior interesse, essendo la stessa una collezione di brevi saggi dell’Autore.

    (dal forum “Saturnia Tellus”)


    carlomartello

  3. #3
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    Murray N. Rothbard e il movimento paleolibertario


    Guglielmo Piombini


    Istituto Bruno Leoni





    Abstract



    Murray N. Rothbard and the paleolibertarian movement



    At the beginning of the 1990 American libertarian intellectual such as Murray N. Rothbard, Llewellyn Rockwell Jr., and Hans-Hermann Hoppe gave rise to the paleolibertarian movement. Paleolibertarians, who favour laissez-faire in the economic realm but oppose moral relativism, were seeking an alliance with the so-called “paleoconservatives” like Sam Francis, Tom Fleming, Paul Gottfried or Pat Buchanan. The word “paleolibertarian”, first used by Rockwell, had the purpose to recapture the radicalism and the political and intellectual rigor of the pre-war libertarian “Old right”. Rothbard’s death in 1995 was a blow, but paleolibertarians still continued their twofold battle for the defence of the unfettered free-market, developing the methodology of the Austrian School of Economics; and for the defence of the traditional Christian values of the Western Civilization, threatened by the post-modern “liberal” culture, now leading in the political and intellectual elite. Today the paleolibertarians, facilitated by the Internet, have become a rapidly growing intellectual movement. The main centres of diffusion of their ideas are the Ludwig von Mises Institute in Auburn (Alabama) and the website LewRockwell.com, that ranks among the most widely read news website.






    1. La nascita di un movimento


    In Italia il termine non è usato e suona poco orecchiabile, ma nel variegato mondo della Destra americana oggi la sfida più vivace e interessante proviene dalla cultura che si definisce ricorrendo puntualmente al prefisso “paleo”, la quale taglia trasversalmente i due principali raggruppamenti politici (il Grand Old Party Repubblicano e il piccolo Partito Libertario) e ideologici (il tradizionalismo conservatore e l’antistatalismo libertario) che si contrappongono al Partito Democratico e alla sinistra liberal.
    La data di nascita del paleolibertarismo, così come del paleoconservatorismo, coincide con la fine della guerra fredda, evento che per una parte del mondo conservatore impose un ripensamento sul ruolo imperiale che l’America aveva finito per assumere sulla scena mondiale. All’insegna del motto “America First!” alcuni intellettuali conservatori, come Patrick Buchanan, Tom Fleming, Samuel Francis, Paul Gottfried, Allan Carlson, Clyde Wilson, rispolverano la bandiera dell’isolazionismo, e affermano che è arrivato il momento di “riportare le truppe a casa”. Per distinguersi dall’egemonia neoconservatrice, rivendicano orgogliosamente l’etichetta di paleoconservatori, cioè conservatori all’antica.
    Il vecchio conservatorismo della Old Right, fortemente avverso al New Deal e all’interventismo militare di Franklin Delano Roosevelt, si era infatti eclissato nel secondo dopoguerra, quando la minaccia sovietica aveva condotto quasi tutta la Destra americana sulle posizioni della New Right di William F. Buckley, James Burnham, Henry Jaffa o Frank S. Mayer, favorevoli al massimo impegno nella lotta anticomunista su scala globale. Su questa linea, diffusa principalmente dalla rivista National Review, approdarono verso la metà degli anni Sessanta i neoconservatori, quasi tutti provenienti dalla sinistra liberal o addirittura dalla militanza trotzkysta. Grazie a questo loro passato politico, i neoconservatori resero accettabile la critica delle idee progressiste anche all’interno delle élite intellettuali, artistiche e giornalistiche, dove i vecchi conservatori erano sempre stati guardati con snobistico sospetto. Scaltri nella gestione del potere politico e culturale, sotto la guida di personaggi come Irving Kristol e suo figlio William, Daniel Moynihan, Nathan Glazer, Daniel Bell, Jeane Kirkpatrick o Norman Podhoretz, i neoconservatori divennero col tempo la forza egemone nel panorama conservatore americano, spostandolo su posizioni sempre più favorevoli al big government in politica interna e militariste in politica estera.
    Durante gli anni della guerra fredda gli unici all’interno della Destra americana a sfidare questo predominio furono i libertari, i quali accusarono esplicitamente i neoconservatori di statalismo per aver accettato come un fatto compiuto sia le istituzioni del Welfare State edificate dai Democratici da Roosevelt a Johnson, sia l’idea wilsoniana di esportare con le armi la democrazia in tutto il mondo. Grazie soprattutto all’elaborazione teorica di Murray N. Rothbard, la dottrina libertaria si sviluppò in maniera sistematica, fondandosi sulla rigorosa difesa dei diritti naturali alla vita, alla libertà, e alla proprietà degli individui; sulla celebrazione del libero mercato; e sulla radicale condanna dello Stato moderno. Ne scaturiva un modello ideale di società, definito talora anarco-capitalista, che rifiuta ogni monopolio legale anche nei campi della sicurezza e della giustizia, e prevede al suo posto la libera concorrenza tra agenzie di protezione, arbitrali o assicurative. Realizzando una sofisticata sintesi di realismo filosofico tomista, giusnaturalismo liberale alla Locke e soggettivismo della Scuola Austriaca dell’economia, Rothbard rinnovò in una veste più coerente e radicale la lezione dei liberali classici dell’Ottocento (1).
    Un punto sul quale il libertarismo insisteva con vigore era il ruolo cruciale della guerra nel potenziamento dell’espansione statale a danno della libertà individuale (2). Soprattutto su questo scoglio si arenò negli anni Sessanta il tentativo di Frank S. Meyer, teorico di punta della National Review, di unificare all’interno del movimento conservatore, all’insegna del “fusionismo”, l’anima tradizionalista e l’anima libertaria. Opponendosi alla volontà del direttore della rivista Buckley di “purgare” gli elementi estremisti (libertari, randiani, birchers), Meyer, amico di vecchia data e mentore di Rothbard, era fondamentalmente un paleolibertario ante litteram, che credeva nella ragione e nella tradizione, nella libertà individuale e nel libero mercato, nel cristianesimo, nell’oggettività dell’etica, nella decentralizzazione, nei diritti degli Stati (anche del Vecchio Sud) contro la tirannia del governo federale, e detestava il sistema scolastico pubblico e l’irrazionalismo hippy.
    Il dibattito inaugurato da Meyer tuttavia fallì perché i libertari rothbardiani non condividevano il suo acceso anticomunismo, che lo portava a perorare le più estreme posizioni interventiste e imperialiste in politica estera, fino alla richiesta di totale annichilimento dell’Unione Sovietica mediante il bombardamento nucleare. Già membro di rilievo del Partito Comunista americano, Meyer portava nella sua crociata anticomunista tutto lo zelo del neoconvertito, apparendo come il più falco tra tutti i falchi che affollavano la National Review. Non solo Meyer non condivideva l’isolazionismo della Old Right, ma cercava di capovolgerlo, a costo di accettare all’interno del movimento conservatore tutti coloro che professassero convinzioni antisovietiche, fossero anche socialdemocratici, menscevichi o trotzkysti. Contro i fusionisti alla Meyer, Rothbard rimase invece sempre dell’idea che i veri nemici non fossero il comunismo o l’Unione Sovietica, ma lo statalismo e il socialismo in tutte le loro forme; e che probabilmente la minaccia maggiore per le libertà e le tradizioni americane non risiedesse a Mosca o all’Avana, ma a Washington D.C. (3). Per questo motivo Rothbard, pur essendo stato da giovane vicino alle posizioni politiche della Old Right, non esitò negli anni Settanta a proporre un’alleanza tattica con la New Left, la sinistra sorta dalla contestazione, in nome della comune opposizione alla guerra del Vietnam.
    All’inizio degli anni Ottanta il Libertarian Party arrivò a proporsi saldamente come terzo partito organizzato americano, ma molto più dei risultati elettorali furono le idee libertarie contrarie all’eccessiva tassazione e all’invadenza governativa che iniziarono ad acquisire peso nel dibattito politico, come testimonierà il vittorioso programma elettorale di Ronald Reagan, espressione di una maggioranza d’opinione che per la prima volta dal dopoguerra ricuciva i legami fra le diverse anime della Destra americana (anche se le realizzazioni pratiche saranno dal punto di vista dei libertari più discutibili).
    La caduta del Muro di Berlino tornò però a scompaginare tutte le carte. La rottura tra paleoconservatori e neoconservatori sul ruolo militare dell’America nel mondo venne vista da una parte dei libertari, capeggiati dallo stesso Rothbard e da Llewellyn Rockwell (il suo più stretto collaboratore negli ultimi anni di vita, cofondatore del Mises Institute), come l’occasione propizia per far rinascere, attraverso un’alleanza con i primi, qualcosa di simile alla rimpianta Old Right: un movimento populista di destra che fosse liberale in economia, isolazionista in politica estera e attaccato ai valori tradizionali.
    Una delle ragioni di questa scelta politica fu quella di sfidare l’influenza sul movimento libertario di riviste come la californiana Reason o di think tank come il Cato Institute, troppo facili ai compromessi col potere di Washington, oppure favorevoli a mezzi statalisti e globalisti (come il Nafta o il WTO) per raggiungere obiettivi libertari. Una seconda ragione profonda della decisione di Rothbard e Rockwell di rompere definitivamente con il Partito Libertario nacque dalla forte insofferenza per l’atteggiamento troppo “alternativo” e “controculturale” esibito da molti attivisti libertari. In un articolo intitolato “The Case for Paleolibertarianism”, pubblicato nel 1990, Lew Rockwell adottò per la prima volta la definizione di “paleolibertario” (in analogia con quanto fatto dai paleoconservatori) per differenziare le proprie posizioni da quelle, giudicate decadenti, edoniste, relativiste e libertine dei left-libertarians, in uno sforzo di combinare un radicale liberalismo nel campo politico ed economico con un altrettanto deciso tradizionalismo nel campo culturale (4).
    L’evoluzione paleo non aveva quindi il significato di un nuovo credo, ma testimoniava il recupero di radici perdute, e aveva lo scopo di riaffermare la continuità politica e culturale con la Old Right, che nei primi decenni del Novecento annoverava personalità di rilievo come Robert Taft, Henry Mencken, Albert Jay Nock, Garet Garrett, Frank Chodorov, rappresentando la tradizione americana più autentica, custode dei principi costituzionali del governo limitato dai pericoli provenienti dalle politiche progressiste.
    Il paleolibertarismo, infatti, sostiene che vi è uno stretto collegamento tra la libertà e l’eredità culturale giudaico-cristiana, dato che la distruzione degli ordinamenti tradizionali apre la strada all’edificazione dello Stato onnipotente. Se si attacca la famiglia limitandone l’autonomia, questa non potrà più servire come bastione contro il potere statale. Lo stesso effetto viene prodotto dalla retorica progressista, quando ridicolizza la religione, i costumi, le istituzioni, le usanze, e i pregiudizi delle classi medie, con l’obiettivo di estendere il raggio d’azione dei funzionari e degli “esperti” governativi nella società.
    In realtà Rothbard e Rockwell sono sempre stati fautori dei valori e degli stili di vita borghesi, e hanno sempre criticato l’anticristianesimo militante e le provocazioni controculturali diffuse negli ambienti libertari. L’unica vera novità nel pensiero di Rothbard durante l’ultima fase della sua vita è stata quella di incorporare esplicitamente il sostegno per la società tradizionale all’interno di una più ampia teoria della libertà. Egli si rese conto che il libertarismo, affermando la supremazia della legge naturale eterna sulla legge positiva creata dall’uomo, è quanto di più antico e tradizionale vi possa essere, e per tale motivo è anche internamente coerente con i precetti della religione. È significativo infatti che Rothbard, ebreo e agnostico, pur senza convertirsi sia arrivato al termine della sua vita intellettuale a considerarsi “un ardente sostenitore del Cristianesimo” e ad aderire ad una visione culturale in senso lato cattolica.

    Hans-Hermann Hoppe, l’allievo di Rothbard che gli succederà nella cattedra universitaria, svilupperà queste idee in un libro, Democracy: The God That Failed, che rappresenta a tutt’oggi la più compiuta esposizione delle posizioni paleolibertarie. Con un taglio revisionista, Hoppe arriva a rivalutare alcuni aspetti di moderazione delle monarchie tradizionali rispetto alle democrazie moderne, e indica nello statalismo welfarista il vero distruttore dei legami comunitari e dei valori tradizionali (5).

    Sul piano politico l’alleanza con i paleoconservatori si realizzò attraverso l’attivo sostegno di Murray N. Rothbard, Lew Rockwell e Justin Raimondo (più tardi biografo di Rothbard (6)) alla campagna presidenziale di Pat Buchanan con i repubblicani del 1992, nello sconcerto di molti left-libertarians (l’ala sinistra del movimento libertario) che consideravano questo candidato come un esponente della Destra religiosa. In realtà i punti d’accordo tra paleolibertari e paleoconservatori erano numerosi: in politica estera contestavano il Nuovo Ordine Mondiale e chiedevano il disimpegno dai conflitti lontani; in politica interna erano anticentralisti e favorevoli alla valorizzazione delle comunità locali; in economia criticavano gli eccessi di tassazione e assistenzialismo; sul piano sociale chiedevano limitazioni all’immigrazione indesiderata e la fine dei privilegi legali alle “minoranze”; sul piano culturale difendevano l’eredità cristiana e la tradizione morale della civiltà occidentale, minacciata dall’ideologia politicamente corretta, multiculturalista e progressista dei left-liberal, diventata dominante tra le élite intellettuali, nelle scuole, nelle università, a Hollywood e nei media.

    Per le elezioni del 1992 Rothbard elaborò un progetto “populista di destra” in grado di mettere d’accordo libertari e conservatori alla Buchanan, all’insegna del ritorno alla Old Republic americana delle origini, non ancora stravolta dall’avanzata del Leviatano statale. Secondo Rothbard lo scontro decisivo era tra populismo ed elitismo: da una parte c’era la vasta classe media americana, produttiva e legata ai valori tradizionali, ma necessariamente impossibilitata a dedicarsi in maniera approfondita alle questione politiche; dall’altra la classe elitaria dei politici, dei funzionari e degli intellettuali, che la opprime, la tassa, la comanda e cerca di distruggerne le tradizioni culturali e religiose. Rothbard prevedeva quindi un programma politico le cui priorità erano: 1) abbassare il più possibile le tasse, abolendo soprattutto l’imposta sul reddito; 2) ridurre al minimo tutte le misure del welfare, mettendo fine una volta per tutte ai privilegi dell’underclass parassitaria; 3) abolire i privilegi razziali o di gruppo, denunciando tutta la legislazione dei diritti civili come violatrice dei diritti di proprietà individuali; 4) riprendere il controllo delle aree urbane statalizzate, combattendo con durezza i criminali violenti (rapinatori, assassini, stupratori), e scacciando i molestatori indesiderati (punk, tossicomani, vagabondi); 5) abolire la Banca Centrale, e denunciare le manipolazioni del denaro operate dai banchieri; 6) America First: interrompere tutti gli aiuti e gli impegni politici e militari all’estero; 7) difendere i valori familiari, espellendo lo Stato dalla famiglia per ridare l’autorità ai genitori; 8) favorire la radicale decentralizzazione o la privatizzazione del sistema scolastico (7).

    L’unica differenza tra paleolibertari e paleoconservatori riguardava la questione del libero scambio, a causa delle posizioni protezioniste di Pat Buchanan. Rothbard tuttavia preferì passarci sopra, dichiarando che “ad ogni uomo bisogna concedere un errore”. In pratica il dissidio aveva scarse conseguenze, dato che entrambi si opponevano alla creazione di mega-burocrazie sovranazionali dotate di poteri di regolamentazione come il Nafta e il Gatt, che poco avevano a che fare con il libero commercio. Rothbard riteneva inoltre che in un sistema ampiamente decentralizzato come quello auspicato dai paleoconservatori l’imposizione di tariffe protezionistiche sarebbe stata quanto mai difficoltosa, mancando una forte autorità centrale capace di sottoporre a controllo gli spostamenti di merci e capitali.

    Il punto più alto di questa intesa tra libertari e conservatori all’insegna del ritorno alla Old Right si ebbe nel 1994, in occasione di una grande conferenza congiunta sui benefici dell’isolazionismo, i cui lavori furono pubblicati in un libro (The Costs of War) ricco di contributi di alto livello (8). L’improvvisa morte di Rothbard l’anno seguente incrinò tuttavia questo stretto rapporto di collaborazione. Già nelle successive elezioni del 1996 Rockwell e Hoppe denunciarono la china statalista che aveva preso la campagna elettorale di Buchanan, troppo incentrata sul sostegno ai privilegi sindacali e sulla protezione dell’industria americana.

    Pur essendosi spezzata l’alleanza formale, oggi paleolibertari e paleoconservatori continuano a parlarsi e confrontarsi con reciproco interesse. Lo spirito del paleoism continua infatti a fiorire rigoglioso nel Ludwig von Mises Institute di Auburn in Alabama, il più importante centro mondiale di diffusione delle idee della Scuola Austriaca, intitolato al più grande economista del XX secolo; nei siti di Lew Rockwell (www.lewrockwell.com, uno dei siti politici più visitati del web), Justin Raimondo (www.antiwar.com) e di Joe Sobran (www.sobran.com); nel Rockford Institute diretto da Samuel Francis; nella rivista Chronicles di Tom Fleming; nella neonata rivista The American Conservative di Pat Buchanan e Taki Theodoracopulos; nell’attività pubblicistica di due dei maggiori ideatori delle riforme economiche reaganiane, Jude Wanniski e Paul Craig Roberts; negli studi revisionisti dello storico Ralph Raico, stretto amico di Rothbard in gioventù; nelle iniziative politiche di Ron Paul, membro repubblicano del congresso, che per la sua adesione senza compromessi alle libertà economiche, al gold-standard, all’isolazionismo, ai valori famigliari e alle posizioni pro-life contrarie all’aborto, può essere considerato a buon diritto un paleolibertario.





    2. Contro i modal e left-libertarians



    All’inizio degli anni Novanta la rottura di Murray N. Rothbard con il Libertarian Party, di cui era stato uno dei principali animatori fin dalla sua fondazione nei primi anni Settanta, ebbe tra i suoi motivi scatenanti anche l’immagine troppo influenzata dalla Controcultura degli anni Sessanta che, a suo dire, il partito aveva assunto. Egli si era convinto che, terminata la Guerra Fredda, non ci fossero più ragioni per tenere separati gli antistatalisti libertari e quelli conservatori, nel comune obiettivo di difendere i valori borghesi, l’eredità cristiana e la tradizione morale su cui si fonda la civiltà occidentale, a suo avviso minacciata dalla dominante cultura dei left-liberal: “Io, come altri paleolibertari – scrisse Rothbard – mi sono convinto che la Vecchia Cultura, la cultura che pervadeva l’America dagli anni Venti agli anni Cinquanta, era in sintonia non solo con lo spirito americano, ma anche con la legge naturale. E che la cultura nichilista, edonista, ultrafemminista, egualitaria e “alternativa” che ci è stata imposta dai liberal di sinistra non solo non è in sintonia, ma viola profondamente la concezione della natura umana che si è sviluppata in America e in tutta la civiltà occidentale prima degli anni Sessanta del XX secolo” (9)

    La sensibilità più conservatrice del paleolibertarismo, che Rothbard e Rockwell propugnarono sulle pagine di combattive riviste come la Rothbard-Rockwell-Report, non costituì affatto una deviazione dalla dottrina libertaria fondata sull’inviolabilità dei diritti naturali, sulla difesa ad oltranza della proprietà privata e del libero mercato e sulla radicale condanna dello Stato, così come esposta in For a New Liberty e The Ethics of Liberty. È pertanto da ritenersi scorretta l’affermazione polemica dei left-libertarians, secondo cui negli ultimi anni della sua vita Rothbard avrebbe abbandonato il libertarismo convertendosi al paleoconservatorismo. La stessa periodizzazione della vita intellettuale di Rothbard in quattro fasi successive (il Rothbard dell’Old Right, il Rothbard della NewLeft, il Rothbard libertarian, il Rothbard paleo) rischia di essere del tutto sviante, perché questi diversi momenti non significarono mai cambiamento di idee e di principi, ma solo di strategia, di interessi, di approfondimento organico del proprio pensiero. Indipendentemente dalle alleanze tattiche o dagli interessi culturali, Rothbard dal primo all’ultimo giorno della sua vita rimase sempre lo stesso libertario radicalmente antistatalista, nel senso più puro del termine: in economia, un anarchico di Scuola Austriaca favorevole alla proprietà privata e al libero mercato; in politica, un decentralista radicale; in filosofia, un tomista giusnaturalista; nella cultura, un uomo della Old Republic e del Vecchio Mondo (10).

    Rothbard, conferma Joseph Stromberg, ha sempre difeso la “Vecchia Cultura” ed i veri film, quelli che contenevano un messaggio, avevano una trama ed erano realizzati con maestria, tanto da non rappresentare esclusivamente il mezzo scelto dal regista per esprimere il proprio nichilismo e la propria angoscia esistenziale. Avrebbe forse dovuto adottare un “stile di vita alternativo” ed adoperarsi per fare del libertarismo un rifugio per tutte le lamentazioni multiculturali? (11).

    Sicuramente no, spiega Joseph Salerno, dato che per Rothbard la libertà non era un’arida astrazione, nè un valore esistenziale da “vivere” ingerendo droghe, indulgendo in promiscuità sessuale e rompendo i legami con la famiglia, la chiesa e la comunità. Egli amava la libertà in quanto causa necessaria (ma non sufficiente) della cultura e della società americana che egli celebrò e fece propria. Rothbard fu pertanto un ammiratore della cultura americana così come esisteva, integra e non adulterata, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, perché la vedeva come lo specifico prodotto storico del sistema politico-economico fondamentalmente libertario dell’America, il cui declino iniziò con l’avvento del New Deal negli anni Trenta. La progressiva trasformazione di questo sistema ad opera della moderna ideologia liberal nel mostruoso welfare-warfare americano, sviluppatosi in maniera sempre più rapace e distruttiva a partire dagli anni Sessanta, non aveva solo prodotto instabilità e declino all’economia americana, ma anche una degenerazione precedentemente inimmaginabile in tutte le istituzioni della società e della cultura americana. Rothbard combatté con tutte le sue forze, fino al giorno della sua morte, le aggressioni del potere statale alla libertà, proprio perché attribuiva un alto valore ai prodotti culturali, oltre a quelli economici, della libertà – i film di John Wayne, la musica jazz dell’età d’oro, la New York della sua giovinezza, e gli intatti, uniti, e religiosi nuclei familiari che formavano l’America. Egli non poteva accettare di rimanere inattivo mentre la sua amata cultura veniva lentamente, deliberatamente, e felicemente avvelenata dagli intellettuali traditori che occupavano Hollywood, riempivano le pagine del New York Times, e affollavano le stanze delle università (12).

    La polemica di Rothbard colpiva quindi non solo la cultura dominante dei progressisti liberal, ma anche un certo atteggiamento diffuso nel partito e nei movimenti libertari americani, dove trionfava l’esaltazione degli stili di vita alternativi, l’ateismo militante e l’antitradizionalismo dei left-libertarians. Egli coniò la spregiativa definizione di modal libertarian (forse traducibile letteralmente come “libertario di maniera”) per descrivere questa tipica figura di militante libertario americano, eterno adolescente che si ribella a tutti coloro che stanno intorno a lui: prima ai suoi genitori, poi alla sua famiglia, poi ai vicini e infine all’intera società. Il modal libertarian contesta tutte le autorità sociali e culturali, particolarmente quelle entro le quali è cresciuto, come le istituzioni borghesi e le Chiese; non legge quasi nulla, a parte i pochi libri “approvati” dal circolo libertario cui appartiene (riguardanti in genere argomenti come l’uso delle droghe o dei materiali pornografici); e occupa quasi tutto il suo tempo a discutere con i suoi compagni, mediante interminabili sillogismi, su quale sia la posizione libertaria più “pura” (13).

    La critica ai modal e left-libertarians non riguardava solo questioni culturali, ma finiva per toccare aspetti politici sostanziali in tutti i casi in cui, essendo al momento ineliminabile la presenza dello Stato e della proprietà pubblica, la dottrina libertaria non ha una soluzione univoca, ma può prestarsi a diverse interpretazioni. Posto infatti che per ogni libertario il modello puro anarco-capitalista rappresenta l’obiettivo ideale da perseguire, rimane il problema di individuare il second best nei casi in cui la privatizzazione integrale della società non sia prevedibile in tempi ragionevoli. Come vanno gestite, ad esempio, le strade, le scuole, le poste o gli ospedali pubblici? I left-libertarian ritengono che, ovunque sia coinvolto lo Stato, occorra applicare una regola di “parità di trattamento” per tutti. Il problema di questa posizione è quello di tradursi di fatto in una opzione egualitarista e “comunista”, dato che nelle odierne società ad economia mista non esiste settore in cui il governo non sia presente, direttamente o indirettamente. Per Rothbard, invece, occorre respingere una volta per tutte la visione left-libertarian secondo cui tutte le aree gestite dal governo debbano essere considerate come una discarica, dove tutti hanno diritto di eguale accesso. In attesa della privatizzazione finale, bisogna invece far sì che le operazioni del governo siano gestite nella maniera più simile a quella di un’impresa, o di una comunità locale (14).

    Prendiamo ad esempio in considerazione le strade pubbliche: tutti i libertari ne auspicano la privatizzazione, ma fino a quando restano pubbliche, per i left-libertarians nessuno può scacciare i disturbatori, né vietare manifestazioni rumorose e fastidiose. Rothbard fa notare che non esiste alcun principio nella dottrina libertaria dal quale si può dedurre una regola del genere. Piuttosto, dovendo trovare una soluzione che si avvicini maggiormente a quelli che sarebbero stati gli esiti del mercato, occorre chiedersi: come si comporterebbero gli abitanti della strada, in una società libertaria? Ben difficilmente lascerebbero scorrazzare indisturbati i disturbatori, come testimonia l’esperienza dei centri commerciali, dei condomini e delle aree private in genere. La soluzione paleolibertaria è dunque quella di decentrare nella maniera più localizzata possibile la decisione riguardante l’uso delle risorse pubbliche. Si ritiene infatti che vi siano delle persone che, a diverso titolo (in quanto tax-payers, residenti ecc.), possano vantare dei diritti “quasi-proprietari” sulle risorse pubbliche più rilevanti di quelli che potrebbero vantare altre categorie di persone (tax consumers, ultimi arrivati, passanti occasionali, ecc.) (15).

    Lo stesso ragionamento può essere applicato a quella istituzione statale che Rothbard ha definito “mostruosa” in più di un’occasione, la scuola pubblica: un gigantesco moloch ultrasindacalizzato e nelle mani dei progressisti, che lo utilizzano per indottrinare le nuove generazioni al culto dello Stato, all’ideologia politically correct e all’anticristianesimo militante. Con il pretesto della “separazione tra Stato e Chiesa”, i progressisti si sono infatti proposti l’obiettivo di rimuovere tutti i valori e i simboli del Cristianesimo dalle scuole e dalle aree pubbliche, come le piazze e le strade. Il crocifisso, l’insegnamento del creazionismo o le preghiere in aula rappresenterebbero secondo questo punto di vista, molto diffuso anche in Europa, delle gravi lesioni alla “laicità dello Stato”, o comunque alla neutralità verso ogni credo religioso.

    È spiacevole, secondo Rothbard, che molti left-libertarians sostengano questa posizione, pur non trovando alcun fondamento nella dottrina libertaria. Se le preghiere, il crocifisso o l’insegnamento biblico non possono essere obbligatori, non per questo devono essere vietati! La soluzione paleolibertaria è ancora una volta quella di “simulare” i risultati del mercato, attraverso la massima decentralizzazione delle decisioni. In tutti questi casi, quindi, dovrebbero essere solo le singole classi (insegnanti, allievi e genitori) a decidere di volta in volta, non il governo federale, il Congresso o la Corte Suprema. Al contrario, secondo l’interpretazione del principio di separazione tra Stato e Chiesa data dai laicisti, se lo Stato nazionalizzasse tutte le scuole, la religione cristiana potrebbe essere bandita dal paese anche nel caso in cui la stragrande maggioranza dei genitori desiderasse un’educazione religiosa per i propri figli! Però allo stesso tempo nelle scuole statali sarebbe perfettamente legittimo (come di fatto avviene) diffondere la propaganda New Age, il paganesimo ecologista, il marxismo, il femminismo, il terzomondismo e qualche altra ideologia politically correct, perché formalmente non classificabili sotto la voce “religione” (pur avendone invece tutte le caratteristiche, come le analisi di Rothbard non hanno mai mancato di evidenziare). In questo modo, osserva Rothbard, i sostenitori dei valori cristiani tradizionali saranno sempre costretti a lottare con una mano legata dietro la schiena (16).

    Per estirpare questa “aggressiva istituzione degenerata, oppressiva, socialistica e multiculturale” (17), Rothbard e Rockwell ritengono che il sistema dei buoni-scuola proposto da alcuni economisti favorevoli al libero mercato come Milton Friedman rappresenti una soluzione peggiore del male. Con l’introduzione dei voucher si rischierebbe infatti di estendere il finanziamento statale, e quindi anche il controllo sui programmi didattici, a tutte le scuole autenticamente private e libere rimaste (18). Se non è politicamente possibile privatizzare l’intero sistema scolastico, è molto meglio affidare la gestione delle scuole alle comunità locali, e valorizzare il più possibile il sistema dell’homeschooling, che Rothbard giudica come il più promettente, ispirato e libertario movimento dell’America attuale (19).





    3. La guerra culturale



    Alla convention repubblicana del 1992 Patrick Buchanan pronunciò un discorso che fece scalpore, con il quale denunciò l’esistenza di una guerra culturale e religiosa per la conquista dell’anima degli americani. Per il candidato cattolico-conservatore del GOP, due americhe si fronteggiavano senza esclusione di colpi: quella legata alla vecchia cultura tradizionale giudaico-cristiana e quella proveniente dall’esperienza della contestazione degli anni Sessanta. Rothbard fu colpito molto favorevolmente dal coraggio dimostrato da Buchanan: «Sì, sì, ipocriti liberal, questa è una guerra culturale! Ed è iniziata da parecchio tempo! Il vostro atteggiamento è tipico dei nostri intellettuali e media liberal: dopo aver realizzato praticamente indisturbati, da vent’anni a questa parte (come minimo!), la conquista culturale dell’America; e dopo aver completato con successo la lunga marcia gramsciana attraverso le istituzioni, i liberal volevano sedersi e trattarci come province conquistate. Ma improvvisamente tra di noi alcuni provinciali assediati riprendono le armi, incitati dal discorso di Pat Buchanan alla convenzione nazionale repubblicana!…Questi ipocriti di liberal ci rispondono: “Come potete voi conservatori, che siete contro l’intervento statale, trattare la cultura come una questione politica? Semplice. Il motivo è che voi liberal avete usato massicciamente il potere dello Stato per distruggere la nostra cultura. Noi dobbiamo intervenire nello Stato affinché tutto questo finisca» (20).

    Per Rothbard è giunta dunque l’ora di reagire, per salvare la libertà americana inestricabilmente legata alla cultura che l’ha generata. A questo riguardo ricordò che la Rivoluzione Culturale legata alla Contestazione era riuscita ad imporsi, rovesciando le vecchie norme sociali giudicate “repressive”, grazie ad una strategia in due fasi: in un primo momento è stato distrutto l’amore e l’ammirazione per la vecchia cultura, predicando il relativismo culturale e l’irrazionalità dell’etica: tutte le culture sono uguali, non si può considerare la propria cultura superiore alle altre e così via. Questa è la fase uno. Dopo aver insistito su questi concetti e convinto tutti, si passa alla fase due: ci sono, dopotutto, dei principi morali superiori ad altri, ma il male sta proprio nella tradizione culturale occidentale, che è razzista, sessista, eterosessista e tutto il resto, fino alla nausea. Si compie così una trasvalutazione di valori nella quale la prima fase rappresenta il necessario processo d’addolcimento della seconda fase, che è attualmente in atto (21).

    Rothbard procede quindi ad indicare gli innumerevoli esempi di cultura progressista imposta mediante la coercizione pubblica, che a suo avviso contraddicono palesemente il mito propagandistico della Sinistra che difende le libertà civili degli individui dall’autoritarismo della Destra. Innanzitutto i progressisti hanno usato il potere statale per creare una serie di falsi “diritti” a favore di ogni gruppo designato come vittima, allo scopo di sfruttare e ottenere vantaggi indebiti nei confronti del resto della popolazione. Sono sorti pertanto i “diritti” dei neri, dei gay, delle donne, delle lesbiche, degli handicappati, degli ispanici, degli anziani, dei bambini e ogni giorno ne nascono di nuovi. In tutti questi casi la Nuova Classe dei funzionari, dei tecnocrati e dei terapisti “ufficiali” garantisce a sé e a questi gruppi accreditati come “vittime” un potere sempre crescente di dominare, sfruttare e derubare il gruppo sempre più assottigliato dei bianchi, cristiani, di mezza età e di lingua inglese, particolarmente i genitori eterosessuali. L’aspetto più criticabile di questa nuova religione liberal della “vittimologia”, alla quale chi non rende omaggio è virtualmente tagliato fuori dalla vita pubblica, è quello di attribuire colpe di ogni tipo (per i secoli di schiavitù, per l’oppressione e lo stupro delle donne, per l’Olocausto, per l’esistenza degli handicappati, per aver ucciso e mangiato animali, per essere grassi, per non riciclare i rifiuti, per aver “profanato la Terra”) non confinate agli specifici individui che hanno commesso determinati fatti (anche perché, osserva ironicamente Rothbard, è difficile trovare ancora in vita qualche schiavista centocinquantenario del Vecchio Sud!) ma collettive, senza limiti geografici o temporali. Tutti i membri dei gruppi che non sono stati accreditati nel ruolo ufficiale di vittime sono considerati automaticamente criminali: come tali devono sentirsi in colpa e riparare le proprie “vittime” con denaro e concessioni di privilegi (22).

    Un altro clamoroso esempio indicato da Rothbard della penetrante offensiva statalista della Sinistra nella cultura è rappresentato dal corpo “gonfiato e mostruoso” dei funzionari e degli insegnanti che spadroneggia nella scuola pubblica, inculcando nei giovani indifesi le “virtù” dello statalismo e dell’obbedienza alla élite burocratica, e infettandoli con la cultura del nichilismo, dell’anticristianesimo e dell’edonismo, anche mediante la distribuzione gratuita dei preservativi contro la volontà dei genitori. Il tutto completato con continue lezioni sul pensiero-d’odio (hate-thought), sessioni di terapia e lavaggio del cervello minacciate ai bambini e agli insegnanti sospettati di violare le norme del politically correct. «Cultura separata dal governo? – commenta Rothbard – Ma non fatemi ridere!» (23).

    L’attacco statalista della sinistra ai valori famigliari non finisce qui. Secondo le teorie sui “diritti dei bambini” propagandate particolarmente da Hillary Clinton (uno dei personaggi politici più detestati dall’ultimo Rothbard) i piccoli vanno considerati già perfettamente competenti e liberi di condurre le proprie vite in questioni importanti come la maternità, l’aborto, la scuola, la chirurgia cosmetica, il trattamento delle malattie veneree, il lavoro – fuori dal controllo o dal consenso dei genitori. Nella disputa sui valori famigliari vi sono perciò due sole alternative: o i bambini vengono educati dai genitori, o dallo Stato mediante la Nuova Classe di avvocati, terapisti “autorizzati”, assistenti sociali, pedagogisti di Stato (naturalmente in nome dei “diritti dei bambini” e del loro “sviluppo”). È chiaro infatti che se un dodicenne può citare in giudizio i suoi genitori quando non si trovi d’accordo con l’educazione impartita, di fatto il ruolo di educatore verrà assunto dagli “specialisti” appartenenti alla Nuova Classe. Le posizioni sono dunque chiare: da una parte vi sono i conservatori e i paleolibertari, che vogliono preservare o restaurare la tradizionale famiglia con due genitori, così come è fiorita in Occidente; dall’altra vi sono i progressisti e la vasta schiera di insegnanti, funzionari e membri dell’élite mediatica e intellettuale, che perseguono l’antico sogno socialistico e utopistico della distruzione della famiglia e della vita famigliare privata, a vantaggio di un universale Stato-famiglia. Che fare allora? «Poiché sono profondamente convinto che la cultura left-liberal oggi dominante sia profondamente contraria alla natura umana – spiega Rothbard – ritengo che rimuovendo il veleno, cioè espellendo lo Stato dalle questioni culturali in cui oggi è impegnato, il risultato sarebbe un veloce ritorno alla Legge Naturale e alla Vecchia Cultura di un tempo» (24).

    Questo convincimento di Rothbard e dei paleolibertari si fonda sull’idea che una società libertaria fondata sul puro laissez-faire capitalistico svilupperà con probabilità dei costumi sociali ispirati a regole di tipo tradizionale, sul genere di quelle che tramandate dall’eredità giudaico-cristiana, e non invece stili di vita permissivi, edonistici e libertini, da controcultura anni Sessanta o Settanta. Di per sé, infatti, il capitalismo non è un sistema gaudente o materialistico, ma è anzi un sistema che impone a tutti elevati livelli morali di etica del lavoro, impegno, affidabilità, responsabilità personale, risparmio, previdenza, prudenza. Chi non si attiene a questi standard viene colpito da dure sanzioni di mercato (se non produci non guadagni) e sociali (legittime discriminazioni). È solo con l’avvento dello Stato sociale e della redistribuzione statale, che spezza il legame tra comportamento responsabile e disponibilità di risorse, che a partire dagli anni Sessanta del XX secolo in Occidente si sono diffusi a livello di massa stili di vita decadenti ed edonistici.

    Per dare un’idea dell’arretramento della cultura conservatrice in concomitanza con l’avanzata dello statalismo è possibile prendere in considerazione le società più “liberiste” dell’Ottocento, come gli Stati Uniti e l’Inghilterra vittoriana. Qui lo Stato era quasi invisibile, ma nella società civile trionfavano indiscussi i valori borghesi legati alla famiglia, all’etica del lavoro, all’indipendenza personale e all’idea di rispettabilità, anche tra le classi lavoratrici. Non è quindi un paradosso che i paesi politicamente ed economicamente più individualisti del mondo fossero anche quello dove la mentalità filantropica era più diffusa. Prima dell’avvento dell’assistenzialismo di Stato almeno l’ottanta percento delle famiglie di ceto medio-alto contribuivano alle società caritatevoli, e molti dei suoi membri dedicavano quotidianamente parte del loro tempo e delle loro energie in attività assistenziali, oppure in una delle tantissime associazioni volontarie finalizzate a risolvere i problemi più disparati. Grazie all’energica azione degli individui e delle associazioni private, gli indicatori relativi alla povertà, alla violenza, all’alcolismo, alle nascite illegittime, e alla stabilità famigliare avevano mostrato forti miglioramenti. In Inghilterra, ad esempio, i crimini violenti dal 1857 al 1901 avevano conosciuto uno spettacolare calo del 50 percento: in termini assoluti, mentre la popolazione aumentava da 19 milioni a 33 milioni, i crimini gravi calarono da 92000 a 81000 (25).

    Durante il Novecento questo processo si è invertito, dando ragione a coloro, come Hans-Hermann Hoppe, secondo cui i segni segni della decivilizzazione sono il risultato inevitabile del Welfare State e delle sue principali istituzioni, perché il gigantesco apparato di sicurezza sociale messo in piedi in Occidente ha finito inevitabilmente per colpire l’istituzione famigliare e l’idea della responsabilità personale, sussidiando tutto ciò che è negativo (e perciò moltiplicandolo) a spese di ciò che è positivo (e perciò disincentivandolo): «Sollevando gli individui dall’obbligo di provvedere al proprio reddito, benessere, salute, vecchiaia, ed educazione dei figli – spiega Hoppe – si è ridotto l’arco dell’orizzonte temporale degli individui, e il valore del matrimonio, della famiglia, dei figli, e dell’autorità sociale si è abbassato. Irresponsabilità, vivere alla giornata, negligenza, insanità fisica, e distruttivismo (i mali) vengono promossi, mentre la responsabilità, la previdenza, la diligenza, il mantenersi in salute e il conservatorismo (i beni) vengono puniti (26). In particolare i sistemi pensionistici pubblici obbligatori, secondo l’economista Premio Nobel Gary Becker, incoraggiano la riduzione dei tassi di natalità, poiché i genitori diventano meno dipendenti dai propri figli per il sostegno negli anni della vecchiaia: e infatti le nascite sono crollate della metà da quando sono stati istituiti i moderni sistemi di sicurezza sociale. Mentre infatti un tempo tutte le risorse risparmiate rimanevano entro il gruppo famigliare, con i sistemi a ripartizione coloro che non fanno figli possono risparmiare consistenti spese per il loro allevamento, per poi incassare in vecchiaia i contributi versati dai (sempre più pochi) figli delle altre coppie, o dagli immigrati (27).

    L’interventismo governativo e l’economia mista, secondo i paleolibertari, hanno anche cambiato in negativo il modo in cui noi pensiamo al tempo. Tutti noi vorremmo che i nostri desideri fossero soddisfatti presto anzichè tardi, ma guadagnare denaro richiede tempo, e per questo l’etica del lavoro ottocentesca insegnava che gli uomini di successo erano soprattutto quelli capaci di rinviare la gratificazione immediata in cambio di una ricompensa futura. Come ci si poteva aspettare, l’Inghilterra e l’America del XIX secolo erano società disciplinate da persone che sapevano attendere e risparmiare, perché la cultura e i valori forgiati dalla borghesia di una volta all’interno del proprio ordine sociale erano particolarmente favorevoli a lunghi orizzonti temporali: come notò Joseph Schumpeter, “l’ordine capitalista si affida agli interessi di lungo periodo dello strato alto della borghesia”.

    L’interventismo però ha accorciato gli orizzonti temporali della società, in primo luogo mediante l’inflazione monetaria e il credito facile, adeguando i costumi, i valori, e le opinioni alla mutata crescita dell’offerta di denaro. Nel XIX secolo, ad esempio, i debiti personali e gli acquisti a rate erano estremamente rari. In secondo luogo lo stato assistenziale, sussidiando l’immediata soddisfazione e scoraggiando gli investimenti, abbassa ulteriormente il tasso di preferenza temporale della società. I sussidi per i disoccupati scoraggiano il risparmio per eventuali perdite del posto di lavoro, riducono la paura della disoccupazione e con questa l’incentivo a lavorare duro, e mantengono nell’indolenza per lunghi periodi, facendo aumentare il tasso di disoccupazione. Il sistema pensionistico pubblico scoraggia le persone a risparmiare per la vecchiaia. Le imposte di successione scoraggiano il risparmio a favore delle future generazioni. Le tasse sul reddito e sui patrimoni penalizzano l’accumulazione di ricchezze. Le tasse sulle imprese riducono il loro capitale e perciò anche la loro capacità di sostenere progetti di lungo periodo. Il vecchio ordine del libero mercato, dunque, non era licenzioso e libertino. Non produceva permissivismo, ma un rigido ambiente di lavoro e risparmio, come testimonia la disciplina nelle città industriali durante l’era del laissez-faire (28).

    Naturalmente per i paleolibertari tutti hanno il diritto di intossicarsi, di praticare stili di vita alternativi o New Age, di ribellarsi alla tradizione e alle regole religiose, di rifiutare le regole della buona educazione e del decente comportamento, di contestare i genitori e gli insegnanti, e così via. Ma quanti lo farebbero in una società libertaria interamente fondata sul mercato? Forse pochi, e probabilmente meno di quanti lo facciano oggi. La vita del figlio dei fiori o del contestatore eterno adolescente non è una vita molto produttiva, e non ci sarebbe nessun ente pubblico a sussidiarla, a differenza di quanto avviene oggi con gli oziosi frequentatori dei centri sociali, che non a caso lottano per il “salario sociale garantito” e per il “diritto di non lavorare” – ovviamente a spese altrui. Non ci sarebbe alcuno Stato Sociale a mantenere, sfamare, curare tutti coloro che vivono in maniera degradata a causa dei loro comportamenti irresponsabili (drogati, alcolizzati, sperperatori, vagabondi, oziosi). Ci sarebbe solo la carità privata, ma sappiamo che questa è sempre attentissima a distinguere i poveri meritevoli dai poveri immeritevoli, come testimonia la storia delle confraternite caritatevoli e delle società di mutuo soccorso ottocentesche.

    Alla luce di questa realtà storica i paleolibertari giudicano completamente errata la posizione dei Communitarians, che sostengono a spada tratta le istituzioni del moderno Stato Sociale accusando il libero mercato di provocare la distruzione dei legami comunitari e dei valori tradizionali (29): «Mantenere le istituzioni centrali dell’attuale Stato Assistenziale e pretendere il ritorno alle famiglie, norme, condotte, e culture tradizionali sono obiettivi incompatibili – spiega Hoppe – Tu puoi avere l’uno (il socialismo del welfare) o l’altro (i valori tradizionali), ma non puoi avere entrambi, perché i pilastri del corrente Stato Sociale sono essi stessi la causa delle anomalie sociali e culturali” (30). Non è un caso che in Occidente la contestazione dei valori conservatori sia iniziata, a partire dalla Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta, proprio mentre si iniziavano a porre le basi di un vasto sistema di welfare pubblico. Quest’ultimo fornisce le basi materiali indispensabili per vivere una vita “libera” (dalla “repressione” capitalistica, famigliare, scolastica, sociale, religiosa), senza doverne pagare i prezzi.

    Lo statalismo ha prodotto quindi in tutto l’Occidente la proliferazione di un tipo umano, che Hoppe ha definito come “il prodotto mentale ed emozionale del Welfare State: la nuova classe degli adolescenti a vita”. Ma alla lunga statalismo socialista da un lato e Rivoluzione Culturale dall’altro rischiano seriamente di determinare il declino e l’estinzione demografica delle società di origine europea, stando agli allarmanti dati contenuti nel recente best-seller di Patrick Buchanan, The Death of the West (31). Se è corretta la tesi di Rothbard secondo cui le norme della tradizione giudaico-cristiana sono quelle più compatibili con il diritto naturale, si spiega perché la civiltà occidentale, potente ed espansiva finché si è attenuta a quegli standard, sia rapidamente decaduta una volta abbracciato lo statalismo e il relativismo. Forse questa è una ragione in più per seguire il programma indicato da Rothbard negli ultimi anni della sua vita: abrogare anche culturalmente il Novecento (32).





    4. Elogio del Cattolicesimo


    Tra le ragioni della svolta paleolibertaria di Rothbard e Rockwell vi fu anche la sentita esigenza di recuperare gli aspetti della tradizione cristiana che permeavano la Vecchia Cultura. In pratica questo significava contrastare l’anticristianesimo laicista delle élite politiche e intellettuali, la scristianizzazione degli spazi “pubblici”, la secolarizzazione dilagante nella società, il neopaganesimo di ritorno sotto vesti ambientaliste e un certo ateismo e anticlericalismo militante diffuso negli ambienti libertari. Rockwell trovò conferma, in un sondaggio che mostrava che il 74% dei libertari negava l’esistenza di Dio, della comune percezione che i libertari fossero quasi tutti atei. Nel suo “Manifesto del Paleolibertarismo” rilevò con disappunto il fatto che la maggior parte di costoro fossero non solo sono irreligiosi, ma antireligiosi militanti. La sua opinione era diversa: «Io naturalmente non sostengo che la fede religiosa sia indispensabile per il libertarismo – scrive Rockwell – Alcune delle nostre più grandi personalità sono non credenti. I paleolibertari preferiscono però le visione di due altri non credenti: Rothbard, secondo cui “tutto quello che c’è di buono nella civiltà occidentale, dalla libertà individuale alle arti, è dovuto al Cristianesimo”, e von Hayek, il quale aggiunse che dalla religione provengono “gli insegnamenti morali e le tradizioni che ci hanno dato non solo la nostra civiltà, ma anche le nostre stesse vite”».

    La famiglia, il libero mercato, la dignità dell’individuo, i diritti di proprietà privata e lo stesso concetto di libertà, continua Rockwell, sono tutti prodotti della nostra cultura religiosa. Il Cristianesimo diede infatti origine all’individualismo enfatizzando l’importanza di ogni singola anima, perché la Chiesa insegna che Dio avrebbe mandato Suo Figlio a morire sulla croce anche se un solo essere umano avesse avuto bisogno della sua intercessione. Con la sua enfasi sulla ragione, la legge morale oggettiva, e la proprietà privata, il Cristianesimo rese possibile lo sviluppo del capitalismo. Esso affermò che tutti gli uomini sono egualmente figli di Dio (benché non uguali in ogni altro senso), e che perciò dovrebbero essere uguali davanti alla legge. Fu la Chiesa transnazionale che combattè il nazionalismo, il militarismo, la tassazione elevata e l’oppressione politica. Furono i suoi teologi a proclamare la legittimità del tirannicidio.

    Rockwell attaccò poi la deriva paganeggiante dell’ecologismo moderno: «Il paleolibertarismo è per l’Uomo senza remore. Sostiene – e come potrebbe essere controverso?! – che solo l’uomo ha diritti, e che le politiche pubbliche basate su mitici diritti degli animali o delle piante producono necessariamente risultati perversi. Gli ambientalisti, d’altra parte, sostengono che gli uccelli, le piante, e perfino le acque abbiano il diritto di essere protette dalla produzione d’energia e da altre attività umane. Dalla chiocciola al pidocchio alla natura selvaggia nel suo insieme, tutto merita di essere protetto dalla produzione di beni e servizi per l’umanità. Gli ambientalisti sostengono che la natura si trovava in perfetto equilibrio prima dell’era moderna, e che occorre porre rimedio al deleterio sviluppo economico umano ritornando ad un livello di vita più primitivo…La decristianizzazione della politica ha quindi prodotto un movimento ambientalista che non è solo anticapitalista, ma anche neo-pagano. Per il paganesimo l’uomo è solo una parte della natura – non più importante delle balene o dei lupi (e, in pratica, molto meno importante). Il Cristianesimo e il Giudaismo, invece, insegnano che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e gli ha dato il dominio su tutta la Terra, che è stata creata per l’uso dell’uomo e non come un’entità con un autonomo valore morale. L’ordine naturale esiste per l’uomo e non viceversa; nessuna diversa concezione è compatibile con un libero mercato fondato sulla proprietà privata, e perciò con il libertarismo» (33).

    Lo stesso Rothbard, benché agnostico, negli ultimi anni della sua esistenza sembrò essersi convinto che l’ateismo militante rappresentasse un elemento estraneo alla dottrina libertaria, che rischiava di intaccare la solidità dei suoi principi. Pur senza convertirsi, Rothbard dichiarò verso la fine della sua vita di essere diventato un ardente sostenitore del Cristianesimo, aderendo di fatto ad una visione culturale in senso lato cattolica, come appare particolarmente evidente nella sua monumentale storia del pensiero economico. In quest’opera Rothbard dimostra di aver maturato una visione storica della Cristianità medievale ben diversa da quella laico-illuminista, che descrive il Medioevo come un’epoca di barbarie, superstizione, oscurantismo e oppressione. Per Rothbard invece il Medioevo cattolico fu un periodo ricco e creativo della storia europea, soprattutto grazie al fatto che quell’ingombrante istituzione che è lo Stato moderno non aveva ancora avuto modo di crescere e svilupparsi (34).

    Come ricorda Joseph Salerno, lo studio della storia aveva progressivamente convinto Rothbard che la religione aveva giocato un ruolo enorme sia nella politica americana sia nel pensiero economico. In particolare Rothbard, pur essendo di origini ebree, riconobbe il ruolo positivo a sostegno della libertà svolto in America dal Cristianesimo liturgico. Questo tipo di Cristianesimo, impersonato dalla Chiesa Cattolica Romana – che a suo avviso costituiva l’originale e permanente Chiesa Cristiana – enfatizza la salvezza personale per mezzo della partecipazione alle liturgie ecclesiastiche, negando che il Regno di Dio possa essere stabilito sulla Terra con i soli sforzi dell’uomo. A differenza delle sette pietistiche del protestantesimo americano, che tendono a essere millenariste, il cattolicesimo nega che la seconda venuta del Messia dipenda dall’avvenuta fondazione di un Regno di Dio sulla Terra, e perciò non impone ai suoi membri di purificare e salvare l’intera umanità attraverso “l’azione sociale” (leggi: costrizione statale) (35).

    Le vaste ricerche storiche di Rothbard lo avevano portato a concludere che tutte le società sono inevitabilmente religiose e che l’irreligiosità su scala sociale è impossibile e indesiderabile, perché una religione formale, specificamente quella cristiana, è necessaria come naturale custode delle regole morali tradizionali: norme che sono necessarie per rinforzare e completare un codice legale liberale o libertario, al fine di permettere ad una reale società di mercato di sopravvivere e prosperare. Perfino la Germania nazista e l’URSS comunista, regimi il cui deliberato scopo era di abolire la religione, riuscirono a sostituire il Cristianesimo solo con altre forme di religione: rispettivamente, il paganesimo e il millenarismo marxista. «A rischio di alienarmi i miei amici libertari atei – affermò al riguardo Rothbard – mi sono progressivamente convinto che i conservatori hanno ragione su un punto: che in ogni società vi è sempre una qualche sorta di religione dominante. E se ad esempio il Cristianesimo viene denigrato e rigettato, qualche altra orrenda forma di religione prenderà subito il suo posto: sia essa il comunismo, l’occultismo New Age, il femminismo o il puritanesimo di sinistra. Non c’è modo di aggirare questa verità fondamentale della natura umana» (36).

    I left-libertarians rimasero prevedibilmente sbalorditi da Rothbard che difendeva il Cattolicesimo romano per la sua importante e benefica influenza nelle vicende umane, e iniziarono a inventare e spargere voci sulla sua (passata o imminente) furtiva conversione al Cattolicesimo. A questi militanti anticristiani, incapaci a suo dire di superare l’inevitabile incontro adolescenziale con la filosofia “oggettivista” radicalmente atea di Ayn Rand, Murray replicò divertito: «Sembra che per costoro aderire alla Chiesa Cattolica rappresenti il peggior insulto che si può rivolgere a un nemico. Perché? Per quale motivo diventare cattolici dovrebbe essere la peggiore disgrazia? Per quanto mi riguarda, non penso che diventare cattolico equivalga a diventare un molestatore di bambini; al contrario, la considero una decisione onorevole. Sembra che costoro siano incapaci di credere che qualcuno possa apprezzare la Chiesa Cattolica anche senza essersi convertito – o, ai loro occhi, plagiato: qualcosa di simile a quanto accadeva nel film L’invasione degli ultracorpi» (37).

    L’interesse di Rothbard per la tradizione intellettuale cattolica si spiega invece con la sua adesione alla tradizione filosofica aristotelico-tomistica, secondo la quale esiste un ordine ontologico, una natura delle cose, che comprende anche la natura umana. Del resto, come osservò egli stesso, i cattolici sono in circolazione da molto più tempo dei randiani, e nel frattempo potrebbero essere riusciti a risolvere uno o due problemini (38).

    Alla luce di queste considerazioni si può comprendere più facilmente il sostegno politico alla Destra Religiosa dato da Rothbard nei primi anni Novanta, che tanto sconcertò i left-libertarians. Lungi dal volere instaurare uno Stato teocratico abolendo la separazione tra Stato e Chiesa, secondo Rothbard la Destra Cristiana si limitava a fare delle battaglie difensive: «La maggior parte dei libertari pensa ai conservatori cristiani negli stessi termini infami usati dai media di sinistra, se non peggio: crede che il loro obiettivo sia quello di imporre una teocrazia cristiana, di mettere fuori legge i liquori e altri mezzi di godimento edonistico, di far entrare la polizia nelle camere da letto. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità: i conservatori cristiani stanno solo cercando di difendersi da un’élite progressista che usa gli apparati statali per attaccare e virtualmente distruggere i valori, i principi e la cultura cristiani. Se alcuni conservatori cristiani sono favorevoli a mantenere sulla carta delle leggi sulla moralità sessuale per ragioni simboliche, non conosco nessun gruppo cristiano che voglia imbarcarsi in una crociata per far applicare queste leggi, o che voglia che gli agenti vadano a guardare sotto le lenzuola. In queste materie vi sono ben pochi gruppi conservatori proibizionisti; se il proibizionismo si affermerà in America, sarà dovuto sicuramente a una misura voluta dai left-liberal, allo scopo di migliorare la nostra “salute” e ridurre gli incidenti sulle strade. Non c’è alcun gruppo cristiano che voglia perseguitare l’omosessualità o l’adulterio» (39).

    Non è un caso che gli unici gruppi religiosi che nella storia degli Stati Uniti abbiano cercato di mettere fuorilegge il vizio sono stati i pietisti evangelici postmillenaristi nei primi decenni del XX secolo. Dimostrando una straordinaria conoscenza delle più sottili sfumature delle teologie cristiane, Rothbard non faceva mistero della sua avversione culturale per il protestantesimo e del suo apprezzamento per il cattolicesimo. Egli osservò che un cristiano coscienzioso cerca di conformarsi ad un’etica personale e politica, ed è difficile comprendere come possa essere utilitarista, nichilista o sostenitore dell’idea che la forza fa il diritto. A Rothbard sembrava allora che ci fossero solo due possibili sistemi etici genuini per un cristiano: il primo corrispondeva alla posizione della Scolastica (cattolica o anglicana), nella quale la ragione umana ha le capacità di scoprire le leggi naturali, mentre l’etica puramente teologica o divinamente rivelata ha una parte molto piccola e separata, benché importante, nel sistema. Il secondo sistema derivava dalla concezione calvinista secondo cui la ragione umana è così corrotta che l’unica etica praticabile, l’unica verità riguardo qualsiasi cosa, deve provenire esclusivamente dalla rivelazione divina così come presentata nella Bibbia (40).

    Da questo atteggiamento religioso dei calvinisti deriva quella perniciosa eresia postmillenarista, ancora tanto influente nella vita politica americana soprattutto tra le fila progressiste, che Rothbard chiamava Left Neo-Puritanism o Religious Left. L’eresia postmillenarista considera dovere morale del buon cristiano stabilire il millenario Regno di Dio sulla terra come precondizione indispensabile alla seconda venuta del Messia sulla Terra (a differenza dei premillenaristi, convinti che il Regno di Dio sorgerà solo dopo la seconda venuta di Gesù Cristo). E poiché il Regno di Dio si caratterizza per definizione come una società perfetta in cui non esiste più il vizio, si capisce la foga con la quale la Sinistra Religiosa Puritana si impegni politicamente nella lotta contro i liquori, il fumo o il cibo che fa ingrassare. Rothbard ricorda ad esempio l’ostilità puritana cui dovettero subire i “gaudenti” cattolici bavaresi immigrati in America per le loro abitudini di andare a Messa vestiti di tutto punto, e di recarsi la domenica pomeriggio nelle birrerie ad ascoltare le loro musiche folcloristiche. Gli yankees protestanti crearono una scuola pubblica obbligatoria anche allo scopo di impedire ai cattolici tedeschi di mandare i figli nelle proprie scuole parrocchiali.

    Hillary Clinton e Woodrow Wilson, il presidente che sosteneva il proibizionismo e che lanciò una crociata per stabilire il Regno di Dio su scala globale, rappresentano per Rothbard due perfetti esempi di questo Neopuritanesimo di sinistra, desideroso di modellare non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero secondo i propri sogni millenaristici (41).





    Immigrazione, localismo e secessione


    Un altro tema dove le distanze tra paleolibertari e left-libertarians si sono notevolmente divaricate è quello critico dell’immigrazione. La posizione classica del movimento libertario è sostanzialmente favorevole alla libertà d’immigrazione, ma senza mai sviscerare a fondo le implicazioni legate a questa scelta ideologica. Genericamente, l’idea libertaria è che non deve essere la polizia statale ma solo il mercato a regolare l’immigrazione. David Friedman e Walter Block, per citare due tra i maggiori esponenti intellettuali del movimento libertario, interpretano questa asserzione di principio chiedendo la completa apertura delle frontiere nazionali agli immigrati che provengono dall’estero (42). I paleolibertari fanno però notare che una società libertaria fondata sulla proprietà privata non funzionerebbe affatto così: anzi, in un modello puro anarco-capitalista dove tutta la terra è in proprietà privata di qualcuno l’immigrazione sarebbe strettamente regolata dalle decisioni (di apertura o di chiusura) dei rispettivi proprietari. Nell’importante saggio “Nazioni per consenso: decomporre lo Stato nazionale”, Rothbard dichiara di aver rimeditato l’intera questione, e di essersi convinto che, essendosi oltretutto grandemente intensificati i problemi immigratori legati alla presenza del Welfare State (che grava pesantemente sugli autoctoni) e dell’invasione culturale (dato che l’immigrazione indiscriminata può portare alla cancellazione della cultura indigena, come sta avvenendo negli Stati meridionali degli USA, sempre più ispanizzati), il regime delle frontiere aperte che esiste de facto negli Stati Uniti si riduce ad un’apertura coercitiva operata dallo Stato centrale, che non riflette genuinamente i desideri dei proprietari (43).

    Si ritorna dunque al problema di come lo Stato debba gestire, in mancanza della privatizzazione, le aree pubbliche e demaniali del territorio nazionale. I libertari dovrebbero, come second best, considerare le aree statali alla stregua di una proprietà di tutti e di nessuno, secondo la regola comunistico-egualitaria propugnata dai left-libertarians, o come una sorta di proprietà privata dei tax-payers residenti, di fatto espropriata dalla classe politico-burocratica? Hans-Hermann Hoppe è lo studioso paleolibertario che ha argomentato nella maniera più approfondita e convincente la validità della seconda ipotesi. Mentre infatti la libera circolazione di merci e capitali non può mai violare i diritti di chicchessia, essendovi sempre il consenso di chi dà e di chi riceve, lo stesso non può dirsi per la libera circolazione di persone. Gli uomini infatti, a differenza delle merci e del denaro, dispongono di una propria volontà e possono muoversi da soli. La libera circolazione delle persone può dunque configurarsi come invasione in tutti i quei casi in cui è assente un rapporto volontario tra le due parti: quando manca cioè il consenso di chi riceve l’immigrato a casa propria. In tema di immigrazione, sostiene Hoppe, la regola libertaria più corretta è “libertà d’accogliere, diritto di escludere” (44).

    Questo non significa che i libertari debbano sostenere le politiche restrittive degli Stati in tema di immigrazione. In ogni nazione vi sono infatti categorie di individui che desiderano più immigrazione (datori di lavoro, venditori di case, solidaristi) e altre categorie che invece non ne desiderano affatto; vi sono aree, come quelle residenziali o quelle già affollate, dove gli immigrati non sono graditi, e altre aree disabitate, commerciali o industriali nelle quali si cerca al contrario di attirare gente da fuori. È chiaro quindi che una decisione presa centralmente non riesce a soddisfare in maniera adeguata le diverse preferenze presenti tra la popolazione. Ancora una volta le regola paleolibertaria di previsione dei probabili risultati del mercato mediante la massima decentralizzazione possibile delle decisioni sembra la migliore. L’immigrazione, secondo questo punto di vista, andrebbe allora regolata al livello più locale possibile (di contea, di città, di quartiere, di rione, di strada) proprio come avviene in quelle autentiche realtà di “libertarismo applicato” che sono le gated communities americane, vere e prove privatopie (città private) organizzate su basi condominiali (45).

    Questo favore dei paleolibertari per le piccole dimensioni politiche li porta a guardare con favore ai movimenti localisti e secessionisti, e a contrastare con la massima decisione ogni tentativo di costruzione di Leviatani sovranazionali, anche quando questi sono propagandati come necessari per l’affermazione della “democrazia” o addirittura del “libero mercato”.

    Pur se per motivi diversi, Rothbard si trovò quindi d’accordo ancora una volta con Pat Buchanan nel criticare gli accordi multilaterali di “libero scambio” come il Nafta, che prevedeva la creazione di un mercato unico americano, dal Canada alla Patagonia. Mettendo in difficoltà non pochi ambienti intellettuali libertari che avevano spinto per la conclusione dell’accordo, Rothbard faceva notare che il vero libero commercio non richiede anni di negoziazioni tra governi, né codicilli, accordi e compromessi. Se il governo americano voleva davvero il libero scambio, poteva semplicemente tagliare le quote e le tariffe, abolire la Commissione Internazionale per il Commercio, le leggi antidumping e tutte le altre leggi protezionistiche che danneggiano i consumatori americani sostenendo produttori inefficienti. Quello che in verità i governi miravano mediante questi negoziati governativi sul commercio non era affatto il libero mercato, ma il mercantilismo. Il risultato del Nafta, così come del Gatt o del WTO, è quello di trasferire il potere decisionale dal governo americano ad un nuovo governo sovranazionale dell’economia, completamente irresponsabile e incontrollabile. Se anche qualche tariffa venisse più o meno ridotta, i suoi vantaggi sono poca cosa rispetto alla marcia verso un supergoverno regionale o mondiale. Il trattato Nafta prevedeva ad esempio che alle tre nuove commissioni intergovernative istituite fossero attribuiti poteri di comminare sanzioni alle imprese che non rispettassero determinate regolamentazioni ambientali o del lavoro.

    Rothbard aveva probabilmente ben chiaro quanto era avvenuto con la Comunità Europea, che in un primo tempo era stata presentata come una semplice zona di libero scambio, ma col tempo si è trasformata in un vero e proprio Superstato con poteri di governo. Non si era tenuto conto che l’autorità che ha il potere di aprire un mercato ha anche il potere di regolamentarlo, e che prima o poi userà questo potere nella maniera più estesa possibile. Gli euroburocrati di Bruxelles, in quella che doveva essere un’area di libero scambio, sono infatti già da tempo al lavoro per “armonizzare” a livello continentale le tasse, la legislazione e i “diritti” sociali. Non c’è alcun dubbio che gli stessi poteri verranno pretesi ed esercitati anche dalle Commissioni sovranazionali istituite dal Nafta, dall’OCSE o dal WTO (46).

    Alcuni left-libertarians, osserva Rothbard, replicano agli attacchi paleolibertari contro il governo internazionale dell’economia dicendo che solo degli xenofobi o degli statalisti possono preoccuparsi della “sovranità nazionale”, dato che nella teoria libertaria solo l’individuo è sovrano, e non la nazione. La pochezza di questa argomentazione per Rothbard era evidente, dato che per ogni libertario dovrebbe essere quasi autoevidente che aumentare l’estensione e il livello del governo può solo aumentare lo scopo e l’intensità del dispotismo, e che più alto e lontano un governo diventa, minori sono le possibilità di essere controllato, limitato o rimosso dalla popolazione assoggettata (47).





    6. Conclusioni


    Si possono così sintetizzare gli obiettivi che Murray N. Rothbard, Lew Rockwell, Hans-Hermann Hoppe, Ralph Raico e altri studiosi di spicco si sono proposti di realizzare all’inizio degli anni Novanta imprimendo al movimento libertario una svolta in senso “paleo”: ricollegarsi idealmente alle radici della Old Right, la Destra americana antirooseveltiana; ridare forza all’isolazionismo nell’epoca post-guerra fredda; tutelare le comunità locali dalle pretese centralizzatrici del governo federale o delle istituzioni sovranazionali; affermare l’importanza della battaglia culturale in difesa dei valori tradizionali che permeavano la Vecchia Cultura americana prima della Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta; difendere l’eredità culturale della civiltà occidentale (“l’unica che abbiamo”, secondo Rothbard) dall’aggressione multiculturalista e politically correct; contestare la proliferazioni di privilegi statali concessi ad ogni gruppo che venga ufficialmente designato come “minoranza oppressa”; riconoscere l’importante ruolo giocato dalla religione cristiana, e particolarmente della filosofia cattolica, nella fondazione delle basi morali della nostra civiltà; sottolineare lo stretto collegamento che esiste tra le istituzioni di una società libertaria (mercati, diritti di proprietà, contratti, libertà individuali, libertà d’impresa) e i valori culturali tradizionali, famigliari e borghesi sottostanti; mettere in luce, correlativamente, il nesso che lega i valori controculturali, nichilisti, edonisti e libertini che celebrano l’irresponsabilità individuale con l’espansione dello statalismo e l’edificazione dell’assistenzialismo “dalla culla alla bara”.

    Sul piano strategico l’opzione paleolibertaria si traduce nella difesa “populista” dei modi di vita della middle-class dagli attacchi che subisce quotidianamente dalle élite politiche e intellettuali dominanti nel ceto politico e giudiziario, nelle burocrazie legate al Welfare State (funzionari, assistenti sociali), nei media, nel cinema, nel mondo artistico, nelle università, nella scuola pubblica. Nella società i paleolibertari trovano invece alleati in gruppi disparati come i sostenitori dell’home-schooling, i cattolici tradizionalisti, i sostenitori dei diritti di portare armi, le milizie locali, i secessionisti del Sud, i giovani Repubblicani, i difensori dei Land’s Right (i diritti di proprietà terrieri minacciati dalle regolamentazioni e dagli espropri statali), i fautori del ritorno ad una moneta aurea che criticano le alchimie monetarie operate dalla Fed e delle élite bancarie e finanziarie, gli isolazionisti di destra e di sinistra, i paladini dei diritti degli Stati contro il governo federale, i “cospirazionisti” che denunciano le trame nascoste tendenti ad edificare un Nuovo Ordine diretto da un governo mondiale e così via.

    L’improvvisa morte di Rothbard nel 1995 ha rappresentato un duro colpo per i paleolibertari, ma non ne ha indebolito lo spirito combattivo. Oggi infatti i paleolibertari, anche per aver sfruttato al meglio le potenzialità di internet, sono un movimento intellettuale in rapida crescita. Oggi tocca ai paleo (libertari e conservatori) il principale ruolo di critica al big government e alla politica “imperiale” del governo di Washington ispirata dai neoconservatori e dai democratici, in nome dello spirito originario della Old Republic americana.





    Note



    (1) Murray N. Rothbard, Per una nuova libertà (Macerata: Liberilibri, 1996) e Murray N. Rothbard, L’etica della libertà (Macerata: Liberilibri, 1996). Sul pensiero politico e filosofico di Murray N. Rothbard si veda Luigi Marco Bassani, “L’anarco-capitalismo di Murray N. Rothbard”, introduzione a Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, cit.; Raimondo Cubeddu, Atlante del liberalismo (Roma: Ideazione, 1997) pp. 101-112; Roberta A. Modugno, Murray N. Rothbard e la teoria anarco-capitalista (Soveria Mannelli: Rubbettino, 1997); Carlo Lottieri, Il pensiero libertario contemporaneo (Macerata: Liberilibri, 2001) pp. 51-75; Paolo Zanotto, Il movimento libertario americano agli anni sessanta ad oggi: radici storico-dottrinali e discriminanti ideologico-politiche (Siena: Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, 2001); Enrico Diciotti-Carlo Lottieri, Il libertarismo di Murray N. Rothbard. Un confronto (Siena: Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, 2003); Nicola Iannello, “Un’immacolata concezione della libertà” in Ideazione, n. 1/2003, pp. 182-196; Piero Vernaglione, Il Libertarismo. La teoria, gli autori, la politica (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2003) pp. 197-297.

    (2) Sull’isolazionismo libertario: Carlo Lottieri, “No Welfare, No Warfare” in Ideazione, n. 3/2001, pp. 197-211; Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro, “Gli Stati Uniti sono contro la guerra” in Il Domenicale, sabato 8 marzo 2003, p. 6; Justin Raimondo, “La terra della libertà. L’anti-interventismo nella tradizione della rivoluzione americana” in élite (Soveria Mannelli: Rubbettino, n. 4/2003) pp. 38-84; Paolo Zanotto, “I costi della guerra. Realismo ed etica nel pensiero libertario americano” in élite, cit., pp. 85-111.

    (3) Murray N. Rothbard, “Frank Meyer and Sidney Hook”, Rothbard-Rockwell-Report, January 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard (Burlingame, The Center for Libertarian Studies, 2000) pp. 20-21. Sul fusionismo si veda anche il documento “Storia esemplare di un conservatorismo progressista”, a cura di Marco Respinti in Il Domenicale, sabato 22 novembre 2003, pp. 6-7.

    (4) Llewellyn H. Rockwell, “The Case for Paleolibertarianism” in Liberty, Port Townsend, Liberty Publishing, n. 3, 1990, trad. it. “Il manifesto del paleolibertarismo” in Enclave. Rivista Libertaria (Treviglio: Leonardo Facco Editore, n. 17, 2002).

    (5) Hans-Hermann Hoppe, Democracy: The God That Failed. The Economics and Politics of Monarchy, Democracy, and Natural Order (New Brunswick-London, Transaction, 2001), di prossima pubblicazione in Italia per Liberilibri.

    (6) Justin Raimondo, An Enemy of The State: The Life of Murray N. Rothbard (Amherst: N.Y., Prometheus, 2000).

    (7) Murray N. Rothbard, “Right-Wing Populism”, Rothbard-Rockwell-Report, January 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., pp. 40-41.

    (8 ) John V. Denson (ed.), The Costs of War. America’s Pyrrhic Victories (New Brunswick-London: Transaction, 1994).

    (9) Murray N. Rothbard, “Kulturkampf!”, Rothbard-Rockwell-Report, October 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., pp. 289 ss.

    (10) Llewellyn H. Rockwell, Introduction to Llewellyn H. Rockwell (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. XV.

    (11) Joseph E. Salerno, in Murray N. Rothbard: In Memoriam (Auburn: Ludwig von Mises Institute, 1995) pp. 79-81.

    (12) Joseph Stromberg, “Rothbard contro Rothbard: un falso dilemma” in Ideazione, n. 1/2003, pp. 212-217.

    (13) Murray N. Rothbard, “Tolerance, or Manners?”, Rothbard-Rockwell-Report, September 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., pp. 260 ss.

    (14) Murray N. Rothbard, “Right-Wing Populism”, Rothbard-Rockwell-Report, January 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 41.

    (15) Murray N. Rothbard, “Big-Government Libertarians”, Rothbard-Rockwell-Report, November 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 102.

    (16) Murray N. Rothbard, “Hunting the Christian Right”, Rothbard-Rockwell-Report, August 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 272.

    (17) Murray N. Rothbard, “Hunting the Christian Right”, Rothbard-Rockwell-Report, August 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 277.

    (18 ) Murray N. Rothbard, “Education: Rethinking Choice”, Rothbard-Rockwell-Report, May 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., pp. 72-74.

    (19) Murray N. Rothbard, “Hunting the Christian Right”, Rothbard-Rockwell-Report, August 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 277.

    (20) Murray N. Rothbard, “Kulturkampf!”, Rothbard-Rockwell-Report, October 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 290.

    (21) Murray N. Rothbard, “PC Cinema: Psychobabble Gets Nasty!”, Rothbard-Rockwell-Report, September, 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 419.

    (22) Murray N. Rothbard, “Guilt Sanctified”, Rothbard-Rockwell-Report, July 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 259.

    (23) Murray N. Rothbard, “Kulturkampf!”, Rothbard-Rockwell-Report, October 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 290.

    (24) Murray N. Rothbard, “Kulturkampf!”, Rothbard-Rockwell-Report, October 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 293.

    (25) Gertrude Himmelfarb, The Demoralization of Society. From Victorian Virtues to Modern Values, New York, Vintage, 1994, pp. 224-225.

    (26) Hans-Hermann Hoppe, Democracy. The God that Failed, cit., pp. 195 ss.

    (27) Gary Becker, “Gli effetti perversi dei sistemi a ripartizione” in Biblioteca della Libertà, n. 128, gennaio-marzo 1995, p. 11.

    (28 ) Llewellyn H. Rockwell, “To Repair the Culture, Free the Market” in The Freeman, March 1994, p. 114, trad. it. “Rigenerare i valori culturali, liberare il mercato” in élite (Soveria Mannelli: Rubbettino n. 3/2003).

    (29) Per un confutazione di questa tesi si veda Carlo Lottieri, Denaro e Comunità (Napoli: Guida, 2001).

    (30) Hans-Hermann Hoppe, Democracy. The God that Failed, cit., p. 194 s.

    (31) Patrick J. Buchanan, The Death of the West” (New York: St. Martin Press, 2002). Sui pregi (la diagnosi) e i difetti (la prognosi) del libro di Buchanan, si veda la recensione di Hans-Hermann Hoppe “Ridare vita all’Occidente” in Enclave (Treviglio: Leonardo Facco Editore, n. 15/2002).

    (32) Murray N. Rothbard, “A Strategy for the Right”, Rothbard-Rockwell-Report, January 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 19.

    (33) Llewellyn H. Rockwell, “Il manifesto del paleolibertarismo”, cit., p. 7.

    (34) Per un approfondimento degli aspetti libertari del Medioevo mi permetto di rinviare a: Guglielmo Piombini, Prima dello Stato. Il Medioevo delle libertà (Treviglio: Leonardo Facco Editore, 2004, di prossima uscita). Il libro contiene anche una serie di interventi pro e contro di Pietro Adamo, Raimondo Cubeddu, Carlo Lottieri, Marco Respinti.

    (35) Joseph E. Salerno, in Murray N. Rothbard: In Memoriam, cit., p. 79.

    (36) Murray N. Rothbard, “The Great Thomas & Hill Show: Stopping the Monstruos Regiment”, Rothbard-Rockwell-Report, December 1993, ora in Llewellyn H. Rockwell, jr. (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 365.

    (37) Citato da Joseph E. Salerno, in Murray N. Rothbard: In Memoriam, cit., p. 79.

    (38 ) Joseph Stromberg, “Rothbard contro Rothbard: un falso dilemma”, cit., pp. 216-217.

    (39) Murray N. Rothbard, “The Religious Right: Toward a Coalition”, Rothbard-Rockwell-Report, February 1993, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 26.

    (40) Murray N. Rothbard, “Kingdom Come”, in Liberty (Port Townsend: Liberty Publishing, n. 3, January 1990) p. 45.

    (41) Murray N. Rothbard, “America’s Most Persecuted Minority”, Rothbard-Rockwell-Report, February 1993, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 269, trad. it. “La minoranza più perseguitata d’America”, in Lord Harris of High Cross & Judith Hatton, La libertà in fumo. Quando il proibizionismo nuoce gravemente alla salute (Treviglio: Leonardo Facco Editore, 2003) pp. 103-107.

    (42) David D. Friedman, “Senza assistenzialismo niente immigrazione”, in Enclave. Rivista Libertaria (Treviglio: Leonardo Facco Editore, n. 5, 1999) pp. 26-27,; Walter Block, “A Libertarian Case for Free Immigration” in Journal of Libertarian Studies (Burlingame: The Center of Libertarian Studies n. 13/2, 1998) pp. 167-186.

    (43) Murray N. Rothbard, “Nazioni per consenso. Decomporre lo Stato nazionale”, in Ernst Renan – Murray N. Rothbard, Nazione cos’è (Treviglio: Leonardo Facco Editore, 1996) pp. 44-53.

    (44) Hans-Hermann Hoppe, Abbasso la democrazia! L’etica libertaria e la crisi dello Stato (Treviglio: Leonardo Facco Editore, 2000) pp. 58-72.

    (45) Sull’argomento mi sia concesso di rinviare a Guglielmo Piombini, La proprietà è sacra (Bologna: Il Fenicottero, 2001) pp. 51-82.

    (46) Murray N. Rothbard, “Stop Nafta!”, Rothbard-Rockwell-Report, October 1993, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 142 ss.

    (47) Murray N. Rothbard, “Big-Government Libertarians”, Rothbard-Rockwell-Report, November 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 110.

    http://www2.units.it/~etica/2003_2/piombini.pdf


    carlomartello

  4. #4
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    Hans-Hermann Hoppe
    www.HansHoppe.com

    Centralismo e secessione
    ____________________________________



    Nel lavoro del professor Miglio occupa un posto centrale il potere dello stato, e in particolare la natura del centralismo e del federalismo. Alla luce del collasso dell’Impero Sovietico, Miglio concluse queste analisi con la difesa del diritto di secessione come un diritto umano naturale e inalienabile, al pari del diritto all’autodifesa. E’ d’uopo, allora, che la mia relazione si soffermi su due fenomeni che sono di cruciale importanza nel lavoro di Miglio: il centralismo e la secessione.
    Uno stato è un monopolista territoriale della coercizione – sotto forma di espropriazione, tassazione e regolamentazione – ai danni dei detentori di proprietà privata. Assumendo che gli agenti del governo non siano mossi da null’altro che il loro proprio interesse, tutti gli stati faranno uso di questo monopolio e quindi manifesteranno una tendenza verso uno sfruttamento crescente. Da un lato, questo significa un accresciuto sfruttamento interno (e tassazione interna). Dall’altro, implica un’espansione territoriale. Gli stati tenteranno sempre di ampliare il proprio sfruttamento e la propria base fiscale. Facendolo, tuttavia, entreranno in conflitto con altri stati concorrenti. La competizione tra gli stati in quanto monopolisti territoriali della coercizione è, per sua stessa natura, esclusiva. Cioè, può esserci un solo monopolista dello sfruttamento e della tassazione in una certa area; quindi, la competizione tra stati diversi promuoverà una tendenza verso la crescita di centralizzazione politica e, alla fin fine, verso un solo stato mondiale.
    Secondo la visione ortodossa, questa centralizzazione è in genere un movimento “buono” e progressista. Si presuppone che le unità politiche più grandi – e alla fine un unico governo mondiale – comportino mercati più vasti e un aumento della ricchezza. Ma piuttosto che riflettere una verità, questo punto di vista ortodosso dimostra semplicemente che la storia viene tipicamente scritta dai vincitori.
    L’integrazione politica (centralizzazione) e l’integrazione economica (mercato) sono due fenomeni completamente distinti. L’integrazione politica comporta una maggiore capacità per uno Stato di imporre tasse e di regolare la proprietà (espropriazione). L’integrazione economica rappresenta una estensione della divisione interpersonale ed interregionale della partecipazione al lavoro e al mercato.
    Esiste, inoltre, un’importante relazione indiretta fra le dimensioni di uno Stato e il so tasso di integrazione economica. Un governo centrale con poteri su territori vasti – molto meno di un unico governo mondiale – non può nascere ab ovo. Tutte le istituzioni che hanno il potere di tassare e regolamentare la proprietà privata devono, al contrario, nascere piccole. Le dimensioni piccole contribuiscono alla moderazione. Un governo piccolo ha molti concorrenti, e se tassa e regola i suoi cittadini più dei suoi concorrenti sarà inevitabilmente soggetto ad emigrazione del lavoro e del capitale.
    Contrariamente a quanto asserisce l’ortodossia, è proprio il fatto che l’Europa aveva una struttura fortemente decentralizzata composta da innumerevoli unità politiche indipendenti, che spiega l’origine del capitalismo nel mondo occidentale. Non è un caso che il capitalismo sia nato in condizioni di estrema decentralizzazione politica: nelle città Stato del Nord Italia, nella Germania meridionale e nei Paesi Bassi secessionisti.
    La competizione fra piccoli Stati per avere soggetti da tassare li pone in conflitto fra loro. Il risultato di questi conflitti tra stati è che pochi di essi riescono a espandere i loro territori. Naturalmente, sono diversi fattori a determinare quali Stati vincono in questo processo di eliminazione concorrenziale, ma a lungo termine il fattore decisivo risulta la quantità relativa di risorse economiche a disposizione di un governo. I governi non contribuiscono attivamente alla creazione di ricchezza economica. Al contrario, attingono come dei parassiti dalla ricchezza esistente. Ma possono avere un’influenza negativa sulla quantità di ricchezza esistente. A parità di condizioni, minore è l’onere fiscale e di regolamentazione imposto da un governo alla sua economia, e più crescerà la quantità di ricchezza nazionale dalla quale lo stato potrà attingere per sostenere il suo conflitto con gli stati vicini. Gli stati che tassano e regolamentano al minimo le proprie economie – gli stati liberali – in genere riescono a espandere il loro territorio alle spese di quelli non liberali. Questo spiega perché durante il diciannovesimo secolo l’Europa occidentale arrivò a dominare il resto del mondo (invece del contrario). E spiega anche l’ascesa degli Stati Uniti al rango di superpotenza durante il ventesimo secolo.
    Tuttavia, man mano che i governi più liberali sconfiggono quelli meno liberali i governi avranno sempre meno incentivi a continuare la loro politica di liberalismo nazionale. Avvicinandosi allo Stato mondiale unico, scompaiono tutte le possibilità di opporsi a un governo votando coi piedi. Dovunque si vada, si ritrovano le stesse strutture fiscali e di regolamentazione. Eliminato così il problema dell’emigrazione, viene meno uno dei principali freni dell’espansione dei governi. Questo spiega gli sviluppi del ventesimo secolo: con la Prima guerra mondiale e ancora di più con la Seconda, gli Stati Uniti hanno ottenuto l’egemonia sull’Europa occidentale e sono diventati gli eredi dei loro vasti imperi coloniali. Infatti, in tutto il periodo gli Stati Uniti, l’Europa occidentale e gran parte del resto del mondo hanno registrato una drammatica e costante crescita del potere dei governi, della tassazione e dell’espropriazione regolamentatrice.
    Alla luce di tutto ciò, quindi, vi sono argomenti a favore della secessione.
    Inizialmente, la secessione non significa altro che spostare il controllo sulla ricchezza nazionale da un grande governo centrale ad uno più piccolo e regionale. Dipende in gran parte dalla politica regionale, se questo porterà a maggiore o minore integrazione economica e benessere. Comunque la secessione stessa ha un impatto positivo sulla produzione, perché una delle prime ragioni per la secessione è tipicamente la convinzione dei secessionisti di essere sfruttati da altri. Gli sloveni si sentivano sistematicamente derubati dai serbi e dal governo centrale jugoslavo dominato da questi; i baltici si risentivano di dover pagare le tasse ai russi e al governo russo dell’Unione sovietica. In virtù della secessione le relazioni nazionali egemoniche sono sostituite da relazioni estere contrattuali. L’integrazione forzata genera invariabilmente tensioni, odii e conflitti. In presenza dell’integrazione forzata è facile imputare gli errori a un gruppo o a una cultura “straniera” e rivendicare tutti i successi come propri; di conseguenza, le varie culture non hanno motivo di imparare l’una dall’altra. In un regime di “separati ma uguali” si è costretti ad affrontare la realtà non solo della differenza culturale, ma soprattutto dei gradi vistosamente diversi del progresso culturale. Soltanto l’apprendimento discriminante può aiutare un popolo secessionista a migliorare o mantenere la sua posizione di fronte ad un popolo concorrente. Invece di promuovere un appiattimento culturale, come accade nell’integrazione forzata, la secessione stimola un processo cooperativo di selezione e progresso culturale.
    Inoltre, come il centralismo tende alla fin fine a promuovere la disintegrazione economico, così la secessione tende a incoraggiare l’integrazione e lo sviluppo economico. La secessione comporta sempre maggiori opportunità di migrazione interregionale. Per evitare di perdere la parte più produttiva della sua popolazione, [un governo secessionista] è spinto sempre più ad adottare politiche interne relativamente liberali.
    In particolare, più un paese è piccolo, maggiore è lo stimolo a scegliere il libero mercato. Qualsiasi interferenza del governo nel commercio con l’estero limita necessariamente le possibilità di scambi infraterritoriali mutuamente vantaggiosi causando così un relativo impoverimento. Ma più un paese e il suo mercato interno sono piccoli, più drammatico sarà questo effetto. Un paese delle dimensioni degli Stati Uniti, per esempio, potrà raggiungere uno standard di vita relativamente alto anche rinunciando al commercio con l’estero. Se invece le città o le contee a predominanza serbe all’interno della Croazia secedessero da questa e perseguissero lo stesso tipo di secessionismo ne conseguirebbe un disastro. Quindi, più piccolo è un territorio e il suo mercato interno, più è probabile che esso sceglierà il libero scambio.
    La secessione, allora, non rappresenta un anacronismo, ma la forza potenzialmente più progressista della storia, soprattutto alla luce del fatto che, con la caduta dell’Unione Sovietica, ci siamo mossi più vicino che mai alla creazione di un “nuovo ordine mondiale”. La secessione incoraggia le diversità etniche, linguistiche, religiose e culturali, che nel corso di secoli di centralizzazione sono state soppresse. Porrà fine all’integrazione forzata determinata dalla centralizzazione e, invece di provocare conflitti sociali e livellamento culturale, promuoverà la pacifica concorrenza cooperativa di diverse culture territorialmente separate. In particolare, eliminerà il problema dell’immigrazione che affligge sempre più l’Europa occidentale e gli Stati Uniti. Attualmente, ogni qualvolta il governo centrale permette l’immigrazione, permette a degli stranieri di arrivare – letteralmente sulle strade del governo – fino alla porta di casa dei suoi residenti, senza chiedere se tali residenti desiderino questa prossimità o meno. La “libera immigrazione” rappresenta quindi per molti aspetti un’integrazione forzata. La secessione risolve questo problema perché lascia che i piccoli territori scelgano i propri standard di ammissione e decidano indipendentemente con chi vogliano associare il proprio territorio e con chi preferiscono cooperare a distanza.
    La secessione promuove, infine, l’integrazione e lo sviluppo. Il processo di centralizzazione ha creato un cartello internazionale di migrazione, commercio e moneta a corso forzato controllato e dominato dagli Stati Uniti, governi sempre più intrusivi e onerosi, statalismo globalizzato per il benessere e la guerra e stagnazione economico o addirittura un declino degli standard di vita. La secessione, se è sufficientemente diffusa, può imporre una svolta a questa situazione. Il mondo sarebbe composto da decine di migliaia di diversi paesi, regioni e cantoni e da centinaia di migliaia di libere città indipendenti come le “stranezze” rappresentate oggi da Monaco, Andorra, San Marino, Liechtenstein, Hong Kong, Singapore. Il risultato sarebbe un grande aumento delle opportunità per le migrazioni economicamente motivate attraverso il libero scambio e una valuta internazionale come l’oro. Sarebbe un mondo caratterizzato da una prosperità, una crescita economica e un avanzamento culturale senza precedenti.


    carlomartello

 

 

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