Hans-Hermann Hoppe
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Hans-Hermann Hoppe
Hans-Hermann Hoppe (Peine, 2 settembre 1949) è un economista tedesco, esponente della scuola austriaca e un filosofo politico anarco-capitalista.
Biografia
Ha studiato filosofia, sociologia, storia ed economia all’Universität des Saarlandes di Saarbrücken e alla Goethe-Universität di Frankfurt am Main. Ha ottenuto il suo dottorato e la sua Habilitation (sui fondamenti della sociologia e dell’economia) alla Goethe-Universität.
Hoppe ha inoltre frequentato corsi post-dottorali alla University of Michigan di Ann Arbor dal 1976 al 1978.
Ha insegnato in varie università tedesche e anche alla Johns Hopkins University di Bologna.
Nel 1986 ha lasciato la Germania per gli Stati Uniti, dove ha studiato sotto la guida di Murray N. Rothbard, vicino al quale è rimasto fino al gennaio 1995 (quando lo studioso americano è scomparso).
Attualmente Hoppe è professore di economia alla University of Nevada, con sede a Las Vegas, è Distinguished Fellow del Ludwig von Mises Institute e, fino al dicembre 2004, è stato direttore del Journal of Libertarian Studies del medesimo istituto.
Autore di molti libri e articoli altamente discussi, egli ha sviluppato una difesa dei diritti di proprietà della tradizione libertaria che muove dall’etica dell’argomentazione, così come è stata sviluppata da Jürgen Habermas (che fu relatore di Hoppe al tempo della tesi di dottorato) e Karl-Otto Apel. Nel 2005 ha fondato Property and Freedom Society.
Il pensiero
Seguendo le orme del suo maestro Murray N. Rothbard, col quale lavorò per dieci anni in America, concentra la sua teoria sull'anarco-capitalismo e sul fallimento dell'istituzione Stato.
In Democrazia: il dio che ha fallito critica aspramente le democrazie moderne e la democrazia in sè, e, attraverso un paragone tra le democrazie occidentali e le monarchie ereditarie, giunge alla conclusione, supportata da dati, della maggiore efficineza delle monarchie rispetto alle democrazie.
Dal punto di vista economico, seguendo perfettamente la teoria anarco-capitalista, sostiene la necessità di un'instaurazione di ordine policentrico, fondato sulla proprietà privata e sul libero mercato totalmente svincolato dallo Stato.
Sicuramente degna di nota è la teoria in tema di immigrazione del filosofo tedesco, teoria che va in netto contrasto col resto del mondo libertario.
Bibliografia
Collegamenti esterni
- Handeln und Erkennen (Bern 1976)
- Kritik der kausalwissenschaftlichen Sozialforschung (Westdeutscher Verlag 1983)
- Eigentum, Anarchie und Staat (Westdeutscher Verlag 1987)
- Praxeology and Economic Science (Ludwig von Mises Institute, 1988)
- A Theory of Socialism and Capitalism (Kluwer 1989)
- The Economics and Ethics of Private Property (Kluwer, 1993)
- Economic Science and the Austrian Method (Ludwig von Mises Institute, 1995)
- Democracy: The God That Failed (Transaction, 2001); trad. it. Democrazia. Il dio che ha fallito (Liberilibri, 2006)
- Curatore: The Myth of National Defense. Essays on the Theory and History of Security Production (Ludwig von Mises Institute, 2003)
HANS-HERMANN HOPPE : DEMOCRAZIA: IL DIO CHE HA FALLITO
Hoppe, anche se non può fornire risposte definitive, ha l’indubbio merito di avviare una riflessione perché inizia a porre seriamente la questione se si possa fare a meno dello Stato, del potere e della politica, e di come sostituirli.
di Raimondo Cubeddu
Il testo che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore Liberilibri è la prefazione al nuovo libro del filosofo tedesco
Dopo essersi addottorato nella natia Germania con Jürgen Habermas, Hans-Hermann Hoppe si è imbattuto, negli Usa, in Murray N. Rothbard, l’alfiere di quel Libertarianism che ha innestato la teoria delle scienze sociali e dell’azione umana del liberalismo classico di derivazione “austriaca” con la tradizione anarchico-individualistica americana, e la dottrina della Natural Law aristotelica con quella dei Natural Rights lockeana. Dalla rilettura parimenti critica e creativa di tali filoni di pensiero, la tradizione dell’individualismo politico – secondo il quale se la coercizione non è giustificabile da parte dei privati, in quanto lesione dei diritti naturali, essa non può essere giustificata neanche se compiuta dallo Stato – ha ricevuto nuova vita.
È vero che nell’ambito delle varie componenti del Libertarianism non tutti si richiamano a quella rothbardiana e che molti le sono anche fieramente avversi, ma è ugualmente innegabile che il rilancio di tale corrente della filosofia politica nel XX secolo è strettamente connesso a Rothbard – il quale, insieme ad Ayn Rand, è il nome più noto –, e che tale notorietà è dovuta all’apporto teorico da loro dato al revival di tale tradizione.
Hoppe, se da una parte può essere visto come l’erede e il continuatore del pensiero di Rothbard, per molti versi ne è anche un innovatore e certamente non può essere visto come un pensatore incline a cercare compromessi teorici, ma come un pensatore che lucidamente rimarca e accentua le differenze. E non soltanto perché si confronta con una crisi della filosofia politica democratica che pure il suo maestro avvertì e denunciò con estrema chiarezza, ma anche perché si cimenta con tutta quella complessa serie di problemi che vanno sotto il nome di globalizzazione, destinati a mutare radicalmente la prospettiva della filosofia politica e della teoria delle istituzioni; e infine perché, talora senza eccessive cautele, apre un confronto, spesso aspramente polemico, con tutte quelle correnti di pensiero politico ed economico che, a loro volta, si richiamano agli ideali dell’individualismo liberale e libertario.
Il risultato, che in questo volume appare con estrema e forse irritante chiarezza, è di mettere ancor più in discussione non soltanto l’insieme dei presupposti del liberalismo, ma anche quelli della stessa filosofia politica. Già dalla lettura dell’Introduzione ci si avvede infatti di non essere di fronte ad una di quelle opere consolatorie che mirano a rinsaldare convinzioni, ma ad un’opera che mette in discussione certezze e modi di pensare, a partire dagli stessi presupposti del Classical Liberalism contemporaneo, cioè di quello codificatosi nelle opere di Ludwig von Mises e di Friedrich A. von Hayek.
Di essi, e di quel liberalismo, – con una sorta di impeto demolitore che a chi scrive riporta alla mente il disagio urticante che provò quando, vent’anni addietro, si imbatté nella lettura di Leo Strass – Hoppe, da conoscitore profondo, individua i limiti e soprattutto le implicite e residuali illusioni connesse alla percezione dei limiti di quel compromesso tra diritti individuali e Stato che non si riusciva a superare, o che forse si temeva di realizzare. Anche perché l’esito sarebbe stato immancabilmente quello di rigettare quasi per intero la filosofia politica del moderno liberalismo che aveva creduto nella possibilità di una costituzione che si ponesse come limite invalicabile al dilagare del potere governativo e della democrazia, e che riuscisse a conciliare la libertà individuale con un complesso, sia pure limitato, di scelte collettive.
A ottant’anni inoltrati, Hayek, nell’Introduzione all’edizione di Law, Legislation and Liberty, del 1982 – che includeva The Political Order of a Free People, del 1979, in cui fa i conti con la teoria politica che ha dominato il XX secolo, cioè quella democrazia che non è riuscita a mantenere le proprie promesse, e della quale tenta in qualche modo di salvare lo spirito vitale – confessava il proprio disagio in termini non dissimili dall’ammissione di un fallimento suo e dell’intero liberalismo:
Quando Montesquieu e i padri della Costituzione americana formularono esplicitamente l’idea di una costituzione come insieme di limiti all’esercizio del potere, in base ad una concezione che si era sviluppata in Inghilterra, fondarono un modello che, da allora in poi, il costituzionalismo liberale ha sempre seguito. Il loro scopo principale era di provvedere delle garanzie istituzionali per la libertà individuale, e lo strumento in cui riposero la loro fiducia fu quello della separazione dei poteri. Nella forma in cui noi la conosciamo, tale divisione tra il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, non ha raggiunto gli scopi per cui era stata progettata. Dovunque, per via di mezzi costituzionali, i governi hanno ottenuto poteri che quei pensatori non intendevano affidar loro. Il primo tentativo di assicurare la libertà individuale per mezzo di forme costituzionali è evidentemente fallito.
Al termine di una vita dedicata alla rivalutazione del Classical Liberalism, ad Hayek, come a Bruno Leoni, mancarono il tempo e le energie per rifondarlo. Forse si avvidero che quel compromesso tra libertà individuale e scelte collettive era da abbandonare, ma non riuscirono a farlo. Al di là delle riserve, se si guarda alla storia del liberalismo come ad una tradizione viva e vitale, quel compito è stato assunto da Hoppe. Compito così arduo e impegnativo, che sarebbe ingeneroso soffermarsi soltanto sugli aspetti che del suo titanico progetto possono non convincere. In buona sostanza, va preso atto che quel “primo tentativo” è fallito; e i nomi dei personaggi coinvolti in tale evento danno l’idea immediata, senza bisogno di troppe parole, di quanto possa essere difficile il secondo.
Si tratta quindi di un’opera che potrebbe essere definita come un susseguirsi di impietose pugnalate alle convinzioni più profonde e care ai liberali contemporanei e che, da questo punto di vista, manifesta il furore iconoclasta del suo autore nel negare ad Hayek un posto tra gli esponenti della Scuola austriaca. E questo non è ancora nulla rispetto a ciò che Hoppe riserva all’intera tradizione della filosofia politica occidentale. Le critiche che ad essa rivolge fanno infatti apparire come paludati eufemismi quelle, già pesantissime, che le aveva riservato Rothbard. Non per nulla, in un volume dedicato al fallimento della democrazia, Mises e Rothbard – gli autori ai quali Hoppe si dichiara più vicino – vengono definiti dei democratici.
È indubbiamente vero che da secoli i pensatori tedeschi ci hanno abituati a rivoluzioni filosofiche dirompenti, ma per chi abbia a mente le critiche che la Scuola austriaca aveva rivolto alla tradizione filosofica, economica e politica tedesca, suona decisamente inaspettato che oggi sia proprio un pensatore di origine tedesca a portare alle estreme conseguenze speculative e politiche l’eredità ideale della Scuola austriaca. Un rovesciamento di prospettive che si abbatte come un devastante uragano sulla filosofia politica occidentale prendendo di mira proprio quel concetto di democrazia politica che viene quasi unanimamente considerato come il suo frutto migliore ed universale.
La democrazia, per Hoppe, non è che un dio che ha fallito non soltanto se la si considera dal punto di vista delle promesse teoriche che si sono mostrate irrealizzabili, ma anche se la si guarda dal punto di vista dei suoi risultati storici (la transizione dalla monarchia alla democrazia, ad esempio, viene vista come un caso di declino della civiltà). Si tratta allora di un errore dal quale occorre quanto prima liberarsi non soltanto come ideale politico, ma anche come ideale di vita. Ciò, per Hoppe, comporta il dovere di riconoscere che l’intera tradizione della filosofia politica occidentale è da ripensare non solo perché i suoi risultati sono infausti, ma anche perché le sue premesse teoriche sono sbagliate. Di qui il suo insistere sulla necessità di una teoria a priori, vale a dire di proposizioni che asseriscono qualcosa di valido sulla realtà indipendentemente dal risultato di qualsiasi esperienza presente e futura, e della quale Hoppe fornisce degli esempi.
In questo modo, con presupposti teorici e con argomentazioni in larga misura originali se non altro nel loro assemblaggio, Hoppe si ricollega a quella tradizione della filosofia politica, certamente minoritaria ma non certo marginale, che si chiede non tanto come giustificare il potere o come effettivamente ridurlo e controllarlo, ma, più radicalmente, se se ne possa fare a meno. La vena utopistica che sembra sorreggerne il pensiero politico diventa più plausibile se si prendono in considerazione le argomentazioni tese a mostrare sia il fallimento della filosofia politica nella sua ricerca di giustificazioni etiche o realistiche del potere, sia quella che appare a Hoppe come la loro insostenibilità teorica che, tuttavia, rende ineludibile la necessità di vagliare alternative allo Stato. Soprattutto se si considera che nessuna forma di Stato (vale a dire di organizzazione fondata essenzialmente sulla tassazione e sulla coercizione) può essere moralmente o economicamente giustificata per il fatto che ogni monopolio è un male per quanti sono costretti ad avvalersi dei suoi servizi.
Dunque, non la descrizione di un possibile mondo risultante da un processo di perfezionamento e di elevazione etica degli uomini, ma la necessità di ritornare a prendere le mosse dagli enunciati di una prasseologia realistica. La democrazia, da questo punto di vista, altro non sarebbe se non il tentativo, fallimentare, di creare un ordine politico innaturale che si ostina a non prendere atto del fatto che gli individui attribuiscono minor valore ai beni lontani nel tempo rispetto a quelli temporalmente più vicini.
Una considerazione, quindi, pienamente realistica, che Hoppe deriva dalla Scuola austriaca e che, diversamente dalla quasi totalità dei suoi esponenti, sviluppa senza curarsi di pagare un prezzo alle idee dominanti sulla bontà della democrazia, anche di quella temperata da istituzioni liberali; e nella quale possiamo anche trovare una risposta a quella geniale definizione e denuncia dello Stato fatta da Bastiat quando aveva sostenuto che esso non era altro che «la grande fiction à travers laquelle tout le monde s’efforce de vivre aux dépens de tout le monde». Una definizione tanto spesso citata quanto poco analizzata nella sua capacità esplicativa di mettere in luce l’insanabile irrazionalità che produceva da un lato il dilagare di aspettative individuali e sociali irrealizzabili, e dall’altro i meccanismi decisionali che caratterizzano la teoria democratica dello Stato contemporaneo.
Ma se a prima vista la credenza che occorra rifare tutto può apparire temeraria, di fronte alle argomentazioni di Hoppe è difficile che un barlume di dubbio non riesca a farsi strada nella mente dei suoi lettori. E questo, anche se certamente quel dubbio non induce a dichiararsi convinti di analisi e di proposte, in fondo non è niente di diverso da quanto il filosofo politico cerca di fare fin dal sorgere stesso della filosofia: insinuare il dubbio sull’esistente, anche quando può risultare urtante ed esporre al ludibrio l’avventato denunciatore.
Rimangono tuttavia dei problemi di fondo che non è il caso di eludere anche se fanno sorgere dubbi sulla validità di quel Libertarianism a cui Hoppe si ispira e che valuta la realtà sulla base di principî a priori indifferenti alle conseguenze delle loro applicazioni.
Il primo è che nonostante tutto non si riesce bene a capire come mai un’impresa tanto fallimentare come quella dello Stato moderno non abbia trovato un competitore adeguato nel campo della produzione della sicurezza e della certezza. Dai tempi di Bastiat e di de Molinari i libertari hanno coltivato la speranza che il mercato potesse rivelarsi un produttore di certezza e di sicurezza migliore e meno costoso dello Stato. E tuttavia, sia perché il bisogno di quei beni sorge e si rafforza nei momenti in cui l’incertezza e l’insicurezza si presentano e crescono, sia perché lo Stato è sempre riuscito a far credere (anche se a costi sempre più alti e con una sempre maggiore compressione delle libertà individuali) che non esistono altri modi per produrli, le idee libertarie non sono mai riuscite a conquistare definitivamente le menti dei cittadini. I tentativi del libertarismo di mercato di accreditarsi come un migliore e più tempestivo produttore di certezza e di sicurezza sono pertanto falliti, per lo meno fino ad ora, ed è forse giunto il tempo di chiedersene la ragione.
Cosa ci possa essere oltre lo Stato, non è però del tutto chiaro. Infatti il mercato, per quanto un ottimo e tempestivo produttore di beni, non è un altrettanto buono e tempestivo produttore di quella certezza e di quella sicurezza di cui si avverte la necessità al pari della soddisfazione di bisogni primari. Inoltre quello del Libertarianism è un mondo senza politica e quindi un mondo incline ad escludere che – quando cresce l’incertezza – i processi sociali debbano essere accelerati in una direzione imprimibile soltanto tramite scelte collettive. La prasseologia realistica è innegabilmente un faro, ma la sua luce non si diffonde in maniera uniforme né contemporanea. In altre parole, dal fatto che non si sia ancora riusciti a trovare di meglio, lo Stato trae un enorme vantaggio.
Il secondo problema, connesso a quanto finora detto, è che bisogna anche chiedersi perché il potere continui ad avere la meglio sulle libertà individuali. Si potrebbe rispondere osservando che uno dei grandi difetti del liberalismo e del Libertarianism è stato quello di trascurare la realtà e anche la naturale esigenza, se non necessità, di una qualsiasi forma di potere. Ma anche a questo riguardo le tesi e le argomentazioni di Hoppe meritano attenzione.
Si tratta di interrogativi fatali ai quali è difficile rispondere, ma coi quali bisogna pure confrontarsi. E il libro di Hoppe, anche se da questo punto di vista non può certo fornire risposte definitive, ha l’indubbio merito di avviare una riflessione perché inizia a porre seriamente la questione se si possa fare a meno dello Stato, del potere e della politica, e di come sostituirli. È certamente possibile osservare che il momento storico non è quello più adatto, ma un filosofo che non cercasse di andare oltre il proprio tempo non potrebbe seriamente rivendicare il diritto di definirsi tale e neanche quello di essere preso in considerazione.
Hans-Hermann Hoppe
Democrazia: il dio che ha fallito
Prefazione di : Raimondo Cubeddu
traduzione e cura di : Alberto Mingardi
Edito da Liberilibri - Corso Cavour, 33/a- Macerata
Pagine 486 Euro 19,00
Per informazioni ed acquisti : ama@liberilibri.it
Fonte: www.liberilibri.it
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