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    Predefinito L'esaltazione del modello americano di laicità e della libertà religiosa

    Negli Stati Uniti la Chiesa può operare "con libertà ed impegno", ricorda il Papa

    Ripercorre nell'udienza generale la visita apostolica nel Paese


    CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 30 aprile 2008 (ZENIT.org).- Ripercorrendo nell'udienza generale di questo mercoledì la visita apostolica che ha compiuto negli Stati Uniti dal 15 al 21 aprile, Benedetto XVI ha sottolineato la libertà di cui gode la Chiesa nel Paese.

    Il viaggio, ha osservato, è stato un'opportunità per "visitare l'amato popolo degli Stati Uniti d'America, per confermare nella fede i cattolici, per rinnovare e incrementare la fraternità con tutti i cristiani, e per annunciare a tutti il messaggio di 'Cristo nostra Speranza', come suonava il motto" della visita.

    Il Papa ha definito gli Stati Uniti un "grande Paese" "che fin dagli albori è stato edificato sulla base di una felice coniugazione tra principi religiosi, etici e politici, e che tuttora costituisce un valido esempio di sana laicità, dove la dimensione religiosa, nella diversità delle sue espressioni, è non solo tollerata, ma valorizzata quale 'anima' della Nazione e garanzia fondamentale dei diritti e dei doveri dell'uomo".

    In questo contesto, ha osservato, "la Chiesa può svolgere con libertà ed impegno la sua missione di evangelizzazione e promozione umana, e anche di 'coscienza critica', contribuendo alla costruzione di una società degna della persona umana".

    Ricordando l'incontro con i Vescovi nel Santuario Nazionale dell'Immacolata Concezione, a Washington, il Papa ha lodato il cammino compiuto dal Popolo di Dio negli USA, "lo zelo dei suoi Pastori e il fervore e la generosità dei suoi fedeli, che si manifesta nell'alta e aperta considerazione della fede e in innumerevoli iniziative caritative e umanitarie all'interno e all'estero".

    In quell'occasione, il Pontefice ha incoraggiato i presuli "nel loro non facile compito di seminare il Vangelo in una società segnata da non poche contraddizioni, che minacciano anche la coerenza dei cattolici e del clero stesso", esortandoli "a far sentire la loro voce sulle attuali questioni morali e sociali e a formare i fedeli laici, affinché siano buon 'lievito' nella comunità civile, a partire dalla cellula fondamentale che è la famiglia".

    Nella celebrazione eucaristica al Nationals Park Stadium di Washington, ha proseguito, si è pregato perché la Chiesa negli Stati Uniti affronti "con coraggio e speranza" "le sfide presenti e future", tra cui quella dell'educazione, motivo per il quale ha incontrato nella Catholic University of America i Rettori di Università e College cattolici, i responsabili diocesani per l'insegnamento e i rappresentanti dei docenti e degli studenti.

    "In un Paese a vocazione multiculturale quale gli Stati Uniti d'America - ha aggiunto -, hanno assunto speciale rilievo gli incontri con i rappresentanti di altre religioni: a Washington, nel Centro Culturale Giovanni Paolo II, con ebrei, musulmani, indù, buddisti e giainisti; a New York, la visita alla Sinagoga".

    "In quella che si può considerare la patria della libertà religiosa, ho voluto ricordare che questa va sempre difesa con sforzo concorde, per evitare ogni forma di discriminazione e pregiudizio", ha dichiarato, sottolineando di aver "evidenziato la grande responsabilità dei leaders religiosi, sia nell'insegnare il rispetto e la nonviolenza, sia nel tener vive le domande più profonde della coscienza umana".

    Allo stesso modo, riferendosi alla celebrazione ecumenica nella chiesa parrocchiale di San Giuseppe, ha ricordato che si è pregato il Signore "perché aumenti nei cristiani la capacità di rendere ragione, anche con una sempre maggiore unità, dell'unica grande speranza che è in essi per la comune fede in Gesù Cristo".

    Quanto alla visita alla sede delle Nazioni Unite, il Papa ha detto di aver ribadito, nel 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, "il valore di tale Carta, richiamandone il fondamento universale, cioè la dignità della persona umana, creata da Dio a sua immagine e somiglianza per cooperare nel mondo al suo grande disegno di vita e di pace".

    "Come la pace - ha osservato -, anche il rispetto dei diritti umani è radicato nella 'giustizia', vale a dire in un ordine etico valido per tutti i tempi e per tutti i popoli".

    Su questa base, il Pontefice ha rinnovato "il fattivo impegno della Chiesa Cattolica per contribuire al rafforzamento di relazioni internazionali improntate ai principi di responsabilità e di solidarietà".

    Il Papa ha anche ricordato la Messa per i sacerdoti e i consacrati nella Cattedrale di Saint Patrick, a Manhattan, e l'incontro con i giovani e i seminaristi svoltosi presso il Seminario diocesano.

    Ai giovani, "per loro natura assetati di verità e di amore", ha proposto alcune figure di uomini e donne che hanno testimoniato in modo esemplare "il Vangelo della verità che rende liberi nell'amore, nel servizio, nella vita spesa per gli altri".

    "Guardando in faccia le tenebre di oggi, che minacciano la vita dei giovani, i giovani possono trovare nei santi la luce che disperde queste tenebre: la luce di Cristo, speranza per ogni uomo", quella speranza "più forte del peccato e della morte" che ha guidato anche la visita a Ground Zero.

    Il viaggio del Papa è culminato nella celebrazione eucaristica nello Yankee Stadium di New York, dove ha celebrato i bicentenari delle più antiche Diocesi dell'America del Nord.

    "Il piccolo gregge delle origini si è enormemente sviluppato, arricchendosi della fede e delle tradizioni di successive ondate di immigrazione - ha concluso -. A quella Chiesa, che ora affronta le sfide del presente, ho avuto la gioia di annunciare nuovamente 'Cristo nostra Speranza' ieri, oggi e sempre".

    Fonte: Zenit, 30.4.2008

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    Il Papa ha offerto il miglior servizio all'ONU: il fondamento dei diritti

    Commento di padre Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede


    CITTA' DEL VATICANO, domenica, 27 aprile 2008 (ZENIT.org).- Con il suo discorso alle Nazioni Unite, spiega il portavoce vaticano, Benedetto XVI ha reso il servizio più prezioso all'Organizzazione: difendere il valore permanente dei diritti dell'uomo.

    Padre Federico Lombardi, S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, ha commentato la storica visita di Benedetto XVI al "Palazzo di vetro" di New York, lo scorso 18 aprile, nell'editoriale dell'ultimo numero di "Octava Dies", settimanale del Centro Televisivo Vaticano, di cui è anche direttore.

    "C'era chi si aspettava che il Papa alle Nazioni Unite denunciasse l'una o l'altra delle drammatiche situazioni di ingiustizia o di conflitto del mondo di oggi. No. Questo il Papa lo ha fatto e lo fa molte altre volte, nel discorso al Corpo diplomatico di inizio anno, nei messaggi di Natale e di Pasqua, in numerosi appelli in diverse occasioni", osserva il portavoce.

    "C'era chi si aspettava che polemizzasse con le tendenze in favore dell'aborto e della contraccezione diffuse in varie agenzie dell'ONU - continua -. No. In quest'occasione il Papa ha scelto di fare un discorso di ben altro respiro, un discorso sui fondamenti e sui principi, un discorso che duri nel tempo, perché questo era il contributo più urgente e più positivo in quella sede".

    "Ed è stato un discorso molto coerente con la specifica autorità morale della Chiesa cattolica e con l'impostazione generale del magistero di Benedetto XVI", ha aggiunto.

    Padre Lombardi ricorda che "vi sono dei principi universalmente validi, per tutti gli uomini e le donne di ogni tempo e sotto ogni cielo. Nella natura dell'uomo, nella dignità della persona si può riconoscere e leggere il fondamento di un ordine da rispettare e da riflettere nei rapporti e negli ordinamenti sociali e politici, anche se in forme sempre da migliorare e perfezionare".

    "Affermandolo con forza Benedetto XVI ha svolto per le Nazioni Unite il servizio più prezioso, difendendo il valore permanente della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, e ha trovato la convinzione e la determinazione per farlo nella visione cristiana e religiosa del mondo".

    "E' evidente - ha detto il Vescovo di Roma - che i diritti riconosciuti ed esposti della Dichiarazione si applicano a ogni uomo, in virtù dell'origine comune delle persone, che rimane il punto centrale del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia".

    "Ancora una volta - conclude padre Lombardi -, la Chiesa ha messo a disposizione dei popoli, con fraterno atteggiamento di servizio, la sua 'esperienza di umanità', a favore della giustizia e della pace".

    Fonte: Zenit, 27.4.2008

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    Predefinito Voli pindarici e tentativo di conciliare l'inconciliabile

    La dottrina sociale cattolica e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

    Il progetto latino americano che contribuì alla dichiarazione del 1948

    di Antonio Gaspari


    ROMA, venerdì, 2 maggio 2008 (ZENIT.org).- Alcuni governi dei Paesi dell’America Latina riuscirono a influenzare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo con concetti derivanti dalla dottrina sociale cattolica.

    E' quanto è emerso durante un convegno tenutosi questo venerdì all’Ateneo Pontifcio “Regina Apostolorum” sul tema “L’America Latina ed il Progetto Internazionale dei diritti Umani”.

    L’Ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon, organizzatrice del convegno, ha spiegato che “l’America Latina ha una lunga tradizione di rispetto per i diritti umani, che derivano dagli insegnamenti sociali della Chiesa cattolica. Su questi fondamenti è stata realizzata e proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948”.

    Nell’aprire il convegno padre Luis Garza Medina, Vicario Generale dei Legionari di Cristo, ha portato i saluti ed i ringraziamenti di padre Álvaro Corcuera, Direttore generale dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, e si è detto onorato di poter conoscere una storia che dà lustro al continente americano.

    Padre Garza Medina ha raccontato come, seppure con tanti dolori tipici delle vicende umane, “l’incontro delle culture indigene con la cultura spagnola e portoghese ha fatto nascere una nuova civiltà” caratterizzata dall’insegnamento e dalla fede cattolica.

    Secondo il sacerdote, “la coscienza chiara del valore della persona umana” sono evidenti nella scuola di Salamanca, negli insegnamenti del padre domenicano Francisco de Victoria, e arrivano fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, di cui si celebra quest'anno il 60° anniversario.

    Il Vicario Generale dei Legionari di Cristo ha illustrato come la visione antropologica che i popoli latinoamericani hanno ricevuto dalla tradizione cristiana si è opposta alla visione riduzionista dell’uomo.

    “Ogni riduzione dell’umano permette la violazione dei diritti umani”, ha precisato padre Garza Medina ed è “triste constatare come molti contemporanei non ricordano che questa Dichiarazione è nata come reazione alla barbarie e al disprezzo dell’uomo di quell’ideologie riduzioniste che provocarono la seconda guerra mondiale”.

    Padre Garza Medina ha quindi concluso invitando a riscoprire “la tradizione degli Stati Uniti d’America nel praticare, difendere e promuovere i diritti umani”,sottolineando poi l’intuizione di Giovanni Paolo II che indicò “l’America come un solo continente che può contribuire alla costruzione di una civiltà di giustizia e amore”.

    Il professor Paolo Carozza, Presidente della Inter-American Commission on Human Rights (IACHR), ha spiegato la storia di Bartolomeo de las Casas, che già nei primi decenni del 1500 si oppose all’Imperatore Carlo V per abolire la schiavitù degli indiani all’interno del sistema delle “encomienda”.

    Il docente della Notre Dame Law School ha svolto un accurato excursus storico, rilevando come più della rivoluzione francese e quella americana, nelle costituzioni dei Paesi dell’America Latina ha avuto una grande influenza la Rerun novarum, l’enciclica sociale di Leone XIII del 1891.

    A questo proposito il professor Carozza ha ricordato che il partito cattolico nazionale fondato in Messico nel 1911, aveva come suo esplicito scopo quello di promuovere la Rerum novarum.

    L’ambasciatore Mary Ann Glendon, già docente di legge nella Facoltà di Giurisprudenza all'Università di Harvard, ha svelato come la bozza dell’ONU che diede vita alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani venne stilata sulla base della Dichiarazione di Bogotà sancita dai Pesi latinoamericani.

    I Paesi latinoamericani erano particolarmente sensibili ai diritti umani contenuti nella loro Carta dei Diritti e Dei Doveri dell’Uomo, approvata a Bogotà in occasione della nona conferenza Panamericana del 2 maggio 1948, in cui è evidente l’influsso della tradizione personalista cristiana e del cattolicesimo sociale espressi specialmente nelle encicliche Rerum Novarum e Quadragesimo anno (1931).

    La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo venne sancita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 con la risoluzione 217, con le sole astensioni di Arabia Saudita, Sudafrica e di sei Paesi comunisti.

    Fonte: Zenit, 2.5.2008

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    Predefinito Si chiarisce cosa s'intenda per libertà religiosa

    Libertà religiosa è dare a ogni confessione ciò di cui ha bisogno

    Afferma il presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi


    PAMPLONA, martedì, 20 maggio 2008 (ZENIT.org).- Rispettare la libertà religiosa vuol dire dare a ogni confessione ciò di cui ha bisogno, ha affermato il presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, l'Arcivescovo Francesco Coccopalmerio.

    "La libertà religiosa viene rispettata quando a ogni confessione viene dato ciò di cui ha bisogno per il suo sviluppo sociale e quando questo si fa tenendo presente la storia e l'identità di ogni Paese", ha segnalato il presule.

    Il presidente del dicastero vaticano ha partecipato questo martedì all'Università di Navarra a un omaggio al canonista Eloy Tejero in occasione del suo 70° compleanno.

    Monsignor Coccopalmerio ha segnalato che "non tutte le confessioni religiose, ad esempio, contribuiscono in modo uguale al bene sociale in Spagna: nell'ordine assistenziale, dell'educazione, dei giovani, e logicamente del servizio religioso".

    Il suo intervento ha avuto luogo dopo che alcuni esponenti della Chiesa cattolica hanno manifestato la propria preoccupazione di fronte all'annuncio del Governo spagnolo di voler modificare la legge sulla libertà religiosa.

    Circa le relazioni tra la Chiesa e lo Stato, il presule ha indicato che "ci sono molti temi che interessano entrambi, come la famiglia, l'insegnamento, la cultura della vita, ecc., e in cui la Chiesa e lo Stato devono lavorare con senso di collaborazione per il bene della società".

    I problemi, ha osservato, sorgono quando "per motivi ideologici si cerca di neutralizzare l'azione della Chiesa, e quando non si considera positivo il suo influsso per il bene della società".

    Circa il pontificato di Benedetto XVI, l'Arcivescovo Coccopalmerio ha infine affermato che "si trova su una linea di continuità con i pontificati precedenti". Allo stesso modo, ha voluto sottolineare "la sua attenzione per la legislazione della Chiesa e l'ordinamento canonico".

    Fonte: Zenit, 20.5.2008

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    La libertà di religione, "espressione essenziale" della dignità umana

    L'Arcivescovo Tomasi interviene al Consiglio per i Diritti Umani

    di Roberta Sciamplicotti


    GINEVRA, lunedì, 17 marzo 2008 (ZENIT.org).- Il diritto alla libertà di religione è l'"espressione essenziale" della dignità umana e in quanto tale ha bisogno di essere tutelato in modo deciso ded efficace. E' quanto ha affermato il 5 marzo a Ginevra l'Arcivescovo Silvano Maria Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite.

    Intervenuto durante la VII Sessione Ordinaria del Consiglio per i Diritti Umani (HRC), il presule ha ricordato che tali diritti sono "universali, interdipendenti e indivisibili", e "richiedono tutti un'efficace implementazione mediante l'impegno a vari livelli della vita sociale, del paese, della città, della Nazione e della comunità internazionale attraverso le sue istituzioni".

    "Un'espressione essenziale della dignità umana è il diritto alla libertà di religione", ha spiegato monsignor Tomasi.

    "Il diritto fondamentale di una persona a credere e a praticare una religione specifica è la base giuridica della forma organizzata di quel credo, del suo funzionamento nella libertà e del suo preservare e difendere la propria identità specifica".

    "Con i suoi diritti fondamentali, a cominciare da quello alla libertà religiosa, l'individuo contribuisce a difendere l'identità e la libertà della forma organizzata della sua religione e si sviluppa armoniosamente in relazione agli altri", osserva l'Arcivescovo.

    Purtroppo, ha denunciato, "le vittime dell'intolleranza religiosa sono particolarmente numerose laddove il diritto internazionale relativo ai diritti umani non è incorporato nelle legislazioni nazionali, che in questo modo rischiano di permettere l'impunità di quanti violano i diritti umani fondamentali".

    L'implementazione in ogni Paese degli strumenti esistenti per la difesa dei diritti umani, ha osservato l'Arcivescovo, "è il modo migliore per assicurare rispetto per tutti i credo e per la pacifica coesistenza nel contesto delle società contemporanee pluralistiche e interattive".

    In questo contesto, per il rappresentante vaticano è necessario "un rinnovato impegno nel far propri gli strumenti giuridici sviluppati dal diritto internazionale".

    "Non basta comunicare una serie di documenti - avverte -. E' importante cambiare atteggiamento, un processo ad ampio raggio che trasformi la persona e assicuri un efficace sostegno alla dignità e alla libertà".

    Secondo monsignor Tomasi, l'HRC ha oggi il "compito decisivo" di "costruire un più ampio senso di fiducia e una più precisa comprensione dei diversi punti di partenza e delle varie visioni che persistono nell'interpretazione e nelle implementazioni quotidiane dei diritti umani".

    I grandi progressi raggiunti nell'articolazione di questi diritti e nel miglioramento della loro applicazione, riconosce il presule, sono dovuti in gran parte "alla saggezza degli autori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, in cui ci si è trovati d'accordo sul valore universale della dignità e del valore della persona umana come pietra angolare di tutti i diritti".

    "Evitando un approccio ai diritti umani puramente collettivista o individualistico, questo documento storico stabilisce diritti e doveri e istituisce in questo modo una serie di collegamenti tra l'individuo, la comunità e la società", facendo sì che i diritti attribuiti a gruppi o entità collettive siano radicati sulla dignità propria di ciascuno dei loro membri.

    Riconoscere i diritti fondamentali e promuoverli, ha dichiarato l'Arcivescovo nell'anno del 60° anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani, rappresenta "il cuore delle aspettative mondiali".

    "Il dialogo e l'interazione diventano possibili quando la nostra dignità umana comune è il valore guida", ha aggiunto.

    Per questo motivo, l'azione delle Nazioni Unite nella promozione della dignità e dei diritti umani è fondamentale e l'organismo è chiamato a difendere i diritti umani in modo sempre più deciso e rapido.

    "La famiglia umana e i popoli delle Nazioni Unite - ha concluso - non possono aspettare altri 60 anni".

    Fonte: Zenit, 17.3.2008

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    Citazione Originariamente Scritto da Augustinus Visualizza Messaggio
    Libertà religiosa è dare a ogni confessione ciò di cui ha bisogno

    Afferma il presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi


    "La libertà religiosa viene rispettata quando a ogni confessione viene dato ciò di cui ha bisogno per il suo sviluppo sociale e quando questo si fa tenendo presente la storia e l'identità di ogni Paese", ha segnalato il presule.
    Più chiaro di così!

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    Predefinito Nel segno della discontinuità ...

    Il diritto alla libertà religiosa, "fonte e sintesi" di tutti gli altri

    Spiega il Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace


    ROMA, sabato, 26 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento di monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, pubblicato dal Bollettino DSC dell'Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân attualmente in distribuzione.

    * * *
    FOCUS 1

    IL DIRITTO ALLA LIBERTA' RELIGIOSA: FONTE E SINTESI DI TUTTI GLI ALTRI DIRITTI


    S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi
    Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
    Città del Vaticano
    Presidente dell'Osservatorio Card. Van Thuân
    Verona (Italia)

    La "libertas religiosa" nell'insegnamento della Chiesa

    La Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II difende il diritto dell'uomo alla libertà religiosa fondandolo su un dovere. Gli uomini "sono spronati dalla loro stessa natura e tenuti per obbligo morale a ricercare la verità" (n. 2) [1]. Il diritto deriva da un dovere: "Ognuno ha il dovere, e quindi il diritto, di cercare la verità in materia religiosa" (n. 3). Trattandosi di un obbligo che scaturisce dalla natura umana, non va inteso come una costrizione, ma come un bene che tale natura suscita e che la nostra libertà assume. Poiché esiste il dovere di cercare la verità, dovere che è esso stesso una verità, deve anche esistere il diritto di poterlo fare. Gli uomini, infatti, "non possono soddisfare a quest'obbligo in conformità alla propria natura, se non godono della libertà psicologica e insieme dell'immunità da coercizione esterna" [2]. Il diritto alla libertà religiosa non va inteso come un mero desiderio soggettivo, ma come diritto oggettivo, che ogni uomo ed ogni potere civile o politico deve rispettare e promuovere.

    Su questo legame del diritto alla libertà religiosa con il dovere di cercare la verità si incentra la diversità tra la impostazione del magistero della Chiesa e quella di alcune correnti di pensiero della modernità. Ambedue si incontrano nel riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, ma talvolta divergono, in quanto il magistero della Chiesa fonda tale diritto "sulla dignità della persona umana" [3], mentre alcune correnti della modernità tendono a fondarlo sulla coscienza soggettiva, ossia sulla rappresentazione che della propria dignità ha ogni individuo. Per la Chiesa la libertà di religione è nel soggetto ma non nasce dal soggetto, bensì dalla fedeltà alla propria natura di persona umana compreso il dovere di cercare il vero, perché solo dalla verità può derivarci la salvezza [4]. Il diritto viene rivendicato per poter assumere con pienezza una responsabilità che sta alla sua origine.

    La collocazione del diritto alla libertà religiosa nel contesto del dovere di cercare la verità porta con sé tre conseguenze molto importanti per il riconoscimento e la tutela di questo diritto.

    La prima conseguenza è che la libertà di religione non comporta di per sé una accettazione del relativismo religioso, che sarebbe la negazione di ogni legame tra religione e verità. La seconda conseguenza, immediatamente connessa con questa, è che la libertà di religione non può essere vissuta solo nell'ambito privato, in quanto non è un'evasione dalla propria universale umanità, ma una ricerca delle vie migliori per realizzarla. Quel diritto, in altre parole, ha indissolubilmente una dimensione privata e pubblica. Infine, una terza conseguenza è che è possibile sia distinguere tra verità ed errore senza attribuire a quest'ultimo il diritto ad essere riconosciuto come vero [5], sia tenere ferma la libertà di errare nella ricerca del vero, che si fonda sull'esercizio di un dovere connesso con la natura umana ed espressione di una intangibile dignità. La "regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane" [6] non è messa in discussione dal riconoscimento della libertà religiosa, la quale presuppone il dovere del discernimento veritativo. La libertà di religione non elimina il problema della verità in sé e della verità della religione in particolare, come elementi fondamentali per la società. Per questo la Chiesa, assieme all'affermazione del diritto alla libertà religiosa, ribadisce non solo la verità del cristianesimo [7], ma anche il "dovere morale degli uomini e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo" [8].

    La "libertas religiosa" fonte e sintesi dei diritti umani

    La connessione tra il diritto alla libertà religiosa e il dovere di cercare la verità spiega anche perché quello alla libertà religiosa sia la fonte e la sintesi - secondo le parole della Centesimus annus [9] - di tutti gli altri diritti umani. La ricerca della verità, per essere esercitata in modo libero e quindi pienamente umano, non deve venire limitata, deve potersi espandere fino al Fondamento ultimo, a Dio. L'uomo cerca la verità, non le opinioni, e solo la trascendenza della verità è in grado di fondare pienamente la sua oggettività [10]. Ecco perché il diritto alla libertà di religione è, in fondo, il diritto della persona umana a vivere attingendo ad un Senso trascendente ed assoluto le ragioni dell'esistenza. Ammettere e rispettare la libertà religiosa vuol dire, quindi, riconoscere nell'uomo questo bisogno come a lui connaturato. Non si tratta solo di riconoscere un diritto soggettivo, ma implica anche il "riconoscimento della dimensione religiosa dell'uomo" [11]. La persona umana può coltivare e sviluppare questa sua dimensione religiosa, come può anche liberamente sopirla, trascurarla e perfino negarla, ma essa c'è in tutti, perché fa parte della natura umana. Se la ricerca della verità rende l'uomo degno di stima e rispetto, la ricerca della verità religiosa, in quanto ricerca del Fondamento ultimo, "esprime le aspirazioni più profonde della persona umana [...], offre, in fondo, la risposta alla questione del vero significato dell'esistenza sia personale che sociale" [12] e quindi è il nucleo più profondo della sua dignità. Riconoscendo nella persona l'aspirazione al Fondamento trascendente come sua propria dimensione naturale si capisce anche che "la verità della persona umana è un valore trascendente" [13]. Ecco perché il diritto alla libertà religiosa è "il cuore stesso dei diritti umani" [14]: ne preserva l'origine trascendente e quindi motiva la loro inviolabilità. I diritti umani hanno bisogno di essere fondati su una dimensione superiore a quella politica. La libertà di religione è la libertà di fondare i diritti umani in modo assoluto [15]. Per questo essa è a vantaggio di tutti, e non solo dei credenti. E' un bisogno non solo "confessionale", ma umano e sociale. La libertà di religione si rivela essere un diritto non solo individuale ma comunitario, un elemento del bene comune da preservare e sviluppare. Essa infatti contribuisce a liberare i diritti umani dai limiti del potere politico ed a collocarli in una ambito di inviolabilità, a garanzia di tutti i cittadini di una comunità. La libertà di religione svela l'esistenza di una comunità più ampia della stessa comunità politica di uno Stato, la comunità umana. Si tratta di una "appartenenza" precedente a quella politica, che esprime nella libera adesione della coscienza personale una dignità inviolabile per ogni regime politico.

    Due osservazioni ulteriori possono confermare questa importanza della libertà religiosa per i diritti umani. Se analizziamo la questione dal punto di vista storico, osserviamo che il diritto alla libertà di religione è stato concepito per primo e, seppure con modalità tortuose e difficili, è stato alla base di tutti gli altri. A questa osservazione storica se ne può aggiungere un'altra che nasce da una comune esperienza: quando un regime politico nega la libertà di religione finisce per negare anche tutte le altre libertà. I totalitarismi, infatti, hanno prima di tutto tentato di "sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell'uomo" [16].

    La "libertas religiosa" garanzia dei diritti umani

    Quest'ultima osservazione ci spinge a considerare come il diritto alla libertà religiosa non sia solo la fonte e la sintesi di tutti gli altri diritti umani, ma ne sia anche la garanzia. Il suo esercizio da parte di fedeli e comunità religiose e la sua promozione da parte dei poteri sociali e politici, è un concreto sostegno, un vitale supporto, una garanzia di tutela dei diritti umani fondamentali. I diritti, infatti, non hanno solo bisogno di essere formalmente elencati, ma soprattutto di essere vissuti ed anche la loro difesa non sarà mai un atto puramente legislativo e burocratico, ma vitale. In altre parole i diritti umani hanno bisogno di uomini e donne che credano nella giustizia e che, soprattutto, siano capaci di sacrificarsi per essa. Nell'enciclica Spe salvi Benedetto XVI afferma che "se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza" [17]. Anche la difesa dei diritti umani ha bisogno di una speranza che vada oltre "quanto èffettivamente raggiungibile di volta in volta". Non c'è dubbio che essi abbiano un fondamento etico e razionale e debbano essere oggetto di volontà, però è altrettanto vero che senza la speranza cristiana essi non sarebbero stati pienamente intravisti e la nostra volontà e la nostra ragione non sarebbero pienamente in grado di rimanervi fedeli fino alla fine. Senza la dimensione religiosa essi rischiano continuamente di essere persi di vista, o di venire lasciati da parte di fronte alle difficoltà. E' la speranza cristiana, afferma il papa, "che ci dà il coraggio di metterci dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza speranza" [18]. I diritti umani, dicevo, non vanno solo elencati, vanno vissuti. Essi non vivono di solo spirito legalistico [19] e non sono garantiti semplicemente da delle procedure . Richiedono, piuttosto, una speranza [20]. I diritti umani, suscitati dal Cristianesimo, e che pure godono di una loro autonomia morale e razionale, non possono sussistere senza di esso: «La conoscenza della persona è legata alla fede cristiana. La persona può essere affermata e coltivata per qualche tempo anche quando tale fede si è spenta, ma poi gradatamente queste cose vanno perdute» [21].

    Lo Stato, la tutela dei diritti umani e la "libertas religiosa"

    Il rapporto precedentemente messo in evidenza tra il diritto alla libertà religiosa e il dovere di cercare la verità pone allo Stato dei precisi obblighi nella difesa e nella promozione della libertà di religione, obblighi che vanno ben oltre la semplice contemplazione giuridica di questo diritto. Infatti, la sua tutela è elemento fondamentale del perseguimento del bene comune, nei cui confronti il dialogo sui diritti umani rappresenta la grammatica. Non è sufficiente il concetto di "tolleranza". Lo Stato deve costituire una cornice giuridica in modo che tutti i cittadini godano della libertà di non "rinnegare Dio per godere dei propri diritti" [22]. Poiché però tale diritto è legato al dovere di cercare la verità e sgorga dalla natura umana, lo Stato dovrà costruire quella cornice giuridica nel rispetto della dignità della persona. Ecco perché la libertà di religione trova un limite dentro se stessa: deve essere conforme alla verità dell'uomo e non contro di essa. Anche la libertà di religione deve, quindi, rispettare la legge morale naturale, l'ordine pubblico e, in una parola, i diritti umani. Sono questi i "debiti limiti" cui fa riferimento il Concilio [23]. Chi chiede per sé la libertà di religione, ma non accetta di rispettare la giustizia, delegittima quella sua stessa richiesta, privandola del suo vero fondamento. Lo Stato che, nell'organizzare la vita della comunità in vista di un bene comune, disciplina anche la libertà di religione, deve farlo alla luce della verità dell'uomo.

    Già da questa preliminare osservazione emerge che lo Stato non può condividere l'ideologia del relativismo religioso. Esso non eserciterebbe, in questo caso, il suo mandato di costruire il bene comune secondo i dettami della ragione. Ci possono essere religioni che nelle loro pratiche contraddicono quegli stessi diritti umani in nome dei quali pretendono la propria libertà . Il caso più evidente è quello del terrorismo e, in generale, di chi uccide in nome di Dio: "quando una certa concezione di Dio è all'origine di fatti criminosi, è segno che tale concezione si è già trasformata in ideologia" [24]. Le religioni possono contraddire i diritti umani anche quando non ammettono l'eguale dignità di tutti gli uomini senza distinzione di sesso o di razza o di ceto sociale. In tutti questi casi lo Stato dovrà discernere, non con criteri confessionali, ma alla luce della verità razionale, che rimane la bussola principale del potere politico. Il nesso tra religione e verità è all'origine del diritto alla libertà religiosa. Questo non è un diritto arbitrario, ma espressione del dovere di cercare la verità. Per questo lo Stato, nel riconoscerlo, deve farlo senza rompere il nesso religione-verità. Se lo Stato considera il diritto alla libertà religiosa come un diritto arbitrario e destituito di una sua verità, finirà per equiparare tutte le religioni in un qualunquismo relativistico che può aprire la strada al non rispetto di diritti umani fondamentali. Anche la religione può esprimersi in forme patologiche ed in questo caso la ragione politica deve correggerla. Per poterlo fare la ragione politica deve a sua volta accettare di farsi correggere dalla religione, che la aiuta a non chiudersi in se stessa [25].

    Oltre a discernere tra le religioni alla luce dei diritti umani, lo Stato dovrà garantire alla religione non solo uno spazio privato ma anche uno spazio pubblico. Non sarà cioè sufficiente che i credenti possano liberamente partecipare al culto, occorrerà anche che le comunità religiose, sia a livello sociale che istituzionale, possano partecipare al dibattito pubblico in modo che a Dio sia riconosciuta una "piena cittadinanza" [26] nella società. Così facendo, lo Stato non diventa esso stesso religioso, perché esercitare una ragione aperta alla trascendenza è fonte di libertà di giudizio, mentre diventerebbe ideologicamente antireligioso nel caso facesse il contrario. In questo ambito la neutralità non esiste [27], un presunto spazio pubblico neutro da assoluti religiosi esprime una assolutezza antireligiosa.

    Una delle principali forme per la tutela del diritto alla libertà religiosa e degli altri diritti umani, è da parte dello Stato il riconoscimento del diritto all'obiezione di coscienza, quando siano in gioco valori inerenti la trascendente dignità della persona umana e quando si ritenga di dover obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Anche in questo caso, lo Stato è tenuto a riconoscere tale diritto non per motivi "religiosi", ma per due ragioni connesse con la verità della persona umana. La prima ragione è il riconoscimento della coscienza personale come originario spazio di libertà per la persona. Il secondo è il riconoscimento del significato politico dell'obiezione di coscienza, che non è da vedersi come un fatto semplicemente privato, ma anche pubblico in quanto richiama la politica stessa a quanto non è a sua disposizione e, così facendo, la conferma nella propria libertà [28].
    -------------------------------------------------------------------
    NOTE

    [1] Analogamente il paragrafo 1 afferma: "tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità".

    [2] Dignitatis humanae cit., n. 2. "E' però un diritto in funzione di un dovere. Anzi, come ha ribadito più volte il mio predecessore Paolo VI, è il più fondamentale dei diritti in funzione del primo dei doveri, qual è il dovere di muoversi verso Dio nella luce della verità e con quel moto dell'animo che è amore" (GIOVANNI PAOLO II, Discorso a studiosi giuristi, 10 marzo 1984, n. 6. "Il diritto alla libertà religiosa presuppone il dovere di cercare la verità su Dio, con una volontà esente da coazioni e con una ragione immune da pregiudizi" (D. MAMBERTI, L'azione della Santa Sede in favore della libertà religiosa, www.zenit.org).

    [3] Dignitatis humanae n. 2; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale su alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, n. 8.

    [4] "La salvezza si trova nella verità" (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Dominus Jesus n. 22.

    [5] "La libertà religiosa non è licenza di aderire all'errore, né un implicito diritto all'errore" (PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 421, p. 229; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2108).

    [6] Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2105.

    [7] "Noi crediamo che quest'unica vera religione risieda nella Chiesa cattolica ed apostolica" (Dignitatis humanae, n. 1): "Occorre quindi aver riguardo sia ai doveri verso Cristo, Verbo vivificante che deve essere predicato, sia ai diritti della persona umana" (Ivi, n. 14).

    [8] Dignitatis humanae n. 1.

    [9] GIOVANNI PAOLO II, Enc. Centesimus annus, n. 47: "Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della persona umana".

    [10] "Solo una verità trascendente è intrascendibile" (G. CREPALDI e S. FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena 2006, p 18; ma si veda l'intero capitolo).

    [11] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici, n. 39.

    [12] GIOVANNI PAOLO II, Nel rispetto dei diritti umani il segreto della pace vera, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1 gennaio 1999, n. 5.

    [13] Ivi, n. 49.

    [14] Ivi, n. 5.

    [15] La ha di recente ribadito Benedetto XVI nel Discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite del 18 aprile scorso: "Tali diritti sono basati e modellati sulla natura trascendente della persona [...]. Il riconoscimento di questa dimensione va rafforzato se vogliamo sostenere la speranza dell'umanità in un mondo migliore".

    [16] GIOVANNI PAOLO II, Enc. Centesimus annus, n. 24.

    [17] BENEDETTO XVI, Enc. Spe salvi, n. 35.

    [18] Ivi, n. 36.

    [19] Non si possono "realizzare semplicemente con l'applicazione di procedure corrette" (BENEDETTO XVI, Discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite - 18 aprile 2008).

    [20] Anche a proposito dei diritti umani si può affermare quanto Romano Guardini diceva della vita in generale: "Senza elemento religioso la vita diventa come un motore che non ha più olio» (R. GUARDINI, La fine dell'epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1983, p. 98).

    [21] R. GUARDINI, La fine dell'epoca moderna cit., p. 100.

    [22] BENEDETTO XVI, Discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite - 18 aprile 2008).

    [23] Dignitatis humanae cit., n. 2; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2106.

    [24] BENEDETTO XVI, La persona umana cuore della pace, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, n. 10.

    [25] J. RATZINGER-J. HABERMAS, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005.

    [26] BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana, Verona 19 ottobre 2006, in Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 2, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, p. 471.

    [27] S. FONTANA, El relativismo occidental como cuestión ética y política. Respuesta de la fe cristiana, in "Corintios XIII - Revista de teologia y pastoral de la caridad", n. 122, abril-junio 2007, pp. 233-268.

    [28] PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 399, p. 218.

    Fonte: Zenit, 26.7.2008

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    Libertà religiosa e segno dei tempi

    Arai Daniele



    Giusta l’affermazione di Ortega y Gasset che la cortesia del filosofo è la chiarezza.
    Io non sono filosofo, ma giacché ho scritto su questioni filosofiche, su cui spesso non sono compreso, devo chiedere scusa per la mia «scortesia».
    Torno allora alla lettura della Philosophia perennis del cortesissimo San Tommaso d’Aquino, la cui Somma intendeva essere un catechismo che spiegasse il pensiero cattolico a tutti livelli.
    Se non lo comprendiamo, non sarà forse a causa della nostra scarsità cattolica, di un comprendonio tarlato da tanto falso filosofare e scientismo?
    Vediamo.

    Non mi ricordo se il Santo filosofo parla di galline, ma sulla domanda - cosa viene prima l’uovo o la gallina? - la sua risposta è inequivoca: nel pensiero creativo di Dio c’era la gallina; l’uovo ha per ragione il suo sviluppo.
    Saliamo alla persona umana, che è soggetto di doveri e di diritti: - quale di questi viene prima?
    Per rispondere si deve risalire alla «ragione» dell’esistenza dell’uomo, persona fatta ad immagine e somiglianza di Dio: «substantia individua, rationalis, sui juris».
    Quindi, l’essere umano è creatura dotata dal Creatore d’intelligenza e volontà libere, facoltà donate per il privilegio della «ragione» di conoscere il Vero, praticare il Bene=Vero, intendere il Bello= Vero=Bene.
    E poiché questa «ragione» implica il dono dell’intelligenza e della volontà libere, il primo uso di queste facoltà è riconoscere il Donatore ed essere riconoscente del Suo dono; rispondere col credere e rendere culto all’Autore del dono vero, buono e bello della vita umana.
    Dovere di risposta che è «responsabilità» di fronte alla vita personale e all’immensa famiglia voluta dal Padre eterno.
    A questo punto la domanda su cosa deve venire prima per l’uomo, soggetto di doveri e di diritti, ha una risposta chiara: il dovere verso Dio e la Sua Parola.

    E’ questo un «concetto» cattolico che vige solo nell’era della Chiesa? No.
    E’ il pensiero dell’immenso mondo religioso umano di miliardi di anime, dai popoli primitivi ai più progrediti, è il pensiero che pende e penderà sempre da ogni parola e segno venuto da Dio; è il concetto universale dell’impero di Dio sugli uomini e sulle loro società; concetto alla base d’ogni coscienza, che è e sarà fino alla fine del mondo il vero pegno di salvezza per quanti hanno cercato di conoscere il Vero, il Bene e il Bello che è il Verbo di Dio.
    Quindi, a tale pensiero è vincolata la vera essenziale ragione e responsabilità d’ogni vita umana.
    I propri diritti e libertà esistono in funzione di tale ragione e non il contrario, per cui ogni libertà di limitarli o ostacolarli è falsa e malvagia; è il contrario del vero diritto di fronte alla Verità oggettiva.
    Qui cominciano, però, i problemi e i dubbi d’ogni tempo.

    Filosofie e scienze della certezza

    Fino a non molto tempo fa lo studio della filosofia e della scienza erano, nel loro campo proprio, diretti alle certezze.
    Solo più di recente è comparsa la «Epistemologia», come ramo della filosofia analitica; filosofia della stessa conoscenza.
    Essa si prefigge di stabilire la differenza tra il «credere» che si poggia su una giustificazione genuina e altro che dipende solo da opinioni.
    Allora l’Epistemologia può essere vista come l’investigazione di quanto costituisce tale giustificazione, e di come raggiungerla.
    I suoi nemici non sono solo gli scettici moderni, negatori della possibilità di tale conoscenza e giustificazione, ma antichi quanto la stessa filosofia.
    Già per il greco Gorgia, maestro di retorica; - nulla «é»; se qualcosa è, è incomprensibile; se è comprensibile è incomunicabile.
    Quindi, maestro della più vana e disperata «arte del logos».
    Poi le teorie conflittuali sulla conoscenza, sia del razionalismo, per cui la giustificazione ultima per le nostre credenze si trova nella ragione (a priori), sia dell’empirismo, per cui essa si trova nell’esperienza dei sensi.
    Recentemente, però, l’attenzione si concentrò sulla struttura della conoscenza, ossia come, a partire da un pensiero iniziale, si intreccia quanto si crede.
    Ma quale è la vera questione.
    E’ il cervello che pensa?
    Esso ha la capacità della memoria, ma pensa?
    Quanti vogliono ridurre il pensiero ad un dato fisico, devono attribuire al cervello questo principio. Riescono a farlo per negare l’esistenza dell’anima spirituale?

    Le teorie moderne di Chomsky e Piaget si rifanno all’idea di una «costruzione» genetica.
    Per il primo, una capacità preesistente del linguaggio, un «built in» cerebrale che Piaget nega a favore di un costruttivismo culturale («Théories du Langage, Théories de l’Apprentissage», Éditions du Seuil).
    Come si vede, per la ricerca della conoscenza certa si naviga nel buio fitto.
    Ma per i cattolici non si pone il problema della certezza su quanto è essenziale alla vita spirituale.
    Per questo il Signore ha istituito la Chiesa e l’infallibilità papale e Alessandro Sanmarchi può dimostrare qui correttamente la sua necessità (vedi articolo).
    Quello che è indispensabile, però, per esercitarla è la presenza nella Sede suprema di chi possa rappresentare e mettere in atto tale «miracolo».
    Sì, perché l’infallibilità non appartiene alla natura umana decaduta, se non come dono.
    Passiamo, quindi a parlare dell’infallibilità per poi discutere sulla sua più assurda contraddizione moderna: accostarla ad una dichiarazione del diritto alla libertà di negarla e alla verità stessa, in foro esterno.

    Il dono universale dell’infallibilità nella Fede

    La Fede è la ragione per cui il fedele ubbidisce all’autorità della Chiesa.
    «Ma, anche se noi stessi o un angelo del cielo venisse ad annunziarvi un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia egli anatema» (Galati 1-8).
    L’infallibilità passiva dei fedeli corrisponde a quell’attiva del Papa.
    Essa deriva dalla virtù della fede suscitata direttamente da Dio in tutti i fedeli.
    Ecco perché all’infallibilità attiva nell’insegnamento della fede, in docendo, propria della Gerarchia, corrisponde la infallibilità passiva, in credendo, nell’apprendimento della fede, propria dei fedeli.
    Si tratta del riconoscimento infallibile della voce di Dio.
    «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono Me» (Giovanni 10, 14).
    Se così non fosse, San Paolo non avrebbe insegnato quanto è nella lettera ai Galati (1, 8), per cui il fedele deve rifiutare e anatemizzare chi porta un nuovo vangelo, «anche se un angelo o noi stessi».
    L’autorità del Sommo Pontefice della Chiesa è vicaria, in rappresentanza di Nostro Signore Gesù Cristo.
    E’ fondata sul Principio che San Pietro ha ricevuto le chiavi dal Signore che ha tutto il potere in Cielo ed in terra, potere del Sangue che Gesù Cristo ha versato nel Suo Sacrificio redentore.
    Che parte può avere in questo potere chi si vuole capo di una chiesa tra le altre; chi sfigura la ragione salvatrice di questo Sangue, che diluisce la responsabilità umana di fronte alla Redenzione?
    Che rende la l’infallibilità un «optional»?

    L’autorità papale è necessaria nell’ordine dell’Essere; ciò insegna la Chiesa e il suo magistero, come la Bolla «Cum ex apostolatus».
    Né l’unanimità dei cardinali, né tutto il consenso umano, possono far diventare papa chi non ha l’integra e pura fede cattolica.
    Le idee che il potere del conclave che elegge il Papa sia assoluto, o peggio, che l’assistenza promessa dello Spirito Santo sia confusa con l’elezione del Papa da cardinali da Lui ispirati, sono smentite dal Magistero infallibile della Chiesa.
    Esso è presente nella sua legge e in speciale nella Bolla di Papa Paolo IV.
    Per questa ragione chi vuole seguire seriamente la questione della vacanza papale non può ignorare la chiara visione cattolica espressa infallibilmente in questa Bolla.
    Il dogma dell’infallibilità non si applica alla verità divina, che non ha bisogno di conferme in sé, ma all’autenticità dell’autorità umana che pronuncia tale verità come divina.
    Essa è il mezzo attraverso cui filtra la verità di fede, sia in modo straordinario che ordinario, e perciò la condizione della sua autenticità è la sua trasparenza nella fede.
    Papa Paolo IV ribadisce questo concetto ed invita i fedeli a resistere a chi esprime una fede deviata, specialmente se è molto in alto.
    Non fa che ricordare la verità evangelica.
    San Giovanni, il più mite degli apostoli, subito dopo aver parlato del comando della carità, insegnava riguardo a quelli che non portano la retta dottrina: «Se qualcuno viene a voi e non porta questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere
    perverse» (2Giovanni 10).
    Nell’Apocalisse (18, 4) una voce dal cielo dice: «Uscite, popolo mio, da Babilonia per non partecipare ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli».

    Il Diritto Canonico è fondato sulla dottrina cattolica.
    Chi lo segue poggia sull’ortodossia evitando errori dottrinali.
    Ora, secondo la Tradizione, il Magistero e il Codice Canonico (1917) canone 188: A causa di rinuncia tacita, qualsiasi ufficio si rende vacante ipso facto, senza necessità della relativa dichiarazione, qualora il chierico: 4) abbia pubblicamente disertato dalla fede cattolica.
    C’è dunque incompatibilità assoluta tra giurisdizione cattolica ed eresia; fatto talmente evidente alla Fede cattolica che non richiede dichiarazione.
    Per non parlare della logica giuridica: «non può essere capo chi non è membro» (San Roberto Bellarmino).
    Il giuramento antimodernista è una professione di fede voluta da San Pio X.
    Se il consacrato infrange uno solo degli articoli su cui ha giurato fedeltà, non solo è spergiuro, ma ha rinunciato alla Fede ed è ipso facto scomunicato dalla Santa Chiesa.
    Ora, per un modernista che vuole cambiare la Fede della Chiesa dal suo interno, questo giuramento è una «pietra d’inciampo» da rimuovere.
    E’ il primo cambiamento che deve operare per agire indisturbato.
    La rimozione di una professione di Fede della Chiesa per i nostri tempi è già un cambiamento della fede.
    «Dai loro frutti li conoscerete».
    Ebbene, i papi conciliari hanno fatto cadere la professione di fede antimodernista.
    Ciò implica un’autoscomunica.

    Una «resistenza tradizionalista», che pensi di poter fare a meno del diritto canonico, crede che la legge della Chiesa sia insufficiente per sconfiggere l’eresia, e perciò imperfetta.
    Inutile addurre che manca un’autorità per giudicare: proprio essa è in causa.
    E qui cominciano i compromessi «clericalisti» in cui è riconoscibile l’hegeliana «gestione degli opposti», che è una variazione della stessa deviazione del Vaticano II.
    Norme giuridiche di diritto ecclesiastico non possano essere applicate se manca l’autorità competente, il giudice con la sentenza e la forza per renderla esecutiva nella pratica.
    Ma non vi è nemmeno dubbio che questa carenza non possa rendere inapplicabile una legge di diritto divino.
    Allora il problema riguarda soltanto la difficoltà della giustizia umana.
    E perciò quanto non si può accettare alla luce della Fede, che è il fondamento della legge, rimane inaccettabile.
    Non diviene obbligatorio accettare un lupo per pastore perché mancano le forze umane per cacciarlo. Dio non chiederà mai l’impossibile agli uomini.
    Ma una cosa chiede, ed in essa saremo vagliati: che non si dica che il falso pastore, con la sua falsa fede, abbia l’autorità di Dio; che sia legittimamente inviato da Lui, perché eletto in un conclave dove sono prevalsi inganni e manovre umane.
    La falsa fede dell’eletto si svelerà prima o poi nei suoi frutti deleteri contro la Fede.
    Pensare che costui abbia ricevuto direttamente da Dio il potere di produrli significa accusare Dio, o di ignorare i moti dei cuori e i fatti velati, o di autorizzare chi devierà il gregge che Cristo ha salvato col Suo sangue.
    Una grave incongruenza riguardo alla ragione, alla legge della Chiesa e al Magistero papale, che è
    anche blasfema.

    Quale il problema sollevato dalla Bolla di Papa Paolo IV?

    Il problema in questione, che è anche logico ed evangelico, consiste nella possibilità che un chierico faccia carriera nella Chiesa per raggiungere le sue cariche più alte conforme il piano del Nemico: delle sette e delle ideologie che vogliono un papa per cambiare la fede.
    Come difenderla?
    Il controllare le loro carriere ha un limite.
    Si è visto con Roncalli.
    In tal senso la Bolla di Paolo IV solo conferma quanto stabilito dalla Chiesa, per cui la condizione ontologica per essere candidati a quella carica è di avere la Fede.
    Se questa è deviata dal modernismo, a riconoscere l’inganno saranno i cattivi frutti dell’eletto, dopo che questi si manifestano.
    Se questo giudizio fosse soltanto soggettivo, un «difetto, paradossalmente di matrice protestante», allora la norma di San Paolo sull’eretico, (Tt 3, 9-10) «Non lo ricevete né lo salutate. Chi lo saluta partecipa alle opere malvagie di lui», (2 Giovanni 10-11) sarebbe falsa!
    Chi altro è il titolare del giudizio di adeguatezza alla vera fede se non i fedeli testimoni che: «anche se voi stessi (apostoli) o un angelo del cielo venisse ad annunziare un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia anatema» (Galati 1- 8).
    Un Papa non può essere anatema e chi è in quella condizione si giudica da solo, si auto condanna ipso facto.
    Lo dice la Bolla e la legge della Chiesa, che è disponibile e va conosciuta.
    Qui mi limito a fare un esempio.

    Se un presunto papa proclamasse che le anime si salvano professando qualsiasi fede, oltre alla falsità nella fede che è eresia pronunciata direttamente, deroga tacitamente dalla sua carica, resa senza senso. Qui non ci vuole alcuna autorità umana superiore al presunto papa, basta il principio d’identità e non contraddizione che è universale, per dimostrarlo nel disegno della Provvidenza.
    In sintesi, sostenere che la validità dell’elezione papale e il conseguente magistero, dipenda dalla fedeltà di questo al depositum fidei, non solo afferma un sacrosanto principio, ma pone attraverso questo il gregge al riparo dei falsi pastori.
    Un loro «diverso atteggiamento nei riguardi di un’eresia», a parte l’eufemismo, è condizione sufficiente per squalificare un chierico sotto la grave accusa di «favorire l’eresia», delitto che non esclude ma indica chi manca di fede e, invece di difenderla che è la ragione della sua carica, la espone a pericoli riciclati dalle mutate forme dei virus, che cambiano per sopravvivere.
    La cura può solo venire da un vero pastore con un magistero adeguato, cioè fedele, che rimpiazzi quello falso.
    Ecco il senso dottrinale della Bolla.
    Eppure oggi si accusa di sedevacantismo chi accusa eresie proposte dal Trono!

    Il Conclave per l’elezione papale è infallibile?

    Per essere logico la stessa domanda può essere formulata in un altro modo: ha il conclave che elegge un Papa un valore assoluto?
    La risposta logica è negativa: no, perché esso dipende dalla fallibile conoscenza umana dei candidati papabili
    Come escludere l’idea che un chierico possa aver perseguito la sua carriera spinto dall’intenzione di «migliorare» la Chiesa dove essa sembra aver fallito?
    L’idea dell’assolutezza del conclave porta a dire che è lo Spirito Santo che elegge il Papa; non che assista l’elezione se davvero invocato, ma che elegge anche un modernista che con le idee sopra è spergiuro del suo voto.
    Con l’argomento logico come con quello teologico e canonico la conclusione è la stessa.
    Basta leggere la Bolla «Cum ex di Papa» Paolo IV.
    Eppure, su questa si riesce a sollevare polveroni fantasmagorici, per cui il diritto su cui si poggia il Vicario di Dio per preservare la Chiesa di Dio dalle grinfie di un eretico occulto, non riguarda il Diritto di Dio!
    Forse riguarda il diritto fiscale!
    Gli attacchi o deformazione del Magistero papale aprono la strada all’autorità umana sul «Trono divino» (II Tesssalonicesi, 2).
    Riguardano l’avanzata di idee deviate, per non dire idolatriche sulla figura del Papa.
    Provengono, non da difensori del Papa cattolico, ma da quanti si sentono di dover difendere le vesti talari di chierici che occupano quella carica per aggiornarla ai tempi in questioni di fede.
    Lascio questa grave riflessione, che coinvolge il mondo delle anime, a chi vorrebbe difendere anche un diritto modernista di presiedere la fede se eletto da un conclave.
    Si aprirà allora l’opportunità per un’altra fede in un’altra chiesa!

    Per tornare al serio, propongo la lettura ora di un brano dell’importante enciclica papale sulla materia, nel senso del potere delle chiavi in mani liberali.
    Siamo al tema cruciale dei Segreti di La Salette e Fatima: l’apostasia, il Papa eliminato, l’Anticristo, temi sollevati con lo spaventoso avviso: «Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’Anticristo».
    L’ora della scalata nemica è segnata dall’apostasia e della levata di mezzo del «katechon», ultimo ostacolo all’ascesa dell’Anticristo nella sede romana.
    E non si dica che è farneticante tale visione prospettata dai Papi Gregorio XVI e Leone XIII: nella
    enciclica «Mirari vos», di Papa Gregorio XVI, contro il delirio dell’indifferentismo e di certe libertà è detto: «Tolto infatti ogni freno che contenga nelle vie della verità gli uomini già volgentisi al precipizio per la natura inclinata al male, potremmo dire con verità essersi aperto il pozzo dell’abisso... Allude alla visione dell’Apocalisse (9, 1-2): ...un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’abisso; egli aprì il pozzo dell’abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l’aria».
    Dove e chi ha la chiave che frena le libertà deliranti?...
    Proprio dove fu costituita la sede del beatissimo Pietro e la Cattedra della verità ad illuminare le genti, li hanno eretto il trono della loro abominazione e... colpito il pastore è disperso anche il gregge (confronta Leone XIII, «Esorcismo per invocare l’aiuto di San Michele Arcangelo»).
    Poiché la Sede romana è legata all’autorità di Dio, se da essa si dichiara il diritto alla libertà dell’umana scellera¬tezza proprio quando gli uomini abusano della libertà, è chiaro che l’Anticristo deve aver varcato la soglia della Chiesa.
    Come è stato possibile?

    A causa di conclavi vittime di violazioni «orripilanti», seguiti dall’apostasia consistente nell’inversione del riconoscimento di un’autorità per proclamare la Legge eterna di Dio, a favore di un’altra che, nella stessa sede proclama il diritto alla libertà di scelta della propria verità.
    Il Segno di Fatima diviene allora aiuto ineludibile per affrontare tale crisi della Cristianità, indicando l’abbattimento epocale della voce apostolica del Papato.

    A questo punto è utile citare un lettore ben formato e informato: «La Verità non è un qualcosa di relativo che chiunque può contraddire, la Verità è Cristo e chi la nega si pone automaticamente fuori dalla Chiesa. Ancor prima del Concilio, Giovanni XXIII aveva fatto dichiarazioni eretiche, vedi a proposito: ‘Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II’, di Paolo Pasqualucci, i suoi successori non hanno fatto altro che proseguire su questa strada. Come si fa a capire dov’è l’errore: semplice basta confrontare i documenti pontifici sino a Pio XII, tutti tra loro dottrinalmente coerenti, con quelli seguenti, spesso esattamente contrari, come ad esempio per ciò che riguarda la libertà religiosa e l’atteggiamento verso protestanti, ortodossi e le altre religioni. Sicuramente un bambino ci vedrebbe più chiaro di tanti ‘moderni’ cattolici. La vera tragedia è però stata quella che nessun vescovo, nemmeno Lefebvre, ebbe il coraggio di denunciare il Papa come eretico secondo la bolla di Paolo IV, dichiarando perciò la sede vacante; tant’è vero che ancora oggi la Fraternità San Pio X ritiene tutti i Papi legittimi e ha sempre celebrato in comunione con loro. Quanto poi al fatto che nostro Signore permetta ciò, basti dire che lui stesso l’aveva predetto parlando degli ultimi tempi» (M. Flavio, Genova).

    Non riguarda tutto questo il segno dei tempi che deve interessare i cattolici al disopra di ogni altra preoccupazione?
    Se non interessa non vuol dire che non è cruciale; vuol dire che la deresponsabilizzazione umana e cristiana di fronte alla Verità è a quel punto cruciale rivelato come la «grande apostasia» a cui i sacramenti da soli non possono rimediare.

    Arai Daniele

    Obiezioni alla Bolla di Papa Paolo IV

    di Carlo Alberto Agnoli


    I) La principale tesi che si adduce contro chi invoca la Bolla di Papa Paolo IV è che si tratterebbe di una disposizione a carattere puramente legislativo e non dogmatico e che, di conseguenza, essa, non essendo stata riprodotta nel Codex Juris Canonici del 1917, dovrebbe intendersi decaduta a mente del canone 6 del medesimo Codex.
    Ora, a parte l’obiezione, pur fondamentale e dirimente, che si tratta invece di una pronuncia a carattere dogmatico come risulta chiaramente sia dalle espressioni tipiche con cui viene formulata «de apostolica potestatis»; «plenitudine sancimus, statuimus, decernimus et definimus» «in perpetuum valitura...» sia dal fatto che essa si riporta, come risulta dai suoi precedenti già citati in questo lavoro, alle parole scritturali e quindi all’insegnamento divino «qui non credit jam judicatus est» (Joan. III), va detto che tale tesi è palesemente infondata anche per i motivi che qui di seguito si espongono.
    Prima di tutto, non è affatto vero che il Codex non riporti tradotto in termini appunto codicistici il contenuto della bolla.
    Esso, al contrario, la riproduce integralmente al Canone 188 paragrafo 4, che testualmente recita:
    «Ogni ufficio rimane vacante per tacita rinuncia ‘ipso facto’ e senza alcuna dichiarazione se il chierico pubblicamente si sia allontanato dalla fede cattolica».
    Ora, è indubitabile che il Papa ricada nella categoria dei chierici perché il Canone 108 paragrafo 3, definendo tale categoria, espressamente lo ricomprende.
    Questo richiamo è già sufficiente a stabilire la piena e totale validità e attualità della bolla, anche perchè il precedente canone 6, a sproposito invocato per sostenere la tesi contraria, al paragrafo 4 espressamente stabilisce: «in dubium aliquod canonum praescriptum cum veteri jure discreper, a veteri jure non est recedendum»; e la bolla di Paolo IV faceva parte del «Corpus Juris Canonici».
    Non si deve quindi discostare da tale diritto.
    Un altro argomento, pure decisivo, a sostegno del nostro assunto è dato dal fatto che il documento in questione è iscritto tra le fonti del Codex.
    In questo contesto normativo è evidente che la tesi qui oppugnata è frutto di una scarsa dimestichezza con le regole dell'ermeneutica e con i testi giuridici.

    Come ultima e disperata «ratio»: ci si aggrappa al disposto del canone 2314 che, nello stabilire la scomunica «latae sententiae» a tutti gli eretici e scismatici e quindi anche a chi, appartenendo a una di tali categorie, sedesse sul Soglio di Pietro, statuisce anche che essi vengano deposti dall’ufficio da loro ricoperto se, dopo duplice ammonizione, non si siano ravveduti.
    Senonchè è principio fondamentale di ermeneutica giuridica che non vi può essere contrasto fra due proposizioni di una medesima legge.
    Ora, l’apparente discrepanza si risolve agevolmente considerando che il canone 188 paragrafo 4 si inquadra nella normativa generale del Codex, mentre il canone 2314 rientra nella normativa speciale inerente alle sanzioni contro i delitti (pars tertia, titulus IX) e quindi alle modalità di erogazione delle sanzioni, cioè ad una fase per così dire procedurale che, come tale, è subordinata a quella sostanziale ed opera se ad in quanto la procedura possa essere seguita.
    Ora, è evidente che la procedura di cui al canone 2314 si riferisce alle modalità con cui un organo gerarchicamente superiore giudica e punisce le infrazioni di un inferiore e non sarebbe quindi applicabile a chi, anche solo apparentemente, detenesse nella Chiesa la «plenitudo potestatis» il quale, non potendo essere ammonito da nessuno «ratione jurisdictionis» lo può essere invece da chiunque «ratione charitatis».

    Si può inoltre argomentare che il canone 2314 è composto da due parti distinte:
    a) imposizione della pena di scomunica «ipso facto» a tutti i delinquenti in materia di fede;
    b) distinzione dell’erogazione delle sanzioni secondo la forma del delitto:
    1) se non è pubblico, stabilisce le ammonizioni necessarie perchè lo diventi e non sia inoltre frutto di ignoranza della dottrina della Chiesa.
    Se queste ammonizioni non sortono alcun effetto di ravvedimento nel delinquente, viene dichiarata la deposizione dall’ufficio o dal beneficio.
    2) se è pubblico («publice adheserint») mantiene la vacanza ipso facto stabilita dal canone 188 paragrafo 4 («firme»).
    In ogni caso, l’«occasio legis» e cioè il timore da parte di Papa Paolo IV che nel conclave convocato successivamente alla sua morte potesse essere eletto il cardinale Morone - sospettato di eresia, ma che mai era stato ufficialmente riconosciuto come eretico - dimostra l’evidenza che la Bolla intendeva colpire chiunque versasse in eresia anche se non in precedenza riconosciuta.
    L’interpretazione qui patrocinata del resto (e cioè l’invalidità «ipso jure» dell’elezione a pontefice romano di un eretico o scismatico è pacifica in dottrina, tant’è vero che l’Enchiridion Juris Canonici già citato nelle note afferma: «Eligi potest quolibet masculum, usu rationis pollens, membrum Ecclesiae. Invalide ergo eligerenfur feminae, infantes, hahituali amentia laborantes, non baptizati, haeretici, schismatici» (1).

    A conclusione di queste asserzioni, osserviamo «ad abundantiam» che:
    1) che la BoIla di Paolo IV è stata ribadita anche da S. Pio V con il Motu proprio «Inter multiplices curas».
    2) che il Codex del 1917, lungi dallo svalutarla, ne ha addirittura ampliato la portata chiarendo ciò che in essa era solo implicito, e cioè che anche l’eresia superveniens causa la decadenza del Pontefice Romano come da ogni altro ufficio ecclesiastico.
    Tra le obiezioni che vengono ulteriormente sollevate per inficiare la validità della Bolla di Papa Paolo IV, ricorre sovente, quella secondo cui Pio XII con la costituzione «Vacantis Sedis apostolicae» dell’8 dicembre 1945, ha derogato l’applicazione del documento paolino in oggetto.
    Pio XII infatti, ha dichiarato che: «Nessun cardinale può essere escluso dall’elezione attiva e passiva del Sommo Pontefice, con il pretesto o il motivo di non importa quale scomunica, sospensione, interdetto o impedimento ecclesiastico. Queste censure infatti, restano sospese solamente per questa elezione e conservano il loro effetto per il resto» (2).
    La lettura di questa frase dimostra in modo evidente che l’obiezione è priva di fondamento.
    Non si tratta infatti come nella Bolla di Paolo IV di eresia, ma di censure disciplinari.
    L’eresia come l’apostasia, non si oppongono alla disciplina della Chiesa, bensì alla fede, e non entrano quindi, nella categoria degli «impedimenti ecclesiastici», di cui parla Pio XII nella costituzione sopra citata.

    Bisogna inoltre ancora ricordare che non è la Chiesa che scaccia dal suo seno gli eretici e gli apostati, come invece accade per coloro che danno pubblicamente scandalo.
    Sono gli eretici e gli apostati che l’abbandonano e che da allora non gli appartiene più e non a causa delle pene (anatema o scomunica), di cui essa li colpisce a volte ulteriormente, ma per effetto della loro diserzione.
    La differenza tra la nozione di eretico e quella di scomunicato ci è data a conferma di ciò dal Catechismo del Concilio di Trento (3).

    Carlo Alberto Agnoli

    --------------------------------------------------------------------------
    1) Sipos - Galos, opera citata, pagina 187.
    2) Pio XII, «Acta apostolicae sedis», Roma, annata 1945, Titolo II, capitolo 1, paragrafo 34.
    3) Catechismo del Concilio di Trento, capitolo X, paragrafo 3.

    FONTE

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    Predefinito Un'altra balla per ridere ...

    Tra religione e politica

    Dare a Cesare quel che è suo


    Esce martedì 12 agosto negli Stati Uniti un nuovo libro di Charles Joseph Chaput, cappuccino e arcivescovo di Denver (Render Unto Caesar. Serving the Nation by Living Our Catholic Beliefs in Political Life, New York, Doubleday, 2008, pagine 258, dollari 21,95). Ne pubblichiamo in anteprima una recensione.

    di Robert Imbelli
    Docente di teologia al Boston College
    Massachusetts, Stati Uniti d'America


    Questo libro, benché sia rivolto principalmente ai cattolici, servirà anche a promuovere un dibattito molto necessario all'interno della Chiesa e al di fuori di essa. Inoltre, viene pubblicato in un momento particolarmente significativo: la vigilia di una delle più importanti elezioni presidenziali della storia americana recente. Il testo può essere letto a diversi livelli, che si illuminano a vicenda.
    Il primo livello ci viene suggerito dal sottotitolo: "Servire la nazione vivendo il nostro credo cattolico nella vita politica". Al centro della posizione dell'autore c'è il fatto che la fede, sebbene intensamente ed essenzialmente personale, non è però mai privata. Il rapporto con Dio attraverso Gesù Cristo è anche rapporto con altri in Gesù Cristo, come spiega benissimo la scena del giudizio nel venticinquesimo capitolo del Vangelo di Matteo. Tuttavia, anche a prescindere da questo, la fede biblica ha sempre implicazioni sociali e persino politiche. Chiunque prenda sul serio la tradizione profetica dell'Antico Testamento lo riconosce subito. Il compimento della rivelazione in Gesù Cristo non fa che intensificare la vocazione del credente a promuovere l'avvento del Regno in ogni dimensione della vita umana.
    La dottrina sociale della Chiesa cattolica - dalla Rerum novarum di Leone xiii, passando per la Gaudium et spes del Vaticano ii fino al recente discorso alle Nazioni Unite di Benedetto XVI - è l'applicazione permanente di questa tradizione profetica ai contesti mutevoli della storia mondiale. L'arcivescovo Chaput esprime così la propria convinzione: "La Chiesa non rivendica il diritto di dominare la dimensione secolare, ma ha tutto il diritto - di fatto l'obbligo - di impegnare l'autorità secolare e di sfidare quanti la esercitano a soddisfare le esigenze di giustizia. In questo senso, la Chiesa cattolica non può stare, non è mai stata e non starà mai "fuori dalla politica". La politica implica l'esercizio del potere. L'uso del potere ha un contenuto morale e conseguenze umane. Il benessere e il destino della persona umana sono decisamente materia, e speciale competenza, della comunità cristiana" (pp. 217-218; i corsivi sono nel testo originale).
    D'altro canto vi sono personalità influenti, sia negli Stati Uniti sia in Europa, che cercano di ridurre la religione e la fede a un'opzione privata senza un ruolo pubblico da svolgere. Quindi cercano di edificare ciò che un critico definisce a naked public square, "una nuda pubblica piazza", rinchiudendo così la religione tra le pareti domestiche e secolarizzando totalmente la dimensione pubblica. Per l'arcivescovo Chaput questa strategia non solo snatura la religione, e in particolare il cattolicesimo, ma è in profonda contraddizione con l'unicità storica dell'"esperimento americano della democrazia". Il cosiddetto "muro di separazione" fra Stato e Chiesa negli Stati Uniti - un'espressione utilizzata spesso in maniera fuorviante - non ha mai voluto escludere il pieno impegno dei credenti nella vita politica e civile della nazione, e l'ingiunzione della Costituzione americana contro il "riconoscimento" istituzionale della religione è stata una preziosa tutela contro l'intrusione arbitraria dello Stato negli affari religiosi.
    L'autore si ispira in modo significativo al pensiero del teologo gesuita John Courtney Murray, che al Vaticano ii svolse un ruolo importante nell'elaborazione della pionieristica dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Murray sosteneva - e Chaput è d'accordo - che i documenti fondanti della democrazia americana avevano fatto ricorso a un'idea di legge naturale che afferma le verità universali sulla condizione umana. Quindi i cattolici, con il loro impegno per la tradizione della legge naturale, possono apportare un contributo importante alla vita pubblica e al processo politico americani. Infatti, come si può contribuire al bene comune se non si portano nei dibattiti e nelle discussioni le proprie convinzioni morali e i propri valori profondi?
    Inoltre, le figure più autorevoli della tradizione cattolica, come san Tommaso d'Aquino, riconoscono la legittima autonomia della dimensione secolare. La pretesa di "Cesare" alla lealtà e alla dedizione dei cittadini è legittima, ma la lealtà non può mai usurpare l'obbedienza e il culto che si devono solo a Dio. L'arcivescovo Chaput dedica un capitolo commovente al santo inglese Tommaso Moro, che Papa Giovanni Paolo II definì "il celeste patrono dei governanti e dei politici". La grandezza di Moro sta nella sua lotta coraggiosa per restare fedele al proprio dovere verso il suo sovrano terreno senza mai compromettere la sua dedizione fondamentale ai dettami della propria coscienza come riflesso della sua obbedienza al suo Re celeste. Come è ben noto, questa coerenza alla fine gli costò la vita, ma la sua testimonianza resta una forza potente e una ispirazione per quanti cercano di illuminare l'ordine sociale con la luce del Vangelo.
    Il secondo livello di lettura del libro è un appello ai cattolici americani a riacquistare una comprensione salda e completa della propria tradizione di fede. Troppo spesso, nei quarant'anni trascorsi dal concilio, i cattolici si sono ritrovati divisi da appelli selettivi all'uno o all'altro aspetto della tradizione. Questa tendenza a scegliere selettivamente è stata definita cafeteria Catholicism, cattolicesimo à la carte, e il crescente individualismo di una società americana orientata al consumo non ha fatto che esacerbarla. Dunque, invece di essere "lievito" nella società, vi è il rischio di adattarsi indiscriminatamente alla cultura contemporanea, e questo indebolisce la testimonianza evangelica della Chiesa. L'autore lancia una sfida diretta ai cattolici: "In quanto cattolici dobbiamo guardare in modo più lucido e autocritico a noi stessi come credenti, alle questioni che sono alla base dell'erosione attuale dell'identità cattolica, all'assimilazione totale - ma forse assorbimento è un termine migliore - dei cattolici da parte della cultura americana" (p. 84).
    In effetti, l'arcivescovo Chaput pone ai suoi compatrioti la stessa sfida che san Paolo pose ai suoi concittadini dell'impero romano: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Romani, 12, 2). La chiave qui è la virtù del discernimento - e questo è sempre un compito arduo. Tuttavia sarebbe ingenuo non ammettere che il discernimento autentico pone problemi particolari nella nostra epoca in cui l'influsso dei mezzi di comunicazione sociale è tanto dilagante. I sistemi di comunicazione immediata offrono di certo dei benefici, ma possono anche, a causa della loro assuefazione all'effimero, impedirci di fare quella necessaria e accurata valutazione che sola può aiutarci a formulare un giudizio valido. Inoltre, gran parte dei mezzi di comunicazione sociale più diffusi (musica, film, videogiochi) promuove un divertimento di pura evasione o di natura violenta, che anestetizza e offusca la coscienza. Nessuna meraviglia dunque che l'arcivescovo Chaput ricorra diverse volte all'analisi del critico della cultura contemporanea Neil Postman e al suo libro, dal titolo inquietante, Amusing Ourselves to Death ("Divertirsi da morire").
    La valutazione realistica di Chaput della sfida che dobbiamo affrontare sfocia in un rinnovato apprezzamento del costo dell'essere discepoli. Evoca figure come il pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer, il sostenitore americano dei diritti civili Martin Luther King e il vescovo cattolico vietnamita, poi cardinale, François-Xavier Nguyên van Thuân come testimoni esemplari di ciò che una coraggiosa sequela di Cristo può implicare. Di fronte alla loro testimonianza di fede la nostra propensione ai facili compromessi può apparire un tradimento.
    Alla fine, il criterio definitivo di un discernimento che sia fonte di vita per un cristiano può essere solo il Signore Gesù. Egli è il tesoro assoluto della Chiesa, il Vangelo di vita che siamo chiamati a condividere. L'autore scrive: "La fede cattolica è molto più di un insieme di principi sui quali concordiamo. È piuttosto uno stile di vita completamente nuovo. Le persone devono vedere questa nuova vita vissuta. Devono vedere la gioia che essa reca. Devono vedere l'unione del credente con Gesù Cristo" (p. 190; il corsivo è nel testo originale).
    Infine, il terzo possibile livello di lettura del libro è quello di una lettura del Concilio Vaticano ii. Sebbene non utilizzi il termine e nemmeno affronti la questione ex professo, l'arcivescovo legge chiaramente il Vaticano ii attraverso la lente di una "ermeneutica della riforma" all'interno della tradizione millenaria della Chiesa.
    Di fronte a frequenti appelli allo "spirito" del Concilio, afferma esplicitamente: "L'insegnamento del Vaticano ii è innanzi tutto e soprattutto nei documenti conciliari stessi. Nessuna interpretazione del concilio ha valore a meno che non proceda organicamente da cosa ha effettivamente detto, e poi vi rimanga fedele" (p. 112; il corsivo è nel testo originale). Inoltre, quanto il concilio ha effettivamente affermato va compreso nel contesto del suo intero complesso di insegnamenti. Quindi, per quanto siano importanti la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra aetate) o la dichiarazione sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae), esse devono sempre essere lette nel contesto generale fornito dalle quattro "costituzioni" - i principali pilastri del Vaticano ii. In particolare esse vanno lette alla luce della visione cristocentrica del concilio che trae il suo orientamento dalla confessione della Lumen gentium che "Cristo è la luce delle genti" (n. 1) e dalla gioiosa affermazione della Gaudium et spes che "Cristo rivela pienamente l'uomo a se stesso e gli rende chiara la sua altissima vocazione" (n. 22).
    È vero naturalmente che i lavori conciliari sono stati focalizzati sull'ecclesiologia e che il concilio non ha dedicato un documento specificamente alla cristologia. Nonostante questo la visione del concilio è stata permeata dalla cristologia - e in particolare da una cristologia "alta". Ho scritto altrove a proposito della "profonda grammatica" cristologica del Vaticano ii: come cioè tutto l'insegnamento del Vaticano ii deve essere letto alla luce della sua confessione dell'unicità di Gesù Cristo. Nel libro dell'arcivescovo Chaput ritrovo questa stessa convinzione. Per esempio scrive: "Dobbiamo radicare la dimensione sociale della nostra fede cattolica e qualunque altra cosa facciamo nell'amore di Dio, che alimenta la nostra missione di evangelizzazione. Non possiamo offrire un'azione sociale cattolica agli uomini e alle donne del mondo senza al contempo offrire loro Gesù Cristo" (p. 193). La missione e l'identità cattoliche sono inseparabili e trovano espressione sacramentale nell'Eucaristia, fonte e culmine della vita cattolica: ecclesia de Eucharistia. L'arcivescovo afferma: "La Chiesa cattolica è una rete di rapporti basati sulla relazione più importante di tutte: il dono di sé di Gesù Cristo nell'Eucaristia per la nostra salvezza. Nessuno di noi si guadagna il dono dell'amore di Cristo. Nessuno di noi "merita" l'Eucaristia" (p. 223).
    In uno degli ultimi capitoli l'autore affronta alcune questioni pastorali relative all'accesso all'Eucaristia da parte di personalità pubbliche che sostengono pratiche giudicate dalla Chiesa intrinsecamente malvagie, per esempio l'aborto. L'atteggiamento dell'arcivescovo è sensibile dal punto di vista pastorale e convincente da quello teologico. Aiuterà a fare chiarezza nell'attuale dibattito e nel discernimento su questa delicata materia - una materia che esige di essere affrontata per il bene dell'integrità della fede.
    Insomma, l'arcivescovo Chaput ha scritto un libro documentato, equilibrato, civile e incisivo. Andrebbe letto, discusso, preso a cuore negli Stati Uniti e altrove. Per molti versi il suo messaggio è semplice, ma di certo non semplicistico. Pone esplicitamente la domanda che cosa debbano fare i cattolici oggi per il loro Paese, e risponde in modo altrettanto esplicito: "La risposta è: non mentire. Se ci professiamo cattolici, dobbiamo dimostrarlo. La vita pubblica americana ha bisogno di persone che difendano a fronte alta, senza infingimenti, la verità della fede cattolica e i comuni valori umani che essa sostiene" (p. 197; il corsivo è nel testo originale). Io trovo qui una chiara eco di ciò che l'apostolo Paolo indica agli Efesini (4, 25) come requisito della loro unione in Cristo: "Lasciate dunque la menzogna: dite la verità, ciascuno al proprio prossimo; siamo infatti membra gli uni degli altri".

    Fonte: L'Osservatore Romano, 11-12.8.2008, p. 4

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    Predefinito vediamo invece la posizione cattolica sul tema:

    Papa Pio VII, Lettera al Vescovo di Troyes (1814):

    “Il nostro cuore è ancor più profondamente afflitto da una nuova causa di dolore che, lo ammettiamo, ci tormenta e fa sorgere profondo scoramento ed estrema angoscia: è l’articolo 22 della Costituzione. Non soltanto esso permette la libertà dei culti e di coscienza, per citare i termini precisi dell’articolo, ma promette sostegno e protezione a questa libertà e, inoltre, anche ai ministri dei quali i culti sono citati....
    Questa legge fa ben più che stabilire la libertà per tutti i culti senza distinzione: mescola la verità con l’errore e pone le sette eretiche e perfino il Giudaismo sullo stesso piano della santa ed immacolata Sposa di Cristo, fuori della quale non ci può essere salvezza. In aggiunta a questo, nel promettere favore e supporto alle sette eretiche ed ai loro ministri non sono semplicemente le loro persone, ma i loro errori che vengono favoriti e tollerati. Questa è implicitamente l’eresia disastrosa e sempre da deplorarsi che S. Agostino descrive in questi termini: ‘Pretende che tutti gli eretici siano sul retto cammino e dicano la verità. Questa è un’assurdità così mostruosa che non posso credere che qualsiasi setta possa realmente professarla.’”


    Papa Gregorio XVI, “Mirari Vos” (15 agosto 1832):

    “Veniamo ora ad un’altra causa, ahimé! fin troppo fruttuosa delle deplorevoli infermità che oggi affliggono la Chiesa. Intendiamo l’indifferentismo, ovvero quella diffusa e pericolosa opinione seminata dalla perfidia dei malvagi, secondo la quale è possible, mediante la professione di qualche sorta di fede, procurare la salvezza dell’anima, posto che la morale di una persona si conformi alle norme of giustizia e probità. Da questa sorgente avvelenata dell’indifferentismo sgorga quella falsa e assurda massima, meglio definita il folle delirio (deliramentum), secondo il quale si deve ottenere la libertà di coscienza e garantirla a chiunque. Questo è il più contagioso degli errori, che prepara la via per quella assoluta e totalmente sfrenata libertà di opinioni che, per la rovina della Chiesa e dello Stato, si diffonde ovunque e che certuni, per eccesso di impudenza, non temono di propugnare come vantaggiosa per la religione. Ah, ‘qual morte più disastrosa per le anime della libertà di errore?’, disse S. Agostino.”


    Papa Pio IX, “Quanta Cura” (8 dicembre 1864):

    “Contrarie agli insegnamenti delle Sacre Scritture, della Chiesa, e dei santi Padri, queste persone non esitano ad asserire che ‘la miglior condizione dell’umana società è quella in cui il governo non riconosce alcun diritto di correggere, mediante l’attuazione di sanzioni, i violatori della religione cattolica, eccetto quando sia richiesto dal mantenimento della pubblica quiete’. Da questa totalmente falsa nozione di governo sociale, non temono di sostenere quell’erronea opinione sommamente perniciosa per la Chiesa Cattolica, e per la salvezza delle anime, che venne chiamata dal Nostro Predecessore, Gregorio XVI folle delirio (deliramentum): vale a dire ‘che la libertà di coscienza e di culto è diritto peculiare (o inalienabile) di ogni uomo che deve essere proclamato per legge, e che i cittadini hanno diritto a tutti i generi di libertà, senza alcuna restrizione di legge, sia ecclesiastica sia civile, che permettano loro di manifestare apertamente e pubblicamente le loro idee, con la parola, attraverso la stampa, o con qualsiasi altro mezzo.’”


    Le seguenti proposizioni furono condannate da Papa Pio IX nel “Sillabo degli Errori” (8 dicembre 1864):

    15. Ogni uomo è libero di abbracciare e professare quella religione che, guidato dalla luce della ragione, egli consideri vera.”
    “55. La Chiesa dev’essere separata dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa.”
    “77. Al giorno d’oggi, non è più opportuno che la religione cattolica sia tenuta come unica religione dello Stato, ad esclusione di tutte le altre forme di culto.”
    “79. Inoltre è falso che le libertà civili di ogni forma di culto e il pieno diritto, dato a tutti, di apertamente e pubblicamente manifestare qualsivoglia opinioni e pensieri, conduca più facilmente a corrompere i costumi e le menti del popolo e a propagare la peste dell’indifferentismo.”


    Papa Pio IX, enciclica “Singulari Quadam” (9 dicembre 1854):

    “Poiché è certo che la luce della ragione si è attenuata, e che il genere umano è caduto miserabilmente dal suo primigenio stato di giustizia ed innocenza a causa del peccato originale, che si trasmette a tutti i discendenti di Adamo, può qualcuno ancora pensare che la ragione da sola sia sufficiente per il conseguimento della verità? Se si deve evitare di scivolare e cadere in mezzo a tali grandi pericoli, e a fronte di tale debolezza, si può negare che la divina religione e la celeste grazia siano necessarie alla salvezza?”
    Per ritornare al punto, si potrà dire allora che l’uomo abbia il “diritto” di prestare culto a Dio in qualunque maniera desideri? Si potrà dire che l’uomo abbia il “diritto” di liberamente promuovere falsi insegnamenti su questioni di religione nella società e di diffondere promiscuamente tutte le forme di dottrine erronee? Si potrà dire che l’uomo possieda il “diritto” - il potere morale - di insegnare e far proseliti delle dottrine dell’Ateismo, Agnosticismo, Panteismo, Buddismo, Induismo, e Protestantesimo? E cosa, allora, riguardo a coloro che praticano la Stregoneria o il Satanismo? Si consideri questo specialmente riguardo alle nazioni cattoliche dove la religione del Paese è il Cattolicesimo. I governi cattolici sarebbero forse obbligati a garantire il “diritto” nella legislazione civile di propagandare tutte le forme di religione? I governi cattolici sarebbero obbligati a permettere per diritto civile la diffusione di ogni tipo di dottrina tenuta dalle svariate religioni?


    Papa Leone XIII, enciclica “Libertas” (20 giugno 1888):

    “Il diritto è una facoltà morale, e come abbiamo detto e non può essere abbastanza spesso ripetuto, sarebbe assurdo credere che appartenga naturalmente e senza distinzione alla verità ed alle menzogne, al bene ed al male.”


    Leone XIII, Immortale Dei (1885)

    "La Società non dipende meno da DIO che i singoli individui che la compongono, né ha minori obbligazioni che quelli verso DIO medesimo, dal quale essa riconosce l'essere, la conservazione, e tutto quel cumulo immenso di beni che ha nel suo seno. Quindi come a nessuno è lecito non curarsi dei propri doveri verso Dio, il più importante dei quali è quello di professare e praticare la Religione, e non quella che più talenta a ciascuno, ma quella che Dio impose, e che per determinati e non equivoci caratteri è dimostrata unica vera tra tutte le altre, così gli Stati non possono, senza empietà, condursi come se Dio non fosse o non curarsi della Religione come di cosa estranea e di nessuna importanza, o adottarne indifferentemente una fra le molte; avendo invece l'obbligo di onorare Iddio in quella forma e in quel modo che Egli stesso mostrò di volere."


    Leone XIII, Libertas praestantissimum (1888)

    "Considerata rispetto alla società, la libertà dei culti importa che lo Stato non è tenuto a professarne o a favorirne alcuno; anzi deve essere indifferente a riguardo di tutti e averli in conto di giuridicamente uguali, anche se si tratti di nazioni cattoliche. Ma, perché tali massime fossero vere, bisognerebbe che il civile consorzio o non avesse doveri verso Dio, o li potesse impunemente violare; due cose false apertamente. Difatti l'umana società (...) non può dubitarsi che è da Dio. Iddio è quegli che creò l'uomo socievole, e lo pose nel consorzio dei suoi simili, affinché i beni, di cui ha bisogno la sua natura e che egli, solitario, non avrebbe potuto conseguire, li trovasse nell'associazione. Perciò la società civile, proprio perché società, deve riconoscere in Dio il padre e l'autore suo, e riverirne e onorarne il potere e il dominio sovrano. Ragione adunque e giustizia del pari condannano lo Stato ateo o, ch'è lo stesso, indifferente verso i vari culti, e ad ognuno di loro largo dei medesimi diritti.
    Posto pertanto che una religione deve professarsi dallo Stato, quella va professata che è unicamente vera, e che per le note di verità, che evidentemente la suggellano, non è difficile a riconoscersi, massime in paesi cattolici. Questa dunque conservino, questa tutelino i governi, se vogliono, come è debito loro, provvedere prudentemente e utilmente alla civil comunanza. Perché a pro dei sudditi è costituita la pubblica potestà; e, quantunque il fine suo prossimo sia di procurare ai cittadini la prosperità della vita presente, non deve per questo impedire, ma piuttosto agevolare loro il conseguimento di quel sommo e ultimo bene, in cui consiste l'eterna felicità nostra, bene non conseguibile senza la pratica della vera religione".


    Leone XIII, lettera Egiunto (1889) all'Imperatore del Brasile:

    "La libertà di culto pone sul medesimo piano la verità e l'errore, la Fede e l'eresia, la Chiesa di Gesù Cristo e una qualsiasi istituzione umana: stabilisce una deplorevole e funesta separazione tra la società umana e DIO, suo Autore, perviene, infine, alle tristi conseguenze che sono l'indifferentismo di Stato in materia religiosa o l'ateismo, che ne è l'equivalente.".


    Padre Garrigou-Lagrange (1950):

    "Molti cattolici (oggi quasi tutti) sembrano ignorare gli obblighi della società verso Dio e considerano come legittima la neutralità dello Stato, la neutralità della scuola, la completa libertà di coscienza. Per questa strada la società diventa radicalmente irreligiosa e atea". (De Revelatione p. 628)


    Papa Pio XII, allocuzione ai giuristi cattolici “Ci Riesce” (6 dicembre 1953):

    “Si deve chiaramente affermare che nessuna autorità umana, nessuno Stato, nessuna Comunità di Stati, di qualsivoglia carattere religioso, può dare un mandato positivo o una autorizzazione positiva di insegnare o di fare ciò che è contrario alla verità religiosa o al bene morale... Qualsiasi cosa non risponda alla verità ed alla legge morale non ha oggettivamente alcun diritto ad esistere, né alla propaganda, né all’azione.”

 

 
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