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Discussione: La stirpe indoeuropea

  1. #1
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    La stirpe indoeuropea

    Con il termine Indoeuropei per lo più si indica un insieme di popolazioni che parlano un comune idioma denominato appunto indoeuropeo, e che avrebbe popolato un'area comune diverse migliaia di anni fa (per alcuni tra il 4500 a.C. e il 2000 a.C.), esso si sarebbe poi disperso per l'Eurasia a causa di dinamiche complesse di diffusione, legate a linee di transumanza e commercio preistoriche, e a dinamiche di sovrapposizione militare a partire da azioni "opportunistiche", nate forse da instabilità di carattere demografico, dando così origine a diversi popoli che conservano tuttora fortissime ed evidenti analogie linguistiche (lingue indoeuropee).


    La lingua come fonte dell'ipotesi

    La teoria dell'esistenza di una proto-popolazione nasce da studi linguistici e precisamente dalla linguistica comparativa che ha mostrato come si possano identificare in popolazioni tra loro distanti, anche geograficamente, forti caratteristiche comuni non solo nel lessico, ma anche nella morfologia linguistica, nella grammatica e addirittura nella cultura.

    Come hanno sottolineato studiosi come Georges Dumézil e E. Benveniste ci sono forti parentele linguistiche, testimoniate dai numerosi vocaboli aventi l'etimo in comune e che investono diverse aree d'interesse (la religione, le istituzioni, la famiglia, l'agricoltura, ecc.), nonché l'ideologia tripartita, ossia la suddivisione della realtà esistente all'interno di tre funzioni specifiche: sacrale, guerriera, produttiva, la quale si ritrova, consapevolmente come tale, soltanto presso i popoli di stirpe indoeuropea.

    Tuttavia questi studi si basavano soprattutto su un'analisi linguistica e antropologica che pervenivano ad una proto-cultura, ad una proto-popolazione, ad una proto-lingua, tuttavia mancavano dei documenti archeologici, delle prove tangibili che potessero dare ulteriore sostegno a questa teoria.

    Il problema della Urheimat

    Sebbene l'unità linguistica indoeuropea ("Ursprache") sia stata ricostruita attraverso il lavoro degli studiosi, rimane ancora il problema di comprendere la patria di provenienza ("Urheimat" o "Heimweh") di questa ondata migratoria e i motivi che l'avessero provocata.

    La questione diventava centrale. La ricerca dell'Urheimat, vale a dire la patria originaria o dimora natia del popolo (o meglio, del gruppo di tribù affini) che parlava la protolingua (o meglio, i suoi dialetti) diventava fondamentale per indirizzare la ricerca archeologia e storica verso una direzione piuttosto che verso un'altra.

    Tale ricerca ha dato luogo a un ampio ventaglio di ipotesi, derivanti dai più diversi approcci metodologici. La patria di origine è stata di volta in volta identificata nell'India, nell'Asia minore, nei Balcani, nelle regioni baltiche, nella Russia meridionale o addirittura in Egitto.


    Indoeuropei invasori del nord?

    Il più diffuso e accreditato modello sulla diaspora continentale degli Indoeuropei è basato su una prospettiva che, sul piano paletnologico, si può definire "migrazionista", ed è collegato con l'idea che gli Indoeuropei si siano ovunque sovrapposti, in una o più fasi, alle popolazioni preindoeuropee, soggiogandole e dominandole come élite militari, che poi imposero la loro lingua alle genti sottomesse (secondo un modello che Renfrew e altri studiosi definiscono mutamento linguistico per sovrapposizione di un'élite).


    fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Indoeuropei

  2. #2
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    Basi concettuali del modello degli Indoeuropei invasori - Il popolo guerriero

    L'idea che le migrazioni indoeuropee fossero dovute ad una sorta di invasione da parte di genti più forti nasceva da una visione "romantica" di questo popolo, probabilmente originata dal clima e dalla cultura in cui era nata questa teoria.

    Lo studio dell'indoeuropeo si mischiava, alle sue origini, con lo studio delle lingue germaniche e della cultura dei Germani che si presentavano come guerrieri patriarcali rozzi e feroci, primitivi e nomadi, in opposizione all'avanzata civiltà mediterranea antica greco-latina, ma anche andando assai più indietro nel tempo, nelle tradizioni fra storia e leggenda che circondano l'origine dell'età antica mediterranea, agli studiosi si offriva il modello dell'invasione dorica che, intorno al 1100 a.C. avrebbe spazzato via la civiltà greca preesistente, anch'essa indoeuropea (e non meno guerriera, visto che aveva sopraffatto la civiltà asiatica dei Troiani). Quanto al ramo indiano dell'indoeuropeo, o indo-germanico, era fin troppo facile ravvisare, nei Veda come nei più tardi poemi epici Mahābhārata e Ramayana, il sovrapporsi, a genti preindoeuropee, di una nobile società eroica e guerriera, non dissimile da quella descritta nei poemi omerici.

    Tenendo conto del bagaglio culturale in possesso dei linguisti alle origini del metodo neogrammatico e della linguistica comparativa, e considerando che, all'inizio, l'idea di evoluzione linguistica seguiva il modello, piuttosto rozzo, dell'albero genealogico (la cosiddetta Stammbaumtheorie o "modello di evoluzione ad albero" di Schleicher: dalla protolingua si dipartivano due varianti o rami, orientale, satem, occidentale, kentum, che poi a loro volta si frammentavano in sottofamiglie ulteriori, fino ad arrivare alle lingue storiche), i risultati erano più che ovvi: gli Indoeuropei erano una popolazione nomade primitiva, guerriera, patriarcale, venuta dal nord.

    Questo era l'archetipo dell'indoeuropeo o ario, e a dare forza all'ipotesi c'erano indizi indiretti provenienti da aree tutt'altro che nordiche (ad esempio, gli eroi achei di Omero sono biondi, quella che veniva considerata la più achea e la più guerriera delle dee di Omero, Atena, ha, secondo l'interpretazione più diffusa dell'epiteto che la caratterizza, cioè Glaucopide, gli occhi glauchi, cioè azzurro-chiari, oltre ai capelli biondi: una vera valchiria, insomma).

    L'ipotesi più diffusa sulla tipologia di popolazione era quella di un popolo di guerrieri nomadi che, migrando dalle sue sedi originarie a causa della scarsità di risorse, avrebbe travolto le civiltà preesistenti, portando tuttavia delle innovazioni tecnologiche come la metallurgia del bronzo, poi del ferro, l'uso del carro da guerra e del cavallo.

    Le conseguenze storico-politiche della teoria

    Questa era la visione "romantica" che ricostruiva gli Indoeuropei come un popolo rozzo e guerriero ma, paradossalmente, più evoluto sotto altri aspetti legati in particolar modo all'uso di strumenti da guerra (carro, cavallo, armi in ferro).

    Tale idea ebbe conseguenze importanti nella storia dell'evoluzione del pensiero politico occidentale, dando origine, in taluni ambienti, a deformazioni ideologiche delle acquisizioni della linguistica. Tali interpretazioni finirono di volta in volta per avallare le varie dottrine aggressivistiche e razzistiche che hanno segnato la storia del mondo fra Ottocento e Novecento, dalla legittimazione dell'imperialismo delle potenze europee, fino alle aberrazioni antisemite del nazismo. Basti considerare che il sinonimo di indoeuropeo è ario o anche ariano.

    Non è un caso pertanto che molte ipotesi, diffuse nel secondo dopoguerra, circa l'origine degli Indoeuropei, possano sembrare talora sottilmente venate di una coloritura ideologica di segno opposto, essendo tese a sgombrare il campo degli studi da ogni identificazione fra affinità linguistica e base razziale. In ogni caso, allo stato attuale l'idea degli Indoeuropei invasori è da più parti messa in discussione, pur rimanendo quella più accettata.

    Le basi scientifiche a favore della diffusione dal nord degli Indoeuropei: indizi fra linguistica e paleontologia

    L'idea che gli Indoeuropei provenissero dal nord, benché nata su basi teoriche non sempre scientifiche, ha in seguito trovato sostegno in corposi studi di carattere linguistico e su quello che il lessico ricostruito sembra indicare circa la fauna e la flora delle regioni che le tribù parlanti la protolingua avrebbero potuto abitare.

    Il lessico ricostruito sembra avere parole comuni facilmente individuabili per piante come il faggio o la quercia per animali come il cervo, il salmone, il lupo, mentre animali come il leone non hanno una marca lessicale chiara e univoca. Dall'incrocio degli areali delle specie che si identificano con gli animali i cui nomi sono comuni nel protolessico, si è pensato di poter ricavare con sufficiente esattezza l'ubicazione dell' Urheimat.

    Ecco alcuni esempi dello studio di nomi legati alla flora e alla fauna:

    cervo: il termine indoeuropeo corrispondente è *ker-wo-s, dalla radice *ker *kr, testa, collegata fra l'altro col greco kéras, "corno" (tutta l'Europa).
    alce: la radice indoeuropea corrispondente è *ark-, variante alk- (essere forte, proteggere), collegata fra l'altro col greco alkē, "valore, vigore" (nell'antichità, Europa, tranne zone mediterranee).
    lupo: il termine indoeuropeo per questo animale è *wlkwòs, che nelle lingue indoeuropee mediterranee è attestato nella variante *lukwos, con metatesi fra *l e *w.
    cane: il termine indoeuropeo *kwōn (gen. *kunòs) definisce il primo animale addomesticato dall'uomo; le ricostruzioni degli studiosi che collegano l'indoeuropeo alla più vasta superfamiglia nostratica, sembrano indicare che la parola sia comune a più famiglie linguistiche, indoeuropee e non; la ricostruzione nostratica ed eurasiatica della parola cane è una delle più affidabili (il nostratico è un'ipotetica protolingua del tardo mesolitico, epoca a cui risale la domesticazione del cane) -non è rilevante quanto al suo areale;
    salmone: la parola indoeuropea è *laks, che nelle lingue indoeuropee mediterranee (come il latino: salmo) è stata sostituita da una parola derivata da una radice *sal- che significa, "saltare, salire, risalire" (areale: fiumi sfocianti nel Baltico, ma anche Danubio e Volga);
    faggio: la parola indoeuropea è *bhāghos, che potrebbe tanto riferirsi a fagus silvatica (Europa occidentale), quanto a fagus orientalis (Caucaso e Urali)
    leone: per il leone si è voluta ricostruire una radice *singho-s, a partire dal sanscrito simha (leone) e dall'albanese inj (leopardo). Dato che si trova in aree così remote l'una dall'altra, la radice deve essere per forza di cose originaria (Walde-Pokorny-Devoto). Tuttavia è da notare che essa, in due lingue diverse, si riferisce a due animali distinti, che altro non hanno in comune se non l'essere grandi felini selvatici. Si deve considerare il fatto che, rispetto alla costellazione degli altri lemmi riferiti ad animali, che sono abbastanza univoci (in ogni caso, la distinzione fra due tipi di faggio salta meno all'occhio di quella fra un leopardo e un leone), questo lemma è particolarmente incerto nell'interpretazione. L'idea che ne risulta è che *singho- indicasse più che altro un grosso felino. Si pongono dunque due possibilità: o l'albanese o il sanscrito attestano il significato originario. Ora, se il significato originario è "leone", avrebbero ragione i sostenitori dell'ipotesi che vuole l' Urheimat in India. Tuttavia, questo dato sarebbe in fortissima contraddizione con gli altri, in particolare con *bhāghos, il faggio. Se invece partiamo dal presupposto che l'etimo originario sia conservato nell'albanese, le cose cambiano radicalmente. Il leopardo, in età antica, era diffuso nell'Europa orientale, vicino al Caucaso, e in Anatolia. Ora, se accettiamo che *singho- significa "leopardo", le possibilità dell' Urheimat si restringono: o Caucaso-area anatolica (Renfrew, Gamkrelidze, Ivanov), o interessamento primitivo dell'area nord-pontica (Gimbutas). Dato che ogni elemento deve essere considerato nel contesto di tutti gli altri elementi disponibili, l'insieme dei dati relativi agli areali delle specie identificano una zona ristretta a est del Mar d'Azov, poco a nord del Caucaso, come il luogo in cui gli Indoeuropei potevano aver incontrato tutti gli animali e le piante notevoli di cui il proto-lessico parla.
    Su questa base si riusciva a risalire alle zone dove la radice indoeuropea delle parole si era conservata intatta e aveva resistito alle influenze esterne. L'idea era che lì dove si era conservata la "purezza" della lingua lì fosse anche identificabile la zona di origine delle proto-popolazioni indoeuropee: l'Urheimat.

    Nell'insieme, le indicazioni della paleontologia linguistica sembrano escludere l'Europa mediterranea. L'areale antico delle specie considerate, e di altre, sembra essere compreso fra l'Elba, il Danubio e il Volga e l'Ural. A partire da queste indicazioni di massima, i diversi studiosi prendono poi strade diverse: così, ad esempio, citando in ordine sparso, Giacomo Devoto colloca la patria originaria in un'area compresa fra la Germania e la Polonia attuali; secondo l'ipotesi Bosch-Gimpera l'Urheimat era a metà strada fra il bassopiano germanico occidentale e il bassopiano sarmatico occidentale; Wolfgang Schmid colloca l'Urheimat decisamente sul Baltico, fra Pomerania e Lituania; C'è infine l'ipotesi di Marija Gimbutas (riproposta da James P. Mallory) della collocazione dell'Urheimat nella steppa uralo-pontica



    Le diverse ipotesi della localizazzione dell'Urheimat
    fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Indoeuropei

  3. #3
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    Probabili indizi culturali di una Urheimat nordica

    Accanto alle indicazioni della paleontologia linguistica, altri elementi a favore di una Urheimat nordica (come minimo sarmatica) degli Indoeuropei, sembrano venire da elementi della tradizione delle culture antiche di lingua indoeuropea, in particolare da alcuni miti cosmogonici attestati nei Veda antico-indiani. Cosa nota agli studiosi di antropologia è che alcuni tipi di mito cosmogonico arcaico sono collegati ai culti astrali. Stando a questa interpretazione degli archetipi mitologici, parrebbe che in alcuni inni vedici siano effettivamente adombrate (secondo un linguaggio figurato e in base alla concezione del mondo tipica dell'uomo arcaico) descrizioni di configurazioni astrali osservabili solo in aree dell'emisfero boreale non lontane dal circolo polare artico, in un'epoca molto anteriore alla fissazione per iscritto dei Veda stessi. Considerando le circostanze geoetnolinguistiche in cui sono stati prodotti gli inni vedici, è molto improbabile che tali descrizioni mitologiche di configurazioni astrali siano potute arrivare dall'esterno: si tratterebbe allora di memorie ancestrali, conservate sin dalle origini dai sacerdoti astronomi delle popolazioni indoeuropee poi migrate in India: memorie mitologiche ed elementari conoscenze astronomiche che gli indoiranici avrebbero portato con sé sin da una remota Urheimat settentrionale.

    Il problema della cronologia

    Collegato al problema della patria originaria è il dilemma relativo alla cronologia della diffusione degli Indoeuropei. Le ipotesi principali relative all'origine degli Indoeuropei (epoca e luogo di partenza della loro diffusione), non prive, in alcune varianti, di più o meno indebite infiltrazioni ideologiche, quando non politiche, fanno capo a tre orientamenti di massima:

    il primo è rappresentato dalla teoria della migrazione violenta dal nord o dal nord-est, cara ai primi indoeuropeisti e riproposta nel Novecento da Marija Gimbutas, nella forma della teoria dell'invasione calcolitica da parte del popolo della cultura delle asce da battaglia (battle-axe culture) a partire dall'area della civiltà dei kurgan nella Russia meridionale;
    il secondo si basa invece sull'ipotesi dell'onda di avanzamento degli agricoltori del neolitico provenienti dall'Anatolia, secondo la proposta, non da tutti condivisa, dell'archeologo anglosassone Colin Renfrew;
    la terza, estremamente controversa e respinta dalla maggioranza degli studiosi, è costituita dall'innovativa teoria della continuità paleolitica di Mario Alinei, secondo il quale gli Indeuropei sarebbero giunti nelle loro sedi addirittura all'epoca della diffusione paleolitica della specie Homo sapiens sapiens in Europa, poco più di trentamila anni fa.
    Cercheremo di fornire qui di seguito un compendio di queste ipotesi.

    Maria Gimbutas e la nuova concezione dell'invasione calcolitica

    La cultura dei kurgan

    L'interpretazione maggiormente accettata oggi, perché meglio fondata su un'attenta valutazione dei dati archeologici e sostenuta da diversi studi scientifici, è stata fornita dalla studiosa lituana Maria Gimbutas. La Gimbutas ha vagliato con precisione le testimonianze delle culture materiali dell'est europeo, e ha identificato gli Indoeuropei con una cultura guerriera dell'età del bronzo (epoca: circa 4000 - 2000 a.C.), la cultura dei Kurgan, così denominata a partire dalle grandi sepolture a tumulo (i Kurgan appunto) che la caratterizzano, tombe nelle quali venivano seppelliti i principi locali insieme alle loro mogli e concubine, e insieme agli schiavi e a tutto il séguito, secondo un'usanza diffusa in molte civiltà antiche.

    Dagli studi della Gimbutas emerge un quadro abbastanza semplice e lineare della comparsa degli Indoeuropei sulla scena della storia: migrando dalle loro regioni d'origine (Urheimat collocata fra gli Urali e il Danubio), le popolazioni indoeuropee si sarebbero sovrapposte un po' ovunque (dall'Europa occidentale all'India) alle popolazioni neolitiche preindoeuropee, come élites militari tecnicamente più avanzate (detentrici della metallurgia del rame e del bronzo), imponendo in gran parte alle popolazioni sottomesse la loro struttura sociale e la loro religione.

    L'ascia da guerra e altre innovazioni militari

    Un connotato tipico della cultura materiale della civiltà dei Kurgan (e degli Indoeuropei, secondo l'ipotesi di Maria Gimbutas) è l'uso dell'ascia da battaglia di bronzo e del carro da guerra. Tali innovazioni tecniche miglioravano notevolmente l'abilità in battaglia tanto da fornire alle tribù indoeuropee un forte vantaggio sul piano militare; quest'ipotesi contribuì a creare, nell'immaginario storico, la figura stereotipata dell'indoeuropeo guerriero.

    Caratteristiche sociali

    Sul piano della società e della religione, gli Indoeuropei, secondo la Gimbutas, sono nettamente contrapposti alle civiltà neolitiche precedenti. Tipicamente indoeuropea apparirebbe la struttura patriarcale della famiglia, organizzata come un grande clan tribale attorno a una figura di pater familias.

    La dea madre

    Sul piano della religione, gli Indoeuropei della Gimbutas appaiono caratterizzati dalla netta preferenza per le divinità celesti e maschili, in forte opposizione con la religione delle dee madri che caratterizza l'Europa pre-indoeuropea sin dal paleolitico. L'indagine relativa all'interazione fra gli dèi uranici patriarcali tipicamente indoeuropei e le dee madri terrestri e lunari pre-indoeuropee sono fra gli aspetti più interessanti degli studi della Gimbutas sulla dimensione culturale della preistoria europea. L'archeologa lituana analizza approfonditamente le testimonianze relative a quella che viene definito il linguaggio della dea, cioè la manifestazione di culti preistorici (mesolitici e neolitici) fondati su divinità femminili collegati alla terra. La Gimbutas identifica, fra le altre divinità preindoeuropee, una dea madre lunare-terrestre, prevalentemente collegata con la sacralizzazione dell'uro (bos primigenius) nel paleolitico e del toro nel neolitico, e una dea madre collegata con il totem della civetta o dell'uccello notturno, in generale.

    La prima, la dea giovenca, è una dea madre della fecondità e della sessualità (in particolare in relazione al parto), collegata con le fasi della Luna, (le corna del bovino sono simbolo della falce lunare); l'altra, la dea civetta, è invece connessa ai cicli di morte e rigenerazione. La dea giovenca e la dea civetta sono solo due fra le più diffuse incarnazioni delle dee femminili pre-indoeuropee. Gli dèi indoeuropei tipici sono invece collegati col cielo, l'unica realtà immutabile per popolazioni nomadi. Il dio padre cielo, nelle sue caratteristiche di immutabilità, onniscienza e onnipotenza, si manifesta per eccellenza nella divinità nota come *Dyeus *pətēr ('Padre cielo luminoso'), da cui deriverebbero poi (anche linguisticamente), lo Zeus patēr dei Greci, lo Iuppiter (Giove) dei latini, il Diauh pitā dei più antichi inni vedici (poi passato in secondo piano in favore di altre divinità come Varuna e Indra), il Tiwaz-Zio-Týr dei Germani (poi passato in secondo piano rispetto a Wodan).

    fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Indoeuropei

  4. #4
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    La distibuzione degli Indoeuropei primitivi nel contesto della Ipotesi Kurgan.




    Distribuzione nel III millennio a.C.



    Distribuzione nel II millennio a.C.. La cultura isolata più orientale (Tocari) viene spesso identificata con la propaggine meridionale della cultura di Afanasevo.



    Distribuzione nel 250 a.C..



    Distribuzione nell'Alto Medioevo.



    Distribuzione nel tardo Medioevo(dopo l'espansione dell'Islam, degli Ungari e dei Turchi.

    fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Indoeuropei

  5. #5
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    Dumézil e la società tripartita

    Un'integrazione assai brillante della teoria di Maria Gimbutas è fornita dallo studioso francese Georges Dumézil, il quale, raccogliendo un'enorme mole di materiali relativa alla struttura sociale, alle religioni, alle mitologie delle varie popolazioni di lingua indoeuropea storicamente note, arriva a delineare un quadro complessivo di quella che poteva essere la struttura sociale delle tribù indoeuropee nella fase tarda immediatamente precedente la loro diaspora. Le società indoeuropee appaiono ovunque, almeno nelle loro fasi arcaiche, gerarchizzate e divise in tre caste: i guerrieri, i sacerdoti e gli agricoltori, con le donne e gli schiavi relegati in una posizione di soggezione; a capo del corpo sociale si trova un re, che è più che altro un capo carismatico eletto dai guerrieri e non ha il ruolo forte che assumono invece i re nelle civiltà della Mesopotamia e nell'antico Egitto. Dumézil è indotto dai dati da lui raccolti a riconoscere questa struttura come panindoeuropea: a capo della tribù indoeuropea c'è un re (i. e. *rēgs: cfr. lat. rēx, celtico rīx -e i nomi di principi celtici in -rix, come Vercingeto-rīx, Vercingetoríge-; sanscrito raja; greco arégō: proteggere, governare); la società appare poi divisa in guerrieri, sacerdoti, e un ceto di mercanti e lavoratori (agricoltori, fabbri etc.). Questa ripartizione in tre classi e funzioni sociali, che secondo Dumézil sarebbe tipica per eccellenza degli Indoeuropei, va sotto il nome di ideologia tripartita, ideologia trifunzionale o trifunzionalismo

    Una società patriarcale gerarchizzata di guerrieri e sacerdoti si sovrappone in modo più o meno violento alle società equisessuali ed egualitarie dei villaggi neolitici, segnando il passaggio traumatico dell'Europa occidentale all'età del bronzo alla fine del terzo millennio a.C. e determinando in India il crollo della civiltà di Harappa e Mohenjo Daro. Questo è il quadro che emerge dagli studi della Gimbutas e di Dumézil. Quella degli Indoeuropei non sarebbe allora null'altro che una delle tante invasioni che le aree fertili e climaticamente attraenti del Mar Mediterraneo e dell'India avrebbero subito nel corso dei millenni, fino all'alto Medioevo: la prima invasione che sia indirettamente documentabile.


    Gli studi di Cavalli Sforza [modifica]
    Recentemente anche lo studio delle componenti genetiche della popolazione europea, condotto da Luigi Luca Cavalli Sforza, sembra corroborare in parte l'ipotesi kurganica: la terza componente genetica dell'Europa si irradia infatti dalla costa nordorientale del Mar Nero, a partire da un'area geografica corrispondente al centro di irradiazione della cultura kurgan. L'idea che la cultura guerriera e patriarcale calcolitica dei kurgan corrisponda all'epicentro della diffusione degli Indoeuropei in Eurasia, ha dunque dalla sua parte forti indizi a favore, per quanto non tutti gli studiosi la condividano appieno.


    Conclusioni sull'ipotesi degli Indoeuropei invasori provenuti dal nord [modifica]
    La teoria dell'invasione calcolitica, nella forma proposta dalla Gimbutas e da James P. Mallory appare oggi una teoria fortemente accreditata e sostenuta da basi scientifiche.

    Essa si può riassumere in questi termini:

    le tribù indoeuropee erano società patriarcali, governate da un *regs (un re che era un capo guerriero eletto, ben diverso dai re-dèi egizi e mesopotamici), e caratterizzate da una prima divisione gerarchica fra guerrieri, sacerdoti e lavoratori, con donne e schiavi relegati in secondo piano;
    gli Indoeuropei avevano una religione politeistica con al centro figure di dèi padri celesti, in opposizione alle religioni delle dee madri tipiche delle popolazioni preindoeuropee (i pantheon dei popoli indoeuropei storicamente noti sono frutto di una fusione con la religione di substrato, con gli dèi padri che faticano a tenere a bada le dee madri: vedi le scene da un matrimonio della coppia olimpica Zeus - Hera)
    gli Indoeuropei si imposero sulle popolazioni neolitiche in virtù del fatto che padroneggiavano la tecnologia del bronzo e avevano addomesticato il cavallo; il prevalere dell'indoeuropeo sulle lingue che precedevano l'indoeuropeizzazione è il frutto dell'imposizione di una nuova lingua da parte di un'élite militare.

    Aspetti "ideali" dell'ipotesi di Maria Gimbutas [modifica]
    L'opposizione forte fra primigenio linguaggio della Dea, tipico di una società a vario titolo intesa come matriarcale o matrilineare, o quantomento egualitaria (mesolitica e proto-neolitica) preindoeuropea, e l'avvento del bellicoso patriarcato indoeuropeo (connesso con l'avvento dell'età dei metalli in Europa) ha fatto sì che spesso l'ipotesi dell'invasione calcolitica dei cavalieri kurganici armati di asce da battaglia fosse associata con l'avvento di società violente, militariste, di carattere patrilineare e virilocale. La teoria della Gimbutas si è colorata così di un accento femminista, specie nei suoi più maturi sviluppi, connessi alle approfondite indagini condotte dalla studiosa lituana sulla dimensione culturale (e più specificamente religiosa) delle comunità umane della preistoria europea. Va però precisato che le motivazioni ideali, nell'opera della Gimbutas, sono secondarie rispetto ai dati linguistici, antropologici e archeologici (l'esatto contrario di quanto invece accade per le ideologie razzistiche tardo-ottocentesche, che invece deformavano illegittimamente i dati linguistici a fini estranei alla linguistica stessa).


    Gli Indoeuropei agricoltori neolitici: l'ipotesi di Colin Renfrew [modifica]

    Le critiche all'ipotesi di una migrazione [modifica]
    La teoria degli Indoeuropei invasori, mossisi da una Urheimat settentrionale durante epiche migrazioni preistoriche e protostoriche, sul volgere dell'età del bronzo, viene rifiutata dal nuovo approccio al problema indoeuropeo proposto dall'archeologo britannico Colin Renfrew

    L'obiezione fondamentale (e difficilmente aggirabile) mossa da Renfrew alle tradizionali ipotesi degli Indoeuropei migranti nomadi invasori, è che, dal punto di vista archeologico, non si individuano cause ben precise dell'ipotetica migrazione di massa degli Indoeuropei in più ondate. Inoltre, non esiste alcuna prova effettiva che la diffusione di un elemento della cultura materiale (l'ascia da battaglia, o anche il bicchiere campaniforme presente nei corredi funerari, altro elemento associato all'indoeuropeizzazione) in un dato territorio, dia automaticamente l'evidenza della diffusione di una certa popolazione (e della sua lingua) in una certa area. Soprattutto, non esistono effettive tracce archeologiche che parlino in modo univoco di una discontinuità di strutture sociali e organizzazione, connesse a un evento violento come un'invasione.


    Le dinamiche di sostituzione della popolazione [modifica]
    Il problema di avvicendamento culturale di una popolazione su un'altra, infatti, è molto complicato e non può essere giustificato con le semplici invasioni.

    Renfrew, infatti, descrive le dinamiche con cui si può avere una sostituzione di popolazione (e di lingua) in un dato territorio. I fenomeni che possono portare a un tale avvicendarsi di popolazioni e lingue in un territorio sono di tre specie:

    onda di avanzamento: un'innovazione tecnologica che permette di sostentare più persone in un dato territorio (ad esempio, la rivoluzione dell'agricoltura), fa sì che una certa popolazione si espanda lentamente, spostandosi di poche decine di chilometri nel giro di decenni, fino ad occupare man mano ampie regioni, sostituendosi, solo in virtù del suo volume demografico, senza alcuna sopraffazione violenta, alle popolazioni preesistenti, che si servivano di tecniche di sussistenza meno efficaci quanto all'accumulo di risorse alimentari (ad esempio, la caccia e la raccolta). In tale situazione le lingue preesistenti si ritirano in aree marginali, sopravvivendo laddove la popolazione che prima occupava il territorio apprende le nuove tecniche di sussistenza; la dinamica di espansione è descritta efficacemente dal modello di reazione-diffusione;
    infiltrazione per crollo di sistema: il crollo delle strutture di controllo del territorio poste in essere da un centro di potere, determina la progressiva infiltrazione di popolazioni esterne (o il riemergere di popolazioni precedentemente subalterne, o entrambe le cose) la cui lingua può infine prevalere. Le lingue preesistenti possono mescolarsi con le lingue dei nuovi arrivati o sopravvivere solo in alcuni dei territori controllati dal vecchio sistema di potere;
    sovrapposizione di un'élite: una popolazione dotata di una superiore tecnologia, specie in ambito militare, si sovrappone a una popolazione preesistente, soggiogandola e imponendole la sua lingua. Le lingue preesistenti possono essere talora limitate ad usi definiti (ad esempio, possono trasformarsi in lingue liturgiche o di cultura) o sparire del tutto, lasciando come traccia degli influssi di substrato; in alcuni casi, la lingua delle popolazioni soggiogate conserva in gran parte il suo materiale costitutivo e la sua struttura di fondo, ma subisce forti alterazioni per influsso delle lingue dei nuovi dominatori.
    Gli studiosi sostenitori di una qualche versione dell'ipotesi degli Indoeuropei invasori, sarebbero propensi a indentificare senz'altro l'avvento dell'indoeuropeizzazione con la dinamica della sovrapposizione di una élite. Renfrew tuttavia nota che in Europa l'unico evento rimarchevole, tale da imporsi all'attenzione dell'archeologia per aver introdotto un forte fattore di discontinuità nella preistoria del continente europeo, è l'avvento dell'agricoltura, la neolitizzazione.


    L'assenza di discontinuità culturale [modifica]
    L'assenza di significative discontinuità archeologiche dopo la neolitizzazione e l'avvento delle società agricole, unitamente al fatto che, ovunque, comunità unite dalla stessa cultura materiale si rivelano linguisticamente differenti, portano Renfrew a formulare un'ardita ipotesi, vale a dire che indoeuropeizzazione e rivoluzione neolitica hanno marciato di pari passo in Europa, considerando che il modello della migrazione è messo in crisi dalla mancanza di dati archeologici che indichino motivazioni plausibili dello spostamento di grandi masse umane. Gli Indoeuropei non sarebbero allora da considerarsi un'élite militare di guerrieri dell'età del bronzo, ma semplicemente dei pacifici agricoltori.


    Gli indoeuropei pacifici agricoltori [modifica]
    In tal modo Renfrew aderisce alla prima descrizione di sovrapposizione culturale: quella progressiva e pacifica.

    La progressione demografica degli Indoeuropei avrebbe lentamente, ma inesorabilmente sommerso, con la sua onda di avanzamento pacifica, i precedenti abitatori dell'Europa occidentale e della valle dell'Indo. Tutto questo sarebbe avvenuto non già fra il 4.000 e il 2.000 a.C., attraverso ondate di invasori sovrapponentisi, bensì nel 6.000 a.C. Una prova linguistica indiretta dell'appartenenza degli Indoeuropei al neolitico (o al più alla prima età del rame) è data dal fatto che il protolessico non ha voci saldamente ricostruite e ben identificabili per altro metallo che il rame (e anche la radice indoeuropea per rame non è presente in tutte le lingue della famiglia, per quanto questa sia un'obbiezione relativa, poiché è frequente in vari rami dell'indoeuropeo), mentre le parole connesse alla sfera semantica dell'agricoltura e della domesticazione degli animali sono ben consolidate e panindeuropee, a partire dal cane (mesolitico: *kwōn) per arrivare al bestiame dei pastori neolitici, alla mucca (*gwous), al cavallo (*ekwos), alla pecora (*owis), al maiale (*sūs), per non parlare dell'animale piaga dei granai e delle popolazioni neolitiche, il topo (*mūs).

    Si deve inoltre considerare, ricorda Renfrew, che le teorie degli Indoeuropei pastori nomadi invasori del Nord sono fondate su un implicito presupposto ormai confutato, cioè che la pastorizia nomade fosse il passaggio immediatamente precedente l'agricoltura, nell'evoluzione dalle comunità di cacciatori-raccoglitori alle comunità stanziali agricole. Il quadro degli Indoeuropei pastori, a metà strada fra i rozzi uomini del mesolitico e le prime comunità di contadini poteva essere valido nell'Ottocento, ma non lo è più oggi. In realtà, ogni comunità di pastori nomadi interagisce con comunità agricole preesistenti. Queste mancavano in Europa prima della neolitizzazione.


    L'Urheimat di Renfrew [modifica]
    Dove dovrebbe allora collocarsi la patria originaria degli Indoeuropei, se sono stati questi ultimi a portare l'agricoltura in Europa? Renfrew identifica la cosiddetta Heimweh nella parte orientale dell'Anatolia (similmente, secondo l' ipotesi di Gamkrelidze e Ivanov, la Urheimat andrebbe collocata in qualche zona del Medio Oriente, tra l'Anatolia e il nord della Mesopotamia), la penisola che costituisce il corpo centrale del territorio dell'attuale Turchia, a ridosso della mezzaluna fertile, cioè del centro di irradiazione della rivoluzione neolitica e della cultura materiale connessa all'agricoltura e all'addomesticamento di animali e piante. Dall'Anatolia orientale le prime comunità parlanti dialetti dell'indoeuropeo si sarebbero lentamente diffusi fino al mare, interagendo variamente con le popolazioni di substrato; avrebbero popolato l'area egea e poi i Balcani e da lì si sarebbero diffusi verso nord-ovest; alla loro onda di avanzamento avrebbero resistito solo comunità periferiche come i Baschi, che appresero per tempo le tecniche agricole e conservarono la loro lingua, ultimo relitto di una famiglia linguistica mesolitica ormai estinta; un analogo movimento si sarebbe prodotto verso sud est, attraverso l'altopiano dell'Iran, e verso nord, in direzione del bassopiano sarmatico.

    Come si può notare, si è di fronte a un quadro totalmente innovativo rispetto alle teorie precedenti, le quali tuttavia parrebbero resistere alla nuova concezione di Renfrew, grazie alle prove archeologiche e agli indizi forniti dalla paleontologia linguistica. L'archeologo britannico tuttavia confuta brillantemente l'uno e l'altro puntello dell'ipotesi rivale.

    Abbiamo già visto come, in base ai modelli di interpretazione dei dati archeologici proposti da Renfrew, la diffusione di una cultura materiale non implichi in modo necessario la diffusione di una lingua; quanto ai dati della paleontologia linguistica, essi appaiono piuttosto fragili, come indicazioni. Un caso piuttosto esemplare sono le parole che in molte lingue indoeuropee indicano il faggio (*bhāghos) o la quercia (*drūs). Queste parole talora si scambiano di ruolo (è il caso del greco phēgòs in opposizione al latino fāgus -ma cfr. gr. drŷs), oppure hanno un significato generico (ingl. tree, albero). Ciò che queste differenze semantiche lievi, eppure indicative, sembrano denunciare, è soltanto il fatto che l'indoeuropeo possedeva una parola bhāgos per indicare un albero d'alto fusto, ma la sua identità con una delle specie di faggio europee è totalmente aleatoria. In altre parole, se le prove archeologiche non sono indicative, le prove collegate alla fauna e alla flora della ipotetica Urheimat sono potenzialmente fuorvianti.


    La società indoeuropea secondo Renfrew [modifica]
    Insieme alla teoria della migrazione e all'idea dell'invasione calcolitica dal nord, Renfrew mette in discussione anche l'idea della società di guerrieri, sacerdoti e lavoratori, con a capo un re. Il tipo di cultura neolitica che si diffonde in Europa con gli Indoeuropei dà in realtà luogo a una serie di comunità egualitarie, poco gerarchizzate, tipo chiefdom, comandate da un capo villaggio che è più un punto di riferimento di carattere amministrativo-cultuale, che un capo guerriero. Le società di tipo chiefdom possono all'occasione, scrive Renfrew, mobilitare, attraverso la collaborazione spontanea, un apporto notevole di risorse umane e materiali: del resto, è a comunità di tipo chiefdom che vengono fatte risalire le prime strutture monumentali in pietra del neolitico europeo. Lo sviluppo delle società egualitarie di tipo chiefdom in società gerarchizzate sembra invece essere un successivo sviluppo delle culture (sia indoeuropee e sia non indoeuropee) storicamente attestate. Il trifunzionalismo che Dumézil riteneva tipicamente indoeuropeo si scopre in effetti essere un'evoluzione tipica di ogni civiltà (ad esempio è attestato fra i Turchi, fra i Mongoli, fra i Cinesi, popoli certamente non indoeuropei).


    Dati a favore dell'ipotesi di Renfrew [modifica]
    Gli studi di paleogenetica delle popolazioni umane condotti da Luca Cavalli Sforza sembrano attestare effettivamente un massiccio avanzamento dal Medio Oriente in Europa, iniziato circa 8000 anni fa e corrispondente alla principale delle componenti geniche del continente europeo. L'avanzata dei traccianti genici di nuove genti provenute dal Medio Oriente sembra seguire lo stesso cammino dell'introduzione dell'agricoltura in Europa, tuttavia non esiste alcuna correlazione fra dati genetici e innovazioni culturali: gli studi di Cavalli Sforza indicano solo la progressione demografica di un certo gruppo umano identificato da certe caratteristiche geniche, in concomitanza con l'acquisizione delle tecniche agricole da parte di quella stessa popolazione: per il resto si accetta il principio di base dell'antropologia, secondo cui il dato culturale e l'aspetto fisico sono rigorosamente distinti (omnis cultura e cultura).

    La questione che si pone, quindi, è se l'avanzata dell'agricoltura e l'avanzata della prima componente genica dell'Europa sono necessariamente connesse all'indoeuropeizzazione. L'equivalenza è abbastanza probabile, a meno di non postulare l'esistenza di una famiglia linguistica estinta (ad esempio, pare che le lingue della Spagna preromana non fossero indoeuropee, né fossero tutte affini al basco, il cui antenato arcaico ha lasciato tracce nei nomi di fiumi di tutta l'Europa occidentale e centrale). Sta di fatto, tuttavia, che l'indoeuropeo, sul piano lessicale, attesta una salda cultura materiale neolitica, e il neolitico è entrato in Europa da Oriente fra gli 8.000 e i 7.000 anni fa. Si deve inoltre considerare che le lingue indoeuropee parlate in Anatolia, cioè in prossimità della presunta Urheimat neolitica, lingue come l'ittita nesico, il luvio, il palaico, sono state le prime a separarsi dal ceppo linguistico originario: non sono infatti inscrivibili nelle due grandi famiglie kentum e satem, dunque attestano un'area linguistica a sé, molto antica, probabilmente anteriore al 5000 a.C.

    Se è vero che in Anatolia, nell'Egeo e nei Balcani si parlavano già lingue indoeuropee nel neolitico, quali dialetti indoeuropei vi si erano diffusi? Tracce di antenati del greco miceneo sono conservate nelle tavolette in scrittura lineare B decifrate da Michael Ventris. Esiste forse un'alternativa più affascinante e meno in contrasto con l'idea che gli archeologi si sono fatta, circa le varie stagioni della civiltà elladica, che nel suo periodo tardo (tardo elladico III a-b) sembra subire, sia per dinamiche interne, sia per influsso della vicina civiltà minoica, un'evoluzione repentina verso una società guerriera verticistica (quella dei principi micenei, appunto).

    La Grecia attesta un ampio numero di nomi di località e popolazioni che sembrano risalire a uno strato pregreco, i nomi in -nthos e -(s)sos, questi ultimi irradiantisi a partire da Creta; vi sono inoltre in greco prestiti di lingue indoeuropee non greche. Non sembra del tutto priva di plausibilità l'ipotesi che possano risalire a una o più lingue pregreche di matrice indoeuropea affini alle lingue anatoliche (forse, secondo Georgiev, ma è teoria parecchio discussa e da molti rifiutata, la stessa lingua nascosta dalla scrittura minoica lineare A, decifrata in modo parziale, è una lingua anatolica: lo stesso nome di Creta attestato da fonti antiche di altre civiltà, Keftiw nei geroglifici egizi, Kaphtor nella Bibbia, Kaptara presso gli Accadi, sembra evocare la radice indoeuropea per testa, capo -capitale?- con un trattamento delle consonanti che sembra vicino alle lingue anatoliche); per alcune parole greche, come pyrgos e tamias "torre", si prospetta come sostrato etimologico addirittura la possibilità di un'area linguistica indoeuropea a parte, anche se vicina ai dialetti anatolici. Si delineerebbe allora una storia molto particolare della sottofamiglia anatolica dell'indoeuropeo: diffusasi forse sin dal neolitico in Anatolia (dove avrebbe convissuto con le antenate delle lingue caucasiche -ad esempio lo stesso proto-hattico) e nei Balcani, sarebbe stata ivi sommersa più tardi dal greco miceneo e da altre famiglie linguistiche indoeuropee, sopravvivendo nella lingua dei Lidi e dei Cari, per poi perdere terreno, fino a sparire del tutto, a causa dell'avanzata del frigio, del persiano antico e del greco. Si può ricordare che attualmente in Anatolia si parla il turco, che è una lingua uralo-altaica.


    Problemi dell'ipotesi di Renfrew [modifica]
    La teoria degli Indoeuropei neolitici mostra d'altro canto una serie di falle. Intanto, la componente genica diffusasi in Europa da sud est durante il neolitico appare molto forte nei Balcani, ma diviene via via meno presente verso ovest (dove prevale la quinta componente genica, probabilmente corrispondente a una popolazione mesolitica che parlava dialetti affini al basco): dunque, l'ipotesi dell'onda di avanzamento neolitica può andare bene per l'area balcanica (dove un altro studioso, Igor Mikhailovich Diakonov, ha posto la patria originaria, influenzando le posizioni dello stesso Renfrew negli ultimi anni), ma non può spiegare la situazione del resto del continente europeo. Un altro problema viene dalle stesse tavolette ittite, che oltre all'ittita nesico, che è una lingua indoeuropea, attestano anche un'altra lingua, che sembra avere il ruolo di lingua liturgica o comunque pare associata a formule rituali: questa lingua è il proto-hattico, che non è una lingua indoeuropea. Il rapporto fra ittita e proto-hattico nei documenti ittiti sembra molto simile a quello fra sumero e accadico nei documenti dell'impero di Sargon di Akkad: la lingua politico amministrativa del popolo invasore, accanto a una lingua precedente, usata come lingua liturgica o rituale. Se inoltre si segue l'onda di avanzamento neolitica verso sud est, verso l'India, si deve postulare una presenza indoeuropea nell'altopiano iranico e nella valle dell'Indo già in epoca neolitica. Renfrew si è addirittura spinto, in un primo tempo, ad affermare che la cultura di Harappa (la cultura vallinda) fosse indoeuropea, retrodatando addirittura la tradizione orale alla base dei più antichi inni vedici. L'idea che la civiltà di Harappa, nota fra l'altro per la sua scrittura ancora indecifrata, fosse indoeuropea, incontra però forti resistenze fra gli studiosi.


    Sviluppi della teoria di Colin Renfrew: Ipotesi A e Ipotesi B [modifica]
    Lo stesso Renfrew ha articolato la sua teoria sull'espansione verso est in due rami: l'ipotesi A (espansione neolitica in tutte le direzioni, India compresa) e l'ipotesi B (espansione neolitica in Europa, tramite pacifica onda di avanzamento, espansione più tarda, violenta, verso l'India).

    Per l'indoeuropeizzazione dell'India, Renfrew in un primo tempo propone che la pianura indo-gangetica abbia semplicemente accolto l'ondata di avanzamento delle popolazioni neolitiche, così come l'Europa. Ciò lo porta ad affermare che la civiltà di Harappa fosse una civiltà indoeuropea. Questa è l'ipotesi A di Renfrew circa l'arrivo degli indoeuropei in India. Tuttavia, sulla base dell'interpretazione di dati archeologici relativi alle popolazioni nomadi della pianura sarmatica, lo studioso britannico arriva a formulare una teoria alternativa (ipotesi B). Sembrerebbe che il nomadismo si sia mosso, nella pianura sarmatica, da ovest verso est. Il ramo indo-iranico delle tribù indoeuropee potrebbe essersi allora mosso da sedi poste nel bassopiano sarmatico, attraverso un'espansione semiviolenta, molto più tardi dell'onda di avanzamento neolitica che porta l'agricoltura in Europa. Dunque in India gli Indoeuropei sarebbero penetrati in séguito al crollo di sistema della civiltà di Harappa, secondo una visione più tradizionale.


    La proposta di L. Cavalli-Sforza [modifica]
    Esiste la possibilità che le due teorie precedenti possano essere parzialmente conciliate, come ha suggerito L. Cavalli-Sforza.

    Secondo questa variante gli Indoeuropei sarebbero frutto di una fusione tra le popolazioni neolitiche di tipo mediterraneo provenienti dall'Anatolia portatrici dell'agricoltura nella Russia Meridionale verso il 8.000-7.000 a.C. e le locali popolazioni di tipo cromagnonoide di Sredny-Stog, sopravvissute all'ultima glaciazione Wurm nel rifugio glaciale nord-pontico.

    Questa proposta sembra conciliarsi con quella del teoria del doppio strato per l'antico indoeuropeo, proposta indipendentemente in linguistica da Uhlenbeck.

    Infatti il cosiddetto indoeuropeo ricostruito dà l'impressione di essere il frutto di una antica creolizzazione tra una lingua di tipo ugrofinnico e una lingua affine al basco (vedi anche Na-dene-caucasico).

    La teoria della continuità paleolitica ("Gli Indoeuropei, gente normale") [modifica]
    Una teoria innovativa circa l'origine degli Indoeuropei è la cosiddetta PCT o teoria della continuità paleolitica, in base alla quale l'indoeuropeo sarebbe niente meno che la lingua delle tribù di homo sapiens pervenute in Europa dal Medio Oriente alla fine del paleolitico superiore.

    Mario Alinei ha recentemente proposto che gli indoeuropei potrebbero essere semplicemente le genti autoctone dell'Europa, stanziate nel vecchio continente fin dal 40.000 a.C., l'epoca della sua prima occupazione da parte dell'uomo moderno. L'ipotesi non è però molto accettata, perché tra l'altro non spiega in maniera convincente l'origine delle famiglie linguistiche europee, ma non-indoeuropee, quali ad esempio il basco, o l'estinto Iberico. Inoltre, spesso i sostenitori della teoria della continuità paleolitica fanno risalire al paleolitico anche differenze linguistiche che si spiegano molto meglio con eventi storici noti e assai più recenti.

    La teoria della continuità paleolitica è rifiutata dalla maggioranza degli indoeuropeisti, anche se si è ritagliata una sua nicchia di consenso.


    Conclusioni [modifica]
    Riguardo alla patria originaria degli Indoeuropei, e al centro di irradiazione delle lingue indoeuropee, nessuna delle teorie attualmente in circolazione è ritenuta in grado di spiegare tutti i dati.

    La teoria dell'espansione calcolitica a partire dalla regione uralo-pontica sembra solida, ma su di essa pesano le critiche di Renfrew. La soluzione dell'espansione neolitica sembra avere dalla sua una serie di dati indiretti a favore, ma non è affatto scevra di contraddizioni. Esistono tuttavia una serie di proposte teoriche e di linee argomentative che additano una soluzione in grado di rendere conto di tutte le evidenze in nostro possesso, e resistono a tutte le obbiezioni presentate finora.

    In primo luogo, un'assunzione di principio. L'indoeuropeo è portatore di segnali culturalmente in contraddizione, perché va considerato un diasistema, cioè non una lingua unica e cristallizzata, ma un insieme di dialetti fortemente affini, diffusi su un territorio ampio, per quanto circoscritto, e caratterizzati da varianti diatopiche, cioè varianti linguistiche locali compresenti in uno stesso periodo. Inoltre si è diffusa l'idea di una molteplicità di strati dell'indoeuropeo; connessa alla molteplicità di strati, è la dissoluzione del problema della Urheimat: nella sua forma estrema, questa teoria delle molte tappe evolutive si presenta nell'ipotesi del doppio strato di C.C. Uhlenbeck, secondo cui l'indoeuropeo sarebbe derivato da una creolizzazione, cioè dalla fusione di lingue eterogenee, causata dall'incontro di popolazioni preistoriche differenti. Relativamente alle varianti diastratiche intuibili nella protolingua, si sta facendo strada fra gli studiosi un'idea meno radicale, quella di una prima irradiazione neolitica dell'indoeuropeo, da un'area vicina ai luoghi dove l'agricoltura è stata scoperta per la prima volta, con una tappa più tarda, corrispondente alla civiltà dei kurgan, e comprendente un amplissimo gruppo di tribù indoeuropee. In tal senso va la teoria degli studiosi neozelandesi Gray e Atkinson, che hanno riesumato, perfezionato e riproposto il metodo della glottocronologia, che permetterebbe di calcolare, attraverso dati linguistici interni, il momento di separazione di due o più lingue affini, a partire dal calcolo statistico delle parole sostituite nel cosiddetto vocabolario fondamentale delle lingue stesse, cioè di un gruppo di 200 parole del loro lessico di base. Secondo Gray e Atkinson, l'ultima fase unitaria (anatolica) dell'indoeuropeo risale a circa 8000 anni fa, al livello dell'introduzione dell'agricoltura in Europa, con un'ulteriore spaccatura (e una vera e propria diaspora) circa 5-6000 anni fa, in corrispondenza con l'inizio della cosiddetta invasione calcolitica. Se si vuole tenere conto del rapporto che c'è fra l'ittita e il proto-hattico nelle tavolette ittite (il rapporto fra una lingua rituale preesistente, il proto-hattico, e una lingua della popolazione dominante dopo un'invasione, l'ittita), si dovrà tuttavia, in linea di tendenza, rinunciare all'idea (che è invece centrale per chi postula una patria originaria in Turchia) che l'ittita stesso sia originario dei luoghi dove lo si ritrova in età protostorica, il che complica non poco il quadro. Tenendo conto dei dati in nostro possesso, si può cercare in ogni modo di tracciare alcune linee di fondo.

    In primo luogo terremo conto della giusta osservazione di Renfrew, secondo cui non è detto che una comunanza di cultura materiale implichi comunanza di lingua, eviteremo di far riferimento alla glottocronologia, i cui indicatori statistici sono sempre controversi, e ci atterremo solo ai dati più sicuri: quelli che ci vengono dal protolessico (indizi linguistici) e quelli che ci vengono dagli studi sulle componenti geniche d'Europa (indizi genetici). Gli indizi linguistici sono sempre gli stessi: le parole che fanno riferimento alla cultura materiale (lessico delle tecnologie) e le parole che fanno riferimento a flora e fauna (lessico dell'ambiente). Il lessico delle tecnologie, per quello che possiamo ricostruire, ci dice che:

    gli Indoeuropei conoscevano bene le tecniche agricole e la pastorizia: le radici indoeuropee di parole come *ékwos, cavallo, *gwous, bue o mucca, *òwis pecora, *yugòm, giogo, *àrətrom, aratro, fanno riferimento a tradizioni agricole ben consolidate, e alla domesticazione del cavallo; inoltre conoscevano la ruota (*kwèkwlos); d'altro canto le lingue indoeuropee non hanno nomi univoci per i metalli, tranne il rame (è abbastanza diffusa, ma non in tutte le sottofamiglie dell'Indeuropa, la radice alla base della parola latina aes, rame, bronzo): ne consegue che gli Indoeuropei, nelle fasi più arcaiche, avevano assimilato da tempo la rivoluzione neolitica, ma non tutte le tecniche metallurgiche; considerando inoltre che la parola per "rame" è meno diffusa delle parole relative all'agricoltura, si dovrà pensare che l'ultima fase unitaria faccia riferimento a un'epoca di transizione fra il tardo neolitico e la prima età del rame;
    tenendo conto della massima oscillazione semantica possibile, per i termini relativi all'ambiente naturale (fauna e flora della Urheimat), l'indoeuropeo dell'ultima fase unitaria allude a un'area compresa fra il Reno e l'Ural, il Mar Baltico e il Mar Nero (limite nord ovest: il Baltico, coste della Germania e della Prussia - Schleicher; limite sud est: la regione uralo-pontica poco a nord del Caucaso - Maria Gimbutas); mancano riferimenti univoci ad animali come leoni (la radice per leone è comune a lingue di area mediterranea) o tigri; mancano riferimenti univoci a piante domestiche come la vigna e l'olivo (i termini comuni al greco e al latino sono retaggi preindoeuropei) -ne consegue che le ipotesi di coloro che collocano ad esempio l'Urheimat in India sono totalmente prive di fondamento;
    gli studi di Luca Cavalli Sforza hanno identificato due componenti geniche importanti per la popolazione Europea: la prima, responsabile del 28% della composizione genetica degli europei odierni, si è diffusa dal Medio Oriente con l'agricoltura secondo le dinamiche del modello di reazione-diffusione (datazione: a partire da 9000 anni fa in poi); l'altra è successiva (è la terza componente genica dell'Europa, per diffusione: datazione, dai 7000 anni fa in poi e risulta responsabile del 11% della composizione genetica), e si diffonde a partire da una zona compresa fra le estremità sudorientali del Rialto Centrale Russo, l'Ural e il Mar d'Azov.
    Questi tre argomenti indiziari ci portano a deduzioni ben precise:

    Il primo punto (cultura materiale del protolessico) ci indica un periodo che va dal 5.000 al 2.000 a.C.
    Il secondo (ambiente naturale del protolessico), non è decisivo, se considerato da solo. Non serve a collocare con sufficiente precisione gli Indoeuropei nello spazio (anche se esclude il Mediterraneo, l'Asia centrale - ipotesi Jain -, le zone a Sud del Caucaso).
    Il terzo (il dato genetico) appare invece fortemente indicativo. Una popolazione che impone la sua lingua deve avere
    una certa coesione interna, almeno all'inizio;
    una spinta espansiva (tecnologica o militare).
    L'unico indizio concreto di una popolazione ben identificabile, che a un certo punto si è diffusa nel continente, ci viene dal cammino della terza componente genica dell'Europa, che si irradia dalla regione uralo-pontica verso l'Europa occidentale e verso sud est (Iran e India). Nulla di simile appare riscontrabile per le altre aree proposte come Urheimat. Dunque, da quanto abbiamo detto, risulta che l'ultima fase unitaria dell'Indoeuropeo va collocata nella regione Uralo-pontica, intorno ai 7000 anni fa (secondo l'ipotesi kurganica di Maria Gimbutas). Questa teoria sembra essere in grado di reggere anche di fronte ai tentativi di confutazione provenienti dai sostenitori dell'ipotesi neolitica, visto che appare sostenibile anche ammettendo le critiche di Renfrew relative alla paleontologia linguistica e alla differenza fra comunanza di cultura materiale e dato linguistico. L'unico contro-argomento forte sembra a prima vista venire dai sostenitori della teoria della continuità paleolitica, i quali notano che non esistono termini indoeuropei comuni per i rituali di sepoltura; ciò indicherebbe che gli indoeuropei non avevano rituali di sepoltura comuni, e dunque sarebbero da identificarsi con i gruppi nomadi di homo sapiens apparsi in Europa 30000 anni fa. In realtà questa obbiezione non regge, per due ragioni: 1) già l'uomo di Neandertal aveva rituali di sepoltura ben precisi (ad esempio, sepoltura in posizione fetale con mani e piedi legati) e così anche l' homo sapiens tardo-paleolitico. Se dovessimo accettare l'idea dei sostenitori della teoria della continuità paleolitica in merito ai rituali di sepoltura, dovremmo far risalire l'indoeuropeo a homo sapiens idaltu (sotto-specie di homo sapiens rinvenuta in Etiopia e risalente a 190.000 anni fa).

    Inoltre, i rituali di sepoltura sono fra le parti più deboli del protolessico, dato che appartengono alla sfera religiosa e cultuale. Questo fatto implica che il lessico dei rituali di sepoltura è fra le aree semantiche di una lingua più soggette, nel corso dei millenni, a evoluzione e sostituzione di termini, dato che sul linguaggio religioso pesano sempre fenomeni di sincretismo e di acculturazione. Per questo le tombe dette kurgan appaiono abbastanza diverse dalle tombe a tholos micenee e dai riti indoiranici della cremazione, tutte pratiche che sembrano risentire di evoluzioni locali derivate da interazioni di sostrato. Qui di séguito cerchiamo di riassumere quella che potrebbe essere stata, sul piano etnolinguistico, la storia della famiglia indoeuropea.

    Il punto zero della diaspora indoeuropea va collocato nel 5000 a.C. (7000 anni fa), nella regione nord-pontica orientale. L'espansione degli Indoeuropei è verosimilmente da ricondursi a due fattori:
    il nomadismo proprio di quelle tribù indoeuropee che si dedicavano prevalentemente alla pastorizia, interagivano con le comunità agricole stanziali indoeuropee e non e si diffusero lentamente in tutto il bassopiano sarmatico, e poi nella zona fra il Mar Caspio e il Lago d'Aral;
    situazioni di conflitto che si verificarono forse in fasi di espansione demografica.
    Dunque in origine la presenza indoeuropea in Europa e in Asia Centrale si fa più massiccia per diffusione, più che per espansione militare (onda di avanzamento sulla base dei percorsi della pastorizia nomade). Ne consegue che le prime aree indoeuropeizzate sono più che altro da considerarsi come una sorta di dependence diretta della Urheimat. L'indoeuropeo più arcaico (di molto precedente l'ultima fase unitaria, e forse databile a più di un millennio prima, quindi 6000 a.C.) potrebbe essere una lingua con le seguenti caratteristiche peculiari:

    fonetica: due laringali (colpo di glottide e fricativa laringale sorda *h; consonanti glottidalizzate;
    morfosintassi nominale (tipica di una lingua agglutinante e priva di declinazione con vocale tematica): tesi A: casi assolutivo ed ergativo (indeuropeo ergativo), possessivo, dativo, più una batteria non amplissima di casi locativi (allativo, locativo, ablativo, forse direttivo, ma le ipotesi in merito divergono e non tutti condividono l'idea di un protoindoeuropeo ergativo); nessuna originaria distinzione di genere; tesi B: agentivo (caso del soggetto agente) inagentivo (caso del complemento oggetto e del soggetto della frase passiva) più i casi locativi e nessuna originaria distinzione di genere -è un'ipotesi controversa; tesi C indoeuropeo lingua accusativa sin dall'inizio (è l'idea tradizionale, prevalente in molti ambienti accademici);
    morfosintassi verbale (la coniugazione è ottenuta con l'agglutinazione di pronomi e avverbi alla radice verbale): il verbo ha due tempi (presente e passato), non ha vocale tematica; ha tre forme (attivo, medio, stativo -ma quest'ultima è ipotesi discussa); probabilmente solo l'indicativo e l'imperativo come modi di base, più una batteria di forme verbali derivate, con suffissi sistematici e semisistematici, che prefigurano le più tarde distinzioni di tempo e aspetto verbale.
    Questa forma estremamente arcaica di indoeuropeo evolve nel tardo indoeuropeo comune (termine ricalcato sul tedesco: Spätindogermanisch) quello di cui abbiamo presentato la ricostruzione grammaticale sotto la voce indoeuropeo. Le caratteristiche del tardo indoeuropeo comune (5000 a.C.), rispetto al protoindoeuropeo o indoeuropeo arcaico (termine ricalcato sul tedesco Urindogermanisch o Fruhindogermanisch), sono le seguenti:

    sul piano fonologico, una sola laringale (*h) evoluzione del sistema di occlusive con la creazione di un sistema a quattro membri (occlusiva sorda non aspirata, occlusiva sorda aspirata, occlusiva sonora non aspirata, occlusiva sonora aspirata -es.: *t *th *d *dh) e sparizione del colpo di glottide e delle glottidali;
    sul piano morfosintattico: trasformazione tipologica -l'indoeuropeo diventa lingua flessiva; trasformazione della lingua ergativa originaria in lingua accusativa, con la batteria di casi che conosciamo e la comparsa del numero duale a partire dall'estensione della declinazione dell'aggettivo *(am)bhō "entrambi" (cfr. greco amphō, latino *ambō, inglese both) e di plurali di nomi indicandi coppie (es. *okwje, "i due occhi", greco. osse); creazione del sistema verbale a quattro tempi tramite 1) creazione, sul tema del presente, dell'imperfetto opposto all'aoristo -con la comparsa di forme difettive e suppletive per i verbi più arcaici e cristallizzati, come *esmi, essere, *eimi, andare, *edmi, mangiare, *bhāmi, parlare, *āmi, parlare; 2) trasformazione dello stativo in perfetto (e ridefinizione di tutto il sistema di coniugazione in termini di aspetto verbale, con l'opposizione presente-aoristo-perfetto, nel senso di durativo-momentaneo-resultativo);
    embrionale sviluppo di forme di tempo futuro;
    aggregazione sistematica, al sistema verbale, di elementi nominali deverbali (participi e forse infinito);
    la fase tarda dell'indoeuropeo comune sembra inoltre presentare alcune varianti diatopiche, come ad esempio la presenza dell'elemento *-m- al posto di *-bh- nelle forme dello strumentale, del dativo e dell'ablativo (le forme in -m- prevalgono poi nello slavo e nel germanico).

    Fra l'ultima fase tardo-unitaria (5000 a.C.) e il distacco del ramo anatolico e forse della linea che porta al tocario (dopo il 4000 a.C.) si delineano, nell'area di lingua indoeuropea, una serie di fenomeni linguistici (varianti diatopiche) che preludono a caratteristiche delle famiglie storicamente attestate, senza che peraltro queste possano intendersi come già prefigurate nei loro tratti essenziali.
    4000 a.C. - Una tappa essenziale dell'espansione degli Indoeuropei è molto probabilmente collegata con la crisi della civiltà danubiana. Questa civiltà neolitica è caratterizzata dal culto della dea madre e da quella che a detta di molti studiosi (ma è un'ipotesi ancora discussa) potrebbe rivelarsi la più antica forma di scrittura nota (anteriore anche a quella cuneiforme dei Sumeri), il cosiddetto Danube script. La civiltà neolitica danubiana collassa e viene sostituita dalla civiltà kurganizzata di Cernavoda, la cui comparsa potrebbe essere collegata, almeno all'inizio, con l'infiltrazione e con l'invasione di quegli Indoeuropei che danno luogo alla famiglia anatolica, la più antica con caratteristiche proprie, di cui il membro più noto è l'Ittita (esistono analogie fra la cultura di Cernavoda e i più antichi strati archeologici nella zona intorno a Troia). La famiglia anatolica si distacca e raggiunge molto per tempo (3500 a.C. in poi) l'area a ridosso del Mar di Marmara e si divide verosimilmente in due rami. Uno si colloca in Grecia, dando luogo alle fasi più antiche della Civiltà Elladica. Oggi gli studiosi riconoscono in Grecia, a partire dai nomi di località e da alcuni prestiti linguistici di sostrato del greco, fino a quattro substrati indoeuropei preellenici (ognuno con caratteristiche proprie (e forse attestanti addirittura sottofamiglie indoeuropee non anatoliche per il resto sconosciute). L'altro ramo raggiunge l'Anatolia e affiora sul palcoscenico della storia nel 2000 a.C. (Ittita, Palaico, Luvio, Lidio, Frigio ne sono i principali rappresentanti fra l'età del bronzo e l'età del ferro). L'altra possibilità è che gli Ittiti siano penetrati in Anatolia dal Caucaso: se così fosse, il quadro qui tracciato andrebbe completamente rivisto. Un'argomentazione che potrebbe essere invocata a sostegno di una contiguità degli avi degli Ittiti con l'area caucasica è la presenza in ittita di casi (specialmente locativi, come il direttivo, non attestato universalmente per l'indoeuropeo) che sembrano costituiti da suffissi e posposizioni, più che da vere desinenze, il che fa pensare alla situazione di alcune lingue caucasiche. Tuttavia, data la contiguità dell'Ittita con antiche (presunte o effettive) lingue caucasiche in età storica, l'argomento linguistico in favore di una discesa in Anatolia dal Caucaso, indicata da un contatto fra lingue caucasiche e ittita in età preistorica, parrebbe debole. Caratteri linguistici dell'Ittito e della famiglia anatolica in generale sono:
    sul piano fonetico, una sorta di rotazione consonantica che somiglia, anche se molto alla lontana, a quella del germanico;
    sul piano morfosintattico, una declinazione nominale a due generi (ma il Licio ne aveva tre, con il femminile, e lo stesso ittita mostra, nei nomi di persona di genere comune riferiti a donne -antroponimi femminili- relitti di femminile) e a nove casi (nominativo, accusativo, vocativo, genitivo, ablativo, locativo, dativo, direttivo, strumentale, più un affisso ergativo per i neutri) che diventano poi sette nell'ittita recente e nelle lingue anatoliche superstiti dell'età del ferro, e a due numeri (singolare e plurale, più dei nominativi e accusativi collettivi); la flessione verbale ha due coniugazioni una in -mi e una in -hi; il verbo ittita ha due tempi (presente e passato, che mostra relitti di desinenze di perfetto), due modi (indicativo e imperativo, tre se consideriamo il voluntativo, un imperativo delle prime persone, che potrebbe essere un relitto di altri modi cristallizzati come forme esortative), due forme, attiva e mediopassiva (con le caratteristiche desinenze in -r e relitti di desinenze di perfetto con valore di stativo).
    I sostrati indoeuropei preellenici ipotizzati per la Grecia invece hanno le caratteristiche più disparate. Alcuni nomi di località greche e alcuni nomi di piante e di oggetti in greco antico hanno caratteristiche terminazioni in -ssos e -nthos. La decifrazione dei testi ittiti permise di riconoscere l'origine anatolica di questi suffissi. Alcuni nomi di luogo instauravano perfette corrispondenze fra Grecia e mondo anatolico: ad es. Parnassòs = Parnasshash. Ne consegue che uno dei substrati del greco era certamente una lingua di famiglia anatolica. Data la frequenza a Creta di tali nomi (Knossos, Amnisos, Labyrinthos), V. I. Georgiev dedusse che forse la stessa lingua di Creta, nascosta sotto la lineare A, potesse essere una lingua anatolica. Ulteriori studi furono condotti dallo stesso Georgiev su alcune parole del greco che potevano essere ricondotte all'indoeuropeo postulando mutamenti fonetici non presenti in altre famiglie. I risultati di Georgiev furono particolarmente brillanti. Egli riuscì a ricondurre la parola pyrgos torre, prima di etimo incerto, alla radice indoeuropea *bhrgh elevato, postulando la presenza della dissimilazione delle consonanti aspirate in sillabe contigue -per cui da *bhrgh veniva *brgh; rotazione consonantica affine a quella dell'armeno per cui da *brgh viene fuori *prg; infine trasformazione della *r sonantica in ur, donde appunto purg-. Fu così che Georgiev riuscì a spiegare *tymbos (tomba), dalla radice *dhmbh (scavare, traforare, danneggiare), la stessa del greco taphos (tomba); riuscì a capire che, siccome dalla stessa radice di substrato veniva anche il verbo atembo, danneggiare, questa lingua di sostrato aveva l'apofonia; *tamia(s) domestica (dalla rad. indoeuropea *dom-, casa, viene fuori, in base ai mutamenti intuiti da Georgiev, *tam-); *pyndax fondo di stoviglia, da *bhundh, che in greco da *pythmen, fondo (e in latino fundus). Si deve dunque senz'altro postulare la presenza, accanto al dialetto anatolico-egeo, di una serie di isoglosse nuove, che identificano una lingua (o forse un gruppo di dialetti indoeuropei pregreci) ignota, che Georgiev chiamò pelasgico e che permette di rivelare l'origine indoeuropea di molte parole prima considerate parte di un ipotetico sostrato mediterraneo. Il pelasgico ha le caratteristiche di una lingua satem (muta le velari in sibilanti, ad es. k > s). La scoperta del pelasgico dà un'idea di quanto complesso sia il problema di definire la vera origine delle famiglie indoeuropee note. Un ulteriore approfondimento venne dall'affiorare di almeno un altro strato linguistico, che il suo scopritore, W. Merlinger, chiamò greco psi. Il greco psi ha, secondo Merlinger, una serie di mutamenti fonetici specifici: p, t, k si trasformano in ps (di qui il nome greco psi), s, ks; b, d, g, si mutano in ph, th, kh; bh, dh, gh, evolvono in b d g. Così si spiegerebbero parole come xanthos, chiaro, biondo (rad. *kad, come in Kastor - "il luminoso" - e in candidus), e oxys, acuto (rad. *ak); inoltre l'affinità fra il greco theòs (da altri però ricondotto a indoeur. *dhesos, spirito) e il latino deus, ma soprattutto duplicità di forme come ànthropos e anèr, andròs. Infine ancora prima di Georgiev, M. Budimir identificava in forme come sarmòs, caldo (da i. e. *ghwermòs) e sergòs, cervo (i.e. *kerwòs) la presenza di un altro substrato indoeuropeo pregreco, che egli definì pelastico. Ne consegue che l'avanzamento degli Indoeuropei nei Balcani dal 4000 a.C. in poi, avrebbe portato, come si è detto, alla presenza di ben cinque fasi di indoeuropeizzazione, di cui il greco (in età micenea) sarebbe solo l'ultima e la meglio attestata.
    Parallelamente al distacco del ramo anatolico, si sarebbe avuta un'espansione indoeuropea in Asia centrale ed in Siberia (corrispondente alla cultura di Afanasevo?) che sarebbe all'origine del tocario. Anche il tocario sembra essere anomalo rispetto al resto delle lingue indoeuropee. Ha infatti dieci casi (nominativo, accusativo, vocativo, genitivo, ablativo, dativo, locativo, causativo, comitativo, perlativo), derivati dalla fusione delle desinenze con le posposizioni. I dieci casi del tocario sono nati per influsso di adstrato delle lingue uralo-altaiche. Il Tocario ha in comune, con il latino e l'ittita, le desinenze mediopassive in -r, derivate forse dalla generalizzazione di una terza persona con valore stativo o impersonale; con il latino, condivide anche il congiuntivo in *-ā-. Il fatto che il tocario, una lingua indoeuropea orientale, sia una lingua kentum (non ha la palatalizzazione delle velari), ha indotto gli studiosi a ridimensionare fortemente il valore della distinzione satem-kentum come indicatore geografico.
    Le lingue Satem, in particolare delle parlate di famiglia indo-aria affini per certi versi all'avestico e al vedico, ma per altri versi dotate di peculiarità proprie (dittonghi ai au non ancora monottongati in ē ō), sono attestate in Medio Oriente dai nomi indo-arii di sovrani di dinastie effimere (barbariche) sovrappostesi per qualche tempo alle vecchie compagini statali semitiche della Mezzaluna Fertile, intorno al 2000 a.C. Verosimilmente, la satemizzazione e la semplificazione vocalica tipica dell'indo-ario (e la diffusione degli indo-arii verso sud est) è cominciata intorno al 3000. a.C. se non prima, se bisogna tener conto della testimonianza dei numerali a base dieci (dexan, tah-dexan, da un protoindoario *deksam, con e non ancora ricaduta in a e satemizzazione parziale, da k a ks -fra l'altro, la satemizzazione parziale attestata da queste forme ricorda fenomeni analoghi a quelli, attestati altrove, del cosiddetto greco psi) prestati ad alcune lingue non indoeuropee (uralo-altaiche). In contemporanea rispetto alla diffusione indo-aria verso sud est, deve essersi attuata la diffusione dei parlanti dei dialetti protogreci verso i Balcani meridionali e la Grecia. Uno dei discendenti più arcaici del diasistema protogreco, il miceneo (con le sue ipotizzate varianti foniche "protodoriche", indicate dall'alternanza di forme verbali di terza persona plurale come i futuri dōsonsi - dōsonti), un dialetto che è dotato ancora di un caso strumentale differenziato e di un sistema di labiovelari, è presente in Grecia nel XVI secolo a.C. o poco prima. Il greco, a differenza dell'indo-ario, e in totale controtendenza rispetto al ramo anatolico e al tocario, mostra un forte sincretismo dei casi; per converso, la struttura verbale dei dialetti greci è fra le più conservative (più che altro concilia fenomeni conservativi, come il mantenersi dell'aumento, con fenomeni innovativi, come la creazione di un sistema di coniugazione verbale coerente, basato sulla radicalizzazione delle opposizioni aspettuali delineatesi nel tardo indoeuropeo comune);
    Dal 2000 a.C., da una trasgressione nord-occidentale della Urheimat sarmatica a metà strada fra il bassopiano germanico e i Carpazi, si gemma il gruppo di dialetti indoeuropei meno conservativi, che a più ondate fra l'età del bronzo tardo e la prima età del ferro, si riversa a ovest, dando luogo ai dialetti germanici, celtici e italici. Caratteristiche linguistiche di questi dialetti, tutti immuni dalla satemizzazione, sono: 1) una complessa serie di mutamenti fonetici (rotazione consonantica e semplificazione vocalica nel germanico, riadattamenti parziali del consonantismo in celtico e italico, semplificazione prosodica, con la scomparsa del vecchio accento musicale e libero tritonale e la comparsa di un accento demarcativo dinamico sulla prima sillaba, tendenza, in germanico, all'isocronismo sillabico); 2) una pesante ristrutturazione del sistema dei casi (perdita di un numero di casi da uno a tre), legata a una evoluzione marcata dei costrutti preposizionali; 3)una ristrutturazione del sistema verbale, che parte in ogni caso da una radicalizzazione dell'opposizione perfetto-presente, con la perdita dell'aoristo. In particolare i due casi estremi sono rappresentati da germanico e lingue italiche: fondendo la radice *dhe, porre con i temi verbali, il germanico crea il perfetto debole, conservando solo qualche relitto dei vecchi perfetti forti apofonici;le lingue italiche perdono i vecchi tempi indoeuropei, ma poi li ricostruiscono, agglutinando i temi verbali con la radice *bhew, essere.
    L'Europa, a partire dal 1000 a.C., si può considerare massicciamente indoeuropeizzata.

    In ogni caso, quale che sia l'origine delle popolazioni indoeuropee, resta assodato che è esistito un antenato comune della famiglia linguistica indoeuropea, da cui sono derivate le antiche lingue latina, greca, celtica, iraniana, germanica, indo-aria e dunque quasi tutte le moderne lingue europee, a parte il basco, le lingue ugrofinniche e le lingue caucasiche.


    La dimensione culturale degli Indoeuropei [modifica]

    Ipotesi sulle tradizioni orali degli Indoeuropei: il ruolo del poeta nella società indoeuropea [modifica]
    Una dimensione particolare aveva il poeta nella società indoeuropea, almeno stando a quanto è possibile dedurre, in via indiretta, dai dati storici. Ci si potrebbe chiedere se abbia senso parlare di poeti per una cultura che ci è nota attraverso la ricostruzione comparativa di una lingua. Il fatto è che sono attestate, per l'indoeuropeo, ricostruzioni di espressioni formulari comuni, che possono essere concepite solo come elementi stilistici di una poesia epica orale, i cui valori sono quelli tipici di un ideale eroico, espressione di un'aristocrazia di guerrieri. Un esempio tipico di queste espressioni formulari è dato dall'espressione greca (omerica) klèos àphthiton (vedi Iliade, libro IX verso 413), che significa "gloria immortale", perfettamente corrispondente al sanscrito sravas aksitam, dello stesso significato, e metricamente equivalente. L'ipotetica forma ricostruita dell'espressione sarà *klèwos *ndhgwitom. Sempre il paragone fra poesia greca e poesia vedica e sanscrita, getta una luce sul tipo di metrica che gli ipotetici cantori orali indoeuropei dovevano maneggiare: sia i poeti greci di stirpe eolica, sia gli autori degli antichissimi inni vedici, usano versi che hanno due caratteristiche salienti: 1) hanno sempre lo stesso numero di sillabe, sono perciò versi isosillabici, il cui ritmo è quantitativo; 2) hanno le sillabe iniziali metricamente "libere" e le sillabe finali con una struttura metrica rigida. In terzo luogo, ci sono sia in vedico, sia nel greco di Omero, fenomeni fonetici comuni, totalmente identici che fanno pensare a una lingua poetica con regole proprie, distinta dalla lingua colloquiale normale. Un esempio? Sia Omero, sia gli inni vedici, possono trattare le vocali lunghe derivanti da contrazione come se fossero due vocali in sequenza. Così in vedico il genitivo plurale gām (<*gwowom: delle mucche), può essere scandito metricamente, se occorre, come ga-am, e nel greco omerico verbi contratti come skiōnto ("si coprivano d'ombra"), vengono scanditi (e più tardi scritti) come skio-ōnto. Anche se alcuni studiosi, come Villar, si ribellano ai paradigmi che sembrano schiacciare l'indoeuropeo a un'accoppiata greco + vedico, in realtà la comunanza di questi elementi di lingua, stile e metrica, fra parlate così distanti nello spazio e non troppo vicine nel tempo, è perlomeno indizio di un fatto: gli antenati più remoti degli aedi greci e degli rsi vedici hanno potuto condividere questo patrimonio culturale solo quando erano molto vicini e territorialmente contigui. Questo non poteva accadere che prima del 4000 a. C. Dunque, i relitti della lingua epica comune a vedico e greco risalgono alla fase tardo-unitaria dell'indoeuropeo. Un ulteriore indizio a favore ci viene dall'epica slava, la cui metrica mostra, ancora in epoca medievale, tratti comuni con la metrica degli inni vedici. Si può quindi affermare con una certa sicurezza che almeno l'indoeuropeo tardo aveva, come variante formale, una lingua poetica definita, propria di una poesia epica dotata di una metrica definita; ovviamente, dove c'è una simile lingua poetica, c'è una classe di artigiani della parola che la maneggia. In tutte le società arcaiche in cui c'è un'epica orale, fatta di canti improvvisati su temi noti, l'apprendistato necessario a padroneggiarne la lingua e la metrica dura più di un decennio. Se ne deve dedurre che, fra gli indoeuropei, i poeti costituissero una categoria definita: una categoria di artigiani, di produttori: di artigiani e produttori molto speciali, visto che erano la voce ufficiale di valori, come la "gloria immortale", che definivano l'orizzonte ideale dei guerrieri. Alcuni indizi linguistici molto chiari permettono altresì di comprendere quale fosse l'idea che gli indoeuropei avessero della cosiddetta "ispirazione" del poeta. La parola latina vates (vate, profeta, poeta) e il nome germanico Wodan, dio del furore guerriero, ma anche della profezia e delle funzioni sacerdotali "alte", sono riconducibili entrambi a una radice indoeuropea *wot che significa appunto furore; d'altro canto, il nome di una delle figure di cantore più diffuse nel mondo indo-ario, lo rsi, è riconducibile alla stessa radice *eisa- del latino ira, cioè appunto "ira, furia". Contiguità lessicali fra il furore del posseduto da una divinità e il mondo poetico e magico-sacerdotale, sono allo stesso modo riscontrabili fra i Celti. Ne consegue che il poeta, fra gli indoeuropei, appariva da un lato come una sorta di elemento molto speciale della classe degli artigiani, una voce capace di eternare nella gloria l'impresa, per lo più guerriera, dall'altro sembrava mosso da un'ispirazione divina, che lo possedeva ed era molto simile a una sorta di furor. La parola poetica era uno strumento a metà strada fra l'attrezzo artigianale, su cui l'apprendista cantore orale si esercita per un lunghissimo periodo, e il mondo (anch'esso fissato in espressioni canoniche e ritmi) delle formule magiche, dello *yous del sacerdote e dello sciamano, capace di controllare in qualche modo la realtà. Questo accadeva semplicemente perché, presso gli indoeuropei, il responso del sacerdote e il canto epico del poeta si esprimevano attraverso strumenti tecnicamente affini (la parola in un registro formale, non usuale), stante la necessità di ricorrere alla tradizione orale, per tramandare valori ideali e rituali religiosi, in una società completamente priva di scrittura.


    Ipotetica Weltanschauung e divinità degli indoeuropei [modifica]
    La comparazione linguistica ha permesso di ricostruire i nomi probabili delle divinità che gli Indoeuropei veneravano. Talora, però, la continuazione di tali ipotetici nomi, nonché delle figure divine ad essi corrispondenti, appare controversa, a causa delle evoluzioni contraddittorie che queste figure divine hanno, nelle varie mitologie storicamente note. Nell'insieme la visione del mondo, la cosmogonia e la religione indoeuropee dovevano verosimilmente condividere i tratti tipici delle religioni e delle cosmogonie di molte società arcaiche: fra questi tratti, la venerazione di divinità collegate col cielo e con gli astri, con miti che adombravano le elementari conoscenze necessarie all'orientamento dei pastori nomadi e alla scansione stagionale dei tempi dell'agricoltura arcaica. Inoltre, dato il carattere patriarcale e guerriero della società indoeuropea, nella religiosità indoeuropea prevalgono largamente le attestazioni di dèi padri. A ciò si aggiunga che gli indoeuropei, già in piena fase unitaria, sono caratterizzati da una struttura sociale tripartita, e da una corrispondente ideologia delle tre funzioni sociali portanti: sacerdotale, guerriera, produttiva. Oggi non si crede più, come all'epoca del suo scopritore Georges Dumézil, che tale trifunzionalismo sia solo e soltanto indoeuropeo; né si pensa che fosse presente sin dalle più remote fasi originarie. Esso tuttavia agisce fortemente nella fase unitaria matura. La tripartizione delle funzioni si è pertanto riflessa nelle funzioni delle divinità. Quanto alle dee, poche divinità femminili sono sicuramente ascrivibili alla fase unitaria della cultura indoeuropea, per una serie di ragioni:

    La più ovvia, naturalmente (vi abbiamo già accennato varie volte), è la natura patriarcale e virilocale della famiglia fra gli indoeuropei; le dee, in molte religioni di popoli di origine indoeuropea, sono semplicemente le spose degli dèi padri, senza altre caratterizzazioni; come in terra, nella famiglia, il *pətēr e *potis, il paterfamilias e signore o sposo, ha la sua *potnī, così in cielo ogni *deiwos ha la sua *deiwnī;
    inoltre, spesso, i popoli indoeuropei tendono ad associare una divinità femminile a un luogo (fonte, foresta); con il mutare dei luoghi, i piccoli gruppi di indoeuropei che si installavano altrove, come opportunistica èlite militare e/o commerciale, dimenticavano le dee connesse ai luoghi abbandonati;
    infine, le dee hanno un'identità comune meno ricostruibile, perché gli indoeuropei hanno teso a incorporare nella loro religiosità le forti divinità femminili presenti in molte popolazioni pre-indoeuropee, la cui religiosità era invece caratterizzata, secondo gli studi di Maria Gimbutas, dal cosiddetto linguaggio della dea, cioè dal prevalere delle dee madri.

    Divinità e visioni cosmogoniche presso gli Indoeuropei [modifica]
    Poste le premesse generiche del discorso, è possibile analizzare più in dettaglio le ipotesi sui valori comuni e sulla religione degli Indoeuropei.

    La ricostruzione linguistica e il confronto fra tradizioni fortemente analoghe nelle varie culture di lingua indoeuropea permettono di fornire, a grandi linee, un quadro attendibile delle figure divine del loro pantheon comune originario. Si tenga conto, tuttavia, che nella complessa storia della diffusione degli Indoeuropei, i nomi e i ruoli delle divinità corrispondono per alcuni tratti e per altri meno, avendo subito le religioni delle varie tribù un'evoluzione intricata sin dal tempo in cui convivevano nella regione del bassopiano sarmatico che va dalle pendici del Caucaso al confine moldavo. Molto gioca, nell'evoluzione dei culti, il trifunzionalismo dei sacerdoti, dei guerrieri e dei produttori, che in genere si applica a tutte le popolazioni arcaiche avviate verso un primo grado di specializzazione e gerarchizzazione sociale.


    Dèi padri celesti: *Dyeus Pətēr (Padre Cielo luminoso) e *Werunos - *Wrnos [modifica]
    La prima divinità che si incontra, a livello di ricostruzione linguistica, nell'ipotetico studio in dettaglio del pantheon indoeuropeo, è *Dyeus Pətēr, (trad. "Padre Cielo"). Esso corrisponde, sul piano strettamente linguistico, al latino Giove (Iuppiter da *Iou-i-s-pater), al greco Zeus, al germanico Tiwaz, al vedico Dyauh pitā. Tuttavia, le corrispondenze linguistiche, come si è già detto, ricalcano le corrispondenze funzionali in modo molto approssimativo. Intanto, si tenga presente che non in tutte le religioni dei popoli che abbiamo appena elencati, la divinità *Dyeus Pətēr assume il ruolo di dio delle tempeste. Nel pantheon vedico, ad esempio, Dyauh pitā ha un ruolo limitato, mentre più forte è il ruolo di un'altra divinità Varuna il cielo, che si fa spesso corrispondere, sia pur in modo controverso, con il greco Ouranòs, a partire da un i. e. *Werunos o *Wrnos. Appare anche possibile, data la struttura linguistica, che *Weru-nos sia in realtà un epiteto ricorrente, riferito allo stesso *Dyeus: significherebbe "l'ampio", "il vasto". Sempre nel mondo indo-ario, il dio associato al fulmine e dotato di marcate caratteristiche guerriere è Indra. Lo studioso di religioni arcaiche Jean Haudry ha notato che *Dyeus Pətēr, in quanto "padre del cielo luminoso" non poteva essere di per sé associato al tuono e al fulmine, tipici del cielo oscurato dalle nubi. Questa divinità era, per Georges Dumézil, associata all'idea di una suprema funzione sacerdotale. Strettamente connesso al ruolo di *Dyeus Pətēr come supremo garante dell'ordine umano e divino, è il concetto di *(H2)artus (rad. i. e. *ar: essere collegato, connesso, adatto, adeguato, opportuno, armonico - è la radice del greco armonia, della parola aretē che significa "virtù" e del latino artus, giuntura, articolazione, arto; la stessa radice si trova anche nel vedico rta). L' *artus è una legge di reciprocità che si riconosce propria di molte culture indoeuropee arcaiche ed è relativa tanto al mondo dei rapporti interumani, quanto al sistema di rapporti fra divinità e uomo, fra dio e dio, fra ogni elemento della realtà e ogni altro. Si pensi al già citato concetto greco di armonia (l'idea di armonia aphanēs, armonia latente come connessione inscindibile degli opposti in Eraclito, discende alla lontana da questo retroterra linguistico). Strettamente connessa alla relazione di reciprocità definita dall' *artus è la valenza della parola *ghostis, "ospite" (cfr. inglese guest, latino hostis e hospes da un arcaico *hosti-petis). Appare assai probabile che già presso gli Indoeuropei la relazione di ospitalità fosse fondamentale, una sorta di primitiva diplomazia con definiti obblighi di reciproca accoglienza, come accade, ad esempio, presso i Greci. A *Dyeus Pətēr viene spesso dato l'appellativo di *artous *potis, espressione ricostruita che significa "signore della reciprocità". Come tale , questa divinità sembra porsi come garante di tre ambiti strettamente connessi:

    l'ordine cosmico, e in particolare i ruoli definiti delle divinità l'una rispetto all'altra;
    la validità del sacrificio, come rapporto di reciprocità fra il sacrificante, che ottempera ai suoi obblighi verso il dio, e il dio stesso, all'interno di una visione contrattualistica della religione;
    le relazioni di ospitalità, in quanto primitive forme di diplomazia fra tribù semi-nomadi.
    A tal proposito, si ricordi come lo Zeus dei Greci fosse, fra l'altro, il dio dei supplici e degli ospiti. Di Zeus stesso il poeta Esiodo, nella Teogonia dice, che "ben divise gli onori e definì i saggi costumi degli immortali" vv. 73 ss., due funzioni strettamente connesse con il probabile ruolo di *artous *potis proprio di *Dyeus. Nel mondo indo-ario, funzioni analoghe sono riprese da Varuna. Si ricordi ad esempio il ruolo che Varuna ha nell'episodio di re Harishcandra nell'Aitareya Brahmana. In tale episodio il re desidera un figlio e si rivolge a Varuna, in quanto dio celeste garante di continuità e fecondità, ma anche garante dell'effetto del sacrificio agli dèi.

    Come abbiamo accennato, i ruoli di *Dyeus si spiegano essenzialmente nell'ambito di quella che è un'arcaica società di pastori semi-nomadi e di mercanti, nella quale le relazioni di ospitalità erano fondamentali. In un simile contesto di arcaiche relazioni fra tribù diverse, in una realtà che verosimilmente era assai policentrica e dispersa, la sacralizzazione delle relazioni di reciprocità nel commercio e nell'accoglienza, secondo l'ottica di una primitiva etica del viandante, era assolutamente naturale e spontanea.

    In quanto associato a una ierofania celeste, *Dyeus è spesso chiamato anche *weuru-okw-, "ampio occhio", con allusione ad attributi di onniscienza, tipici degli dèi padri uranici (cfr il greco euryopa, e l'avestico vouru-casani).

    Non si riconoscono univoche ricostruzioni di dee spose di *Dyeus. Tuttavia è verosimile che al supremo dio del cielo chiaro fosse associata come sposa una dea madre, una *Dheghōm *mātēr, "Madre Terra". Ad esempio, lo Zeus greco è associato ad una serie di spose che altro non sono che diverse personificazioni della Dea Madre terra (è il caso di Dione, di Latona, di Maia e di Era; Urano, il cielo, è figlio e marito di Gea, la terra; nel mondo vedico Dyauh pita ha come sposa la madre terra.

    Un'ipotesi più circostanziata, tuttavia, è possibile farla. Come è noto agli studiosi, le dee spose indoeuropee prendono semplicemente il femminile del dio a cui sono associate. Appare dunque possibile che il vero nome della sposa di *Dyeus si celi sotto quello della dea madre greca Dione, di cui sarebbe figlia Afrodite secondo la tradizione attestata da Omero nel V libro dell'Iliade. La sposa di *Dyeus il chiaro, sarebbe dunque semplicemente *Diwnī. Si consideri che anche il nome di Era, la più famosa delle spose di Zeus, è spesso collegato con una radice che significa "aria", "cielo".


    Il dio delle tempeste e dell'albero cosmico e gli dèi uranici guerrieri: *Perkwunos - *Maworts [modifica]
    Accanto a *Dyeus, dio celeste che assomma in sé funzioni di garante sacerdotale, ed è associato al cielo chiaro, è presente, fra gli Indoeuropei, un'altra divinità, associata invece al cielo tempestoso, un dio celeste più in basso di *Dyeus stesso, e perciò più di lui attivo e presente nell'esistenza umana. Questa divinità è più complessa da ricostruire, quanto ad appellativi e ruoli. Si tratta di un dio celeste della guerra, associato al fulmine e alle tempeste. In molte culture (ad esempio in quella greco-romana) il suo ruolo è in gran parte assorbito dall'antico *Dyeus, il cui nome subisce uno slittamento semantico, mentre la semplice funzione guerresca è associata ad altre divinità (Ares, Marte). Nel mondo indo-ario l'opposizione fra Dyauh pitā e Indra si risolve tutta a favore di quest'ultimo. Qualcosa di non dissimile accade nel mondo germanico, dove il dio del furor guerriero e sciamanico, Uotan, si accompagna a un Tiwaz-Tiw-Zius, accanto a cui si pone la figura del violento Thorr. Il problema del dio della guerra indoeuropeo è estremamente complesso, poiché è fra l'altro legato a uno dei miti che si possono attribuire all'immaginario comune degli indoeuropei, la lotta del dio padre celeste contro il serpente (o drago), un archetipo che rimanda a uno sfondo di leggende remotissimo, che gli indoeuropei ereditano da un più antico bagaglio spirituale e mitologico. La complessità di questa figura divina fa comprendere come essa, rispetto a *Dyeus, assuma sin da epoche remote un ruolo più forte nel culto.

    Un appellativo molto diffuso del dio delle tempeste e della guerra è *Perkwunos. Fra gli Albanesi è attestato come Perendi, fra i Traci come Perkos, in India è chiamato Parjanya, una delle personificazioni di Indra, fra i Celti è noto come Perkun, presso i popoli nordici è Fyörgynn, presso gli slavi Perun, presso i popoli baltici Perkunas. Grammaticalmente, il nome *Perkwunos non è un sostantivo: è un aggettivo di provenienza e pertinenza, con il caratteristico suffisso (in origine genitivale) *-no-. Tale aggettivo è collegato alla parola *perkwus, "quercia", dunque, egli è il signore della quercia. La parola *perkwus è poi connessa alla radice perk, colpire. Ora, è noto che a tutti gli dèi del tuono indoeuropei è associata la quercia; un esempio per tutti: lo Zeus greco aveva a Dodona in Epiro un santuario dove le querce erano i suoi alberi totem, le cui foglie erano dotate di virtù profetica. Dunque, un elemento caratteristico del dio delle tempeste e della guerra era il fatto di essere associato alla quercia, albero che poi era considerato fonte di presagio, poiché colpito (*perk-) dal fulmine. Ad esempio, presso i latini la quercia toccata dal cielo era considerata presagio, spesso di sventura:

    (LA)
    « Saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset
    de caelo tactas memini praedicere quercus. » (IT)
    « Ricordo che spesso le querce colpite dal cielo mi avevano predetta questa sventura... ah, se solo la mia mente non fosse stata cieca! »
    (Virgilio, Bucoliche I 16-17)

    La quercia, associata al dio celeste che scaglia il fulmine, è dunque, presso gli indoeuropei dotata di valore profetico. Essa, inoltre, simboleggia l'asse del mondo, l'albero mitico che regge il cielo sui suoi rami e affonda le sue radici nella terra. Il suo signore è il dio celeste del fulmine. Una situazione simile è tipica ad esempio del mondo nordico. Presso i Vichinghi è diffuso il mito che tutto si regga sull'albero del mondo, Yggdrasil, parola che significa "albero d'Ygg", ed Ygg, in norreno, è l'altro nome di Odino.

    Un altro nome del dio guerriero celeste, ed altra sua personificazione, associata al tuono, è Thorr, dal proto-germanico *Tunraz, che presso i celti è Taranis, e presso gli ittiti è Tahrunt-. La parola indoeuropea alla base di questo appellativo è *T(e)nhr-os. Anche *Tnhros, *Tenhros, *Tnhront- non è un sostantivo, ma un aggettivo: il suo significato è "armato di tuono", "tonante".

    Anche il nome germanico Wodan, da *Wodanaz, è un aggettivo: esso deriva dall'indoeuropeo *Wotenos, il furioso. Si tratta della personificazione del dio guerriero del tuono e del fulmine, in quanto è portatore di furia distruttrice.

    Lo stesso vale per il greco Ares, sempre collegato alle divinità celesti della guerra. La parola Ares è verosimilmente venuta dalla radice *ar, da cui si formano *artus, connessione, reciprocità, ma anche *aryos, adatto, valoroso (l'aggettivo da cui si pensava un tempo si potesse dedurre il nome degli indoeuropei: *Aryōs -tale ipotesi oggi è stata smentita dai fatti, poiché le presunte corrispondenze fra il vedico Arya e il mondo celtico, su cui si fondava, si sono rivelate linguisticamente inesistenti e prive di fondamento). Dunque *Ares- è il dio guerriero del fulmine in quanto valoroso.

    In India, il nome di questo dio è Indra. Il nome Indra sembra tuttavia frutto di antonomasia: esso è collegato all'indoeuropeo *(h)nēr (vedico nar, greco anēr andròs), che significa "uomo", ma anche "guerriero", "eroe". Tuttavia è proprio il contesto iconografico della figura di Indra a fornire indizi sul nome indoeuropeo del dio celeste della guerra. Indra è infatti accompagnato da alcuni demoni dell'ira, che si chiamano Marut. Il nome Marut è collegato con il latino Mauors, Mamers, Mars, "Marte". Probabilmente è il vero e proprio nome del dio indoeuropeo della guerra, che va ricostruito come *Maworts, genitivo (con tema debole) *Mawrtòs. Questo appellativo non è un'aggettivo, ha piuttosto l'aspetto di un nome non derivato. Inoltre, i nomi Mavors (mondo latino arcaico) e Marut (mitologia indù) sono attestati in aree estreme dell'Indoeuropa, in contesti affini ma in parte di secondo piano. Ciò vuol dire che sono estremamente arcaici.

    Il quadro complessivo che ne risulta è il seguente. Accanto al dio sacerdotale del cielo chiaro, *Dyeus, gli indoeuropei conoscevano un dio guerriero celeste del tuono e del fulmine, *Maworts. Questi, come tutte le tradizioni mitologiche dei popoli indoeuropei sembrano indicare, era figlio di *Dyeus. Mentre *Dyeus sembra collegato a una visione più trascendente, e a una dimensione uranica superiore, *Maworts invece è collegato al cielo basso e alle sue manifestazioni violente. Il suo totem è la quercia, che, colpita dal fulmine, si fa portatrice di presagi; sempre la quercia è il simbolo dell'asse del mondo, di cui *Maworts è il signore. Perciò questo dio è detto *Perkwunos, il signore delle querce. Il fulmine e il tuono sono le sue armi. Perciò è detto *Tenhros, " Tonante". Inoltre, in contesti mitologici ricorrenti, l'eroe (*hner-) doveva essere considerato l'incarnazione stessa di *Maworts, detto perciò *Aryos, il valoroso (greco Ares) e l'eroe (Indra).


    Altri dèi e miti [modifica]
    Un mito indoeuropeo: *Perkwunos-*Maworts contro il Serpente (*Oghwis)
    Animali totem del dio guerriero delle tempeste: il lupo, il gallo, l'aquila e il toro
    Il dio della *dhetis: (H)aryomen
    Il dio delle acque: *Neptonos, *Akwōm *Nepōt
    Il dio del fuoco: *Wlkanos
    I gemelli figli di *Dyeus: Diwòs Sunū
    Divinità Solari presso gli indoeuropei: *Sawel(yos), e la Figlia del Sole, *Sawelnī
    Divinità lunari: *Mēn e *Louksnā

    Ipotesi sulle cause della migrazione [modifica]

    Premessa [modifica]
    È ben ricordare che la teoria della continuità' non ha bisogno di migrazioni (se si eccettua il problema dei Tocari e degli indo-iranici), mentre la teoria di Renfrew è autoesplicativa, in quanto i coltivatori hanno ovviamente necessità di migrare alla ricerca di nuove terre a causa della crescita demografica. Quindi ben si comprende che la ricerca delle cause innescanti le migrazioni degli indoeuropei, ha senso realmente solo nel contesto della teoria dell'invasione Kurgan.

    Un'ipotesi plausibile per spiegare la diffusione degli indoeuropei e delle loro lingue potrebbe essere fornita dal tipo di economia pastorale-seminomade che li caratterizzava, unitamente al carattere virilocale e guerriero che la società indoeuropea tarda, kurganica (sviluppatasi dalle antichissime forme di società a chiefdom, in principio sostanzialmente egualitarie) sembra mostrare. La prima avanzata degli Indoeuropei deve essere stata semplicemente caratterizzata da una sorta di lenta espansione a partire dal più arcaico nucleo uralo-pontico della cosiddetta Urheimat. La diffusione delle tecniche agricole nella zona uralo-pontica deve aver fornito alla popolazione cromagnonoide dell'area una potente spinta di avanzamento. E un'onda di avanzamento deve probabilmente aver determinato la "conquista" (più che altro la pacifica occupazione per crescita del volume demografico) delle aree immediatamente limitrofe al rifugio postglaciale nord-pontico. A ciò si saranno aggiunte molto per tempo, come molle di espansione, primitive relazioni di carattere commerciale, le ricadute tecnologiche della domesticazione del cavallo, la pastorizia nomade (che si evolve in relazione con comunità agricole preesistenti) e la diffusione della metallurgia del rame e del bronzo, che secondo alcuni studiosi potrebbero anche essere nate in Europa orientale in maniera del tutto indipendente rispetto a ciò che accadeva nella cosiddetta Mezzaluna Fertile. Assai verosimilmente, alla vigilia del distacco del ramo anatolico, il più antico, le popolazioni di lingua indoeuropea occupavano già un'area alquanto vasta, dalla zona a ridosso del basso Danubio fino alle steppe dell'Asia centrale. Questa primitiva Indoeuropa, semplicemente una sorta di Urheimat espansa, era probabilmente già in parte differenziata in dialetti, o comunque attraversata da fenomeni vistosi di variazioni diatopiche, che nella loro complessità prefiguravano, per alcuni aspetti, le famiglie indoeuropee storicamente note, ma sicuramente mostravano anche identità e fisionomie dialettali proprie, molte delle quali andate perdute. La successiva espansione "violenta" parrebbe essere dovuta ad irregolari dinamiche di gemmazione, occasionate da relazioni non sempre facili con le comunità pre-indoeuropee vicine alle regioni esterne dell' Urheimat allargata della più tarda fase unitaria. Tali gemmazioni, conclusesi di volta in volta con la sovrapposizione, ora definitiva, ora instabile e transitoria, di "élites" militari indoeuropee ai popoli preesistenti, si manifestano come il portato di fenomeni di incertezza nelle aree di confine fra popolazioni preistoriche e protostoriche eterogenee. Così, ad esempio, la penetrazione del ramo anatolico nei Balcani potrebbe essere stata inizialmente prodotta dall'interesse non proprio benevolo di alcuni capi-guerrieri per la prosperità delle vicine popolazioni danubiane. La più tarda presenza di tracce indo-arie in dinastie medio-orientali ci parla dell'avvento di piccoli gruppi di avventurieri protostorici in cerca di fortuna (un po' come certe bande di normanni nell'Europa medievale). L'irregolarità e la saltuarietà, così come gli esiti molteplici di tali movimenti di piccoli gruppi a partire dal Bassopiano Sarmatico, determina un quadro complesso, in cui l'avvento delle singole sottofamiglie linguistiche nelle aree nelle quali poi si ritrovano in età storica, non è riconducibile sempre e comunque ad una e una sola causa di migrazione (propriamente, non si può nemmeno parlare di migrazioni). Ed è questa situazione frastagliata a rendere problematica agli studiosi l'identificazione di precise e univoche motivazioni per il diffondersi delle lingue indoeuropee.


    Ipotesi Ryan-Pitman [modifica]
    Fra le ipotesi recenti, tese a spiegare la causa della migrazione, la più originale si basa sul repentino allagamento del territorio ora occupato dal Mar Nero, causato dallo scioglimento dei ghiacciai, avvenuto in conseguenza del ripristino della corrente del Golfo che in pochi anni liberò il Mare del Nord dal ghiaccio dell'ultima era glaciale. Con l'aumento del livello del mare, il Mar Mediterraneo avrebbe allagato una vasta depressione, formando l'attuale Mar Nero e obbligando le popolazioni ivi residenti, tra cui forse i proto-indoeuropei a migrare in zone sicure. Secondo questa ipotesi l'evento sarebbe stato ricordato nelle varie mitologie come il Diluvio. Si tratta però di un'ipotesi fortemente eterodossa.

    Per approfondire, vedi la voce Ipotesi Ryan-Pitman.


    Critiche all'ipotesi Ryan-Pitman [modifica]
    L'Ipotesi Ryan-Pitman non è condivisa da tutti gli studiosi e non si può dire che sia largamente accettata in Geologia. Sul piano archeologico, essa non è accettabile per coloro i quali non ammettono che già all'epoca della fine dell'ultima glaciazione gli Indoeuropei fossero un'etnia definita sul piano linguistico e culturale. Tutt'al più è possibile che il mito del diluvio sia passato agli Indoeuropei per tradizione orale, a partire da popolazioni più antiche che assistettero all'inondazione del Mar Nero o ad altri consimili fenomeni postglaciali di allagamento.

    Essa, in ogni caso, non può spiegare l'ipotetica migrazione alla base della diffusione più o meno violenta della civiltà dei Kurgan, che è troppo recente, rispetto alla fine dell'ultima glaciazione (la fine del Wurm III data all'8000 a. C.; per gli Indoeuropei, chi accetta l'ipotesi kurganica non risale molto oltre il 5000 a. C., c'è dunque uno scarto di 3000 anni).

    fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Indoeuropei

  6. #6
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    e ora veniamo ad articoli...."nostri"


    Indoeuropei, le nostre radici

    Di recente, sull'onda di circostanze emblematiche quali l'estensione dell'Unione Europea a diversi Stati dell'area orientale, si è fatto un gran parlare di radici culturali e spirituali dell'Europa. Moltissime voci autorevoli sono intervenute nel dibattito, sottolineando diverse "cifre" comuni della storia e della forma mentis europea (grecità, cristianesimo, umanesimo, attitudine scientifica etc.). Quasi nessuno, però, ha portato lo sguardo verso le origini comuni. Molti ancora muovono dall'idea, non errata ma insufficiente, che diversi popoli ed etnie abbiano forgiato altrettante comunità e nazioni europee, distinte nelle lingue e nelle tradizioni, che ebbero semplicemente la ventura di vivere in terre confinanti, e che pertanto svilupparono una serie di contatti commerciali, culturali e storici di vario genere, dando così forma e origine alla moderna Europa.

    È necessario aprire lo sguardo a orizzonti più vasti e lontani, verso un passato più risalente ma non per questo a noi meno vicino. Celti, Germani, Romani, Veneti, Greci, Albanesi, Slavi e Baltici sono popoli che si formarono in seguito a più diaspore di un'ampia comunità: un popolo unitario, che aveva una medesima lingua, (poi differenziatasi in dialetti, divenuti lingue), una medesima organizzazione sociale e politica, un medesimo sentimento del mondo e del sacro. Gli Indoeuropei, come li chiamiamo oggi, sono i nostri antichi progenitori comuni.

    Di origine indoeuropea sono la stragrande maggioranza delle lingue oggi parlate in Europa (le eccezioni sono il basco e le lingue ugrofinniche, di cui in Europa sopravvivono l'ungherese e il finlandese, che pure hanno assorbito molti termini indoeuropei), così come nel resto del mondo: si calcola che su circa il 90% delle terre emerse si parlino lingue indoeuropee. Il motivo di questa diffusione è probabilmente duplice: vi è una ragione esterna, cioè la vocazione storica alla conquista dei popoli indoeuropei, che imposero via via i loro linguaggi; e una interna, da ricercarsi nella pregevole adattabilità ed "esportabilità" dei modelli linguistici indoeuropei: come è stato, in passato, per il latino o lo spagnolo, così avviene oggi con l'inglese.

    Le grandi migrazioni iniziano tra il quarto e il terzo millennio a.C., dopo la definitiva scomparsa dell'ultimo periodo glaciale. Ampie comunità di cacciatori, nuovamente coagulate, iniziano a sciamare da una vasta area nordica che, secondo l'interpretazione più verosimile, si estendeva nello spazio compreso tra la Scania, le rive meridionali e orientali del Baltico e le propaggini occidentali delle steppe caucasiche. Presto nasceranno la civiltà indiana e quella persiana: allo stesso modo le asce e il carro da guerra segneranno l'arrivo degli Indoeuropei in Anatolia, così come nel bacino del Tarim e nella regione dello Xinjiang, in Cina, si stabilirà la popolazione dei Tocari.

    Ovunque l'arrivo degli Indoeuropei sovverte l'organizzazione sociale precedente, imponendo un nuovo modello. Sorgono arroccamenti, castellari, città-stato; si impone il rito della cremazione; le strutture urbane, così come gli oggetti d'uso comune, si ispirano a forme rigidamente geometriche e strutturate. D'improvviso, la venuta dei nuovi signori crea società patriarcali, guerriere e gerarchiche. Attraverso più ondate, l'Europa viene completamente indoeuropeizzata. I Celti occupano la maggior parte dell'area occidentale, migrazioni illiriche, venete e latine penetrano verso sud in Italia e nei Balcani, mentre i Germani occupano una vasta e fluida area verso il nord; le lingue si differenziano gradatamente. Ancora in epoca storica, alcuni autori classici riconosceranno negli altri popoli indoeuropei dei parenti.


    Alberto Lombardo


    fonte: http://www.centrostudilaruna.it/indoeuropeiradici.html

  7. #7
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    Divinità, culto e religiosità degli Indoeuropei

    Nel descrivere la religiosità indoeuropea, Hans F.K. Günther scriveva tra l’altro: «Uomini e Dei non sono per gli Indoeuropei esseri incomparabili, remoti gli uni dagli altri, meno che altrove presso gli Elleni: gli Dei ci appaiono come uomini superiori e immortali (Aristotele, Metafisica), e gli uomini quali nobili esemplari di stirpi elette posson nutrire in sé alcunché di divino, posson vantare per la loro schiatta un’affinità con gli Dei». E tuttavia, nel politeismo indoeuropeo vi è la coscienza della diversità tra l’uomo e gli Dei, la comprensione del destino di finitezza del primo e la sua accettazione eroica: questo dilemma è alla base di famose tragedie, nelle quali l’uomo trionfa accettando con fermezza il proprio destino.

    Per Haudry «la religione indoeuropea è politeista, poiché consiste in una pluralità di riti caratteristici di vari gruppi sociali e di diversi luoghi, e pagana, ossia rurale, poiché riflette la diversità del popolo, non l’unità di un culto di Stato o di una chiesa istituzionalizzata». Questa religiosità è severa e ignora gli slanci sentimentali; non chiede pentimenti né prostrazione. «Per gli Indoeuropei», scriveva ancora Günther, «il problema dell’anima e del corpo non è mai troppo importante, neppure nella vita religiosa. Questo problema non li ha mai oppressi, mai essi spregiarono il corpo per conferire all’anima un valore più grande. L’idea di un corpo costretto nel mondo, sudicia prigione di un’anima anelante oltre di esso a un aldilà, è assolutamente lontana da loro». Anima e corpo appaiono all’indoeuropeo come parti di un tutto, il cui equilibrio è sommamente ricercato. Non vi è pertanto alcuna negazione del corpo, ma la sua gioiosa celebrazione. L’idea latina “Mens sana in corpore sano” è tipicamente indoeuropea.

    Al vertice del pantheon indoeuropeo stava un dio-padre (Deus-pater) la cui figura si è conservata in tutte le civiltà. Questo dio padre e sovrano degli altri dei sovrintende al cielo e all’ordine cosmico. Spesso la prima funzione, quella magico-sacerdotale, è esercitata da una coppia di divinità complementari, come Mitra e Varuna in India, che sono legate rispettivamente alla sovranità giuridica e a quella magica. Nel posto della terza funzione vi è spesso una coppia di gemelli, anch’essi complementari. Non sono poi rari i casi di conflitti tra dei appartenenti a diverse funzioni; la pace che si ristabilisce tra di loro (talvolta al termine di una guerra) segna l’inizio dell’equilibrio sociale e della perfetta armonia cosmica. Alberto Lombardo



    fonte: http://www.centrostudilaruna.it/reli...doeuropea.html

  8. #8
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    Le origini dei Latini



    Fin dal secolo scorso la linguistica comparata è giunta al concetto della unità indoeuropea, ossia alla scoperta che le lingue germaniche, italiche, elleniche, celtiche appartengono ad un unico gruppo linguistico di cui fan parte anche l'antico indiano e l'antico persiano.

    Un esame più attento delle lingue indoeuropee permette di rinvenire termini comuni che designano l'orso, il lupo, il castoro, la quercia, la betulla, il gelo, l'inverno, la neve, - ci rimanda cioè ad originarie sedi settentrionali. La presenza del nome del faggio - albero che non cresce ad Est della linea Konigsberg-Odessa - e del salmone, pesce che vive nel Baltico e nel Mare del Nord, ma non nel Mar Caspio o nel Mar Nero, ci permettono di collocare l'antica patria indoeuropea in un territorio compreso tra il Weser e la Vistola, esteso a Nord fino alla Svezia meridionale e a Sud fino alla Selva Boema e ai Carpazi. Effettivamente, da questo territorio si irradiano, a partire dal 2500 a.C., una serie di culture preistoriche che dilagano dapprima nelle valli del Danubio e del Dnjeper, e di qui raggiungono l'Italia, la Grecia, la Persia, l'India.

    Di qui l'origine nordica delle civiltà indiana, persiana, greca, ma anche quella di quei prischi Latini che si stanziarono sui Monti Albani e fondarono Roma. Poiché gli Italici - e tra essi i Latini - in Italia ci sono venuti, presumibilmente, in diverse ondate, mentre l'antica popolazione mediterranea veniva lentamente sommersa da queste invasioni finché ne emergevano, come isole staccate, Liguri, Etruschi, Piceni, Sicani.

    Le affinità europee della lingua latina

    La parentela delle lingue indoeuropee è un fatto acquisito. Più complesso è il problema del legame dei singoli linguaggi tra loro. Esistono dei criteri generali di raggruppamento sui quali più nessuno discute: ad esempio una distinzione tra un gruppo occidentale kentum (del quale fanno parte il greco, il latino e il germanico ma anche l'ittita) ed un gruppo orientale satem, o anche l'unità originaria del sanscrito e del persiano in una comunità "aria" che si può ricercare archeologicamente fino a Nord del Caucaso. Spesso tuttavia i contatti tra le varie lingue sono così diversi e molteplici da rendere impossibile un preciso raggruppamento per gradi di parentela. Tutto ciò rispecchia uno stadio originario in cui i territori dei vari popoli erano incerti e i loro rapporti intrecciati da flussi e riflussi di ondate migratorie.

    Il latino è stato dapprima collocato in una supposta unità italo-celtico-germanica, ossia si è immaginato che gli antenati dei Celti, dei Germani e dei Latini abbiano formato una unità particolare in seno alla grande famiglia indoeuropea. E' dubbio però se una tale unità sia esistita o se non si debba cercare una unità ancora più larga comprendente anche il veneto e l'illirico, con caratteristiche affinità col baltico. Questo ci introdurrebbe al problema della vera natura del "veneto", e dell'"illirico", e a quello della lingua dei popoli dei campi d'urne.

    In effetti, tutte queste lingue possiedono dei termini sicuramente indoeuropei - ma che non si ritrovano in sanscrito o in greco. Esempi di questo "indoeuropeo occidentale" sono il gallico mori, latino mare, antico tedesco meri, lituano mares, antico slavo morje; l'antico irlandese tuath "popolo", osco touto, antico tedesco diota e antico nordico thiod ("deutsch"), lituano tautà e illirico teutana ("regina"). Comuni a questi popoli sono poi una serie di nomi per i corsi d'acqua che nell'Europa Centrale rappresentano il più antico strato toponomastico analizzabile, mentre in Spagna e in Italia furono importati. Valga come esempio Ala in Norvegia, Aller in Germania, Alento in Italia, Alantà in Lituania – spiegabili col lettone aluots = fonte; Aube in Francia, Alba in Spagna, Elba in Germania, Albula nell'antico Lazio, illuminabili con l'antico nordico elfr fiume e l'antico tedesco elve "letto fluviale". Questa unità linguistica - per la quale il Krahe ha creato la definizione di alteuropaisch, "europeo antico" - sarebbe quella dello indogermanisches Restvolk, ossia di quegli Indoeuropei rimasti più a lungo nelle antiche sedi.

    In genere, si deve pensare che mentre alcune stirpi indoeuropee, spintesi precocemente nell'area della civiltà egea e medio-orientale, già nel secondo millennio possedevano una lingua ben definita, le altre stirpi, rimaste nella patria originaria, parlavano dialetti appena differenziati l'uno dall'altro. Dai documenti di Pilo e di Hattusas noi sappiamo che intorno al 1400 a.C. nel Peloponneso si parlava già una lingua greca e che nell'alta Mesopotamia lo stato di Mitanni scriveva i suoi documenti in una specie di sanscrito. Ma è presumibile che nella stessa epoca gli antenati dei Latini e dei Germani storici parlassero dei dialetti allo stato fluido e, per così dire, sfumanti l'uno nell'altro.

    Il vocabolario settentrionale del latino

    Molte forme latine si lasciano agevolmente confrontare con forme celtiche, altre con forme celtiche e germaniche. Al latino piscis corrisponde il gotico fisks (tedesco moderno Fisch) e l'irlandese iask. Il latino salix trova riscontro nell'antico alto tedesco salaha e nell'antico irlandese sailech. Oltre alla parentela genealogica c'è un tipo di affinità linguistica che potremmo definire ambientale. Il latino, oltre ad essere stretto parente del germanico e del celtico ha tutto un vocabolario di termini che hanno riscontro non solo in queste lingue ma anche nel baltico e nello slavo. E' il nome del vento del Nord: in latino carus, in gotico skura, in lituano sziaurè, "Nord" e "vento del Nord", nell'antico slavo severu, "Nord". Ecco una serie di parole che designano il freddo: antico alto tedesco kalt e kuoli; lituano galmenis freddo intenso; antico slavo goloti, ghiaccio e zledica; latino gelu e glacies. Questo vocabolario ci parla di un'epoca in cui gli antenati dei Latini e dei Germani e degli Slavi vivevano in un ambiente gelido e settentrionale. Ancora più interessante è un altro termine geografico. Il gotico marei, il lituano mares, l'antico slavo morje, il gallico mori, il latino mare designano di volta in volta il mare, ma anche lagune e bacini chiusi e paludosi. Il tedesco moderno Moor, come il latino muria non indicano il mare, ma la palude. Anche qui si postula una condizione ambientale presente nell'Europa settentrionale preistorica: un paesaggio di acquitrini, di stagni e di lagune disteso intorno ad un mare semichiuso qual'è il Baltico.

    Se si vuol collocare nel tempo questa stretta comunità celtico-germanica-italica-illirica-baltica, bisogna risalire alla età del bronzo - ossia al secondo millennio a.C. - epoca nella quale i Celti non avevano ancora passato il Reno, né gli Italici le Alpi, né gli Illiro-Veneti il Danubio mentre i Germani vivevano nelle loro sedi scandinave e tedesco-settentrionali. In quanto ai popoli baltici, essi occupavano ancora la Prussia Orientale e confinavano coi Veneti alla foce della Vistola (sinus Veneticum). La partecipazione dello slavo a questa comunità linguistica è forse solo apparente, e sorge dal fatto che lo slavo dovette assimilare in Polonia gran parte del vocabolario venetico. E' solo all'alba dell'età del ferro che i Celti invadono la Gallia, gli Italici l'Italia, e gli Illiri la penisola balcanica. Ciò porterà ad una graduale espansione dei Germani in tutto il territorio tra il Reno e la Vistola.

    Latino e germanico

    In questa unità indoeuropea nord-occidentale, si lasciano isolare numerosi vocaboli comuni soltanto al latino e al germanico. Si pensi a termini designanti parti del corpo come collus (poi collum) e Hals; lingua (antico dingua) e inglese tongue, tedesco Zunge; caput e Haupt. Vi sono poi termini indicanti oggetti della natura come latino limus e tedesco Lehm; gramen (da grasmen) e Gras; acer e Ahorn; saxum e antico alto tedesco sahs "coltello"; far e antico nordico barr "grano".

    Ancora di più pesano particolarità grammaticali che solo latino e germanico hanno in comune. Entrambi creano avverbi numerali e distributivi con un suffisso no: latino bini (da *duisno) e nordico tvennr (germanico *twizna), "doppio". Entrambi rispondono alla domanda "dove"? con avverbi di luogo terminanti in ne: gotico utana ("da fuori", "von aussen") e latino superne, ("da sopra"). Entrambi formano sostantivi astratti con un suffisso tu: latino iuventus, "gioventù", e tedesco Altertum, "antichità". Queste particolarità, e altre che sarebbe lungo citare, han fatto affermare al Krahe che latino e germanico sono stati parlati un tempo da due popoli strettamente confinanti: "In quella fase arcaica che si rispecchia nelle affinità linguistiche qui elencate, gli antenati degli "Italici" han vissuto tra i Celti e i Germani in modo da tener separati questi due popoli. Perciò la comunità linguistica italogermanica è più antica di quella celtico-germanica. La prima risale all'età del bronzo, poiché la parola per bronzo (latino aes-aeris, gotico aiz, antico nordico eir, antico alto tedesco er, da cui il nostro ehern "bronzeo") è comune solo al germanico e all'italico. Solo dopo che gli "Italici" migrarono al Sud, i Celti giunsero a diretto contatto con i Germani e condividono appunto con loro la parola per "ferro": gallico isarno, irlandese iarnn e gotico eisarn" (Hans Krahe, Germanische Sprachwissenschaft, Berlin 1969). Ma, ancora più interessante, il latino presenta una serie di parole che han riscontro solo nello scandinavo, cioè nell'antico nordico. Al latino os corrisponde il nordico oss "bocca di fiume"; al latino sanctus il nordico sattr; al latino longaevus il nordico longaer; e altri esempi si potrebbero addurre. Rudolf Much, che ha sottolineato questo fatto, ha messo in rilievo come il latino auster e il norvegese austr indichino entrambi il Sud, e non l'Est, come nelle altre lingue indoeuropee, il che in Norvegia si spiega col particolare orientamento delle valli. Egli ha ricordato come tra gli Eruli di Odoacre fossero anche dei Rugii originari della Norvegia - e si è chiesto se nella preistoria non si sia verificato alcunché dì simile. D'altronde, gli stessi Goti erano originari della Svezia.

    La cultura dei campi d'urne e lo indogermanisches Restvolk

    Le affinità europee della lingua latina e il suo vocabolario settentrionale si lasciano spiegare col cosiddetto "indoeuropeo nord-occidentale" del Devoto, ossia con quella caratteristica affinità che si rinviene tra italico, celtico, germanico, illirico ma anche baltico e slavo. Questa affinità, secondo il Krahe è quella dell'indogermanisches Restvolk, ossia di quegli Indoeuropei rimasti nelle antiche sedi centro e nordeuropee. Non è qui il caso di ripercorrere tutte le complesse vicende della formazione dell'ethnos indoeuropeo e della sua progressiva dispersione. Mi limito a rimandare alla mia Introduzione a Religiosità indoeuropea di Hans F. K. Guenther, dove, chi lo volesse, potrà trovare un'ampia discussione del problema indoeuropeo.

    Basterà accennare che l'espansione indoeuropea è legata a due grandi movimenti migratorii. Il primo è quello della ceramica cordata e delle asce di combattimento strettamente intrecciato con quello delle anfore globulari che raggiunge sia la Grecia che l'Anatolia, sia il Volga che il Caucaso. A questo primo movimento, databile tra il 2300 e il 2000 a.C., si deve il distacco dal ceppo comune di Greci e Ittiti, Traci e Arii. Il secondo, più recente, si colloca intorno al 1250-850 a.C.. E' quello dei cosiddetti campi d'urne (Urnenfelder). Il focolare della Urnenfelderkultur è la Lusazia, e, in genere, il paese tra l'Elba e l'Oder. Verso il 1400 a.C. la cultura lusaziana si trasforma nella cultura dei campi d'urne, che prende il nome dai sepolcreti a fior di terra dove le urne si allineano le une accanto alle altre. L'usanza di bruciare i morti ha antiche radici nell'Europa centrale, ma solo ora assume un carattere organico e totalitario. E' una nuova espressione di quel culto del cielo e del fuoco che sta all'origine della religiosità indoeuropea.

    Il simbolismo della Urnenfelderkultur si tocca con quello delle incisioni rupestri scandinave. Verso il 1250 la cultura dei campi d'urne - estesa ormai a tutto il territorio tra Reno, Vistola e Alpi - esplode violentemente. Tutta una serie di armi di foggia centroeuropea, i sepolcreti d'urne, monili, fogge, utensili di fabbricazione austriaca, tedesca, boema, ungherese, si diffondono rapidamente verso il Sud. Ma anche all'Ovest è lo stesso. I campi d'urne dilagano nella regione francese, nelle isole britanniche, fino in Catalogna. La migrazione dei campi d'urne porta alla dispersione dell'indogermanisches Restvolk: Celti ad Ovest, Italici verso Sud, Illiri verso Sud-Est. In Grecia, le città micenee crollano sotto l'urto della Emigrazione dorica".

    I campi d'urne in Italia

    In Italia, l'incinerazione fa la sua comparsa poco prima del 1300 a.C. nel comasco, nel milanese e sul Garda. I bronzi connessi con queste tombe sono spiccatamente mitteleuropei. Che l'incinerazione fosse presente già in questa epoca nelle terramare - le stazioni su pali dell'Emilia - è probabile. Certo, i modelli ceramici richiamano da vicino esemplari lusaziani. Ma è dopo il 1250 che il fiotto dei campi d'urne trabocca nella penisola appenninica. Dapprima, abbiamo caratteristiche manifestazioni nella pianura Padana e solo avanguardie nell'Italia Centrale (Forlì-Poggio Berni, Lamoncello in val di Fiora). Poi i sepolcreti di Pianello del Genga (Fabriano), delle acciaierie di Terni, di Palombara Sabina, Tolfa e Allumiere forniscono l'evidenza d'una penetrazione delle genti incineratrici lungo la valle del Tevere. Queste manifestazioni vengono comunemente attribuite ad un'epoca intorno al 1050-1000 a.C.. Di poco posteriori sono i sepolcreti ad incinerazione che popolano fittamente i Colli Albani. Nel Veneto, sui Colli Berici, compare la cultura atestina. Tra il Veneto e il Lazio, nel bolognese, a Tarquinia, Vetulonia, e in tutta l'Etruria, fiorisce la cultura detta - dal nome d'una località presso Bologna - "villanoviana".

    Ma gli incineratori non si sono fermati nel Lazio. Noto da quasi un secolo è il sepolcreto di Timmari, presso Matera. E tuttavia solo dopo l'ultima guerra si son messi in luce nuovi sepolcreti a incinerazione a Torre Castelluccia (Taranto), a Pontecagnano (Salerno), a Torre dei Galli (Pizzo Calabro), a Milazzo. Essi sono destinati a mutare molte delle idee correnti sulle origini dei popoli italici.

    Gli incineratori trovano l'Italia Centrale occupata dalla cosiddetta "cultura appenninica", le cui origini si lasciano ricercare fin verso il 1800 a.C. Substrato mediterraneo e superstrato mitteleuropeo si mescolano e si condizionano l'un l'altro. Sui Colli Albani, dove l'appenninico non esiste, possiamo attenderci di cogliere con maggiore purezza il superstrato nordico. Altrove, dove il substrato è ricco e tenace, l'elemento protoitalico è assorbito. Questo è appunto il caso dell'Etruria. La moderna archeologia ha fatto giustizia della favola erodotèa d'una provenienza del popolo etrusco dalla Lidia. V'è, sì, in epoca già tarda, una "moda orientalizzante", ma non dei precisi ritrovamenti che possano provare un'origine dall'Asia Minore. Il popolo etrusco, e la lingua etrusca, sono indigeni. Ciò significa però che la cultura appenninica dell'età del bronzo non può essere indoeuropea. Quegli elementi della cultura delle asce di combattimento penetrati fino in Toscana (Rinaldone), fino in Campania (Gaudo), non possono essere stati niente dì più che avvisaglie d'indoeuropeismo. Poiché - se la cultura appenninica fosse già italica – donde sortirebbero l'etrusco, il piceno di Novillara, e tutti gli altri tenaci residui mediterranei testimoniati fin in epoca recente? L'origine dell'"italico", o almeno del latino, non può non essere ricollegata ai campi d'urne. La nascita dell'ethnos latino dalla cultura incineratrice dei Colli Albani è lì a dimostrarcelo.

    I Colli Albani e Roma

    Quattro sono le principalì culture incineratrici nella prima età del ferro (1000-650 a.C.). La prima è quella atestina, sui Colli Euganei, matrice della nazionalità veneta. La seconda è quella di Golasecca, nella Lombardia Occidentale e nel Canton Ticino. La sua identificazione etnica è incerta. Sulla base di alcune iscrizioni, si può parlare d'una parziale indoeuropeizzazione dei Liguri. Ancora più complesso è il caso della cultura villanoviana, estesa dal bolognese alla Maremma attraverso l'Umbria, e sul cui impianto si sviluppa la fiorente civiltà etrusca. Per la zona toscana si può pensare ad un assorbimento delle correnti italiche da parte del ricco substrato appenninico. L'etrusco ne conserva tracce nel vocabolario: etrusco usil, "sole", si riconnette ad un indoeuropeo *sauwel, italico auselo, (nel nome della gens Aurelia "a sole dicta"). Etrusco aisar si riconnette al veneto aisus e ai germanici Asen. Per la zona umbra bisognerà credere che correnti transadriatiche - attraverso le Marche meridionali - abbiano sommerso un'area protovillanoviana affine a quella veneta e a quella latina. Le differenze e le affinità tra umbro e latino verrebbero spiegate da questa ipotesi.

    Nel Lazio a Sud del Tevere, gli incineratori trovano un paese pressoché deserto. I Colli Albani - coperti di foreste -, le bassure del Tevere, le paludi Pontine non sembrano avere attratto coloni dell'età del bronzo. Gli insediamenti degli incineratori si depositano particolarmente fitti sui Monti Albani: intorno, è la bassura paludosa. I sepolcreti di Marino, Albano, Grottaferrata, Frascati, Rocca di Papa, Castel Gandolfo, Lanuvio, Velletri, Ardea, Anzio ci forniscono un quadro esauriente della più antica cultura latina. Il rito è quello mitteleuropeo dell'incinerazione. Fibule, rasoi, armi, rimandano agli esemplari austriaci e tedeschi. L'urna a capanna è stata spesso spiegata con influenze indigene. Ma le urne a capanna dello Harz e della bassa Vìstola, il nome stesso del Lat-ium, identico a quello della Lettonia (Lat-via), e lo stesso nome Roma, così frequente nella Prussia Orientale per designare un "luogo sacro" (Rom-uva, Rom-inten), ci rimandano ad un area "venetica" non troppo lontana dal golfo di Danzica ("sinus Veneticum"). Niente meno che Giacomo Devoto ha calcato l'accento sulla menzione di Venetulani nell'elenco pliniano degli antichi popoli del Lazio, e ha spiegato il nome Rutuli come "i biondi".


    Adriano Romualdi


    Passi tratti dal libro Gli Indoeuropei.


    fonte: http://www.centrostudilaruna.it/leoriginideilatini.html

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    Italia arcaica: le origini



    Quando la Grecia si avviava ormai alla denordizzazione, l'altro serbatoio accumulato dall'ondata indoeuropea del 1200 era appena intaccato, e l'Italia successe alla Grecia nella leadership della civiltà classica.

    Che le lingue italiche - e tra esse il latino - siano state diffuse da un tipo razziale relativamente «chiaro», appare verosimile, data la loro provenienza dall'area centroeuropea. Nonostante le proteste del buon Sergi alla fine del secolo («i veri Italici sono gli indigeni neolitici mediterranei»), la più recente antropologia ha riconosciuto la connessione tra i linguaggi italici e il tipo xantocroico (dal greco xanthòs = biondo e chròes = colorazione). Già il Livi, il medico militare che eseguì i primi rilievi antropologici in Italia sulle classi 1867-70, aveva notato due zone di biondismo, una nell'Italia settentrionale (in particolare nella Lombardia occidentale), che egli metteva in relazione con la migrazione longobarda, l'altra più tenue, lungo l'arco dell'Appennino, riconducibile alle più antiche migrazioni italiche.

    Scrive il Sera, nell'Enciclopedia Italiana: «Ma il fatto più singolare che le due grandi carte del Livi pongono in luce, ... è la presenza di una forte componente xantocroica in tutta l'Italia centrale e soprattutto orientale: Umbria, Toscana, Abruzzo e parte settentrionale e orientale dell'Italia meridionale, Molise, Beneventano, Puglia settentrionale, parte settentrionale e orientale della Lucania. Da questa zona si irradierebbero le propaggini disperse del tipo che si riscontrano nelle altre parti della penisola e nella Sicilia... La localizzazione della maggiore massa di questo tipo fa pensare a una provenienza dal Nord e dall'Oriente, cioè che esso sia disceso in Italia seguendo la costa adriatica, senza penetrare addentro nella pianura padana, ma - deduzione assai più importante - sembra che a mano a mano che si discende verso il Sud, esso abbia sede tra i monti. Si può pensare a una preferenza originalmente data a questo ambiente per una minore resistenza del tipo stesso al clima caldo del mezzogiorno italiano, o anche perché il tipo, un tempo esteso alla costa, sia ivi scomparso per fatti di selezione eliminativa. A ogni modo... è chiaro che detto tipo dovette respingere perifericamente una popolazione bruna e branchíoide, che si ha ragione credere fosse autoctona nella regione... E' probabile che questo tipo xantocroico sia disceso in Italia all'epoca del ferro, se non prima, e che sia stato il portatore del linguaggio ariano. La serie preistorica di Alfedena dovrebbe contenere abbondantemente tale tipo».

    Che i popoli italici - e tra essi i Romani - si distinguessero per una maggiore impronta nordica da quelle genti che affondavano le loro radici nella preistoria mediterranea, potrebbe mostrarlo lo stacco esistente tra il carattere nazionale latino-italico da una parte, e quello etrusco dall'altra, stacco tanto più considerevole se si tien conto della vicinanza reciproca e della comunanza di civiltà. Agli Etruschi, con la loro cultura piena di vivacità e di colore, con la loro intuizione sensuale del mondo, ora cupa ora gioiosa, si contrappone la severità rigida, scabra, quiritaria delle genti latine e sabelliche, prolificazioni di un ethnos differente.

    Così un grande interprete dell'antichità ha sintetizzato il carattere nazionale etrusco: «Etrusca era la gioia ai piaceri dell'esistenza, ai conviti, alle donne e ai begli adolescenti, ai giochi scenici, crudeli o comici, alla lotta dei gladiatori, al circo e alla farsa, all'indolenza, amabile e contemplativa... Ma etruschi erano anche l'eroe cavalleresco e il combattente individuale, che agognavano all'avventura e alla fama, profondamente diversi dagli ubbidienti e disciplinati soldati di formazione romana. E come la vita etrusca si svolgeva nell'opposta tensione di riso e crudeltà, di piacere sensuale ed avventura, di indolenza svagata ed affermazione eroica, non diversamente nell'opposizione di cavaliere e dama: la donna dominava sull'uomo e nella casa e prendeva parte anche alla vita pubblica. Una visione femminile del mondo s'esprime in Etruria dovunque...».

    E' l'elemento «dionisiaco», lo «schiumante entusiasmo, il piacere e la sfrenata crudeltà dell'antico Mediterraneo», da Schuchhardt contrapposti all'apollineo «alto sentire, accorto agire e misurato decidere del Nord»: come in Grecia l'orfismo, così in Italia gli Etruschi rappresentano il polo «anticlassico».

    Di fronte alla sensuale vivacità delle genti indigene, sta l'ethos dei popoli discesi dal Nord. Sono i duri Sabini (Properzio, 1, 1, 32, 47) con le rigidae Sabinae (Ovidio, Amores, 11, 4, 15), fortissimi viri, severissimi homines (Cicerone, pro Ligario 32; in P. Vattinium 15, 36), avi di forti generazioni di soldati e contadini (rusticorum militum). Sono i Romani con la loro tenuta asciutta, severa, impersonale, le generazioni latine d'età repubblicana che presero le armi contro Annibale prima ancora che la «bionda peluria - flava lanugo - imbiondisse loro le gote» (Silio Italico, Punica, 11, 319), i militi romani dalle «teste bionde» (xanthà kàrena), di cui l'eco è negli "Oracoli Sibillini" (XIV, 346): «Nel senato dell'epoca repubblicana e del quinto fino al primo secolo l'essenza nordica ha sempre dimostrato di essere la forza preponderante e deterrninante: audacia illuminata, attitudine dominata, parola concisa e composta, risoluzione ben meditata, audace senso di dominio. Nelle famiglie senatoriali, anzitutto nel patriziato, e poi nella nobilitas, sorse e cercò di realizzarsi l'idea del vero romano, come una particolare incarnazione romana della natura nordica. In tale modello umano valsero le virtù etiche di impronta nordica: la virilità, virtus, il coraggio, fortitudo, la saggia riflessione, sapientia, la formazione di sé, disciplina, la dignità, gravitas, e il rispetto, pietas... in più quella misurata solennità, solemnitas, che le famiglie senatoriali consideravano come qualcosa di specificamente romano».

    Che questi caratteri spirituali fossero sostenuti da una ben precisa sostanza razziale, è stato affermato dal Sieglin e dal Günther. L'onomastica latina attesta una certa frequenza di caratteri nordici. «Ex habitu corporis Rufos Longosque fecerunt», «dal fisico chiamavano Rufo uno coi capelli rossi, e Longo uno di alta statura»: così Quintiliano ricorda della origine dei nomi propri.

    Il Sieglin dà una lunga serie di Flavii, Flaviani, Rubii, Rufi, Rufini e Rutilii. Questi nomi sembrano esser stati tradizionali nelle genti Giulia, Licinia, Lucrezia, Sergia, Virginia, Cornelia, Junia, Pompeia, Sempronia: ossia nella più gran parte della classe dirigente romana. La famiglia degli Ahenobarbi (barba di rame) faceva risalire la sua denominazione a una leggenda secondo la quale due giovinetti, messaggeri d'una divinità, avevano toccato la barba d'un guerriero romano che era diventata rossa. L. Gabriel de Mortillet suppone che rutilus, col significato d'un biondo infuocato, sia stato usato soprattutto pel sesso maschile, flavus, un biondo più mite, per le donne. Per l'azzurro degli occhi l'aggettivo comune è caesius donde nomi come Caeso, Caesar, Caesulla, Caesilla, Caesennius e Caesonius.

    Ancora la Historia Augusta (Aelius Verus, 2, 4) spiega Cesare con caesius. Per gli occhi grigi l'aggettivo era ravus o ravidus, donde nomi come Ravilia o Ravilla:

    Raviliae a ravis oculis, quemadmodum a caesiis Caesullae.

    Ad alte stature si riferiscono ì nomi Longus, Longinus, Magnus, Maximus, e anche Macer, Scipio (bastone). Albus, Albinus, Albius indicano colorito chiaro. In appendice all'Incerti auctoris liber de praenominibus, d'epoca tiberiana, si legge che nomi di fanciulla come Rutilia, Caesella, Rodocilia, Murcula e Burra designano capelli e compressioni chiare. Murcula viene da murex, porpora, Rodacilla dal greco rhodax, rosellina, Burra - come anche Burrus - dal greco pyrròs: tutte a colore ductae.

    Che il tipo fisico dei Romani, almeno in epoca repubblicana, dovesse essere abbastanza settentrionale, può mostrarlo anche quel detto tramandato da Orazio:

    hic niger est, hunc tu, Romane, caveto!

    «quello è nero, guardati da lui, Romano!», che esprime una diffidenza spontanea verso l'individuo troppo scuro di pelle che non ha perduto neppure oggi la sua attualità. D'altra parte, la credenza che al momento della morte Proserpina staccasse al moribondo il capello biondo che ognuno doveva portare sul capo (Eneide, IV, 698: nondum illi Ilavom Proserpina vertíce crinem abstulerat), non può che esser sorta in un'epoca in cui i capelli biondi erano comuni tra i Romani.

    Il Sieglin, che ha passato in rassegna le fonti sui caratteri fisici degli antichi Italici, scrive che accanto a 63 biondi sono menzionati solo 17 bruni. Ancora nelle pitture dì Pompei il 75% delle immagini ritrae individui chiari. Sempre secondo il Sieglin, 27 divinità romane sono descritte come bionde, e solo 9 come scure. In particolare, Giove, Marte, Mercurio, Minerva, Proserpina, Cerere, Venere, e anche divinità allegoriche come Pietas, Victoria, Bellona, vengono spesso ritratte come bionde. 10 personaggi delle antiche leggende sono biondi, nessuno bruno. Così delle personalità poetiche: 17 bionde e due brune.

    Caratteri nordici ci sono tramandati di diversi personaggi della storia romana. Rosso di capelli e con gli occhi azzurri era Catone il Censore, questa personalità in cui parvero incarnarsi tutte le più antiche virtù del romano. Biondo e occhiceruleo era Silla, il restauratore. Coi capelli biondi e lisci, occhi chiari, flemmatico e composto nella persona, ci appare Augusto, il fondatore dell'Impero. Cesare aveva occhi e capelli neri, ma complessione bianchissima e alta statura.

    L'ideale fisico d'un popolo s'esprime nell'ideale dei suoi poeti. Tibullo canta una Delia bionda, Ovidio una bionda Corinna e Properzio una bionda Cinzia. Una fanciulla troppo nera non doveva essere molto pregiata se Ovidio (Ars Amandi, 11, 657) suggeriva si nigra est, fusca vocetur. Le lodi maggiori van sempre alla candida puella. Giovenale ci parla della flava puella Ogulnia di nobile stirpe.

    Importante è l'Eneide, per quel suo carattere celebrativo delle origini che fa di Virgilio un poeta «archeologo»,in una specie di passione per lo stile degli antichi Romani, in una esaltazione della latinità. Nell'Eneide tutti i personaggi sono biondi. Così Lavinia (Eneide, XII, 605: filia prima manu flavos Lavinia crinis et roseas laniata genas: flavos è preferibile a floros); Enea, spirante nobiltà nel volto e nelle chiome come avorio cinto d'oro (En. I, 592: quale manus addunt ebori decus, aut ubi flavo - argentum Pariusque lapis circundatur auro); il giovinetto Iulo; Mercurio nella sua apparizione (Eri. IV, 559: et crinis Ilavos et membra decora iuventa), mentre tra i guerrieri è un fulvus Camers di nazione ausonia (X, 562), tanto più notevole in quanto di nessuno dei guerrieri o degli altri personaggi dell'Eneide si dice che abbiano capelli neri. Persino la cartaginese Didone è bionda (IV, 590: flaventisque abscissa comas), così forte è l'inclinazione a vedere antichi eroi ed eroine circonfusi in una nube di biondezza originaria. Anche nei Fasti d'Ovidio, composti con uno stesso intento archeologico e celebrativo, eroi ed eroine dell'antichità romana ci appaiono biondi. Bionda è Lucrezia quando piacque a Tarquinio (forma placet, niveusque color flavique capilli, 11, 763), biondi Romolo e Remo, marzia prole:

    Martia ter senos proles adoleverat annos et suberat flavae iam nova barba comae
    (III, 60).

    Ha scritto il Sieglin: «Gli invasori elleni e italici erano, secondo le non poche testimonianze che possediamo, biondi. Bionda è la maggioranza delle persone di cui ci viene descritto l'aspetto fisico; in particolare erano gli appartenenti alle famiglie nobili che si distinguevano per il colore chiaro della loro pelle e dei loro capelli. In tutte le epoche dell'antichità classica, biondo ebbe il significato di distinto».

    L'epoca aurea della romanità «nordica» va dalle origini alla fine delle guerre puniche. E' l'epoca della repubblica aristocratica, sorta dal patriziato e dai migliori elementi della plebe. E' l'epoca in cui Ennio poté scrivere moribus antiquis res stat romana virisque, in cui i valori romani poggiavano ancora su di un'adeguata base razziale. L'ideale della probitas, dell'integritas, quello del vir frugi, del vir ingenuus, in cui simplex suonava ancora come una lode, è difficilmente riducibile a uno standard meridionale: «L'essenza del "vero romano", del vir ingenuus non si spiega alla luce dell'anima "meridionale", delle popolazioni preitaliche di razza mediterranea, che dovettero invece formare la maggioranza dell'antica plebe, o almeno la plebe della capitale (plebs urbana)» .

    Questo prisco ideale repubblicano d'una severità di contegno derivante non da astratti precetti, ma da una nobile natura di sangue nordico, l'ha espresso Properzio nella figura di Cornelia figlia dell'Africano:

    Mihi natura dedit leges a sanguina ductas
    (IV, 11)

    Già nel Il secolo a.C. son visibili tracce di decadenza. E' lo spopolamento delle campagne, in seguito alla speculazione e al tasso di sangue troppo alto estorto dalle continue guerre. Di qui, le lotte per la riforma agraria, i Gracchi, e le difficoltà sempre crescenti in spedizioni militari di second'ordine, come a Numanzia, o in Numidia. All'epoca di Pirro, e anche a quella d'Annibale, i Romani avevano potuto mettere in campo quante truppe avevano voluto: «I Romani, scrive Plutarco, colmavano senza fatica e senza indugio i vuoti nelle loro truppe come attingendo da una fonte inesauribile». Nel II secolo già il contadinato italico dava segni d'esaurimento. Ma con la scomparsa del contadinato italico, delle forti generazioni contadine che avevano fatto argine contro Annibale «prima ancora che la bionda peluria vestisse le loro guance», incominciava la denordizzazione della romanità.

    Contemporaneamente, i contatti con la grecità decaduta, con l'Oriente levantino, portavano i primi germi di disfacimento in Roma. Syria prima nos victa corrupit, rìconosceva Floro (Epitome, 1, 47). Già alla metà del II secolo il numero degli schiavi eguagliava quello degli Italici, con conseguenze incalcolabili pel tralignamento del carattere nazionale romano. Il tipo del levantino portato schiavo e emancipato, del liberto di razza ignobile ma ricco e potente, diventa sempre più frequente sulla scena romana per dominarvi incontrastato nei secoli dell'Impero. Siri, greculi, ebrei - nationes natae servituti - secondo il severo giudizio romano, diventavano sempre più numerosi, con l'influsso dissolvente della brillante civilizzazione ellenistica. «I nostri cittadini sembrano schiavi della Siria - diceva il nonno di Cicerone - tanto meglio parlano il greco, e tanto più sono corrotti». «Tacciano codesti, cui l'Italia non fu madre, ma matrigna», aveva detto Scipione Nasica di fronte alla turba tumultuante nel foro, una turba d'importazione.

    Al tipo del romano di ceppo italico succedeva una massa anonima sempre più mediterranea e levantina. Anche la ritrattistica permette di osservare l'avvento di tipi sempre più nettamente levantini - specialmente banchieri e uomini d'affari - che si contrappongono al romano nobile d'impronta nordica o nordico-dinarica. Il tipo fortemente scuro e così scarsamente europeo che caratterizza ancora oggi tanta parte della popolazione dell'Italia - color iste servilis, diceva Cicerone - si può far risalire all'invasione di schiavi orientali, Asiatici Graeci, dell'ultima età repubblicana e di quella imperiale. Che questa massa non potesse offrire sostegno alle vecchie istituzioni aristocratiche repubblicane, e avesse bisogno d'un padrone, spiega il trapasso dalla repubblica all'Impero.

    L'ordine imperiale romano era destinato a reggere ancora alcuni secoli - anche perché la Roma repubblicana aveva già sgombrato il campo da tutti i possibili competitori - in un quadro di splendore ma anche nella coscienza d'una crescente putrefazione della società. I confini di Augusto non dovevano più essere ampliati o quasi in quattro secoli d'Impero. Una fioritura culturale non si ebbe più dopo la fine del I secolo d.C. e si perpetuò un accademismo alessandrino. La filosofia dell'epoca è lo stoicismo, l'individualismo orgoglioso e disperato d'un'anima nordica che si chiude in sé stessa di fronte a una società orinai snordizzata che non le può offrire sostegno.

    Malos homines nunc terra educat atque pusillos, lamentava Giovenale (XV, 70). In effetti, la statura minima dell'esercito imperiale era scesa fino a 1,48 e sempre più la Romanorum brevitas contrastava con la Germanorum proceritas (Vigezio, 1, 1). Nonostante che le ultime genti che potevano far risalire le loro origini ai Latini dei Colli Albani, tra cui i Giulii, si fossero estinte agli albori del principato una certa impronta nordica doveva continuare a tralucere tra i membri della classe dirigente dell'Impero. Si potrebbe fare una lunga lista di Cesari biondi: da Augusto a Tiberio, da Caligola a Nerone, da Tito a Traiano, da Claudio a Probo, da Costantino a Valentiniano. I capelli biondi erano sempre pregiati nella bellezza femminile - Poppea era bionda - e le donne romane se li tingevano (summa cum diligente capillos cinere rutilarunt, Valerio Massimo, 11, 1, 5) o mettevano parrucche di capelli tagliati alle prigioniere germaniche. Ma la sostanza era che l'Impero Romano andava lentamente soggiacendo a una totale orientalizzazione.

    La capacità dell'impero di reggersi nei secoli si dovette alla forza della forma politico-spirituale creata da Roma. Una forma spirituale è creata da un certo tipo razziale, ma almeno in parte gli sopravvive, almeno finché trova una materia umana segnata anche da una minima parte di quel sangue. Ma una volta che anche l'ultima parte del sangue originario è perduta, non resta che una forma vuota, incapace di influenzare una materia umana totalmente recidiva. L'arco della romanità è compreso tra le due affermazioni - moribus antiquis res stat romana virisque - in cui l'età repubblicana aveva orgogliosamente affermato la disponibilìtà d'un'adeguata sostanza razziale, e quell'altra - mores enim ipsi interierunt virorum penuria - con cui la romanità ammetteva l'incapacità di perpetuarsi in un ambiente umano ormai levantino.

    Al vecchio contadinato italico d'impronta nordica, quasi estinto (la desolazione e lo spopolarnento dell'Italia, la vastatio Italiae, è un tema comune della pubblicistica d'età imperiale) poté surrogare, fino al II secolo d.C., la romanità dei coloni delle provincie, delle guarnigioni periferiche. Poi, estinto anche questo flusso d'italicità provinciale da cui erano usciti Traiano, Adriano, Marc'Aurelio, l'orientalizzazione procedette inarrestabile con una rapidità di cui testimoniano il diffondersi dei nomi greci e i successi del cristianesimo. Il cristianesimo, uscito dalle viscere della nazione ebraica - multitudo iudaeorum flagrans nonnunquam in contionibus, civitas tam suspiciosa et malefica - viene dall'Oriente, si afferma nelle province orientali, e incontra resistenza nella parte europea dell'Impero, tranne nelle regioni marittime conquistate dal cosmopolitismo orientalizzante. Col cristianesimo si diffonde anche un nuovo ideale fisico orientale, presto visibile nei mosaici e negli ipogei. Il cristianesimo nell'Impero Romano, una fede di individui politicamente, economicamente e spiritualmente poveri, era la religione dello strato più basso della popolazione, di immigrati d'origine orientale e africana, i quali non erano sensibili né allo spirito ellenico né all'arte politica di Roma.

    L'ultima resistenza nordica ed europea contro l'orientalizzazione del mondo classico - la penetrazione eccessiva di elementi estranei nell'impero Romano mediante la diffusione della concezione della vita e della religiosità dell'Oriente - viene da parte degli Illirici, questa gente di soldati bionda e grande, che darà a Roma Aureliano, Decio, Diocleziano. E', sotto il segno del Sole Invitto, la reazione dei provinciali, degli europei, dei legionari, contro la levantinizzazione dell'Impero e la civiltà cristiano-cosmopolitica. E' l'estremo baluardo del paganesimo contro i demagoghi dell'Oriente e, insieme, la difesa del danarium romano e della piccola borghesia italica contro l'oro dell'Oriente. La svalutazione, e il trasferimento della capitale a Costantinopoli, nel cuore dell'Oriente cristiano e antiromano, segnano la fine della romanità europea di ceppo nordico. Invano il poeta Prudenzio doveva mettere in versi la speranza che l'Impero si rinnovasse e che i capelli della Dea Roma «divenissero di nuovo biondi» (rursus flavescere): la Roma indoeuropea non era più.

    Paradossalmente, l'Impero dovette ancora un secolo di vita ai suoi più acerrimi avversari, i Germani. Come alla romanità italica d'epoca repubblicana era succeduta la romanità italico-provinciale del principato, come a essa era succeduta, alla metà del II secolo, la romanità illirica dei legionari e delle guarnigioni, così nell'ultimo secolo di Roma prese forma una romanità-germanica la cui eco giunge fino a Teodorico.

    L'esercito romano del IV secolo è già completamente germanizzato, germanici i suoi generali, da Stilicone a Ezio, mentre sui vessilli delle legioni conservatici dalla Notitia Dignitatum stanno le rune del sole, del cervo: i primordiali simboli della Valcamonica ritornano, per un attimo ancora, nella luce morente dello splendore romano. E' significativo come per questi Germani la parola «romano» abbia acquistato il significato di «imbelle», «malfido». Il «romano» è ormai, nell'accezione corrente, un tipo umano piccolo, nero, gesticolante, accorto e abile, ma anche vile e falso, esattamente come era apparso il graeculus ai Romani d'età repubblicana, e come Platone, a sua volta in una Grecia non ancora snordizzata - aveva descritto Siri ed Egiziani. Questo trapasso di significati può illustrare meglio di ogni altro esempio la parabola discendente della civiltà classica. I popoli parlanti greco e latino nel secolo V d.C., serbavano l'eredità linguistica (Sprachenerbe) degli Elleni e degli Italici indoeuropei, non quella del sangue (Blutserbe).

    I Germani si stanziarono dapprima entro la cinta dell'Impero come coloni e federati. Presero possesso delle campagne ormai spopolate e schiave dei pochi centri urbani e marittimi dipendenti dall'Oriente (Roma, Ravenna). Si fecero accogliere come soldati, coloni, contadini, poi quando l'esaurimento biologico e spirituale della romanità fu troppo grande per restar loro velato dal residuo mito di Roma - si imposero come condottieri, difensori, padroni. Ma con i Germani tornava a penetrare nel bacino mediterraneo quello stesso elemento nordico che già nella preistoria aveva indirizzato in senso «europeo» l'Europa del Sud. La Scandinavia è di nuovo madre di popoli - Scandia insula quasi vagina populorum velut officina gentium: Goti del Vástergótland, Burgundi di Bornholm (Burgundholmr), Vandali del Vendsyssel. Di nuovo la Germania è madre di bionde nazioni: ai biondi Indiani, Persiani, Elleni, Italici, succedono i biondi Franchi, Lombardi, Goti, che vanno a rinsanguare l'esausta Romània.

    Nasce un nuovo cielo di civiltà, la civiltà romanica-germanica dell'Occidente: romanica, non più romana, perché anche i popoli latini sono trasformati nella loro sostanza dall'apporto germanico. Una nuova élite nordica rinsangua l'Europa col suo «sangue azzurro» - sangre azul, come apparve alle popolazioni scure della Spagna la pelle rosea e mostrante le vene dei loro signori visigoti. Sono i «figli dei biondi» - i beni asfar, come apparvero agli Arabi quei crociati che, paradossalmente, rovesciavano il movimento Oriente-Occidente invertito da Costantino ottocento anni prima, e colpivano nell'Islam quella cultura arabomagica che proprio col cristianesimo era mossa alla conquista dell'Europa. Sono i cavalieri tedeschi - decor flavae Germaniae - che col Sacro Romano Impero di nazione germanica rialzano il simbolo imperiale dell'Occidente.



    Adriano Romualdi

    fonte: http://www.centrostudilaruna.it/romu...doeuropei.html

  10. #10
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    Cammino verso l'origine



    Le librerie antiquarie conservano ancora le copie della prima edizione, eleganti ed essenziali, in carta nobile, ma le Edizioni di Ar, rinnovando la grafica, nella collana 'gli Inattuali', hanno riproposto in catalogo questo volume di Adriano Romualdi del 1978, che per sostanza di argomentazioni culturali e per sue peculiarità, proprie di una ricerca spirituale più che archeologica, non ha mai smesso di essere individuato tra i libri di una biblioteca 'eccellente'.

    E' una raccolta di saggi che l'Autore - tra i massimi protagonisti della destra culturale, prematuramente scomparso, un vero e proprio sciamano della profondità arcaica - compose mantenedovi un carattere divulgativo affinché la questione di un popolo, il suo destino, avesse un riconoscimento fattuale, politico, e non dunque meramente erudito. Il riferimento più esplicito è quello alla categoria di "Europa Nazione" e, vista l'attualità, con il dibattito sulle radici culturali europee in tema di Costituzione, questo volume risulta ancora una volta stuzzicante perché propone una controversia difficilmente digeribile per l'opinione cosiddetta pubblica: c'è appunto il destino di un popolo le cui origini coincidono con il sorgere del "pensiero dell'Origine" (quel luogo del percorso filosofico su cui ha lavorato Martin Heidegger), le cui tracce, le vestigia della "razza dei signori" (l'areté ellenica), si fondono con la più remota consapevolezza della grandezza europea, ben più potente dunque di una vanificata identità qual'è quella dell'attuale Unione Europea.

    Romualdi riprende un concetto di Oswald Spengler quando spiega che gli indoeuropei ebbero ragione sulla terra, più che per la tecnologia che per la "superiorità culturale", in virtù della loro tecnica militare. Molto interessante, tra i capitoli, quello su Giacomo Devoto, suggestivo, infine, quello di analisi comparativa tra il "latino" e il "germanico" e quello sulle incisioni scandinave e il geometrico greco. E' un un libro senza dubbio efficace questo vecchio titolo di Ar, un libro dove al lettore viene offerto il repertorio completo dei "materiali spirituali" che dal Nord, all'Oriente, fino alla tradizione di Roma, hanno poi costituito quella che con efficacia Fabrizio Sandrelli, firmando l'introduzione, definisce come “utopia dell'eterno”.


    Pietrangelo Buttafuoco


    Tratto da "Il Foglio" del 24 luglio 2004.

    Adriano Romualdi, Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni, Edizioni di Ar, Padova 2004

    fonte: http://www.centrostudilaruna.it/butt...doeuropei.html

 

 
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