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  1. #1
    Sardista po s'Indipendentzia
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    Post Analisi storica della società sarda. di Andrea Fresi (1977)

    Nel 1976, la Federazione di Oristano del PSd’az., iniziò a pubblicare un Bollettino di informazione, la cui testata riporto in immagine:


    Nel numero 4 nov. – dic. 1976, si annunciava quanto segue:

    E' NATO UN NUOVO STRUMENTO PER LA DIFFUSIONE DEL PENSIERO SARDISTA: LE EDIZIONI SARDISTE

    Per sopperire alla carenza di pubblicazioni riguardanti il pensiero sardista e la trattazione di particolari problemi della Sardegna la Federazione di Oristano ha dato vita alle "EDIZIONI SARDISTE". In pratica si tratta di una modestissima iniziativa editoriale (circa 12-14 titoli all'anno), povera anche nella veste tipografica (i volumetti, 30 o 40 pagine ciascuno,saranno ciclostilati e posti in vendita ad un prezzo non superiore alle 400 lire), che può però ricoprire validamente un preoccupante vuoto.
    Il primo volumetto (Antonio Simon Mossa: LE RAGIONI DELL'INDIPENDENTISMO) è uscito alla fine di novembre. E' in vendita a lire 350 o presso la Federazione, o in alcune edicole di Oristano; a Cagliari nell'edicola di Piazza d' Armi. Può essere richiesto anche per posta alla Federazione, allegando l’importo in francobolli (350 lire).
    Naturalmente possiedo il primo volumetto citato e, quanto prima, cercherò di riprodurlo sul forum, benché lo scritto sia abbastanza conosciuto e pubblicato anche da “Zampa” nel 1984.

    Nel 1977 venne invece pubblicato un secondo volumetto di 24 pagine ciclostilate (fronte retro), quello che riporto nei post successivi, rispettandone l’articolazione nelle titolazioni.
    L’autore è Andrea Fresi, nome che in quel periodo si incontrava nelle divulgazioni del Partito, ma che non conosco personalmente.
    Ovviamente questa analisi è estremamente interessante e ricca di stimoli ancora adesso, benché risenta di terminologie “forse” superate, pertanto intendo riproporla così come farò per altri documenti.


    “ISTUDIARE SU TEMPU COLADU
    PRO CUMPRENDERE SU PRESENTE
    E ILLUMINARE S’AVENIRE”

  2. #2
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  3. #3
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    ANALISI STORICA DELLA SOCIETA’ SARDA

    La storia in Sardegna si ripete ed in questo periodo riproporsi è inesorabilmente trascinata la nostra gente.
    I nemici dell'isola risiedono in Sardegna e sono i "compradores", cioè la borghesia isolana, che incurante dei problemi sardi fa da intermediaria ai colonizzatori, animati gli uni e gli altri dal proprio tornaconto nello sfruttamento economico dell’isola.
    E’ proprio la borghesia capitalista e soprattutto quella compradora il fulcro attorno al quale ha ruotato e purtroppo continua a ruotare la storia sarda col suo periodico riproporsi. Lo stato piemontese, prima, e quello italiano, dopo, sono stati favoriti nei loro intenti dalla facilità con cui questa classe si è fatta comprare.
    La sua formazione risale al 1820 ed esattamente al pacchetto di riforme del governo sabaudo che è conosciuto sotto il nome "editto delle chiudende".
    Esso si presenta ammannito di pseudo promesse di sviluppi sociali. I contadini ed i pastori dei villaggi perdono la proprietà comune, che viene assorbita dai più facoltosi e prepotenti, fra questi spiccano i feudatari, che l'editto intendeva ridimensionare; essi invece chiudono tutto anche le terre comuni e derelitte.
    Si doveva formare una borghesia agraria attiva ed interessata al miglioramento del fondo. Nasce invece una borghesia parassitaria, che sfrutta il contadino ed il pastore con fitti altissimi. La miseria e la fame diventano la proprietà comune.
    Questa nuova classe nel 1847 baratterà l'autonomia del "Regnum Sardiniae" che fin allora aveva istituzioni proprie; avrà luogo la fusione col regno del Piemonte.
    Questi interventi furono pesanti, imposti, voluti dall'alto, sconvolsero una civiltà intimamente coerente ed in pari tempo traumatizzarono la società isolana con leggi sociali ed economiche, come lo "Statuto Albertino" completamente estraneo alla cultura sarda. La risultante fu il tragico fenomeno del banditismo, da parte dei più indomiti a soccombere, e di completa acculturizzazione dei più deboli.
    Subito il governo reagì e con truppe di occupazione e con Commissioni di in chiesta e con leggi speciali. Tutte inadatte, prive della necessaria preparazione o conoscenza del loro reale contesto di applicazione. Fallirono lo scopo, ma arricchirono sempre più la borghesia compradora.
    Si chiude così un ciclo della storia sarda e la ritroveremo con le stesse tragiche dimensioni anche nei periodi seguenti: quello fascista e quello contemporaneo.
    La ribellione dei sardi si fa sentire nei contadini, nei pescatori, nei pastori, negli intellettuali, ma questi parlano un linguaggio non comprensibile ai primi, l'azione che ne deriva è slegata e non sortisce effetti concreti.
    Sorgono alcuni movimenti politici di chiara marca autonomista e fede sardista con in testa il TUVERI, l’ASPRONI, e soprattutto ATTILIO DEFFENU. Questi è interventista e vede la prima guerra mondiale come un fatto rivoluzionario, che potrebbe generare una nuova dimensione a carattere europeo ed interregionale sia umana che sociale per il proletariato cardo.
    Il Deffenu cadde nel ‘18 sul Piave, ma ritenne che il tributo di sacrifici e di sangue che la Sardegna stava pagando, aveva per l'intera isola un significato rivoluzionario e la via più spontanea per la soluzione dei problemi sardi sarebbe stato un partito politico con intendimenti moderni.
    Infatti il ritorno in Sardegna dei reduci fece vibrare l'intera isola di indomito desiderio di riscossa sociale. La guerra, come aveva previsto il Deffenu, aveva temprato lo spirito dei sardi e nelle loro coscienze si era formata la giusta dimensione del vivere comune nella stessa terra da troppi secoli trascurata e relegata, in quanto colonia, alla periferia di un'altra comunità: quella italiana.
    Manlio Brigaglia, studioso di storia sarda ma non militante nel nostro partito, nel descrivere i movimenti politici di quegli anni così si esprime:
    "Ma dalla guerra nacque, soprattutto, il più caratteristico dei movimenti politici isolani, quel vasto partito dei combattenti che andò rapidamente chiarendo la propria ideologia e che diventato PARTITO SARDO D'AZIONE seppe far convergere il consenso e la partecipazione di vaste masse popolari sulla duplice battaglia che esso combatteva: quella per rivendicare i diritti dell'isola nei confronti dello stato, e quella per difendere i diritti dei pastori e dei contadini nei confronti delle classi che fino allora avevano governato l'economia e la vita politica della Sardegna. Il movimento sardista, in questa prospettiva, non interessa tanto per i risultati pratici che esso seppe raggiungere,
    quanto per il ruolo storico che svolse nello sviluppo della coscienza isolana; fu infatti il Partito Sardo a raccogliere ed a tradurre in principi, in affermazioni, in manifesto politico la lezione che i Sardi avevano appreso sul fronte".
    Il Partito Sardo nacque dal punto di vista organizzativo grazie proprio al movimento dei combattenti sardi. Ma affonda le sue radici ideologiche nella questione meridionale, nell’antiprotezionismo e nella lotta per il conseguimento della autonomia.
    Ma nel pensiero di molti sardisti vi è una contrapposizione netta a quei valori che la letteratura risorgimentale aveva cercato, già prima della guerra, di inculcare nell'animo dei Sardi. Molti furono i sardisti che parlarono di indipendentismo e quanto la base fosse propensa a condurre una battaglia in tal senso lo testimonia il successo di tale tesi nel congresso di Macomer del 1920, ed il Solco così ne sintetizza il pensiero: "Se il nostro movimento facesse crollare l’unità della patria ne saremmo felicissimi perché avremmo raggiunto ciò che è indispensabile per poter sollecitamente costruire".
    La reazione della borghesia compradora fu decisa, ciò permise allora a Mussolini di rispondere al Solco appellandosi all’amor di patria "delle generose genti di Sardegna" nella stessa misura con cui Aldo MORO oggi risponde a Michele Columbu quando rivendica per i Sardi il diritto a vivere nella loro terra affermando "tanto, prima o poi, forse presto, il problema verrà posto in termini di diritto all'autodeterminazione, anche per l'etnia sarda, ed all'autogoverno".
    Ebbene, l'errore di molti dirigenti del Partito di ieri, come di oggi, sta proprio nel non essere ancora riusciti a combattere il falso credo risorgimentale, che pure in modi e misure diversi, è presente in tutti gli altri partiti. Il Risorgimento Italiano è in antitesi con l’indipendentismo sardo. E l'autonomismo, diventato ormai parte integrante della cultura borghese, è solo causa di confusione ideologica che va a discapito dei Sardi e ne favorisce la colonizzazione. Il 1847, come premessa all’unità d'Italia, è per noi un errore di cui i Sardi si debbono ravvedere.

  4. #4
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    ILPARTITO SARDO D’AZIONE E GLI ALTRI


    Ma il mito romantico della Sardità fu tale da tenere uniti nel Partito al suo nascere forze eterogenee, finché non intervenne anche in Sardegna quella lotta politica con schemi simili a quelli del continente.
    Quali furono i rapporti del Partito Sardo con questi partiti? Al suo nascere il nostro ricevette ben pochi consensi dagli altri; lo si accusava di separatismo e nessuno di essi capiva gli altri intendimenti federalisti.
    Nell'azione dei sardisti, o per lo meno in alcuni di essi, non vi era alcuna propensione all'isolamento, anzi ritenevano indispensabile la costituzione di stati mediterranei ed italiani: quali la Sardegna, la Catalogna, la Corsica ed il Meridione d'Italia.
    Il Partito fece propria la concezione autonomistica di C. Bellieni e proiettò questa dottrina al di fuori dell'Isola per pervenire alla formazione di una Federazione di stati repubblicani. Qualcuno parlò di nuovi stamenti con rappresentanti eletti dal popolo. Si propugnò la creazione di un Partito Italiano di Azione, risultante dalla federazione spontanea dei diversi partiti regionali.
    Si era nel 1922 ed in maggio a Campobasso sarebbe dovuto tenersi il congresso per fondare il nuovo partito, ma ormai le altre regioni meridionali avevano rinunciato alle proprie istanze autonomistiche e si preparavano a confluire nel fascismo.
    Vi furono in Sardegna propensi all'autonomia anche il socialista Corsi, i popolari di don Sturzo, ed i Repubblicani.
    Gli altri partiti erano animati da presupposti puramente centristi. Ma sia questi ultimi che i primi nutrivano un odio viscerale, dovuto al loro credo risorgimentale, nei confronti del Partito Sardo.
    Lo stesso partito socialista, a livello nazionale massimalista quanto mai, accusava i meridionali di essere la palla di piombo per il conseguimento del socialismo in Italia. La dottrina quanto mai semplicistica su cui si basava era volta alla conquista dei soli operai dell'industria.
    Ma la "questione sarda" presentava, allora come oggi., aspetti ben diversi da quella meridionale, la sua insularità, e la sua precipua caratteristica di nazione sono sempre state tenute in ben poco conto e lo stesso partito socialista in Sardegna instaura un rapporto di sudditanza a quello italiano e ottiene delle effimere affermazioni solo in alcune zone, l'iglesiente minerario, i battellieri di Carloforte e gli operai del sughero delle industrie delta Gallura.
    Effimere perché oltre a trascurare la cultura agro-pastorale dell'Isola, ne peggiora in molte zone la situazione economica appoggiando sia la razzia dei boschi, che gli avidi padroni delle miniere operano, sia contribuendo a relegare il contadino ed il pastore sardo ad un ruolo subalterno in quanto ritenuto incolto perché ancorato ai sistemi medioevali e ad una forma di produzione pre-capitalistica.
    Dalla scissione di Livorno nacque il partito comunista, il cui più grande uomo di pensiero e di azione fu il sardo ANTONIO GRAMSCI. Egli, profondo conoscitore dei problemi sardi, riconobbe i grandi meriti del partito sardo e ne citò gli altri intendimenti volti a risollevare la situazione del proletariato indistintamente, fosse esso delle campagne che delle industrie.
    Il partito Sardo, ebbe, tuttavia, il grande merito di essere l'unico partito che si oppose fino all'ultimo alla fascistizzazione della Sardegna.
    In questa dura lotta, durata cinque anni, dovette attraversare momenti veramente critici per la sua esistenza, ma non tutti i mali vennero per nuocere ed il partito ne uscì ideologicamente ingigantito e più omogeneo.
    La solita borghesia compradora si era inserita nel partito ed intenta, come sempre, a conseguire il proprio tornaconto, non capì quali fossero gli intendimenti del fascismo. Molti furono quei borghesi, che dietro la maschera di fare i sardisti nel fascismo, videro la possibilità di realizzare la propria autonomia ed il proprio benessere.
    Le cooperative volute dal Partito Sardo furono subito assorbite dal sistema economico accentrato nelle mani della borghesia parassitaria. La nuova legge speciale del miliardo in favore della Sardegna premiò l'ardore della borghesia compradora passata in forze al fascismo; la Sardegna ebbe nuovi milionari ed i milioni si accumularono nelle mani più svelte e più rapaci.
    La grande massa dei Sardi visse nel più profondo squallore. Molti furono quelli che per sopravvivere si arruolarono volontari per le campagne d'Africa e di Spagna.
    Come un secolo prima con il famoso pacchetto di riforme e l'unificazione al Piemonte, anche il fascismo cala dall'alto, imposto da movimenti esterni e non dallo svolgimento delle vicende sarde.

  5. #5
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    DAL FASCISMO ALL’AUTONOMIA


    La Sardegna fu così fascistizzata e quei sardisti più prestigiosi che non chinarono la testa di fronte alla dittatura furono costretti a ritirarsi dalla vita politica o ad assaggiare i rigori del carcere o l'esilio.
    Esperienze dunque diverse modellarono la personalità di questi sardisti; da questo punto di vista il fascismo aveva ottenuto un grossissimo risultato; era riuscito a far continuare ai ribelli sardisti la lotta per la libertà e l'autonomia separatamente deteriorando quelle esperienze e quegli intenti spirituali votati al sardismo che la prima guerra mondiale così profondamente era riuscita a far penetrare nelle coscienze dei sardi.
    I frutti di questo isolamento maturarono nel subito dopoguerra. Il partito è infatti ancora presente e fedele alle sue origini federaliste; per l'autonomia conduce una grande battaglia nella Costituente con Lussu e Mastino; ma nel suo seno fra il '46 ed il ‘48 serpeggia il contrasto ideologico, personificato dai reduci delta lotta contro il fascismo.
    Fu proprio EMILIO LUSSU, che tanto aveva sofferto per l’integrità del sardismo, che la notte del 4 luglio 1948, impugnando la bandiera dei quattro mori, lascia il partito e fonda il Partito Sardo d'Azione Socialista e poi confluisce nel P.S.I..
    Fu un grande colpo per il sardismo, non si può dire che fu un errore; perché Lussu era convinto di portare il sardismo nel partito socialista e se errore vi fu, anche in questo Emilio Lussu ci deve essere maestro: solo militando nel Partito sardo si può essere veri sardisti. Ma in che modo ed in che misura? Non certo come in questi ultimi ventisette anni, durante i quali siamo stati fortemente condizionati da uno statuto regionale calato, come al solito, dall'alto, e che giustamente un Sindaco sardista nell'aprile del 1965 a Sassari in una Piazza d'Italia gremita di folla definì: un carro vecchio carico di ferrivecchi - un lunghissimo applauso fu il verdetto della gente sarda che personificava il malcontento di tutta l’isola nella ribellione del paese di Ollolai che si opponeva ad una regione sarda divenuta sede dei rappresentanti del governo neocolonialista.
    Alla maggioranza dei sardi, compresi certi militanti sardisti, sfugge che da circa dieci anni vi è un desiderio di rinnovamento nella linea ideologica e programmatica del partito. Discussioni e polemiche varie trascurano quasi questa spinta della base.
    Questo desiderio di riscossa sardista scaturisce da una seria e profonda analisi della situazione socio-culturale della Sardegna di oggi. Ma tale analisi impone una visione della cultura come esperienza di vita, per cui il passato va inserito in questo contesto come presupposto dialettico nella ricerca della nostra identità. A tal fine leggiamo il manifesto politico pubblicato dal solco nel dicembre del 1921 e vedremo quanta realtà rivestono ancora frasi come questa: "Il Partito Sardo d'Azione deve essere partito di popolo, deve ricercare di dare coscienza di se al proletariato affinché sappia redimersi spiritualmente ed economicamente…………… il partito deve rinvigorire lo spirito di classe, nella convinzione profonda che si dovrà congiungere ad un avvenire in cui tutta la produzione sarà dei lavoratori e per i lavoratori".
    Questo manifesto ci spinge a continuare l'impari lotta contro chiunque voglia la fine del partito e con esso del sardismo. Troppo lurido liquame è passato nel frattempo sotto i ponti: prima il fascismo e quindi questi ventisette anni di falsa autonomia., anni purtroppo di silenzio nel partito, che ha visto dolorose diserzioni, anni di completa acculturizzazione, anni che segnano l'ingresso della Sardegna, quale regione emarginata, nel sistema nazionale e ne hanno deciso la definitiva integrazione coloniale.
    L'intera isola è ormai sconvolta ed è diventata campo di battaglia e di sfide politiche in cui si fa largo uso di frasi fatte, nate da movimenti di lotte anticapitaliste; lotte inserite in un contesto reale lontano da quello sardo.
    In Sardegna ora anche la lotta per l'autonomia ci cala dall'alto assieme alla civiltà dei consumi, con la droga, con le industrie inquinanti e ci acculturizza incoscientemente.
    Se la Sardegna è una nazione, e lo è perché ha una sua cultura, una sua lingua, una sua ben precisa identità ben poco le si addice la somministrazione di una tale cultura., che, in quanto non sua genera confusione, lotte fra poveri in favore di chi è votato all'ingordo arricchimento ed in sintesi alla scomparsa dei sardi dalla Sardegna.
    Invece vediamo l'intera isola assorbita da questa pseudo cultura ed a certi livelli si discute di alleanze fra ceti medi e proletariato, dimostrando spesso poca chiarezza.
    Chi sono i proletari sardi? Sono la maggior parte dei minatori, dei contadini, dei pastori e dei pescatori, i quali al pari degli avventizi delle imprese appaltatrici sono dei sottoccupati, degli sfruttati dal capitalismo e vivono in condizioni di vera e propria sussistenza.
    I ceti medi sono invece tutti coloro i quali si trovano al di sopra della situazione di dover lavorare per la sola sussistenza e su di essi non pende la spada di Damocle detta emigrazione. Ecco è all'interno dei ceti medi che deve avvenire una certa differenziazione. Vi è una prima categoria di ceti medi, che lavora e produce, e, senza sfruttare i suoi simili, da un certo contributo allo sviluppo sociale e vede nel capitalismo europeo ed italiano l'attentatore per il suo inserimento nel più ampio contesto sociale dei lavoratori-produttori.
    Questi ultimi sono: operai dell'industria madre, contadini e pastori inseriti nelle moderne aziende cooperativistiche, pescatori, imprenditori illuminati (pochi).
    Vi è poi una seconda categoria di ceti medi e sono quelli che fanno parte della borghesia parassitaria, assolutamente assente dal contesto lavorativo e che sfrutta la produzione dei primi e del proletariato. Essi sono i degni intermediari del sistema capitalista e la loro arma più valida è la corruzione ed il clientelismo.
    A questo punto è opportuno fare un chiarimento sugli intellettuali. Intellettuali progressisti sono quelli che non legano il contadino al grande proprietario terriero, il quale si vergogna di fare l'agricoltore ed è combattuto da due sentimenti contrastanti: lo sfruttamento fino all'osso del contadino e del pastore e l'atavica paura che questi ultimi gli portino via la proprietà. Il ricco possidente esce da questo dualismo diventando l'abile intermediaro del politicante corrotto e del capitalista settentrionale; i figli di questi proprietari sono quegli intellettuali, che asserviti al sistema, fanno della loro categoria una classe, fanno proseliti fra gli altri e, seguendo i consigli paterni, diventano i fautori del clientelismo. Il vero intellettuale di sinistra è oggi il figlio del coltivatore diretto, del minatore, del pescatore e del pastore che transumando qualche centinaio di pecore, in situazione di vera e propria sussistenza, lo ha reso partecipe delle fatiche e delle sofferenze del proletariato sardo; questo figlio è diventato un intellettuale, che, formatosi nella vera cultura sarda., si batte oggi per portare il contadino ed il pastore sardo verso dimensioni più consone
    al vivere civile, in modo che dire contadino e pastore non sia più sinonimo di servo della gleba. Ma la sua formazione è tale da vedere nelle alleanze fra lavoratori-produttori ed il proletariato la via per la soluzione della questione sarda.
    In Sardegna assurge dunque a lotta di classe quella che i lavoratori-produttori, il proletariato e gli intellettuali progressisti devono condurre contro la borghesia sarda compradora e contro i capitalisti colonizzatori.
    Tutto ciò può essere conquistato con la lotta sardista. Cosa dobbiamo intendere per sardismo: SARDISMO E' LO SPIRITO RINNOVATORE, CHE GUIDA I SARDI NELL’ESALTAZIONE DI QUEI VALORI UMANI COMUNI A TUTTI I POPOLI OPPRESSI, NELLA SUBLIME LOTTA A DIFESA DELLA PROPRIA UNITA’ ETNICA, STORICA, ECONOMICA E VOTATA QUINDI ALLA CONQUISTA DELLA PROPRIA LIBERTA’, DELLA COSCIENZA DI NAZIONE E DEL SUO DIVENIRE SOCIALISTA.
    ANTONIO SIMON diceva: "Il fine ultimo del Partito Sardo non è il solo conseguimento dell'autonomia, ma soprattutto il principio del socialismo rivoluzionario mondiale applicato al popolo sardo".
    Cosa significa ciò: non certo far calare nella nostra realtà le diverse sfumature del marxismo degli altri paesi. E' questo che ci deve contraddistinguere dai socialisti, dai comunisti e dagli extra parlamentari. In essi vi è il tentativo più o meno consapevole di voler calare in Sardegna il marxismo italiano.
    La loro tattica si basa sul metodo deduttivo: voglio partire dal generale (internazionalismo) per discendere nel particolare (regionalismo). Vogliono in sintesi calare l'idea nella realtà (idealismo). In noi vi è un procedimento induttivo, vogliamo partire dalla realtà sarda e ricavare in funzione di questa l’ideologia che le è propria; IL SARDISMO COME ATTUAZIONE DEL MARXISMO IN SARDEGNA. Si deve cioè pervenire al riconoscimento economico, politico, culturale della nazione sarda., libera ed indipendente ed abbattere lo strapotere del capitalismo italiano ed europeo. Risaliremo quindi autonomamente all’internazionalismo come alleati di tutti i popoli oppressi per sconfiggere l'imperialismo mondiale. Ma a questo potremo pervenire nella misura in cui nella lotta porremo unità d'intenti per conquistare innanzitutto l'autonomia statuale.

  6. #6
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    AUTONOMIA STATUALE E RISTRUTTURAZIONE AMMINISTRATIVA


    Che cosa è l'autonomia statuale?
    All'art. 1 del nostro statuto si legge: "IL Partito Sardo d'Azione è una libera associazione di tutti coloro i quali vogliono unirsi allo scopo di costituire una forza politica che abbia come meta l'autonomia statuale della Sardegna... ".
    Lo spirito che ha dettato questo articolo alberga in uomini che hanno alto il senso della democrazia. Autonomia significa democrazia, la quale non si può solo fermare alla semplice libertà di stampa e di parola; la libertà dei popoli si esprime mediante l'autodecisione a governarsi nel pieno rispetto della personalità di tutti i cittadini-lavoratori; statuale è il contrario di accentramento. E tutti quei partiti che si nascondono dietro il dito della unità nazionale vogliono essere i soli arbitri dell'avvenire del popolo ed i soli detentori del potere.
    La Sardegna dunque si deve autogovernare e deve poter decidere autonomamente nei settori vitali per il proprio sviluppo, sempre nel rispetto della costituzione italiana, come pubblica istruzione, demanio, industria e commercio, agricoltura e pastorizia, turismo, servizi sociali.
    Ma la vera autonomia va realizzata a partire da quella dei Comuni e quindi da una ristrutturazione e moralizzazione di questi enti. Tale ristrutturazione va attuata in due temi. In primo luogo si deve dare la massima valorizzazione ai Comuni e quindi sostituire con i distretti le province.
    Ma prima di inoltrarsi in esposizioni di pura tecnica programmatica, si deve analizzare alla luce di certe ricerche sui redditi in quale posizione ci troviamo nel contesto dell'economia europea e mediterranea. Claudio Napoleoni, docente di economia politica alla Università di Napoli., nella sua opera "IL PENSIERO ECONOMICO DEL ‘900" ritiene che il 70% della popolazione mondiale è sottosviluppato. In che posizione inseriamo la Sardegna che ha un reddito annuo pro capite di circa seicentomila lire? Senz'altro fra i paesi sottosviluppati: infatti il reddito annuo dell'Italia continentale è più alto del nostro e molti economisti discutono se l’Italia sia la prima dei paesi afro-asiatici o l'ultima dei paesi europei; il ruolo che compete alla Sardegna è dunque quello di paese eternamente sottosviluppato. L'economia sarda è condannata a restare stazionaria dal così detto "circolo della povertà".
    Vedremo ora di spiegare che cosa intendiamo per tale circolo: La prima causa che determina il basso reddito pro capite è il lavoro poco produttivo, il quale a sua volta è determinato dalla esiguità dei mezzi tecnici atti a potenziarlo sia qualitativamente che quantitativamente. Per poter disporre di validi mezzi tecnici cono indispensabili notevoli capitali, per avere i quali è indispensabile la eccedenza della produzione sul consumo necessario, ma tale eccedenza è esigua proprio perché il reddito pro capite è basso ed ecco che il ciclo si chiude.
    Inoltre è da aggiungere che nel nostro caso questa esigua eccedenza è destinata al consumo dei prodotti propinatici con mille astuzie dai centri di potere capitalistici.
    Per poter attuare la rottura di tale circolo si deve elevare la produttività e lo si può fare in due modi: uno con uno sviluppo in profondità, cioè tale da richiedere una trasformazione qualitativa nelle strutture della produzione; un altro è uno sviluppo in estensione, il quale richiede il solo aumento del numero occupati con lo stesso reddito alquanto basso e con il conseguente aumento dei fondi naturali.
    Riteniamo di dover preferire il primo ed arrivare al secondo per gradi; ma per poter applicare il primo è indispensabile l'applicazione di tecniche moderne, le quali possono essere realizzate solo se si sfruttano i mezzi che la tecnica industriale ci pone a disposizione, l'impiego dei quali richiede valide infrastrutture: quali strade, invasi idrici, elettrificazione etc..
    Ecco dove il Comune deve essere messo in grado di intervenire e contribuire alla crescita economica della comunità.
    Ma in che modo? Il metodo attuale si ispira a quel tipo di protezione paternalistica, per la quale ottengono maggiori finanziamenti i protetti dal paternalismo e vengono trascurati quei Comuni che all'assessore tizio alle ultime elezioni ha procurato pochi voti.
    Ma questa è la peggiore forma di clientelismo, arricchito da favoritismi e da manovre volte soprattutto a perpetuare il potere di quella classe dirigente, che si avvale di questo mezzo di corruzione per poter continuamente creare quegli strumenti di sopraffazione che la rendono padrona. In questo modo i veri problemi restano insoluti perché si è costretti a servire solo interessi di varie cricche e clientele.
    Così non esiste più la programmazione. Noi dobbiamo combattere tutto ciò che
    è corruzione e lavorare in funzione della programmazione, che è etica sociale ed è soluzione organica e razionale dei problemi economici e sociali. Si deve quindi fare in modo che quanto è destinato ai diversi settori della produzione e dei servizi sociali sia ripartito fra i comuni in proporzione al numero degli abitanti e delle loro reali esigenze, perché essi nell'arco di un quinquennio realizzino quelle infrastrutture a suo tempo programmate, (vi sia cioè una legge simile alla L.R? n° 9 delle opere pubbliche, anche per gli altri settori della economia e delle esigenze sociali).
    Riteniamo doveroso che il partito si batta perché si realizzi un simile metodo di finanziamento ai Comuni; in modo che si elimini quella sudditanza di tipo medioevale dianzi citata e si imponga al bilancio un indispensabile equilibrio fra entrate e uscite, si ponga fine alla creazione dei mutui che negli ottomila Comuni d'Italia hanno fortemente contribuito a realizzare quei passivi e causare l'attuale crisi economica; infine si realizzi una indispensabile autonomia degli enti locali.
    Ed è alla luce di questi fattori che dobbiamo sensibilizzare al problema gli altri partiti di sinistra e condurre con essi una battaglia in tal senso.
    In secondo luogo si dovrebbero abolire le province, sostituirle con i distretti, che sono quelle aree geografiche della Sardegna alle quali storicamente compete il riconoscimento di capoluogo, quali: Carbonia, Iglesias, Ozieri, Olbia., Tempio, Alghero, Macomer, Lanusei, etc.. A questi distretti dovrebbe competere il ruolo di assolvere ai servizi amministrativi, previdenziali. scolastici; ma soprattutto attraverso un consiglio di distretto dovrebbero coordinare i programmi dei diversi comuni della zona, formulando a loro volta programmi organici di sviluppo economico e sociale; attività atte a frenare l'incessante esodo dalle campagne verso la città, che dà luogo al grave fenomeno dell'urbanesimo a discapito delle zone interne e periferiche della Sardegna.
    Questi consigli distrettuali devono partire da una visione chiara della zona nella quale operano e per la maggioranza di essi è indispensabile il rilancio della agricoltura e della pastorizia. Per l’intera Sardegna esse sono le strutture portanti dell’economia, mentre industria e turismo costituiscono con l’artigianato valide attività collaterali.
    E' indispensabile dunque un grosso passo in avanti per portare l’agricoltura e la pastorizia su posizioni economicamente più valide, si deve operare una scelta che le inserisca su posizioni sociali più avanzate che crei il cittadino lavoratore, inserito in una grande azienda a dimensione industriale.
    I distretti studiano le colture più idonee per ogni zona., diano impulso alla costituzione di cooperative, i cui soci vi entrino come azionisti-lavoratori.
    La cooperazione per noi deve essere un punto fermo, capace di sradicare l'individualismo e il clientelismo.
    All'ente di sviluppo bisogna attribuire mansioni diverse da quello di carrozzone al servizio del partito di maggioranza, deve invece assistere i cooperatori sia all'atto di costituire la società con adeguate analisi di tecnica agraria e commerciale che con la continua consulenza in seguito.
    Nei distretti e nei comuni deve attuare una attiva ricerca idrica, costruire invasi e strade interpoderali.
    L'industria deve essere quella che trasforma i prodotti della agricoltura e della pastorizia.
    Per la pesca si può ripetere il precedente discorso.
    Quando parliamo di aziende a dimensioni industriali intendiamo oltre a questo anche che i lavoratori abbiano il normale orario di servizio, le varie assistenze mutualistiche, le pensioni ed il salario garantito per tutti i mesi dell'anno. Solo così i giovani torneranno al lavoro dei campi e del mare quando agricoltura, pastorizia, pesca assumeranno posizioni più civili e, più consone alla personalità dei lavoratori.
    La Regione a questo punto con la sua autonomia statuale deve assumere il compito di coordinamento, di stimolo e di aiuto nei diversi settori di autonomia dei Comuni e dei Distretti; tale ruolo si presenta come decisivo solo se i Comuni ed i Distretti sono in grado di preparare piani comprensivi ed articolati, altrimenti, se si continua a riversare sui singoli o sui poteri centrali la responsabilità dello sviluppo, la nostra situazione economica continuerà a regredire.

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    LA SCUOLA E LA CULTURA IN SARDEGNA


    Ma tutto questo avrà dei risvolti positivi nella misura in cui una profonda analisi della situazione economica ed una adeguata programmazione verrà strettamente collegata ad una programmazione culturale con conseguente presa di coscienza sindacale del lavoratore-produttore e dell'intellettuale sardo.
    La scuola deve occupare un posto di primaria importanza in una società che
    desidera evolversi. Invece nell'intero contesto di piani di rinascita la scuola è stata la grande assente. Perché mai? Per ignoranza? No! Non crediamo di essere i soli a conoscere i problemi della nostra Isola. Le ragioni sono ben più profonde ed investono l'intero sistema coloniale. La nostra società, si è già detto, è costituita da contadini , pastori, pescatori, minatori sempre trascurata, sottoposta a strutture rigide, in cui ha valore la sola esperienza della classe dominante, che agisce a senso unico, verticalmente, ed impone un controllo dall'alto autoritario o paternalistico. Questa classe vive completamente avulsa dal contesto reale della società sarda, considera la cultura un lusso di cui sono pochi i depositari, ed è cultura la sola conoscenza di quei valori, che le sono propri e le hanno consentito di prevalere sulle altre componenti sociali ritenute incolte.
    La Scuola, così controllata e condizionata da questa classe, è rigidamente selettiva, centro privilegiato in cui si trasmette una cultura codificata; meta e termine del lavoro svolto è l'acquisizione del titolo di studio e mezzo per poter ottenere un impiego. I giovani sono soggetti passivi, sono condizionati nelle scelte dalla casta sociale della propria famiglia, si formano all'ombra di modelli imposti. Non si deve turbare la loro coscienza con l’ampia vista delle deformazioni ideologiche che agitano la vita sociale. La scuola deve essere neutrale, atta a plasmare l’animo dei giovani mediante la trasmissione dei valori perenni della cultura dominante.
    Ma tutto questo è frutto di una ben precisa scelta politica che è propria di coloro i quali vogliono che la scuola sia strumento di conservazione del loro potere ed in ultima analisi consona ad aprire le porte al fascismo.
    La cultura è invece esperienza di vita, è rispetto delle etnie, è mezzo di consolidamento della unità sociale comunitaria, incontro e non scontro fra le diverse componenti sociali, è in sintesi la valorizzazione e l'elevazione di tutti gli oppressi verso dimensioni più umane atte a renderli protagonisti con gli altri delle vicende della loro comunità.
    La scuola dunque da istituto isolato deve diventare "ambiente" in cui i giovani si formeranno e svilupperanno la loro personalità attraverso contatti e scambi ininterrotti fra di loro e con la comunità in quanto membri di essa. Il mezzo più efficace per questo scambio è la lingua la quale è soprattutto l'elemento caratterizzante l'etnia e quanto la nostra scuola sia dissardizzante è dimostrato dal divieto di usare il sardo nella scuola dell'obbligo.
    Questo viene mascherato da falsa ignoranza, gli italiani (e non così linguisti di Europa e d'America) ritengono il sardo un loro dialetto, tale quindi da turbare un corretto apprendimento della "loro" lingua. Ma questa è spudorata ipocrisia, atta a mascherare il processo di colonizzazione culturale che da secoli ci viene imposto dai diversi dominatori. La scuola "tosco-piemontese" (questa è la scuola italiana) presenta, attraverso la storia, eroico ciò che è vile per noi sardi, ed, attraverso le letterature, lingua madre quella che non è neppure matrigna.
    Partendo dalla lingua si può superare la "colonizzazione culturale", la quale è ben peggiore di quella politica ed economica, in quanto la coscienza della cultura sarda ci dà coscienza della nostra sardità e volontà per superare i vincoli della schiavitù economica e politica.
    Per la ristrutturazione economica Marx parla di "plusvalore" che è l'accumulo di ricchezza prodotta dall'operaio e permette al capitalista di perpetuare lo sfruttamento delle classi più deboli; Sergio Salvi cita invece un articolo di Barbiellini sul "Corriere della sera" in cui si parla di "minusvalore" che è "l’immenso patrimonio linguistico culturale e spirituale prodotto dagli uomini e sottratto a questi dal sistema". A questo punto possiamo notare quali solchi il fascismo ha inciso nello spirito degli italiani, il concetto risorgimentale così caro a tutti, i regimi di patria e di nazionalismo, alberga ancora nell’animo di tutti i leaders politici ed in nome di questo sacro fuoco nazionalista soffocano la cultura di tutte le minoranze etniche.
    Noi sardisti dobbiamo elevare a nostro precipuo credo la "rivoluzione culturale" perché la cultura è l'anima di un popolo e la "Roma" attuale, incurante degli articoli 3 e 6 della Costituzione., vuote sradicare per mezzo della scuola il vero spirito del popolo sardo.
    L'autonomia statuale deve dunque darci una scuola veramente sarda netta quale trovi spazio anche la sua cultura con la sua lingua. Una nuova scuola dunque, non quella tradizionale costituita dai licei, istituti tecnici, che già superati in campo nazionale, in Sardegna sono stati sempre ai margini della situazione socio-culturale. La scuola, per essere tale, deve inserirsi nella società e non essere emarginata, deve giocare un ruolo fondamentale nella rinascita del popolo sardo. Vi deve essere una corrispondenza biunivoca fra attività economica e culturale.
    Vediamo come.
    AGRICOLTURA E PASTORIZIA: abbiamo parlato di cooperative; in seno ad esse devono sorgere scuole professionali per specializzare contadini e pastori verso una più razionale produzione, in modo che tutti coloro i quali la frequentano siano a contatto con la loro realtà ed il diritto al lavoro sarebbe assicurato dal successivo inserimento nell'azienda. La presenza della scuola permette di sperimentare nuove colture o modi di produrre, attuando così la ricerca anche nell'agricoltura e pastorizia.
    L'UNIVERSITA': se esiste in Sardegna un Istituto completamente al di fuori del nostro contesto reale o peggio, che si pone su di un aureo piedistallo di nobile isolamento, questo è l'istituto universitario. Deve invece attraverso le organizzazioni UNESCO e FAO costituire un legame tra il mondo del lavoro sardo e l'intera comunità europea e di mediterranea; deve portare il suo contributo fattivo in seno alle cooperative con specifiche attività di ricerca. Anche le facoltà di fisica e di ingegneria, oltre a tutte le altre, possono fortemente contribuire a questo sviluppo.
    Per L'INDUSTRIA va esteso lo stesso discorso, Carbonia per esempio doveva risorgere come città industriale, ha tutte le scuole tranne quelle a specifico in dirizzo industriale; ma i tecnici e la manodopera specializzata vengono importati dal continente, mentre il Sulcis pullula di geometri e ragionieri disoccupati; una simile scuola, che viene avulsa dal contesto reale e serve solo come area di parcheggio per i disoccupati, è da noi respinta. Inoltre le industrie esistenti devono essere potenziate con quelle manifatturiere che garantiscono una maggiore occupazione. Il nostro carbone deve essere utilizzato; così era nei nostri intendimenti nel creare la supercentrale per sfruttare adeguatamente le nostre risorse del sottosuolo e poter produrre autonomamente energia, che ci avrebbe posto in condizioni di preminenza nella produzione industriale.
    Ma la nazionalizzazione ha mandato all'aria i nostri piani e le altre forze politiche isolane, a parte i comunisti, ci hanno lasciato soli a condurre una battaglia che strideva con gli orientamenti politici ed economici del centro di potere; infatti, le miniere sono state chiuse e le centrali funzionano con il petrolio importato; ma che favorisce i vari Monti., Rovelli e Moratti.
    Il tutto va inserito netta ricerca assidua della salvaguardia ecologica: è un grido di allarme che noi lanciamo innanzitutto è in grave pericolo la nostra salute, quando facciamo i bagni o mangiamo prodotti inquinati. In secondo luogo il danno economico che subiscono contadini, pastori, centri turistici e pescatori e l’irrazionalità di questi insediamenti mette altamente in forse la loro sopravvivenza.
    Molte industrie immettono nelle nostre acque grosse quantità di benzopirene, fenoli, idrocarburi derivanti dal petrolio ed altamente cancerogeni; enormi quantità di idrogeno solforato e di composti di azoto e fosforo provocano in superficie uno sviluppo eccessivo di plancton., il quale produce altre sostanze organiche che esauriscono,ulteriormente la quantità di ossigeno contenuto nell’acqua; viene meno così l'evaporazione con conseguente siccità, si pone fine alla vita dei mari e si pongono i nostri lavoratori-produttori in condizioni fallimentari; altro che aumento della produzione. A questo va aggiunto il fatto gravissimo degli scompensi sociali che le cattedrali nel deserto arrecano, dobbiamo cercare di bonificare questo deserto con lo sviluppo di insediamenti legati strettamente all'ambiente. Queste industrie al di là della bonifica creano grossi scompensi economici, lotte fra lavoratori sardi ed italiani (che cadono nella rete del privilegio padronale) e fra lavoratori dell'industria e delle campagne. La risultante di tutto ciò è l'emigrazione con un numero di diecimila deportati all'anno.
    Anche in questo campo la scuola deve occupare un posto di primaria importanza: negli istituti nautici devono sorgere centri oceanografici atti alta ricerca per garantire la salvaguardia ecologica e la conservazione del patrimonio ittico. Si instaurino inoltre centri di assistenza tecnica per tutti i pescatori che si riuniranno in cooperative.
    Anche per il turismo è indispensabile una certa razionalità.
    Finora tutti gli insediamenti prescindono da una adeguata specializzazione e la sete di guadagnare molto ed in fretta impera ovunque con l'improvvisazione. Mancano le scuole tecnico alberghiere.
    Tutte queste scuole, in quanto sarde, devono essere dirette dalla Regione.
    A questo punto per noi è indispensabile la eliminazione dei consigli provinciali, voluti dai decreti delegati, e la creazione di consigli regionali scolastici.
    La legge nazionale per lo stato giuridico (la 447) deve essere fatta nostra e l'assunzione degli insegnanti deve avvenire in conformità di essa e non con la presentazione della tessera del partito di maggioranza; ma lo stesso-corpo insegnante deve essere preparato ad affrontare questa scuola; si deve eliminare la pendolarità da una sede all'altra e dare un punteggio preferenziale alla residenza di almeno dieci anni in Sardegna. Si promuovano dei corsi di aggiornamento residenziali per garantire una profonda conoscenza della realtà e della lingua delle zone ove operano. Solo così la scuola può costituire il fondamento della nostra rinascita.
    Riteniamo che nel nostro contesto questi principi siano di capillare importanza. Crediamo più nella rivoluzione di pensiero che di massa, crediamo nella educazione dei popoli.
    Nell'ambito dell'economia capitalista europea la Sardegna è destinata a diventare area di parcheggio, di riposo e di servitù militari, che ci pongono in posizione di sottomissione impedendo ogni forma di evoluzione. I sardi non debbono reagire con la ribellione armata, ma con la rivoluzione culturale. Sarà un processo forse più lento, ma più efficace.
    La violenza nell'attuale situazione politica non serve, va ripudiata senza mezzi termini. In proposito il pensiero di EMILIO LUSSU nel 1969 era: "Non si gioca all'insurrezione. L'insurrezione è un fatto storico subordinato alle condizioni obiettive e soggettive del popolo che le esprime. Se si violano questi principi l'insurrezione è un'avventura che fornisce le armi allo scatenarsi della reazione fascista".

  8. #8
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    I SINDACATI E LA SARDEGNA


    Al partito in questi ultimi cinquantaquattro anni non è stata associata una sana organizzazione sindacate, atta a tutelare gli interessi del lavoratore sardo, il quale è rimasto in balia di se stesso o di quei sindacati che sempre hanno curato gli interessi dell'operaio dell'industria e mai quelli del servo pastore o del bracciante agricolo o del pescatore sardo.
    Il sindacato, inteso nella sua vera accezione, è l'espressione più genuina della base, la quale è la sola capace di intendere certe esigenze e rivendicare soluzioni idonee al proprio contesto reale. La presenza del sindacato avrebbe rinvigorito l'azione politica del partito.
    Il mondo agro-pastorale del centro Sardegna, per esempio, è giudicato a torto arcaico, ci viene presentato quasi reazionario; invece è aperto e propenso a tutte le trasformazioni sociali, purché non vengano imposte dall'alto. In esso se stiamo attenti, e se lo ascoltiamo con modestia vi è la volontà di non cadere nella rete della proprietà borghese, che ha sempre portato a grossi conflitti non solo con i rappresentanti della legge allo stato colonizzatore, ma purtroppo a lotte fra contadini e pastori. Essi sono favorevoli alla regionalizzazione delle terre, che comunità per comunità andrà gestita dai contadini e dai pastori in forma associazionistica, che nata dalla base, non cada nell'errore del cooperativismo dall'alto.
    La falsa autonomia di questi ultimi ventisette anni è stata l'arma più valida in mano alla borghesia sia capitalista per tentare di asservire al sistema quelle comunità dell'Isola che fieramente sempre si erano opposte a qualsiasi tipo di invasione.
    Un esempio lampante quanto clamoroso è la mega porcilaia che una società denominata RASS. fondata da oscuri imprenditori d'oltre Tirreno, vuole insediare in Planargia.
    Essa è la triste sintesi di tutti quegli insediamenti che hanno il precipuo scopo di estromettere i sardi dalla Sardegna e rendere l'isola la pattumiera del mediterraneo.
    Infatti:
    1° ) darà lavoro a non più di 500 persone, ma nel frattempo lo toglierà a 1.000 famiglie, nello stesso modo cioè degli insediamenti di Portovesme – Ottana - Porto Torres ecc. che privi delle industrie manifatturiere hanno creato un forte scompenso socio-economico fra le zone industrializzate e quelle agricole;
    2° ) 500 mila suini costituiranno una catastrofe ecologica, infatti inquineranno nella stessa misura di 9 milioni di abitanti, cioè come avviene per i fanghi rossi dell'Eurallumina, gli idrocarburi delle industrie petrolchimiche di Sarroch e Porto Torres che pongono in grave crisi la pesca ed il turismo e ne bloccano un eventuale sviluppo di massa.
    3° ) diventerà padrona di una vasta area della nostra isola, chiudendola a qualsiasi sviluppo come le basi militari sparse per la nostra isola a cominciare da La Maddalena con gli inquinamenti radioattivi e finire con Teulada che chiude una vasta costa al Turismo ed alla pesca.
    Tutto ciò avviene inoltre con un finanziamento statale di 156 miliardi in contrapposizione agli 80 destinati per il piano della pastorizia e da spendersi in 10 anni.
    La Regione è contraria ma il C.I.P.E. è favorevole e ben poco conta la volontà dei sardi, i quali sono contrari ad esclusione dei compradores, che conducono la loro ennesima battaglia per vendere ad altri la nostra isola.
    Sono questi alcuni sindaci i quali cercano di presentare il tutto su un aureo vassoio, il quale nasconde tuttavia il marciume dell'ignoranza e dell'ingordigia del capitalismo.
    Un nostro sindacato, voluto come unione dei proletari, dei lavoratori produttori e degli intellettuali sardi è il mezzo più idoneo per opporci a queste deleterie perversità del sistema capitalista. E' soprattutto il sistema coloniale che dobbiamo combattere e non questo o quel partito in quanto ciascuno ne può essere l'espressione.
    Deve essere il popolo sardo nel suo interesse a risolvere i propri problemi, e non vi sarà soluzione per questi finché si crederà nella calata da Roma di questa o quella Commissione d'inchiesta o nella salubrità di un "pacchetto di leggi speciali" volute per tenerci asserviti al sistema.
    I nostri contadini ed i nostri pastori sono infatti facile preda dei raggiri intessuti dai Consigli di amministrazione del Nord; nessun Sindaco li assiste e la borghesia sarda presenta il tutto come una sua vittoria. E' la vittoria dell'ingordo, del prepotente, è la vittoria dell'egoismo, è la vittoria di tutti quelli che vogliono la fine della vita dei sardi in Sardegna, fra qualche decennio il petrolio sarà solo un ricordo ed allora con l'agricoltura e la pastorizia seriamente compromesse, unica soluzione sarà l'emigrazione in massa di tutti i sardi.
    La nostra terrà non sarà più l'Isola dei nuraghi, simbolo di una civiltà millenaria e dello spirito indipendentistico dei padri sardi, ma sarà anche l'Isola delle altissime ciminiere spente, degli enormi caseggiati cadenti, quale simbolo della colonizzazione economica e culturale di un popolo.
    Il partito deve dunque affiancare alla sua opera quella di un sindacato, il quale al di là delle mire corporativistiche, deve inserire la sua politica in quella più ampia delle confederazioni, le quali con le diverse vertenze regionali possono, se adeguatamente guidate, superare con una certa politica autonoma certe rivendicazioni esclusivamente settoriali per inserirsi in un più ampio contesto sociale a difesa delle classi più deboli. Perciò si deve porre fine alla ormai superata politica del rapporto di forza, la quale nel sistema capitalistico ha buon giuoco e favorisce quei lavoratori che hanno un maggior potere contrattuale, ma crea grossi squilibri fra i lavoratori stessi. Le categorie più fortunate approdano, quindi, alle invitanti sponde della borghesia.
    Si deve sensibilizzare la base verso quella unità sindacale in cui i problemi di una categoria diventano problemi di tutti; per esempio, da una analisi socio-economica risulta che i contadini ed i pastori sono le classi più trascurate, ebbene la lotta di tutti deve essere volta a portar loro sulle stesse posizioni, degli altri lavoratori. Un'ultima osservazione è rivolta ai servizi sociali; per essi e per chi lavora si deve combattere unitariamente, in quanto gli scioperi spesso a tempo indeterminato in questi settori creano gravi danni ai cittadini ed in misura maggiore alle classi meno abbienti; ponendo così in forse l'unità gramsciana del proletariato e lasciando libero sfogo alla reazione fascista, che incurante dei problemi della categoria e della disorganicità del servizio, reclama la regolamentazione dello sciopero, per mezzo del quale verrebbe vietata qualsiasi tipo di rivendicazione in questi settori.

  9. #9
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    SARDISMO E FEDERAZIONE DI STATI MEDITERRANEI

    A questo punto si leveranno le accuse di separatismo, molte in buona fede perché ormai hanno assorbito dall'imposizione culturale della scuola italiana il credo risorgimentale dell'Italia unita, altri in malafede perché fa loro comodo una terra da sfruttare. Ai primi soprattutto si deve ricordare ciò che diceva un grande meridionalista: "Quando l'autonomia fallisce l'unica via è il separatismo". Noi saremo propensi a parlare di indipendentismo. Il nostro obiettivo è l'abbattimento del sistema coloniale.
    Lo Stato italiano infatti con la sua cronica abitudine di firmare trattati e di non concretizzare ciò che ha prima firmato, calpesta i principi sanciti dagli articoli 3 e 6 della Costituzione e "La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo" proclamata nell'assemblea generale dell'ONU il 10.12.1948, così come non applica i principi della "Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali" firmata a Roma il 4 novembre 1950; questa dispose": "sono protette le libertà fondamentali la sicurezza personale il diritto all'istruzione il diritto di proprietà l’uguaglianza di fronte alla legge: il tutto, senza distinzione di sesso, di razza., di lingua, di religione, di opinione, di origine nazionale o sociale, di appartenenza ad una minoranza linguistica".
    Alla luce di questi dettami vorremmo chiedere agli inquirenti del SID, chi è il Separatista? Lo Stato Italiano con i suoi governanti e partiti nazionali? O il Partito Sardo d'Azione che si batte per l'applicazione dei principi, per la salvaguardia della libertà dei popoli?
    A questo punto è indispensabile chiarire certi concetti sulla nazione, sul colonialismo e sull'imperialismo e quello di federazione di stati indipendenti.
    Vi è chi intende la nazione come la totalità delle genti sottoposte alle stesse leggi ed alla medesima sovranità politica, cioè lo Stato. Noi invece in tendiamo per nazione quella unità etnica, cosciente di una propria peculiarità ed autonomia culturale, che privo di sovranità politica non sono Stato. (Etnia significa aggruppamento umano basato sulla presenza di caratteri somatici, culturali, linguistici comuni). In questo ultimo contesto sono nazione il popolo dei Baschi, dei Bretoni, degli Irlandesi, dei Catalani, dei Corsi, dei Sardi,ecc. Purtroppo sono "nazioni proibite" o per meglio dire colonie di altri Stati, formatesi nel tempo non per autodecisione dei loro componenti, ma perché conquistate con le armi. Alcuni di questi stati si sono formati nel periodo precedente la Rivoluzione Francese, altri si sono costituiti in seguito, come quello italiano, grazie alle mire, espansionistiche della borghesia nata sulle ceneri del feudalesimo.
    La nazione sarda, debole militarmente è stata conquistata prima con le armi e poi trattata come merce di scambio fra stati belligeranti, ha visto succedersi diversi padroni che sempre si sono serviti dei "compradores" sardi per imporre nuove leggi, nuova lingua, nuova cultura e rinnegare tutto ciò che preesisteva perché ritenuto inferiore. Il nuovo stato italiano borghese la ritiene terra da sfruttare e la sottopone alle ferree leggi della borghesia capitalista; è in sintesi una sua colonia.
    Dalla precedente analisi sardista si è visto come rompere le catene del colonialismo il cui primo passo è la conquista dell'autonomia statuale. Ma la nostra lotta non può fermarsi qui, perché se riuscissimo a scacciare i colonizzatori capitalisti e la borghesia compradora sarda, avremo latente nel Mediterraneo e nell'Europa l'imperialismo capitalista. Dovremo quindi continuare la nostra lotta a difesa dei popoli oppressi come noi e con essi sconfiggere definitivamente la borghesia capitalista che non vuole riconoscere anche la loro identità nazionale. Il gioco della borghesia vuole la concorrenza interna per acquistare sempre maggiore spazio; ormai siamo giunti al punto in cui questi spazi sono troppo angusti ed i rapporti troppo stretti per contenere le ricchezze prodotte; gli Stati più forti creano la crisi e, siamo all'imperialismo, assoggettano i più deboli distruggendo una grande quantità di forze lavorative. Uno di questi è l'Italia in cui vediamo l'imprenditoria capitalista locale soccombere e cedere nel torchio delle multinazionali, delle quali sono gregari i vari ministri di centro destra e centro sinistra; siamo ad una nuova Jalta: quella economica. Ma allo sviluppo della borghesia capitalista si deve contrapporre l'autocoscienza dei popoli ed il loro diritto all'autodeterminazione. Gli italiani devono cercare di dare anche essi all'Italia la sua autonomia statuale, con un governo centrale che coordini il lavoro di Comuni e Regioni veramente autonomi, con la Sardegna costituitasi in "Repubblica popolare federata alla Repubblica popolare italiana".
    Anche le altre nazioni devono partire da una chiara analisi socio-politica, si costituiranno quindi altrettante repubbliche popolari per pervenire alla "Federazione Socialista Europea e Mediterranea".
    Per questi motivi il Partito Sardo, nella sua lotta contro il colonialismo operato dagli stati capitalisti dell'Europa Occidentale a danno dei patrimoni etnico-linguistici, culturali delle varie nazioni, combatte per le "vie nazionali al socialismo" e chiede "la solidarietà di tutte le forze democratiche socialiste".

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    PER CONOSCERE -

    andrea fresi :ANALISI STORICA DELLA SOCIETA' SARDA (E P.S.D'AZ. - OGGI)

    EDIZIONI SARDISTE ORISTANO via Mazzini 79
    DIRETTORE RESPONSABILE: Italo Ortu
    NUMERO UNICO - Agosto 1977

    a cura del PARTITO SARDO D'AZIONE - FEDERAZIONE DI ORISTANO
    GRAFICA/STUDIO Emme - Oristano
    una copia: lire trecentocinquanta





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