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Le radici ideologiche dell'invasione
Di Gianantonio Valli - Numero 52 del 01/11/2001
Complici di Dio - Le basi psico-ideazionali - I pretesti per l'invasione - La distruzione del Terzomondo - L'unica possibilità di riscatto - Le premesse politiche - Il federalismo, faccia nascosta del mondialismo - Strategia di morte [Versione ampliata]
Ciò che chiamiamo «la nostra moderna civiltà» è poco meno di un gigantesco meccanismo planetario di produzione e marketing, con l'Alta Finanza come centro di controllo, dapprima solo per le transazioni commerciali e poi per tutto, anche per la politica. La massima parte dei cittadini dell'Occidente è talmente presa a rendere efficiente il Sistema e ad occuparsi, in tale competizione, dei propri affari personali, che non è in grado di riflettere sui fatti della politica né di sentirli nell'intimo. È questo, inoltre, un Sistema nel quale le opinioni difformi e il dissenso possono venire puniti nei modi più diversi.
Peter Blackwood, Das ABC der Insider, 1992
Questa aberrante ed inquinante ideologia, che sogna di sostituire ovunque alle realtà naturali dei popoli altrettante società sempre più multirazziali, è solo l'espressione di un'esigenza pratica della Grande Finanza mondialista che ha bisogno – nelle aree più industrializzate – della immigrazione di mano d'opera a basso costo, e che è fortemente disturbata e infastidita – nel progressivo espandersi del proprio impero – dalla ingombrante presenza delle differenze nazionali, razziali e religiose offerte dai popoli che intendono mantenere la propria identità nell'indipendenza politica.
Sergio Gozzoli, La perestrojka di Gorbaciov, 1989
Nell'ultimo conflitto mondiale era in gioco molto più di quanto gli storici del Sistema oggi non lascino supporre, e forse anche più di quanto non apparisse allora ai primattori stessi della storia. Due antitetiche concezioni del mondo si scontravano: l'una fondata sulla stirpe e sul possesso territoriale, l'altra fondata sul libero scambio internazionale come strumento di dominio economico/politico. È assolutamente logico che il mercante internazionalista sia anche fautore dell'«eguaglianza tra gli individui» (salvo ignorarla poi nei fatti) e del principio di «libera autodeterminazione» del popolo (salvo imporre di fatto una patteggiata spartizione del mondo). Il primo principio serve a poter commerciare con chiunque, il secondo ad attaccare qualunque regime estraneo in crisi, giustificando agli occhi del mondo interventi miranti ad instaurare regimi sostitutivi (democratici) atti a favorire la penetrazione economica sullo specifico mercato.
Enzo Caprioli, L'ideologia inquinante, 1989
Il mondialismo è l'utopia che vede la felicità dell'uomo nell'abolizione di tutte le differenze e di tutte le identità. Esso cerca di creare il governo mondiale attraverso la distruzione delle nazioni, il meticciato delle razze, l'abolizione delle frontiere e il rimescolamento delle culture. Dall'utopia marxista che voleva abolire le classi, ridurre le ineguaglianze e costruire il paradiso rosso si è passati all'utopia mondialista che vuole abolire le differenze e creare il paradiso multicolore.
Bruno Mégret, dirigente e poi segretario del Front National, 1992
Mi chiedo come facciano taluni uomini politici a mettere in pericolo di morte, attraverso la droga e l'immigrazione, le collettività di cui sono i rappresentanti. C'è una ideologia che li rende folli. Un'ideologia internazionalista e mondialista che rimpiazza il grande sogno criminale dell'internazionalismo comunista. Siamo passati dall'internazionalismo comunista all'internazionalismo capitalista.
Jean-Marie Le Pen, presidente del Front National, in il Giornale, 1â aprile 1995
Il progetto mondialista non auspica la creazione di un ordine internazionale fondato sulla cooperazione tra liberi Stati sovrani. Al contrario, vuole imporre un unico governo mondiale che amministri grandi collettività multirazziali secondo un sistema di decentramento applicato per ampi spazi continentali. In questa prospettiva il ruolo del modello statunitense è di primaria importanza perché, se funziona, dimostra che è possibile organizzare grandi collettività su basi multirazziali. Al contrario, in caso di evidente insuccesso, la consapevolezza dei mali endemici che affliggono la società americana può condurre i popoli liberi a rifiutare il modello consumista e multirazziale [...] L'identità culturale dei popoli europei ha cominciato ad affievolirsi nel secondo dopoguerra con la diffusione dell'american way of life, ma finora siamo rimasti immuni dai mali del modello multirazziale. Ora il nemico vuole completare la sua opera. Ha banalizzato la nostra vita e ha imbastardito i nostri valori. Ora vuole attentare anche alla nostra eredità biologica. Il meticciato culturale è inquinamento mentale. Il meticciato biologico è inquinamento razziale.
Lello Ragni, Il mondialismo capitalista, 1992
Oggi, per la prima volta nella storia, il mondo si muove anteponendo a tutto i parametri economici e monetari. Ciò a scapito delle altre categorie dell'agire umano, e di quel patrimonio di valori che per millenni ha determinato il destino dei popoli. "Ogni discorso sul modello di società sembra ridursi all'àmbito economico e sempre in un'ottica a breve termine, senza prendere in considerazione cicli di più ampio respiro". Non si tratta, come molti superficialmente sono portati a credere, dell'ineludibile conseguenza del progresso e dello sviluppo tecnologico, ma di una situazione perseguita con pervicacia da precise forze e da quegli Stati che per primi sono stati condizionati da queste forze. Si tratta del cosciente operare di entità private internazionali che hanno fatto dell'economia il loro cavallo di Troia per infiltrarsi in tutte le società del mondo con evidenti scopi di speculazione, di prevaricazione e di potere, sconvolgendo la vita degli uomini e riducendola, nonostante le fantasmagoriche luci del palcoscenico contemporaneo, al suo minimo storico qualitativo. Droga, corruzione, perdita di identità, superficialità, angosce d'ogni tipo hanno preso violentemente il posto del senso di appartenenza, dei valori, delle tensioni ideali, della spinta ad elevarsi. Il dio denaro è l'immagine che meglio di tutte è adatta a rappresentare l'epoca che stiamo vivendo: un dio vuoto di contenuti, ma capace di asservire tutto e tutti. Un dio espressione di un potere globale che, invece di conquistarsi ciò che vuole, è avvezzo a comprarlo con moneta che esso stesso fabbrica dal nulla a suo uso e consumo. Questo potere, che noi definiamo Mondialismo e che si sta consolidando ovunque, è il vero nemico dei popoli e rappresenta ciò che impedisce ad ogni Nazione di affrontare e risolvere i propri problemi in maniera libera ed originale.
Mario Consoli, Contro il dio denaro - Metamorfosi degli strumenti economici dalle origini alla tirannide mondialista, 1999
Primaria finalità del mondialismo è il trasformare l'intero pianeta in un immenso supermarket dove tutte le popolazioni, tutte le etnie – massificate tramite la «società multirazziale» – verranno schiavisticamente sfruttate dal capitalismo internazionale: in altri termini, un'immensa mandria umana che i pastori mondialisti indirizzeranno, a proprio vantaggio, imponendo in tutti i continenti unificate direttive economiche e politiche. Una tirannide che degraderebbe irreversibilmente l'intera umanità e l'intero pianeta tra catastrofi ecologiche e demografiche. A ragione il mondialismo è stato definito «il più grave pericolo che incombe sulle generazioni presenti e future». Ma questo pericolo planetario non appare inevitabile, poiché il mondialismo è vulnerabile. Molto più vulnerabile di quanto credano i presuntuosi pastori mondialisti, i corrotti politici al loro servizio, gli ottusi ottimisti tecnologici di varie provenienze, le masse degradate dal consumismo e inebetite dalla propaganda mondialista. Le sempre più vicine catastrofi ecologiche di origine chimica e nucleare, i crescenti dissesti originati dalla sovrappopolazione e dalla società multirazziale, la divorante distruzione delle risorse alimentari e minerarie del pianeta, la progressiva distruzione delle civiltà e culture tradizionali: ecco le cause – causate da quel materialismo consumistico ovunque imposto – dell'imminente crollo del mondialismo stesso i cui santoni, servitori e seguaci sono insensati come coloro che abbattono gli alberi per raccoglierne più comodamente i frutti.
Giuseppe Mosca, Konrad Lorenz, una voce antimondialista, «Rinascita», 10 gennaio 2001
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Complici di Dio
Le premesse psico-ideazionali
I pretesti per l'invasione
Un aspetto: la distruzione alimentare e sociale del Terzomondo
L'unica possibilità
Le premesse politiche
Il federalismo, faccia nascosta del mondialismo
Strategia di morte
Acceleratori della Fine
Diritto di resistenza
Guerra di civiltà
La superstizione monoteista
Sui lidi estremi
Fondamenti
Hauptunterscheidung
REGNO
mondo avvenire
haOlam haBah
REALTA'
questo mondo
haOlam haZeh
divino
personale
sacro
impersonale
monoteismo
creazione (frattura)
politeismo
evoluzione (continuità)
universalismo
proselitismo
radicamento
rispetto / indifferenza
individualismo
egualitarismo
organicità
gerarchia
materialismo / idealismo
dualismo
realismo
unità psicofisica
panmoralismo
umanitarismo
virtù
forza
provvidenzialismo
teleologismo
tragicità
destino
Due e solo due sono le posizioni teoriche di approccio al mondo;
due e solo due i Sistemi di Valori discesi nel divenire storico.
PRIMO
Le radici ideologiche dell'invasione
Complici di Dio
Sistema ideo-sociale nato 2500 anni fa dallo psichismo e dalle vicende storiche delle genti ebraiche, lo Stato Teocratico Universale vaticinato dal giudaismo con le espressioni «Nuova Terra e Nuovo Cielo», «Mondo Nuovo» e «Regno» è disceso fino ai nostri giorni dopo avere cercato invano, per quindici secoli, di inverarsi in concrete strutture politico-societarie, sempre venendo respinto dal realismo indoeuropeo.
La Suprema Utopia – il Mondo alla Rovescia dei puritani e delle infinite altre sette protestanti – si afferma infatti nell'Inghilterra del Seicento (l'autodefinito Nuovo Israele), si radica nel Settecento oltreoceano nelle Tredici Colonie (l'autodefinito Paese di Dio: the God's Own Country, raccolta degli spurghi cristiani più giudaizzanti), si laicizza nell'Ottocento nella bifronte concezione della democrazia (liberalmassonica da un lato e marxista dall'altro: pseudomorfosi ateistiche della gnosi giudaico-cristiana), esita infine, nel Novecento, nella teorizzazione e nella prassi del Nuovo Ordine Mondiale. ***
*** Tra le mille suggestioni bibliche, vedi Isaia LXV 17 e Apocalisse XXI 1. Per il percorso propriamente storico indichiamo: Cohn N., I fanatici dell'Apocalisse, Edizioni di Comunità, 1965; Gobbi R., Figli dell'Apocalisse - Storia di un mito dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, 1993; Hill C., Il mondo alla rovescia - Idee e movimenti rivoluzionari nell'Inghilterra del Seicento, Einaudi, 1981. Per il percorso psico-ideologico vedi: De Marchi L., Scimmietta ti amo - Psicologia, cultura, esistenza: da Neanderthal agli scenari atomici, Longanesi, 1984 e Natoli S., L'esperienza del dolore - Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, 1986. Da parte nostra abbiamo trattato la questione in Lo specchio infranto - Mito, storia, psicologia della visione del mondo ellenica, Edizioni dell'Uomo libero, 1989, e la stiamo approfondendo in Le sorgenti di utopia - Il ruolo del cristianesimo e dell'Inghilterra secentesca nella genesi del mondo contemporaneo e in I complici di Dio - Genesi del Mondialismo.
Fuorvianti e risibili sono gli strali lanciati dal giornalista Francesco Merlo contro i fondamentalisti della terza articolazione monoteista, quei «kamikaze di Dio» che, dopo avere, l'11 settembre 2001, «devastato New York, uccidendo migliaia di persone, di innocenti, di nostri fratelli americani», «vogliono portare l'Apocalisse nell'Occidente»: «Di sicuro oggi sono soprattutto gli islamici ad avere la presunzione di rappresentare Dio in terra. Finito il comunismo, sono loro i nemici più ostinati della tolleranza e della civiltà occidentali, sono i moderni interpreti di quella devastazione umana che è inevitabile ogni volta che si cerca di far stare l'Infinito nel finito, ogni volta che si vuole imporre agli uomini le leggi di un Dio, le leggi di Dio, il quale è e deve restare invece una grazia privata, la luce delle singole coscienze, una scelta di libertà individuale. L'irruzione di Dio nella storia si chiamava e si chiama Apocalisse».
Invero, dimentico delle ben più immani responsabilità del fondamentalismo liberale nella distruzione dell'umanità e della natura, il buon liberale Merlo non può che essere cieco davanti al fanatismo liberale (e giudaico), per definizione inesistente. Inoltre, sempre da buon liberale, non può che ignorare che mai si è data una religione che, lungi dal restare patrimonio dei singoli, non abbia preteso di reggere da sola una società, emarginando o annientando ogni altra visione avversaria. Proprio non esiste una feroce religione liberale? o feroce una religione olocaustica?
Teorizzazione e prassi che, discese dal criminale idealismo wilsoniano e passate per la criminale aggressività rooseveltiana, al passaggio del millennio sostanziano il criminale stragismo mondialmente praticato dai due Bush e da Bill Clinton.
Teorizzazione e prassi proprie delle infinite articolazioni dell'ebraismo: dagli ultraortodossi ai ricostruzionisti, dai conservatori ai liberali, dai più cabbalistici ai più «razionali», dagli ortodossi ai miscredenti, dai grandi-sionisti ai piccolo-sionisti, dai sionisti religiosi ai sionisti laici, dai supercapitalisti della Diaspora ai kibbutznik d'Israele, dagli antisionisti religiosi agli antisionisti «atei», anarchici, comunisti o borghesi, dai più feroci destristi ai più beceri sinistri. Individui tesi, tutti, nelle forme, nei modi e nei tempi più vari, a inverare il fantasma del Regno.
E il Regno, malkut, è, per la mistica della Qabbalah, la base dell'Albero della Vita, al di là del quale solo esiste l'ain sof, il «ciò che non ha limite», la «nessuna cosa», l'Infinito e il Nulla del Divino. Il Regno, l'Allucinazione la cui premessa è a livello teorico l'egualitarismo universale – l'individualismo assoluto da un lato e la distruzione delle nazioni dall'altro – è il veicolo finale di Dio, il portato della «bronzea necessità». È la più terrestre, la decima e ultima delle sephirot, le Potenze attraverso cui il Benedetto agisce nel mondo, equivalenti al Microcosmo dell'Uomo Archetipo. È l'Armonia, è il Mezzo coi quali le altre nove – le Tre Triadi – realizzano il proprio potenziale. ***
*** Anche nella più generale tradizione ebraica il Regno viene identificato con la shekinah, la Sapienza Divina. Sapienza che nel Bet Hamiqdash – «la casa del luogo consacrato», il Tempio di Gerusalemme – sedeva nel Santo dei Santi, sulla roccia del monte Moriah usata da Abramo per il sacrificio di Isacco. Quella stessa donde Maometto sarebbe salito al cielo.
Il Sistema Mondialista – la Terra Senza il Male e l'Unico Mondo, cui danno sostanza le strutture psico-esistenziali del Sogno Americano e la suggestione dell'Immaginario Olocaustico – è il referente attuale del Regno. Regno che ha necessitato e necessita, per la sua instaurazione, di concreti artefici umani, scelti e arruolati, tra tutte le genti, dall'Unico Dio. E chi può vantare, nei secoli come oggi, tale ruolo con maggiore legittimità della nazione ebraica?
Siamo quindi grati al «francese» Paul Giniewski per averci suggerito, a definire tali trascelti, la splendida espressione Complici di Dio, icona del bimillenario percorso dell'Idea Mondialista: profeto-jahwista, farisaico-talmudica, esseno-zelota, terroristico-apocalittica, cristiana nelle sue mille sette ed infine: demoliberale da un lato e marxista dall'altro.
Genesi e percorso – gesta Dei per haebraeos – illustrati il 3 aprile 1959, senza ritegno, a milioni di telespettatori dal premier israeliano Ben Gurion: «Il senso di Israele è di perfezionare la creazione».
Genesi e percorso rivendicati da Rabbi Michael Goldberg, per il quale gli ebrei – «linchpin in His redemption of the world, cardini della Sua azione redentrice del mondo» – devono «comportarsi da popolo di Dio, poiché solo da loro dipendono la redenzione del mondo di Dio e il nome stesso di Dio» (non per nulla l'omonimo M. Hirsh Goldberg, caporedattore del Baltimore Jewish Times, postilla, arguto nel significato mafiosamente ambiguo di connection, che «He is the Ultimate Jewish Connection, per l'ebraismo Egli è la Suprema Relazione»).
Genesi e percorso folgorati dall'«anglo-tedesco» Josef Kastein (nato Julius Katzenstein): «Tra le razze civili del mondo, il popolo ebraico è al contempo la migliore e la meno conosciuta [...] Un popolo così intensamente vitale come quello ebraico non necessita di apologia. Al contrario, occorre anzitutto che gli si rammenti sempre la sua vera natura, cosicché non rischi mai di scordare le stupende responsabilità di cui è stato caricato su questa Terra [so that they may never be in danger of forgetting the stupendous responsibilities which have been imposed upon them on this earth]».
Genesi e percorso vantati da Milton Steinberg in Basic Judaism, "Fondamenti di giudaismo": «Proclamando l'unicità di Dio, quindi, i profeti intendevano più che il ripudio dell'adorazione degli idoli. Erano risoluti a fissare i seguenti princìpi: la realtà è un ordine e non un'anarchia; l'umanità è una totalità e non un caos di conflitti; una legge universale di giustizia sovrasta gli esseri umani, trascendendo i confini [delle nazioni], oltrepassando ogni divisione di classe [...] Basato sulle testimonianze del passato e del moderno rabbinato, il giudaismo opera oggi [...] per una pace internazionale garantita da un governo mondiale, poiché la nozione dell'assoluta sovranità dello Stato nazionale è sempre stata un'oscenità agli occhi della Tradizione».
Genesi e percorso rivendicati da Rabbi Aharon Barth («il nostro compito è di creare la storia nello spirito di Dio») e psico-storicamente analizzati da Gerald Abrahams, che li sintetizza in pregnante pensiero: «La teocrazia, infatti, è uno dei grandi contributi non riconosciuti di Israele all'agire politico del mondo».
Genesi e percorso ribaditi dall'insigne («has ordained more rabbis than anyone else in history, ha ordinato più rabbini di chiunque altro») Joseph Dov Soloveitchik, «the Rav», il rabbino per eccellenza, rampollo di tre generazioni di talmudisti «lituani»: «Per l'halachah il servizio di Dio (eccettuato lo studio della Torah) può essere svolto solo attuando, concretizzando i suoi princìpi nel mondo. L'ideale della giustizia è il faro di tale concezione. Il più fervido assillo dell'uomo halachico è di perfezionare il mondo sotto il dominio della giustizia e dell'amore: realizzare la creazione ideale, il cui nome è Torah (o Halachah), nella vita terrena». ***
*** La halachah, «cammino», è la giurisprudenza, di fonte rabbinico-talmudica, che regge la vita rituale, personale e sociale dell'ebreo. Il termine Torah definisce i primi cinque libri biblici, noti ai cristiani come Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. Dati a Mosé sul Sinai da Dio stesso, essi sono detti in greco Pentateuco e in ebraico, appunto, Hamiflah Humley Torah, «i cinque libri dell'Istruzione [o della Legge]».
Genesi e percorso rivendicati nel 1862 dal «rabbino comunista» Moses Hess, ispiratore e sodale di Marx: «Il genio divino della famiglia ebraica nella sua automanifestazione dice: "Per te saranno benedette tutte le famiglie della Terra" [Genesi XII 3]. Ogni ebreo ha in sé la stoffa di un Messia. Ogni ebrea ha quella di una mater dolorosa [...] La Fine dei Giorni, nella quale la conoscenza di Dio riempirà tutta la Terra, è ancora lontana da noi. Ma noi crediamo fermamente che giorno verrà in cui lo spirito santo del nostro popolo diverrà patrimonio dell'umanità; giorno verrà in cui tutta la Terra diverrà il Tempio in cui risiederà lo spirito di Dio. Perciò il Regno dello spirito è nella Bibbia annunziato come futuro».
Genesi e percorso profetizzati due millenni prima nell'infocata pietraia qumranica: «E questo è il libro della Regola della Guerra. L'inizio si avrà allorché i Figli della Luce porranno mano all'attacco contro il partito dei Figli delle Tenebre, contro l'esercito di Belial, contro la milizia di Edom, di Moab, dei figli di Ammon, contro gli Amaleciti e il popolo della Filistea, contro le milizie dei kittim di Assur, ai quali andranno in aiuto coloro che agiscono empiamente verso il Patto. I figli di Levi, i figli di Giuda e i figli di Beniamin, gli esuli del deserto, combatteranno contro di essi; ... contro tutte le loro milizie, allorché gli esuli dei Figli della Luce ritorneranno dal deserto dei popoli per accamparsi nel deserto di Gerusalemme. E dopo la guerra se ne andranno di là, contro tutte le milizie dei kittim in Egitto [...] Vi sarà una costernazione grande tra i figli di Jafet, Assur cadrà e nessuno l'aiuterà, scomparirà la dominazione dei kittim [leggi: dei romani] facendo soccombere l'empietà senza lasciare traccia, e non rimarrà alcun rifugio per tutti i Figli delle Tenebre. Verità e giustizia risplenderanno per tutti i confini del mondo, illuminando senza posa fino a quando saranno finiti tutti i tempi stabiliti per le tenebre. E al tempo stabilito per Dio, la sua eminente maestà risplenderà per tutti i tempi determinati in eterno per la pace e la benedizione, la gloria, la gioia, e giorni lunghi per tutti i Figli della Luce. Nel giorno in cui i kittim cadranno vi sarà un combattimento e una strage grande al cospetto del Dio di Israele; giacché questo è il giorno, da lui determinato da molto tempo per la guerra di sterminio dei Figli delle Tenebre nel quale saranno impegnati in una grande strage [...] Sarà questo il tempo dell'angustia per tutto il Popolo della Redenzione di Dio: tra tutte le loro angustie non ce ne fu mai simile, dal momento nel quale si scatena fino al suo compimento nella redenzione eterna».
Genesi e percorso celebrati due millenni dopo dal Reform Rabbi di Cincinnati dottor Kaufmann Kohler (1843-1926), genero del grande David Einhorn, capo dell'ala sinistra del movimento riformista e successore dell'illustre Isaac Mayer Wise a presidente dello Hebrew Union College, nemico sia del concetto che della pratica di «nazionalità ebraica»: «La speranza futura dell'ebraismo è racchiusa nell'espressione Regno di Dio, malkut shaddai o malkut shamajim, propriamente "signoria di Dio" [...] La predicazione dei profeti che il Dio Unico di Israele verrà riconosciuto [dalle nazioni] quale Signore del mondo intero ha creato questa idealità futura dell'ebraismo e con ciò conferito alla storia del mondo una meta e uno scopo ultimo, facendo di Israele, Popolo di Dio, il suo fulcro e il suo perno [...] La vera speranza messianica ha per sostanza il ristabilimento del Trono di Davide [...] Con specifico riguardo al Servo Sofferente del Deuteroisaia, il titolo di Messia sarà d'ora innanzi applicato al popolo di Israele: Israele, il Messia sofferente, diverrà alla fine dei tempi il Messia delle nazioni, coronato di vittoria» (in Grundriß einer systematischen Theologie des Judentums auf geschichtlicher Grundlage, "Lineamenti di una teologia sistematica dell'ebraismo basata su fondamenti storici", edito a Lipsia nel 1910, traduzione di Jewish Theology Systematically and Historically Considered).
Genesi e percorso per il quale nel 1920, scatenato l'Orrore bolscevico ormai da un triennio, recita il mea culpa Rabbi Oscar Levy prefando The World Significance of the Russian Revolution di George Pitt-Rivers: «Noi siamo stati colpevoli. Noi, che ci siamo posti come salvatori del mondo, noi, che ci siamo perfino vantati di avergli dato "il" Salvatore, non siamo oggi nient'altro che i seduttori del mondo, i suoi distruttori, i suoi incendiari, i suoi carnefici [...] Noi, che abbiamo promesso di condurvi in un nuovo paradiso, siamo riusciti alla fine a condurvi in un nuovo inferno [...] Non c'è stato alcun progresso, men che meno un progresso morale [...] Gli ebrei sono i padri spirituali della democrazia, e perciò della plutocrazia [...] Elementi ebrei sono le forze propulsive sia del comunismo che del capitalismo».
Genesi e percorso rivantati nel n.3-4 di Jeschurun - Monatschrift für Lehre und Leben im Judentum, "Jeshurun - Mensile di dottrina e di vita del giudaismo", *** marzo-aprile 1921: «Israele soltanto è in grado, per le sue qualità ereditarie, di donare profeti, uomini che possono entrare in relazione con Dio in maniera soprannaturale. Israele è come la semente che trasforma in propria natura gli elementi contenuti in seno alla terra: Israele è il cuore di quell'organismo che è l'umanità. È il cuore delle nazioni».
*** Jeshurun = nome poetico per intendere Israele: «diletto», «giustissimo», «integro», «acuto».
Genesi e percorso folgorati nel 1923 dal rabbino sionista Louis Israel Newman: «The modern mission of the Jew is to assume the moral leadership of the world, La missione moderna dell'ebreo è di assumere la guida morale del mondo».
Genesi e percorso ostentati, a impossibilità di fusione, dal celebre polemista Maurice Samuel nel 1924: «Voi avete il vostro modo di essere, noi il nostro. Per il vostro modo di vita noi manchiamo sostanzialmente di "onore". Per il nostro modo di vita voi mancate sostanzialmente di moralità [si noti la sottile distinzione delle virgolette in onore e della loro assenza in moralità!]. A voi appariremo per sempre privi di grazia, a noi apparirete per sempre privi di Dio [...] Noi ebrei, noi, i distruttori, resteremo distruttori per sempre. Nulla di quanto farete placherà i nostri bisogni e le nostre domande. Distruggeremo in eterno, perché ci è necessario un nostro mondo, un mondo divino, che non è nella vostra natura edificare [We will forever destroy because we need a world of our own, a God-world, which it is not in your nature to build]».
Genesi e percorso ricantati, quindici anni dopo a New York, dal confrère Harry Waton, filosofo spinoziano e paramarxista, in A Program for the Jews and Humanity, varato dal Committee for Preservation of the Jews: «Come il comunismo, l'internazionalismo è il fondamento della società, la base di ogni umano progresso, la speranza della classe lavoratrice, il destino dell'umanità [...] Facciamo sì che tutte le nazioni della Terra divengano razionali, facciamole entrare in una federazione di nazioni come in questo paese abbiamo una federazione di Stati [...] Ma al contempo gli ebrei sono nazionalisti in quanto ebrei. Gli ebrei, ovunque nel mondo, a prescindere dal posto in cui vivono, dalla lingua che parlano, dal sistema di vita e dagli usi e costumi che seguono, tutti si riconoscono l'un l'altro come un unico popolo».
Dio li ha scelti come il Suo Popolo, e «per questa ragione lo Stato ebraico giunse sempre dove fu il popolo ebraico [always was co-extensive with the Jewish people], e poiché ora gli ebrei sono disseminati su tutta la Terra, lo Stato ebraico si estende su tutta la terra. Questo è il motivo perché lo Stato ebraico è internazionale e così potente». Inoltre, poiché è vero che «gli ebrei sono il popolo più nobile e civile della terra [the highest and most cultured people on earth]», «gli ebrei hanno il diritto di sottomettere a sé il resto dell'umanità e di essere i signori della terra [have a right to subordinate to themselves the rest of mankind and to be the masters over the whole earth]»; «gli ebrei diverranno i signori della Terra e sottometteranno a sé tutte le nazioni, non attraverso la potenza materiale, non con la bruta forza ma con la luce, la conoscenza, l'intelligenza, l'umanità, la pace, la giustizia e il progresso».
Genesi e percorso ribaditi nel 1949, dopo il Secondo Conflitto, da Rabbi Ignaz Maybaum in The Jewish Mission: «Il giudaismo è messianismo. Il messianismo vede la storia come uno stadio in cui il piano di Dio si auto-rivela, dove la Sua promessa, dataci attraverso i Sui profeti, sarà compiuta [la storia non è che toledot ha-yeshuah, «storie della salvezza»!]. Il Regno di Dio giungerà. Con questa speranza nel cuore l'uomo continua a lottare, resta distaccato da tutte le soluzioni e da tutti i successi celebrati nelle vittorie e nei giorni fausti della storia, e resta fermo e coraggioso nella catastrofe, nella frustrazione, nella sofferenza con cui la storia lo assedia. Egli prosegue il cammino. Il suo cuore gli dice: il Regno di Dio verrà. Come uomo messianico l'ebreo vive nella storia e oltrepassa la storia. Il giudaismo è messianismo. Ma il giudaismo non è solo messianismo. Sia il profeta che il sacerdote sono gli eterni archetipi dell'ebreo. Fianco a fianco col profeta, che insegna la speranza per il tempo promesso, sta il sacerdote. Il sacerdote non guarda avanti, al futuro. È di fronte a Dio qui e ora, nei giorni di questa sua vita e nel luogo ove vive la sua vita [...] Il grande pericolo per noi in quanto popolo messianico è di fermarci incondizionatemente in un'epoca, considerarla un "tempo compiuto" [...] Dobbiamo essere più che cittadini di un qualunque Stato, in Palestina come altrove. Dobbiamo restare ebrei. Gli ebrei sono ebrei solo se restano cittadini del Regno di Dio».
Genesi e percorso insistiti dal sionista-mistico «tedesco» Gershom Scholem nel 1963 in Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, "Per comprendere l'idea messianica nel giudaismo": «C'è nella natura dell'utopia messianica una componente anarchica [l'«anarchismo politico di principio» di cui tratta Shmuel N. Eisenstadt!], la dissoluzione dei vecchi vincoli, che nel nuovo contesto della libertà messianica perdono il loro vecchio senso».
Genesi e percorso sottesi alla disinvoltura del laico «italiano» Shmuel ex-Edoardo Recanati, confidante al confratello Pezzana: «L'idea che Dio è il nostro Dio fa paura, però giustifica tante altre cose, è un messaggio fortissimo. Questo mi spinge a interrogarmi: non è forse il Dio di tutti? È ovvio che lo è, ma nei confronti del popolo ebraico ha un atteggiamento particolare [...] Il popolo ebraico non è che uno strumento, un rappresentante che visita la clientela per conto del boss».
Genesi e percorso che trovano infine, in questo atroce inizio di secolo, il loro sbocco più alto nel criminale appello del «francese» André Chouraqui – già co-segretario dell'Alliance Israélite Universelle, consigliere di Ben Gurion e prosindaco di Gerusalemme, premio Fondazione Agnelli 1999 per l'espressione di una «dimensione etica nelle società avanzate» – sfrenato nella ricostruzione psico-fantastorica di Mosè: «Sappiatelo: le Porte del Paradiso sono ormai aperte davanti a voi. Uomini, miei fratelli, fate bene attenzione a non richiuderle mai più».
* * *
Le basi psico-ideazionali
Se è quindi vero che i concetti di creazione e missione rientrano in una precisa visione delle cose scaturita da un preciso psichismo espresso da – e che ha in retroazione espresso e rafforzato – un preciso gruppo razziale-etnico-nazionale (invero, le religioni non sono altro che «la spiritualizzazione deificatrice della razza», ci conforta il rabbino «francese» Kadmi Cohen in Nomades - Essai sur l'âme juive, 1929), essi non possono essere, anche se lo hanno da sempre rivendicato con improntitudine, «universalmente umani».
Se, come afferma Giniewski, «l'idea di un Dio Unico e supremo fonda [...] l'assioma religioso su una logica: dall'unità discenderà l'ordine; l'intera Torah non è che l'espressione di un certo ordine del mondo» – se, come afferma Itzchaq Abravanel, «la creazione è la radice e il fondamento su cui poggia tutta la Torah, la chiave di volta di tutte le credenze della nostra fede, che si tratti delle parole iniziali della Genesi, dei racconti dei patriarchi o dei miracoli e dei prodigi. Tutte le nostre credenze si giustificano solo se si crede nella creazione. Se l'uomo non crede alla creazione volontaria del mondo, non può avere una fede salda nell'onniscienza divina e nella provvidenza e nel rapporto che lega l'osservanza dei precetti alla ricompensa o al castigo» – e se, come recita lo Zohar, «Israel weTorah echad hu, Israele e la Torah sono la stessa cosa», è allora evidente che chi ha sempre combattuto e rifiutato, ed ancora rifiuta e combatte, tale «ordine» non può che – anzi deve – rigettare l'assioma religioso che lo fonda. ***
*** Per converso, a chi rifiuti tale assioma non è logico né moralmente lecito perseguire un «ordine» similarmente universalistico o, per dirla con l'Evola del «vero» universalismo – quello del «superiore diritto» e della «missione di ordine supernazionale» – «imperiale».
Ancor più, istiga nel 1919 l'anarchico «tedesco» Gustav Landauer, invocando come Trockij la Rivoluzione Permanente, nessun ordine dovrà mai essere raggiunto, e neppure auspicato: «Il sollevamento come costituzione, la trasformazione e il rovesciamento come una regola prevista per sempre... tale era la grandezza e la santità di questo ordine sociale mosaico. Noi abbiamo di nuovo bisogno di questo: una regolamentazione nuova e un rovesciamento dello spirito, che non fissi le cose e le leggi in modo definitivo, ma dichiari se stesso come permanente. La rivoluzione deve divenire la regola fondamentale della nostra costituzione».
E similmente continua Kadmi Cohen: «Diversamente da quanto è avvenuto per gli altri popoli, lo stato nomadico non ha mai avuto presso il semita un carattere di transizione, di stadio transeunte che precede e prepara alla vita sedentaria: esso nasce nel profondo del cuore semita [...] Chi dice erranza di un gruppo umano dice al contempo isolamento di questo gruppo e, a dispetto dei suoi spostamenti, a ragione anzi dei suoi spostamenti, la tribù resta identica a se stessa»; similmente vanta il filosofo Abraham Joshua Heschel: «La nostra è una voce contro la sovranità di qualsiasi valore: sia esso l'io, lo Stato, la natura o la bellezza»; similmente conclude Rabbi Marc-Alain Ouaknin, direttore del Centre de Recherches et d'études juives Aleph: « L'ebreo afferma contemporaneamente l'impossibile fissarsi nell'identico e denuncia il concetto di identità [...] Il termine "giudeo", letto a partire dalla parola Yehudah dice esattamente che la definitiva identità è un'illusione e ci invita a pensare "al di là del principio di identità" [...] Essere ebreo entrando nel Nome significa, infatti, affermare la volontà di permanere al di fuori di una definizione e di un concetto ».
Nulla quindi, davvero, di che stupirsi della rivendicazione compiuta dal londinese The Jewish World del 9 febbraio 1883, meglio detto 2 adar 5643: «Il più alto ideale del giudaismo si pone in contrapposizione ad ogni separatistico radunarsi del popolo ebraico. L'aspirazione a ricostituire l'impero di Israele non è il vero obiettivo della religione giudaica, è soltanto un'abnorme escrescenza di accese speranze nate del tempo della persecuzione [...] La missione [degli ebrei] può essere portata avanti solo in una sfera d'azione come quella loro permessa dalla diaspora. È chiaro, anche solo da un punto di vista tattico, che gli insegnamenti giudaici hanno migliori probabilità di venire inculcati fruttuosamente [nei non-ebrei], se questi sette milioni di missionari lavorano sparsi ovunque nel mondo, piuttosto che ridursi al silenzio da sé rinchiudendosi in precisi confini geografici, compromettendo in tal modo la possibilità di portare avanti la loro missione [...] La razza ebraica è certo pura e la religione ebraica si trova certo in uno stato incontaminato, ma noi vogliamo costituire ben più di una semplice nazione, vogliamo per il mondo un'unica lingua ed un unico spirito [...] Poiché gli ebrei sono il solo popolo cosmopolita, essi sono tenuti – cosa che peraltro fanno – ad agire come una forza dissolvente di ogni nazione o razza. Il più grande ideale del giudaismo non è ambire a mete separatiste, ma che il mondo venga permeato degli insegnamenti giudaici e che tutte le razze e le religioni scompaiano in una fratellanza universale delle nazioni, cioè in un più grande giudaismo; tutte le razze e le religioni scompariranno [...] Gli ebrei elessero a domicilio l'intero mondo e ora tendono le mani agli altri popoli della Terra affinché seguano il loro esempio. Sì, essi fanno ancora di più. Attraverso l'impegno in campo letterario e scientifico, attraverso la loro posizione dominante in tutti i settori della vita pubblica, gli ebrei sono arrivati a conformare in forme ebraiche i pensieri e i sistemi dei non ebrei».
Nulla quindi, davvero, di che stupirsi dell'appello lanciato nel 1915, in pieno conflitto mondiale, da Nahum Goldmann in Der Geist des Militarismus, "Lo spirito del militarismo": «Il senso e la missione storica del nostro tempo possono essere compendiati in questo pensiero: vostro compito è il riordino della civiltà umana, la sostituzione di un nuovo Sistema societario a quello finora dominante. Ogni riordino consiste in due fasi: nella distruzione del vecchio Ordine e nella formazione del nuovo. In primo luogo, tutti i pali di confine, tutte le barriere e le qualifiche del vecchio Sistema devono essere abbattuti, tutti gli elementi del Sistema scomposti, quegli elementi che, resi indifferenti, verranno poi riordinati. Solo dopo questa prima fase inizierà la seconda, il riordino degli elementi. Il primo compito del nostro tempo è quindi la distruzione: tutte le stratificazioni sociali, tutte le forme societarie create dal vecchio Sistema saranno distrutte, ogni uomo sarà strappato al suo mondo tradizionale, nessuna tradizione sarà più tenuta per sacra, l'età conterà unicamente come segno di malattia, la parola d'ordine è: ciò che fu, deve perire. Le forze che eseguiranno tale missione distruttiva sono: in campo economico-sociale il capitalismo, in campo politico-spirituale la democrazia. Come abbiano agito in passato, lo sappiamo tutti; ma sappiamo anche che la loro opera non è ancora terminata. Ancora il capitalismo lotta contro le forme della vecchia economia tradizionale, ancora la democrazia conduce un'aspra lotta contro tutte le forze della reazione. Lo spirito del militarismo compirà l'opera. Il suo principio livellatore realizzerà, integralmente, la missione distruttiva del nostro tempo: solo quando tutti i sostenitori della nostra idea avranno indossato i panni di soldati dell'idea, solo allora la missione sarà compiuta».
Nulla quindi, davvero, di che stupirsi delle concordanze di un Georg Hermann (nato Borchardt): «Dobbiamo finalmente imparare a porre l'umanità al di sopra della nazionalità [...] A tutt'oggi esiste un'unica stirpe di cittadini del mondo, e sono gli ebrei [...] Come ebreo appartengo a una razza troppo vecchia per cader preda di suggestioni di massa. Parole come popolo, guerra e Stato non hanno per me né colore né suono. Per me hanno suono unicamente le parole uomo e vita, ma un suono di tale altezza e ricchezza che, a quanto pare, le altre razze sono ancora troppo giovani per accogliere» (in Randbemerkungen "Considerazioni a margine", 1919) o di un Thomas Meyer: «Sempre il cosmopolitismo sovrannazionale fu il contrassegno storico della migliore civiltà ebraica» (postfazione al sempre ebreo Ludwig Thieben, Das Rätsel des Judentums, "L'enigma dell'ebraismo", 1931).
Ma nulla quindi, anche, di che stupirsi del giudizio del grande storico, pur filo-ebreo, Theodor Mommsen: «L'ebreo è essenzialmente indifferente di fronte allo Stato; tanto è duro nel rinunciare alla propria peculiarità nazionale, tanto è pronto a travestirla con una qualsiasi nazionalità. Anche nel mondo antico l'ebraismo fu un attivo fermento di cosmopolitismo e decomposizione nazionale» (in Römische Geschichte, III 7, 1879).
Tara atavica di anarchia, sovversivo di ogni ordinamento, agente di dissociazione, dissoluzione e denazionalizzazione, il popolo ebraico si vede infatti obbligato dalla parola del suo dio a combattere un'eterna Guerra Santa, ad imporre la sua idea di Dio come «the central religious truth for the human race, la fede religiosa centrale della razza umana» (dichiarazione della Reform Platform di Pittsburgh, 1885, diretta da Kaufmann Kohler), a perseguire quell'«inexorable universalisme» cantato dall'Alliance Israélite e ribaltare ogni altra struttura sociale. ***
*** Autodefinizioni di Israele – «colui che lotta con Dio» o meglio, per Martin Buber, «Dio lotta» o «Dio regna» – il popolo inquieto detto da Rabbi W. Gunther Plaut «mankind's greatest blessing, la più grande benedizione dell'umanità»: la Primizia del Suo Raccolto (Osea II 25 e «Rashi» il Maestro Shelomo ben Jishaqi di Troyes, Commento alla Genesi, I), la schoriana «everlasting nation, nazione eterna», il plautiano-hertzberghiano «Eternal People, Popolo Eterno», il peguyano «Popolo Eletto dell'Inquietudine», il berleano «barometro di civiltà in ogni epoca» e «political instructor of the entire world», il buberiano «luogotenente» umano di Jahweh, l'eisenberghiano «missionario, psichiatra e medico», la fritzkahniana «madre etica dell'umanità» (tale diventata per la «genialità del suo cuore»), il bedaridano «Pellegrino della Speranza», «segnale d'allarme per l'umanità» e «termometro degli alti e bassi del sentimento morale nel mondo», presente nella Modernità «in funzione di protomartire e di nemico numero uno del nazifascismo», il robertaroniano «popolo votato al sacerdozio», i «Trasognati» dei Salmi CXXVI 1, gli steinsaltziani «Pastori di Dio», i benkaplaniani «Eterni Stranieri», il polishiano portatore di «eternal dissent, eterno dissenso» («di qualunque cosa si tratti, sono contro», lapideggia anche Groucho Marx in Horse Feathers, id., di Norman McLeod, 1932), gli hertzberghirtmanheimeriani «persistent dissenters in every society in which they have lived, ostinati dissenzienti in tutte le società ove hanno vissuto» («è impressionante il numero degli ebrei che hanno lottato nelle diverse insurrezioni», ammira il cabarettista «bulgaro-italiano» Salomone «Moni» Ovadia, oloquerulo invasionista), i bernanosiani «vagabonds éternels», i neheriani/hescheliani «eterni costruttori del tempo». Non per nulla il termine «ebreo», ivri dalla radice avar «passare», significante il Padre Abramo in Genesi XIV 13 quale «uno dell'altra parte», esprime mobilità, propensione a vagare, incessante dispersione, tensione verso l'Altrove, indifferenza e dematerializzazione dello spazio, ossessione di un popolo formato nel vuoto dell'aggressione nomadica. Similmente Pepe Rodríguez, che fa derivare il termine da ibri khapiru o aperu, «miserabili, stranieri erranti, schiavi e banditi».
Al contrario, a identificare il simbolo tedesco della foresta come rifugio archetipico – rifugio stanziale e vitale necessità di radici che si oppongono quanto più drasticamente all'ethos del Wandering Jew, quell'«ebreo errante» di cui è prototipo l'irrequieto Ahasvero – è il livido cabbalista Elias Canetti, Nobel 1981 per la Letteratura.
Rimarcando la contrapposizione terra-mare già magistralmente evidenziata dal politologo Carl Schmitt, così infatti Canetti si esprime: «Il simbolo di massa dei tedeschi era l'esercito. Ma l'esercito era più di un esercito: era la foresta che cammina. In nessuna parte del mondo il senso della foresta è rimasto così vivo come in Germania. La rigidità e il parallelismo degli alberi ritti, la loro densità e il loro numero riempiono il cuore tedesco di gioia profonda e segreta. L'inglese si vede volentieri sul mare, il tedesco si vede volentieri nella foresta; è difficile esprimere più concisamente ciò che li divide nel loro senso nazionale» .
Ma è il politologo Reinhold Oberlercher a cogliere più profondamente, in "Essenza e decadenza dell'America", l'antitesi spirituale sottesa ai contrasti tra la potenza terrestre germanica e quella marittima angloamericana:
«Le potenze marittime sono imperialiste. Esse formano imperi sconsacrati, perché il mare non conosce templi né porta travi o colonne celesti. Nessun tempio, nessun monte sacro si trova in questo elemento, nessun ordine e nessun diritto si possono radicare nell'acqua. L'elemento fluido, se non si lega a quello terrestre ma si raccoglie nell'immensità del mare, non risveglia alcuna fiducia, ma sempre diffidenza nella coscienza dell'onnipresente pericolo. Ci si può così poco fidare del mare come di una potenza marittima. Il mare non genera fiducia, bensì, accanto alla crudeltà del pirata, solo ipocrisia e finzione. Nel caso dell'anglo-americanismo la crudeltà è coperta dall'utopismo calvinistico-puritano della santità del successo, dunque dell'illusione del conseguimento della salvezza eterna nell'Aldilà attraverso l'attivistico operare sociale nell'Aldiquà. La scomparsa dell'Inghilterra come potenza marittima mondiale può valere, con qualche correzione, come paradigma per il tramonto degli USA».
Spostando di poco il bersaglio, già Roderich-Stoltheim aveva rilevato, sulla scia di Sombart («Deserto e foresta sono i due grandi elementi antagonistici attorno ai quali si dispongono le essenze delle terre e degli uomini che le abitano»), che «in effetti il vero luogo natale e di vita del germano è il bosco, che già fece la Germania così poco rassicurante ai romani, che il bosco odiavano. Solo nel bosco e sui campi può ancora crescere, oggi, il vero tedesco; e come il bosco e il deserto sono opposti fra loro, così anche nel germanesimo e nell'ebraismo possiamo riconoscere i contrasti più estremi del genere umano . È certo che in ogni tempo l'agricoltura costituì il fondamento primo delle stirpi germaniche e che in nessuna epoca della loro preistoria essa è stata del tutto ignota ai popoli indoeuropei. Nella vita e nell'operare a stretto contatto con la natura, come accade per il contadino, si fonda l'essenza del germanesimo come quella di tutti i popoli civili e veri costruttori. L'estraneità nei confronti della natura è al contrario il marchio del semita».
Ancor prima, Adolf Wahrmund sottolinea, insieme alla necessaria indifferenza del nomade per la natura, la sua necessaria rapacità, la sua necessaria ostilità verso i popoli sedentari, il suo necessario e connaturato bellicismo esistenziale, la necessaria e cruenta guerra da condurre contro ogni diverso, contro ogni infedele: «Si potrebbe ribattere che anche gli Stati contadini sono, non raramente, obbligati alla guerra, alla difesa come all'attacco – in verità per prevenire l'attacco – e che una tale condotta bellica appare cosa sacra anche al contadino, poiché con essa difende le sue cose più sacre ; è però evidente che il crescere e prosperare del contadino è legato in massima parte alla pace, poiché la sua forza vitale dipende dalla pace e in un guerreggiare continuo crollano i suoi fondamenti naturali. Il contrario è per il nomade: quando lascia i pascoli, può spostarsi solo come portatore di guerra, applicando contro il contadino la propria legge vitale, alla quale deve in eterno ubbidire, pur se diventasse sedentario e contadino egli stesso, cosa mostratasi finora praticamente impossibile sia per i popoli semiti che per quelli turanici. E quindi contro i popoli stanziali egli deve restare in un incessante status di guerra, simile a una nobiltà conquistatrice, come i dori spartani contro i perieci e gli iloti lacedemoni – egli vive nel corpo e nello spirito tale status di guerra, e il suo dio è un dio della guerra, come lo sono Allah e Jahweh, nel cui nome conduce una guerra santa».
In parallelo, opposta è la concezione dello Stato per il nomade e per il sedentario: «In senso proprio, lo Stato è, come dice il nome (status = che sta), un'entità stanziale; perché una mobile società di briganti, come quella dei pirati nell'ultimo secolo della repubblica romana o le più tarde società di corsari e filibustieri, non viene detta Stato. Ogni società politica mobile (non stanziale) non può non essere una società di briganti, poiché nel movimento non può soddisfare da sola le proprie necessità vitali, e d'altro canto ogni società di briganti dev'essere mobile, poiché ogni territorio che abbia confini viene presto del tutto spogliato. Il deserto ed il mare costringono al movimento, e quindi entrambi, entità senza confini, sono il vero teatro del brigantaggio e del nomadismo. Al mare e al deserto si contrappone la terra fruttifera, ove nascono e crescono le forme più alte di società umana. Solo la terra coltivata permette e al contempo esige una vita sedentaria, dalla quale nascono pure le più varie professioni. L'agricoltura e le professioni rigettano e disprezzano il brigantaggio, mentre al contrario esso è l'orgoglio del nomadismo. Per questo presso gli antichi l'agricoltura e le professioni avevano le medesime divinità pacifiche e, solo in quanto dovevano essere anche capaci di difesa, il medesimo dio della guerra».
«Il "bosco"» – continua Luisa Bonesio, docente di Estetica a Pavia, facendo equivalenti spirituali ed esistenziali il mare, il deserto e l'asfalto metropolitano – «è il nome dell'essere in contrapposizione alla fallacia dell'apparenza e del movimento; è la stabilità, la permanenza di fronte all'impermanenza e all'effimero; è il luogo dell'immagine e dei poteri da cui il mondo trae vita, in contrapposizione con la sterilità crescente del deserto e la fuga degli dei. In una parola, il bosco è per Jünger lo spazio del sacro, dell'essere che sprigiona i suoi poteri, in cui posa "la eccedenza del mondo". Perciò è un luogo periglioso, cui solo pochi possono veramente accedere, tramite un passo laterale, o la scoperta dell'altra faccia di ciò che c'è di più abituale. Insomma, al bosco si passa con una conversione, ossia mettendosi in consonanza con i ritmi profondi dell'essere. Il bosco è quel "santuario", quella soglia, quello spartiacque invisibile tra la terra desertica e la terra celeste: l'unica dimensione a partire dalla quale potremo davvero capire perché l'inaccessibile fierezza di una selva di una montagna siano "meglio", e per noi più ricche di possibilità vitali, di un intrico di ciminiere o un reticolo di superstrade».
Ancora più ampiamente, l'ebreo – «ogni grande popolo crede, e deve credere se vuole una lunga vita, di possedere, e di possedere esso solo, la chiave della salvezza del mondo, di vivere per essere alla testa degli altri, trascinarli dietro sé come un tutto e guidarli insieme alla meta finale preordinata per tutti», scrisse Fëdor Dostoevskij, nel «Diario di uno scrittore», XII 22 – pervaso da una permanente infelicità nei confronti del mondo-com'è, da una profonda insoddisfazione delle presenti condizioni, da un'incessante inquietudine, dalla perenne ricerca di un Altro Mondo, eterno delirio di Nuovi Orizzonti, ancor più ampiamente l'ebreo si vede obbligato a sconvolgere ogni ordinamento naturale/tradizionale (ed invero, per l'ebreo l'epifania di Dio non si manifesta nella Natura ma nella Storia!) al fine di tiqqun olam, «restaurare/redimere/ riparare/correggere/ornare/migliorare il mondo», «fare il mondo più giusto» – «to mend, repair and transform the world», suona il motto di Tikkun, il bimonthly di Rabbi Michael Lerner, consigliere spirituale dell'ex-presidente USA Bill Clinton – operare per il «ristabilimento del mondo sotto il regno dell'Onnipotente» (Aharon Barth), trasformare il mondo in una dimora per la Presenza avvicinando la venuta del Messia, «scopo ultimo dell'intera creazione» (il rav lubavitch Menachem Brod).
Il tutto, pretendendo – cosa stravagante per l'uomo pagano, ma obbligante per il sanguinario jahwismo – di vincolare ai precetti del suo dio anche chi di un tal dio nulla abbia mai udito o voglia sapere: «Ogni uomo [ish ish] che maledirà il suo Dio porterà la pena del suo peccato. Colui che avrà bestemmiato il Nome di Dio sarà punito con la morte» (Levitico XXIV 15-16, oltre a Sanhedrin 56a-57b e 99a); e ciò perché «l'umanità una poteva sorgere solo sotto il Dio uno [...] Il monoteismo è così in sé la causa immediata tanto del messianismo quanto del concetto della storia universale come storia dell'umanità. Senza il Dio unico non poteva sorgere l'idea dell'umanità» (il« filosofo» neokantiano Hermann Cohen, definito da Gillian Rose il «Kant tra i profeti») e perché «la credenza nell'unità della razza umana è il risultato naturale dell'Unità di Dio, poiché l'Unico Dio deve essere il Dio dell'intera umanità. Fu impossibile per il politeismo (la credenza in più Dei) raggiungere l'ideale di un'Unica Umanità» (Rabbi Israel H. Weisfeld della congregazione Shearit Israel di Dallas).
Prodotto storico imperfetto, destinato a lasciare il posto ad un più alto ordine di cose alla Fine dei Giorni, il mondo non è, per l'ebreo, eterno o immutabile nelle proprie leggi. ***
*** «Fine dei Giorni» = Baakharit haYamim, concetto di Genesi IXL 1 – nel greco dei Settanta: ep'eschátou tôn hemerôn – equivalente a «Tempo della Fine», Et haQetz, presente in Daniele XI 40 e X 21.
Il tiqqun, l'espressione conclusiva dell'escatologismo cabalistico del divino Rabbi Yitzchak «Ari Zal» Luria Ha-ashkenazi (1534-72), è la fine del tzimtzum (il «ritrarsi» di Dio per far posto al creato, «esilio» della Presenza divina che ha il contraltare terreno da un lato nel fatto che da quel momento esiste qualcuno/qualcosa che, essendosi distinto da Dio, non ha la Sua stessa pienezza di vita e giustizia, e dall'altro nell'«esilio» diasporico di Israele), è il ristabilimento della Grande Armonia turbata dalla Rottura dei Vasi (Shvirat haKelim) e dal peccato di Adamo, è la Raccolta delle Scintille (nitzotzot) disperse nella qelippah – «scorza/conchiglia», cioè Questo Mondo terreno, il Regno del Male e delle forze demoniache, il Sitra Achara, l'Altro Lato – è la Pace, shalom, caratteristica fondamentale del tempo messianico («Principe della Pace», è il Messia in Isaia IX 6; «porta della perfezione», dicono la pace Walter Homolka e Albert Friedlander; in parallelo, il senso originario della radice tqn vale «approntare», «preparare»). Quella pace che con l'etimo shlemut identifica la «perfezione» (in ebraico, shalem), la «totalità», l'«interezza», il «compimento».
Compimento preteso dal Grande Vanitoso a propria maggior gloria, dato che il mondo è stato creato solo perché gli esseri umani fossero consapevoli della gloria e dell'eternità del Nome, il Dio Inconoscibile che trascende la creazione: «Ogni cosa che il Santo Unico, benedetto Egli sia, creò nel Suo mondo, lo creò solo per la Sua gloria, come è detto: "E ogni cosa chiamata [altra versione: Chiunque viene chiamato] col Mio nome è davvero per la Mia gloria che l'ho creata, che l'ho costituita, sì, che l'ho fatta" [Isaia XLIII 7], ed è detto: "Il Signore regnerà per sempre e in eterno" [Esodo XV 18]» (Abot VI 10/11 o baraita 11 di Abot 15b).
Ed ancora, dalla bocca diretta di Dio: «"Volgetevi a me e sarete salvi, voi, paesi tutti della Terra, ché io sono il Signore: non c'è altri! Lo giuro per me stesso: dalla mia bocca è uscita la giustizia, una parola che non torna indietro: sì, a me si curverà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua. Solo nel Signore si dirà, si trovano giustizia e potenza!". A lui verranno vergognosi tutti quelli che gli erano ostili; nel Signore menerà trionfo e vanto tutta la progenie d'Israele [...] Sì, col fuoco il Signore farà giustizia su tutta la terra e con la spada su ogni mortale, e molti saranno gli uccisi del Signore [...] "Io verrò per radunare tutte le nazioni e tutte le lingue. Esse verranno e vedranno la mia gloria"» (Isaia XVL 22-25 e LXVI 16 e 18).
Ed ancora, aggiunge David Banon: «Questa restaurazione, questa cernita (berur) consiste nel separare le scintille della santità della luce eliminando le scorze, o meglio, nel trasfigurare le forze del male integrandole alla luce [...] La redenzione pertanto dipende dall'avanzare di questo processo di restaurazione-cernita e dalla possibilità che l'uomo ha di portarla a termine. Ne consegue che questo compito è affidato soprattutto all'uomo, anche se resta una dipendenza dalla grazia di Dio, poiché assistiamo a una trasposizione dei concetti centrali di esilio e di redenzione dal livello storico al livello cosmico e divino. Il compito dell'uomo è di raccogliere le scintille di santità celate nel fondo di ogni realtà, scintille che sono sia nascoste che protette dalla scorza del male che le avviluppa. È compito dell'uomo liberarle dalla loro scorza e reintegrarle nell'essenza divina da cui sono state separate. Lo strumento di questo processo di restaurazione-restituzione è la legge della Torah, e l'esilio di Israele è la condizione grazie alla quale le scintille disperse possono essere ritrovate e riunite. In questo senso, possiamo dire che, attraverso il suo destino storico, Israele lavora per la Redenzione di Dio stesso [sic!]».
In questo contesto il Messia non è colui che apre l'Era Messianica, preludio a quel Mondo Avvenire col quale spesso l'Era si confonde; non è colui che realizza la Redenzione; non è neppure il principio messianico, «grandiosa immagine solitaria di un sollevamento collettivi» (Irving Howe), ma è la manifestazione stessa della Redenzione compiuta. E in effetti, assevera Klausner chiudendo il suo saggio, «la nozione di perfezione proviene dall'ardente progressismo che è parte dei fondamenti del giudaismo [...] la fede messianica ebraica è il seme del progresso, piantato dal giudaismo dovunque nel mondo». «Il Progresso, ecco, per l'ebreo moderno, il vero Messia», il Progresso, «cette notion moderne de la perfectibilité» che come la «nostra sete di giustizia e nostra ostinata speranza nella vittoria del diritto» scende dalle colline di Sion (il francese Anatole Leroy-Beaulieu).
Quel Progresso alla fine cantato, a dispetto di ogni disincanto laico e riprova d'invincibilità genetica, dal sionista Max Nordau (il budapestino Max Simon Südfeld, braccio destro del padre del sionismo Theodor Herzl): «Un'umanità senza avventure, senza guerre e rivolgimenti, senza superstizione e misticismo, senza grandiose figure audaci e fastose e senza schiere di servi ciecamente devoti, una società egualitaria composta tutta di uomini illuminati, colti, intelligenti, che sono tutti sani e morigerati, dove tutti lavorano e raggiungono una vecchiaia avanzatissima, dove tutti vivono in ordine, uniformemente ed agiatamente, sembra enormemente noiosa e riempirebbe i romantici di oggi d'un disperato desiderio di ritorno ai tempi della più antica e più selvaggia barbarie. Ma l'avvenire ci sembra così incolore e monotono solo perché il nostro occhio è educato a vedere come pittoresco l'aspetto attuale della società [...] L'avvenire sarà incomparabilmente più felice di quello che è stato il passato. La scienza agevolerà il soddisfacimento di tutti i bisogni materiali. La conoscenza ampliata e approfondita diminuirà fino a farlo quasi scomparire il male che gli uomini si fanno a vicenda e che è la parte più crudele dei loro dolori. Le gioie nobili, procurate dalle scienze e dalle arti saranno più generali e più intense, perché verranno godute con uno spirito e con un sistema nervoso sviluppati più finemente. E per la felicità acuta ci penseranno gl'istinti organici e la cenestesia della giovinezza, dell'amore, della salute, del vigore che, in un'umanità libera da cure e vivente nell'abbondanza, sarà certamente più ricca e più robusta che in un'umanità sempre inquieta e spesso indigente. L'avvenire avrà una bellezza differente da quella del presente, più naturale, più elevata, più armonica».
Ma cosa sia tale Regno, quale la sua struttura socio-economica, in realtà nessuno – neppure un Lenin, neppure un Marx – l'ha mai seriamente formulato. Infiniti sono stati, nei secoli, i progetti, le proposte di un cambiamento radicale, epperò tutti non tracciati sulla base del mondo reale, bensì sempre sognati da letterati, poeti, profeti à la Nordau o semplici folli che si proponevano di fuggire le asprezze, le contraddizioni, le limitazioni, il dolore di Questo Mondo. Il Regno – qualunque cosa significhi, comunque venga a strutturarsi – può invero essere descritto in termini quasi unicamente negativi. Esso è Altro Mondo da quello terreno, è Resurrezione, compiuta attraverso il Dettato del Padre, il Messaggio del Figlio o le ferree Leggi della Storia, è Liberazione dalla Sofferenza, dalla Divisione, dall'Ingiustizia, dalla Morte.
Come afferma il pio esegeta nella scia di un millenario sentire, in esso la violenza e la rozzezza scompariranno, passerà l'empietà, che consuma le forze migliori dei popoli. Le nazioni non saranno più devastate da cieche lotte e cruente battaglie, l'umanità non sarà più lacerata dalla discordia. E quando l'uomo, «questo essere corruttibile si sarà rivestito d'incorruzione, e questo essere mortale si sarà rivestito d'immortalità, allora si compirà la parola che fu scritta: "La morte è stata assorbita nella vittoria. O morte, dov'è la tua vittoria?"» (I Corinzi, XV 54). Non si trovano invece parole per definire in positivo il Regno e il Nuovo Essere Umano, poiché, semplicemente, manca l'esperienza di ciò che saranno: «Ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è» (I Giovanni, III 2). «Sta scritto infatti: quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (o che si sono concessi fidenti al materialismo dialettico e al progressismo illuminista).
In ogni caso le sofferenze del presente, come quelle inevitabili e maggiori del periodo di transizione al nuovo stato di cose (le «doglie messianiche», chevleh mashiach) non sono neppure lontanamente paragonabili alla gloria e alla felicità che saranno rivelate all'uomo risorto a nuova esistenza nel Regno. Dio dimorerà in mezzo agli uomini, «ed essi saranno Suo popolo ed Egli sarà "il Dio con loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. E colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"» (Apocalisse, XXI 3-5).
E quindi il mondo, satireggia – anticipando ogni mentecatto giudaico-disceso, in primis i Testimoni di Geova – il russo Ascinà, antibolscevico riparato negli anni Venti nell'Italia fascista, non sarà distrutto, poiché dopo le inevitabili Doglie, la rovina e l'annientamento, gli uomini rimasti vivi ritroveranno il buon senso, dedicandosi al perfezionamento di sé, agli studi, alle invenzioni: «Arriveranno giorni felici. Tutti gioiosi, sani, scopriranno che la vita è un giuoco. Ci sarà poca fatica per tutti. L'energia solare muoverà le macchine, ogni cosa andrà a bottoni: pigia e parti dove vuoi. La lampada di Aladino sembrerà un balocco. Le case saranno tutte volanti: volendo, atterri sul monte e, se vuoi cambiare, navighi sull'acqua e sei sempre a casa. Non ti piace il mare, fermati in alto sopra le nuvole e non ti muoverai. Di figli ne verranno pochi, a secondo della tessera. La vita dell'uomo si prolungherà a mille anni e, per chi sarà più robusto, anche a duemila. L'igiene, lo sport, i giuochi, il riposo, l'allegria. Il cibo sarà scientificamente controllato, non nocivo per l'organismo. Niente denaro, niente imbrogli, tutto abbondante, tutto per tutti. La velocità degli spostamenti sarà superiore alla velocità della luce, insensibile per noi. Fra i pianeti, tutti scoperti, si sceglierà quelli adatti per le colonie. Niente guerre, niente delitti, niente prigioni. Già al cibo saranno aggiunti elementi per l'equilibrio psichico. Gli uomini saranno sempre affabili, generosi, allegri e cercheranno una buona compagnia».
Di conseguenza il mondo del tiqqun è il mondo della riforma messianica («per i figli d'Israele è un dovere imperioso lavorare a realizzare le speranze messianiche», predica nel 1879 l'ebreo E.A. Astruc in Entretiens sur le judaïsme, son dogme et sa morale). Dell'instancabile impegno di Israele (il vero Redentore sarà non un discendente di Davide, né un Re-Messia, né una persona-Messia, sarà «non più un individuo, ma Israele trasformato in faro delle nazioni, elevato alla nobile funzione di precettore dell'umanità, che istruirà coi suoi libri come con la sua storia, con la costanza nelle prove non meno che con la fedeltà alla dottrina», c'insegna, con Drumont, il Gran Rabbino Michel Weil; «il popolo d'Israele, nel suo insieme, è rivestito di una funzione specifica: deve preparare il mondo del tiqqun, riportare tutto al proprio posto, e ha il dovere di riunire, raccogliere le scintille disperse ai quattro angoli del mondo [...] A partire da Luria non si attende più un movimento messianico determinato, legato a un Messia specificamente designato; il Messia diviene il popolo d'Israele tutto intero. È il popolo d'Israele, nel suo insieme, che con l'esempio si prepara a riparare la frattura originaria. In questo contesto si comprende come la Redenzione d'Israele, nel senso nazionale e politico del termine, sia stata vista come una prospettiva molto concreta», concorda Rabbi Ouaknin). Del suo rinato potere («non si può affermare con certezza se Isaia abbia pensato o no all'apparizione di un Messia personale [...] Certo è però che, con o senza un Messia-Re, gli ebrei costituiranno il centro dell'umanità, intorno al quale si raggrupperanno, dopo la loro conversione, i non-ebrei. I popoli si uniranno per prestare omaggio al Popolo di Dio. Tutte le ricchezze delle nazioni passeranno al popolo ebraico; esse staranno al seguito del popolo ebraico e si getteranno ai suoi piedi», conferma Rabbi Isidore Loeb, La littérature des pauvres dans la Bible, 1892).
Condizioni, tutte, imprescindibili per la salvezza dei popoli («il giorno di sabato saranno tutti congiunti in uno e tutti avranno un unico sabato», recita il Sefer ha-Temunah, "Libro della Figura").
Il tiqqun è capovolgimento gerarchico nelle cose terrene, eliminazione dell'impurità dal mondo. Ed anzi, con più conseguente radicalismo, il tiqqun non è tanto un miglioramento del mondo, quanto la creazione di un mondo nuovo, di un mondo altro, ontologicamente diverso da quello conosciuto dall'uomo negli infiniti millenni della sua storia. Di un mondo non situato in uno spirituale Aldilà ma in un concreto Aldiquà: «Il Regno di Dio è la comunità ventura, quella in cui tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia saranno saziati» (Martin Buber, Der heilige Weg, 1920).
Il Maestro talmudico dichiara infatti, conferma Rabbi Isadore Goodman nell'eulogia rooseveltiana Man, Creator of God' Kingdom, "L'uomo, creatore del Regno di Dio", che «"ogni cosa è in potere del cielo, eccetto la paura del cielo" [Berakot 33b, oltre a Maimonide prefatore di Abot II 15 e Hilkhot Teshuvah V 2/1]; ogni cosa è in potere del cielo, eccetto l'istituzione del Regno di Dio sulla terra; questo dipende dall'uomo. Quando Dio creò l'uomo, gli conferì il dono e il potere di creare veri mondi. E il "Regno del Cielo" non è un atto di Dio, è l'unico atto lasciato all'uomo, è con gli atti virtuosi dell'uomo, è coi suoi misfatti maligni, che il Regno viene creato o rimandato».
Ed è ancora Buber, figura centrale del giudaismo novecentesco, «l'apostolo dell'ebraismo presso l'umanità» (almeno a sentire il goy Enzo Bianchi, prefatore de La leggenda del Baal-Shem), a porre nel punto focale dell'idea messianica il concorso attivo dell'uomo alla redenzione in quanto partner di Dio, del quale, in quanto «gemello» e controparte, ritiene immagine e somiglianza (l'unica differenza tra i due, afferma l'antropologia giudaica, è che l'uomo dorme, mentre Dio non dorme mai).
Uomo che trasforma la realtà («I filosofi hanno solo interpretato diversamente il mondo; si tratta ora di cambiarlo», aveva cantato il Rabbino Trevirense nel Manifesto del Partito Comunista), «co-worker of God, cooperatore di Dio» per destino (così Samuel Cohon, docente di Teologia Ebraica allo Hebrew Union College, ricalcando l'ex-Shaul di I Corinzi, III 9: «infatti noi siamo collaboratori di Dio»; per converso, Dio è il «co-pilota» dell'uomo, predica nel febbraio 1999 su Moment, il più diffuso mensile ebraico-americano non-confessionale, Rabbi Sherwin Wine, fondatore del laicizzante Humanistic Judaism).
Fantasmatica giudaica, sottolinea David Noble, discesa nei secoli fino a quella «co-creazione» non solo permessa ma imposta dall'Onnipotente agli esseri umani (vedi lo schema millenarista di Gioacchino da Fiore, per cui l'uomo diventa, attraverso la storia, partecipe della propria redenzione e, di conseguenza, della ricostruzione della creazione per il compimento del piano provvidenziale per l'universo; vedi il filosofo rinascimentale Marsilio Ficino: «L'uomo agisce come vicario di Dio poiché domina tutti gli elementi e li coltiva e, presente sulla terra, non è assente dal cielo»; vedi il Bacone dell'Instauratio Magna e della Nuova Atlantide). Esseri umani che sono gli ausiliarii, i co-esploratori, gli amministratori e i «gestori della creazione di Dio» (vedi gli «ingegneri genetici», e più in generale i tremila scienziati membri dell'American Scientific Affiliation, operanti, recita il saggio di V. Elving Anderson, docente di Genetica all'Università del Minnesota, scritto nel 1994 con Bruce Reichenbach, On Behalf of God, "Per conto di Dio", per «cambiare la creazione in meglio»).
Espressioni ribadite dal Servus Jesus Reinhard Neudecker, doctor in theologia a Monaco e Innsbruck e in philosophia allo stesso HUC, docente di Letteratura Rabbinica al Pontificio Istituto Biblico: «Dio e Israele, in quanto compartecipi o partner, sono legati l'uno all'altro. Insieme vanno in esilio, insieme fanno ritorno», poiché: «Quando essi [gli israeliti] un giorno ritorneranno dall'esilio, ritornerà, per così dire, anche la shekinah insieme con loro, come è detto: "E ritornerà il Signore, tuo Dio, con i tuoi deportati" [Deuteronomio XXX 3]» (in Mekhiltà de-Rabbi Ishmael Bo 14).
Identico delirio nel «grande» rabbino «italiano» Elia Samuele Artom: «La funzione che Israele deve compiere è essenzialmente quella di preparare con i suoi atti esemplari e disciplinati dalle prescrizioni della Torah la venuta del tempo in cui tutti gli uomini riconosceranno di fatto quello che si chiama malkut shamajim, Regno dei Cieli, cioè la sovranità dell'Unico Dio, creatore, padrone e regolatore del mondo. Tale funzione può essere adempiuta da Israele solo se esso vive come popolo libero e indipendente nella terra che il Signore gli ha data [...] Così la redenzione d'Israele e il rinnovamento spirituale del mondo sono, nel pensiero ebraico, elementi l'uno dall'altro inscindibili» (in La vita di Israele, 1937, trionfalmente riedito nel 1993).
«Si è detto» – conferma Rabbi Lawrence Hoffman, sottoscrivendo l'insegnamento di Rabbi Morris Kertzer – «che è possibile riassumere l'intero credo ebraico in queste tre parole: Dio, Torah, Israele. Come usano dire i mistici, "Dio, la Torah e Israele sono un tutt'uno". Se perdiamo la fede in uno qualsiasi di questi elementi, gli altri due periranno velocemente. La realtà di Dio [il Dio della creazione, della rivelazione e della redenzione], la virtù e le potenzialità di ogni individuo, l'eterno patto che il Popolo d'Israele ha fatto con Dio e la guida, il conforto e la saggezza della Torah, questi sono i fondamenti del nostro credo [...] Noi siamo i partner di Dio. Dio ha creato un mondo fisico: il corso delle stelle, le stagioni, l'ordinata crescita della natura, tutte le leggi della fisica, della chimica e della biologia. Ma noi esseri umani possiamo modellare le nostre stesse vite con comportamenti che creino un paradiso sulla terra».
L'eredità dei Padri, la Terra Santa, la Città Eterna reintegrata sotto il dominio di Israele, l'unità futura del genere umano, il Messia ed il Regno sono un'unica, inscindibile realtà. L'indivisibilità di teologia e politica, ben rileva Schalom Ben-Chorin, scaturisce dalla struttura stessa dell'ebraismo; solo dalla Terra Promessa prenderà avvio la Redenzione divina, processo impensabile senza l'abbattimento del Giogo delle Nazioni (Shibud Malkhuta), senza la totale sovranità del Popolo Eletto (Am Segulah), del Popolo Sacerdotale (Am Kohanim) sull'intera Eretz Israel: «Il re messianico sorgerà nel futuro e restaurerà il regno di Davide nella sua potenza di un tempo. Ricostruirà il tempio e radunerà i dispersi di Israele. E tutti i precetti della legge torneranno ad avere vigore come un tempo. Si offriranno sacrifici e si osserveranno nuovamente l'anno sabbatico e l'anno giubilare secondo la legge, come è comandato dalla Torah. Chi però non crede in lui o non attende la sua venuta, rinnega non solo gli altri profeti, ma anche la Torah e il nostro maestro Mosè, perché la stessa Torah lo testimonia [...] I sapienti e i profeti non hanno desiderato che il tempo messianico giungesse per poter dominare il mondo o ridurre in loro potere i pagani o per essere esaltati dai popoli, o per poter mangiare e bere a sazietà, ma per poter trovare il tempo di studiare la Torah e la sua spiegazione, e perché nessuno li potesse ostacolare in questo loro lavoro» (Maimonide, Mishneh Torah XI e XII). ***
*** La redenzione dei Figli di Israele per il Mondo Avvenire avverrà, secondo il tannaitico Rabbi Joshua su Esodo XII 42, la notte del 14 del mese di Nisan-aprile, giorno nel quale gli ebrei furono liberati dalla schiavitù egizia (la fine dell'Esodo viene celebrata istituendo la Pasqua dal 621 a.e.v.), mentre il suo rivale Rabbi Eliezer, basato su Salmi LXXXI 4-5, pone l'epoca nel mese di Tishri-settembre: vedi Klausner su Mekhiltà, Bo', Pisha, cap.XIV, 16b nell'edizione Friedmann.
Come che sia, il Nuovo Eden sarà chiuso agli «idolatri» e agli «ingiusti»: «Il Giardino misura trecentomila anni. Laggiù vivono in pace tutto Israele e i proseliti di rettitudine. Invece i giusti perfetti, i patriarchi del mondo, i dieci martiri e coloro che sono stati provati dalle persecuzioni religiose, che si sono dati alla morte per il Dio unico, tutte queste anime risiedono in alto e ogni giorno scendono presso le anime dei giusti che si trovano nel giardino dell'Eden [...] Su poltrone di gemme e perle con sedili imbottiti essi siedono, inneggiando ed esaltando il Santo, sia Egli benedetto, che dà vita ai mondi, e ognuno gode a propria misura dello splendore della shekinah. Fra Questo Mondo e il giardino dell'Eden si trova la spada che da fuoco rovente si tramuta in gelida grandine e da grandine in tizzoni ardenti, affinché nessun uomo possa accedervi da vivo, come è detto: "Pose a oriente del giardino di Eden i cherubini" [Genesi III 24]. La fiamma della spada misura dieci anni, e quando le anime di Israele entrano nel giardino dell'Eden si immergono in duecentoquarantotto fiumi di balsamo ed essenza, poi vengono introdotte a godere dello splendore della shekinah, ognuna secondo le proprie opere e la propria dottrina» (l'alto-medioevale Midrash Konen su Proverbi XII 9: «Il Signore con la sapienza fondò la terra»).
«Nei giorni del Messia [yamot ha-mashiah, in Berakot 12b]» – ribadisce il midrashico Alfa Beta de-Rabbi Aqiba, certificando che «il Mondo Avvenire è tutto di sabato» – «cadranno di bocca i denti di coloro che divorano la ricchezza d'Israele, finendo lontani ventidue braccia, sì che tutti vedendo diranno: Di quale colpa si sono macchiati, visto che gli cascano i denti di bocca? E così sarà loro risposto: Poiché hanno divorato la ricchezza d'Israele, che è santo al Signore, così come avviene per la prelevazione dell'offerta: chiunque ne mangia viene destinato all'eliminazione, come è detto: "Cosa sacra al Signore era Israele, primizia della sua rendita, quanti la divoravano si rendevano rei, la sventura cadeva su di loro" [Geremia II 3] [...] Quando giungerà il Messia per Israele scenderanno con lui Mikael e Gavriel, principi delle schiere, principi santi e nobili, che lotteranno con i malvagi dalle tre alle nove [sic!: mirabile precisione!], uccidendo 19.000 miriadi di malvagi incalliti fra le nazioni del mondo, com'è detto: "Scompaiano dal mondo i peccatori" [Salmi CIV 35]».
In ogni caso, «nel Mondo Avvenire [haOlam haBah o, all'inglese: the World to Come] non si mangia né si beve, non c'è riproduzione della specie; ma i giusti siedono con corone sulle loro teste, godendo della luce della Shekinah, come è scritto [Esodo XXIV 11]: "E contemplarono Dio, poi mangiarono e bevvero" [cioè: la visione di Dio sostituisce il mangiare ed il bere]» (baraita Kallah Rabbathi, cap.II, la cui concezione è ripresa quasi letteralmente da Berakot 17a, che aggiunge: «non ci sarà disbrigo di affari, né gelosia, né odio, né liti»).
«L'idea messianica e l'idea apocalittica» – commenta puntualmente Sergio Quinzio – «inseparabili secondo Gershom Scholem, rinviano al futuro e per ciò stesso contestano escatologicamente l'ordinamento attuale del mondo, facendo così cadere sugli ebrei l'accusa di essere dei pericolosi ribelli. Dei ribelli e, insieme, degli uomini che per una stolta illusione vivono nel futuro, anziché nel presente, e cioè vivono di una speranza assurda che spesso li condanna all'insoddisfazione, all'isolamento, all'angoscia, alla disperazione [...] Già in questa millenaria tensione ebraica tra presente e futuro si celano le aporìe che noi vediamo oggi manifestarsi nell'idea di progresso, l'idea che caratterizza nel modo più tipico, e addirittura definisce, la modernità. La prospettiva del progresso ci sospende infatti tra il presente, che viviamo sempre come inadeguato alla pienezza che attendiamo, e un futuro che immancabilmente, commisurato alle nostre aspettative, ci elude via via che sembra avvicinarsi alla trasformazione, alla liberazione, alla salvezza, alla redenzione del nostro mondo e della nostra vita».
Ed ancora: «Dire che a contare veramente è il futuro è dire che il tempo di cui abbiamo fatto e facciamo esperienza – il passato e il presente – non ha solida consistenza, non è sostenuto da nessun necessario immutabile logos. Quello che nelle religioni e culture "pagane" è il cosmo, nell'ebraismo è la storia, e la storia è totale contingenza, come è espresso già dall'idea stessa di creazione. Totale contingenza e totale rischio. Il compito dell'uomo non è più quindi di uniformare se stesso all'ordine delle cose, alla "necessità dell'essere", ma di agire nel mondo per trasformarlo secondo la promessa di Dio. Il fare diviene ben più fondamentale del sapere, del rispecchiare cioè la realtà data, il cui "destino" è di essere superata (e apocalitticamente negata) da quella del "nuovo eone" che deve venire. Il pungolo essenziale alla trasformazione del mondo e all'operare dell'uomo per questa trasformazione che è insieme opera di Dio e dell'uomo obbediente alla sua Legge è questo, che sarà poi il lievito della modernità. In esso, la vicinanza nel Patto e la cooperazione fra Dio e uomo, che erano già concetti ebraici, finiscono per diventare, attraverso il cristianesimo che ha annunciato la venuta dell'Uomo-Dio, l'opera divina dell'uomo. L'idea del regno messianico diventa allora l'idea del progresso storico, l'idea del regno di Dio diventa l'idea del regno dell'uomo».
Uomo guidato da tutti quei primi e maggiori Ammaestrati jahwisti, quei Weltverbesserer, "Riformatori del Mondo", che vogliono impadronirsi del potere per compiere quella redenzione che accadrà solo «alla fine dei giorni», quei Dochakei haQetz, «Acceleratori della Fine», cui è compito annunciare, perseguire, forzare l'Avvento del Regno: «Della missione degli stessi ebrei e della loro posizione nel mondo, Filone di Alessandria ha la concezione più nobile e ideale. Per quanto il cielo e la terra appartengano a Dio, Egli ha scelto il popolo ebraico come Suo popolo eletto e lo ha destinato al Suo servizio quale fonte eterna di ogni virtù [as the eternal source of all virtues]. Gli israeliti hanno, secondo lui, preso su di sé il grande compito di servire l'intera razza umana quali sacerdoti e profeti; di partecipare ai popoli la verità e, soprattutto, la pura conoscenza di Dio. E perciò il popolo ebraico gode della speciale grazia di Dio, che mai ritrarrà da lui la Sua mano» (l'autore di The Jewish Question, 1894; segnaliamo che la presunzione dell'elezione afferra anche i Fratelli Minori, vale a dire i cristiani, che fin dal II secolo si autodicono «la parte aurea» dell'umanità, «Israele di Dio», «popolo eletto», «popolo santo», «tertium genus hominum, terza stirpe umana», etc.). ***
*** L'espressione «Acceleratori della Fine» è stupenda al pari degli ebrei quali «sacerdoti dell'Eterno» (Isaia LXI 6), «cuore dolorante delle nazioni», «i figli d'Israele per i quali fu mutata l'essenza delle cose ed altre cose furono create ex novo» (il rabbino Jehudah ha-Levi autore del Sefer ha-Kuzari, «una delle glorie dell'ebraismo medioevale»), «strumento della giustizia divina [che] vendica l'onore dell'umanità oltraggiata» (Elia Benamozegh), «medici dell'umanità» (Otto Rank, 1905), «Lehrer und Wegweiser, maestri e guida per tutti i popoli» (Hoennicke, 1908), «redentori dell'umanità» (Max Brod, 1915), «Messia dei popoli» (Gustav Landauer, 1917), «esercito di Dio», «coscienza del mondo» e «specchio all'umanità» (Max Ascoli, 1924), «gli avamposti più minacciati dell'umanità» (Joseph Roth, 1935), «i più perseguitati tra tutti gli esseri umani sulla faccia di questa terra» (Israel Weisfeld, 1948), il «rappresentante vicario della sofferenza umana» (Hermann Cohen), l'ebreo «custode di valori universali» per cui «se un ebreo muore, la sua morte sarà per la causa della vita di ogni uomo; nessuno può chiedere una ricompensa più alta» (Waldo Frank; «gli ebrei sono un'Idea fatta carne»: Albert Cohen, ibidem), il popolo che «darà al mondo un esempio del particolare: una nazione, che serve non se stesso ma l'universale: la comunità degli esseri umani» (il teologo protestante Reinhold Niebuhr, ibidem), il «popolo precorritore» (Clemens Thoma), i «testimoni della luce divina» per «vocazione ontologica» (André Neher), i «guardians of God's reputation in the world, guardiani del buon nome di Dio nel mondo» (Edward Bristow). Infine, il Piccolo Popolo del francese Augustin Cochin, i Nati Altrove (inorodtsy) della legislazione zarista.
Ed ancora: «Gli ebrei furono e sono i capi dove l'incondizionato si impone, dove si fa piazza pulita» (Jakob Wasserman, Mein Weg als Deutscher und als Jude, 1921), poiché «siamo la scommessa di Dio nella storia umana. Siamo l'alba e il crepuscolo, la sfida e la prova. Com'è strano essere ebrei e smarrirsi nei perigliosi compiti dati di Dio» (Abraham Joshua Heschel, The Earth is the Lord's, «La terra è del Signore»), al punto da far dire a Chaim Bermant, in The Encyclopedia of Judaism, con intollerabile legittima impudenza, che «gli ebrei operano come visibile prova di una presenza invisibile. Gli ebrei sono, perciò Dio è [The Jews are, therefore God is]».
Delirio propalato e vantato, in successione, dal super-rabbino «italiano» Elia Benamozegh: «Per l'ebraismo il mondo è come una grande famiglia dove il padre vive in contatto diretto coi figli che sono le diverse nazioni della terra. Tra i figli c'è un primogenito che conformemente alle vecchie istituzioni era il sacerdote della famiglia [...] Israele è il primogenito, incaricato di insegnare e amministrare la vera religione dell'umanità di cui è sacerdote. Questa religione è la legge di Noè: è quella che il genere umano abbraccerà nei giorni del Messia e che Israele ha la missione di conservare e fare prevalere a tempo debito» (in Israele e l'umanità, 1914) e dai «francesi» Jean Izoulet: «L'idea dell'unificazione progressiva del globo è un'idea in marcia. Ma essa è generalmente abbinata ad un'altra idea, l'idea di pacifismo e di disarmo immediato e universale [...] C'è un'ultima e prima religione, che non ha nulla di regionale e locale e che è presente ovunque, una religione internazionale e intercontinentale, in una parola, una religione planetaria. È il mosaismo d'Israele [...] Se Israele aspira all'impero del mondo, ne ha tutto il diritto» (Paris capitale des religions, ou La mission d'Israel, 1926) ed Elia Eberlin: «Israele compie instancabile la sua missione storica di redenzione della libertà dei popoli, di Messia collettivo dei Diritti dell'Uomo» (in Les Juifs d'aujourd'hui, 1927).
Ed egualmente, oltreoceano, il rabbino ricostruzionista Mordecai Menahem Kaplan: «Come un individuo, il popolo ebraico ha un obiettivo dominante che indirizza la sua esistenza, o funzione, e non dubita di essere lo strumento più efficace per raggiungere questo obiettivo. Lo scopo della sua esistenza in quanto popolo, come concepito dai nostri antenati in epoca biblica, è chiaramente delineato chiaramente da Isaia XLIII 12. Così un passo dice: "Voi sì, siete i Miei testimoni, che io sono Dio"; e un altro: "Questo popolo ho costituito, per fare conoscere la mia grandezza [la Bibbia Concordata ha: "Il popolo che mi son formato, narrerà le mie lodi"]" (XLIII 21)».
«Un'idea di questi profeti pastorali ad un tempo poeti e politici» – commenta nel 1944 lo scrittore ebreo americano Waldo Frank – «fu che adorare Dio significava praticare misericordia e giustizia per tutti gli uomini. Una seconda idea, che la storia dell'umanità fosse la progressiva realizzazione dell'amore, della Regola Aurea. Una terza idea, che ogni uomo e ogni donna, qualsiasi fossero la loro razza o condizione, essendo figli di Dio, possedessero una dignità sovrana, una responsabilità individuale, nella realizzazione del piano divino di giustizia terrena. Così nacque, oltre due millenni prima della scoperta dell'America, la Promessa Americana e la Missione Americana. Allora si concepì, da un piccolo popolo di pastori e contadini, l'idea di democrazia che vede oggi i suoi nemici incarnati nella Germania e nel Giappone».
«Secondo le concezioni talmudico-rabbiniche» – aveva commentato fin dal 1886 l'«antisemita» Adolf Wahrmund in Das Gesetz des Nomadentums und die heutige Judenherrschaft, "La legge del nomadismo e l'odierno dominio ebraico" – «il cammino degli ebrei sulla terra è una guerra di conquista, non altro. Essi si considerano soldati in marcia, che accampano nascosti o che operano coperti da false bandiere – nel mezzo del nemico, sempre in attesa del segnale di attacco [...] Il punto focale delle visioni e delle allucinazioni semitiche, in particolare di quelle ebraiche, è l'incondizionato dominio sugli altri, conquistato dagli ebrei con l'ultima cruenta svolta epocale, la battaglia decisiva nella valle di Iosaphat (Gioele, II e IV): "E dopo questo avverrà che io effonderò il mio spirito su ogni creatura e i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri vecchi avranno dei sogni e i vostri giovani delle visioni [...] Gridatelo fra le nazioni, bandite una crociata santa, svegliate i prodi, s'avanzino e salgano tutti gli uomini di guerra"... alla battaglia nella Valle della Decisione, dopo la quale, secondo i rabbini, s'aprirà il Regno messianico. Allora, secondo lo Jalkut Shimoni, verranno i goyim sopravvissuti, leccheranno la polvere sotto i piedi del Messia, cadranno sui volti e diranno: "Vogliamo servirti ed essere servi dei Figli di Israele. E ogni israelita avrà duemilaottocento servi".
Gioele profetò intorno al 950 a.C, lo Jalkut Shimoni fu scritto due millenni dopo, intorno al 1050; nell'appello che [nel 1860] il nostro contemporaneo [Isaac Moïse/Aron dit Adolphe] Crémieux ha inviato al mondo per la fondazione dell'Alliance Israélite Universelle si afferma: "Le venerabili profezie dei nostri libri sacri si compiranno. Verrà il giorno in cui Gerusalemme sarà casa di preghiera per le nazioni (unite sotto la signoria di Israele), in cui le bandiere del monoteismo ebraico sventoleranno sui lidi più lontani. Cogliamo ogni occasione! Grande è il nostro potere, impariamo ad usarlo! Cosa dobbiamo temere? Non lontano è il giorno in cui le ricchezze della terra apparterranno tutte agli ebrei (les richesses de la terre appartiendront exclusivement aux Juifs)"».
Gli ebrei, conferma vigoroso Leon I. Feuer nel 1942, «had been chosen to bear the yoke of His law, to be the vicars and witnesses of His truth upon hearth, sono stati scelti per portare il giogo della Sua legge, per essere vicari e testimoni della Sua verità sulla terra. Essi hanno la responsabilità, da cui non possono sfuggire [an inescapable responsibility], di preservare la religione giudaica, e furono determinati a farlo al prezzo di sacrifici e senza compromessi».
Compito altissimo e unico, per il quale il dovere di Israele è di conservarsi distinto dalle nazioni, non cercarne la conversione, perché, virtuoseggia Elio Toaff, caporabbino in Roma, «noi non vogliamo che il mondo sia tutto di ebrei, noi vogliamo che il mondo sia formato di uomini che credono nel Dio unico, creatore del cielo e della terra. Questa è la missione del popolo ebraico. Tale popolo si dice eletto non perché sia migliore degli altri, ma perché è stato scelto per svolgere la missione di portare tutti i popoli a credere nel Dio unico». ***
*** Il termine «eletto» è definizione di trimillenaria ascendenza, fin dal dono cioè della Torah, alle prime luci del sesto giorno di Siwan, anno 2448 della Creazione, ovviamente un Sabato. Derivato dalla radice semitica bhr – da cui il babilonese beh—ru, «scegliere, arruolare truppe» – il participio passato ebraico b~hìr, «prescelto», viene sostituito nel linguaggio religioso dall'aggettivo sostantivato b~h°r, «eletto». In verità, a definire la missione dell'ebreo nel mondo, ancora più pregnante di Eletto è, a parer nostro, il termine Arruolato.
Concetti ribaditi da Michael Wyschogrod, preside del dipartimento di Filosofia al Baruch College dell'Università di New York: «Tradizionalmente il popolo ebraico fu detto Knesses Israel, "Assemblea d'Israele". Non fu una sommatoria di individui. La Knesses Israel fu l'interlocutore [dialogue partner] di Dio. Fu il popolo ebraico nella sua totalità, che entrò nel patto, visitò Dio, credette e fu incredulo, eletto e sofferente. Abbracciò tutti gli ebrei, presenti, passati e futuri. Ogni ebreo fu ebreo in virtù della partecipazione alla comunità. Nei punti cruciali della storia ebraica fu questa comunità a compiere le scelte, a selezionare le opinioni. Fu essa, la comunità cui si rivolsero i profeti, ma fu anche essa, quella da cui uscirono i profeti [...] Il popolo circonciso d'Israele è l'oscura, carnale presenza attraverso cui la redenzione si apre il cammino nella storia. La salvezza si compie attraverso gli ebrei, perché la carne d'Israele è la dimora della presenza divina nel mondo. È l'àncora carnale che Dio ha affondato nel terreno della creazione».
Concludendo con un richiamo all'Anabasi l'opera The Eternal Dissent - A Search for Meaning in Jewish History, "L'eterno dissenso - Indagine sul significato della storia ebraica" – e dopo avere affermato che l'elezione non è per Israele «un titolo o un encomio, ma un mandato etico [...] non una condizione o uno stato, ma un ruolo [...] l'elezione è più di una vocazione, è un cimento», Israele essendo stato scelto «quale entità etica e strumento per i fini di Dio» – David Polish, direttore della Cornell University, rabbino a Cedar Rapids/Iowa, fondatore del Temple Beth Emet di Evanston/Illinois e presidente della Chicago Rabbinical Association, aggiunge: «Questa [quella dei greci di Senofonte] è una storia davvero eroica. Una storia immortale. La nostra è però la storia non di un esercito, ma di un intero popolo, non di diecimila uomini, ma di miriadi; non di una singola ritirata, ma di innumerevoli sconfitte; non di un tradimento, ma di molti; della fuga non attraverso un solo paese, ma attraverso continenti e continenti; di una prova durata non mesi, ma quattromila anni. Ma quando gli ebrei si mossero, per lontani che potessero essere da casa, erano spinti da una Voce Interiore: "Banim atem L'Adonoy, Siete i figli di Dio"».
«To be Jewish means to be chosen, or it means nothing at all» – ribadisce con forza il lettore di Moment E.A. Addington contro ogni pur benintenzionato tentativo di trovare al giudaismo una dimensione laica – «Essere ebrei significa essere eletti o non significa nulla; ed essere eletti deve significare essere scelti da qualcuno, per fare qualcosa [...] Ciò che fondamentalmente definisce il popolo ebraico non è una storia condivisa o un'esperienza culturale o il "destino sociale" (qualunque cosa ciò voglia dire), ma piuttosto l'onore e il fardello di essere chiamati, trascelti tra l'intera umanità, per proclamare al mondo l'esistenza e la santità di un unico Dio vero e vivente. Spogliato da questo scopo divino, il giudaismo diventa nulla più che uno stupido anacronismo, un club etnico e sociale bizzarro/antiquato [quaint] ma fondamentalmente privo di scopo, con pretese morali e filantropiche».
«Sono un ebreo appassionatamente laico e agnostico» – concorda su altro registro nel maggio 1992 l'attore Richard Dreyfuss (il co-protagonista di Jaws, «Lo squalo» di Steven Spielberg, 1975), intervenendo ad una raccolta di fondi degli American Friends of the Israel Museum of the Diaspora – «che crede sinceramente che gli ebrei sono il Popolo Eletto, come è detto. Credo che siamo scelti per redimere la condizione umana [I believe we are chosen to illuminate the human condition]. La nostra etica è la vittoria più grande dell'umanità».
«La storia ebraica» – ribadisce l'ex-«tedesco» dottore in legge W. Gunther Plaut, Senior Rabbi del torontico Holy Blossom Temple e one of Canada's best known rabbi-authors – «in tutte le sue manifestazioni riflette un solo tema, o meglio, una sola convinzione: Israele fu il popolo scelto da Dio. La storia ebraica fu tracciata fin dai giorni di Abramo. I suoi discendenti furono numerosi come la sabbia del mare e saranno una benedizione per l'intera umanità. Attraverso epoche di speranza e disperazione, di agonia e vittoria, questa antica promessa fu vista chiaramente e gli storici del popolo ne registrarono fedelmente il lento ma inevitabile compimento. Se Israele è fedele, il piano di Dio giungerà a compimento; se Israele diviene davvero "un regno di sacerdoti ed un popolo santo", il mondo intero vedrà la salvezza»; ma ciò, solo con la «missione dinamica», col concorso attivo, «perché non fu abbastanza essere il popolo della Sua scelta, amato e punito come nessun altro. Non è abbastanza essere un oggetto, neppure d'amore. Bisogna essere un partner attivo, nelle imprese umane come in quelle divine. Se Israele ha bisogno di Dio per marcare il proprio destino, altrettanto Dio ha bisogno di Israele per realizzare i Suoi piani».
«Non sta a te finire l'opera, ma non sei neppure libero di sottrartene», sprona Rabbi Tarfon in Abot II 21 (e Pirqe Abot II 19/16). L'uomo infatti, concorda il fondatore del cristianesimo – il nabi la-goyim, «profeta delle nazioni», l'ex Rabbi Shaul in piena sintonia coi farisei e con la «quarta filosofia» di Giuda il Galileo – non è condannato all'attesa né tenuto alla contemplazione: «Sappiamo che tutta la creazione geme e soffre i dolori del parto; ma attende la sua liberazione da noi, che siamo i primogeniti dello Spirito» (Romani VIII 22-23, come citato da Benamozegh). Mosso dalla kavannah – l'«intenzione» che, secondo il Talmud, deve accompagnare l'adempimento dei precetti, l'«anima dell'azione» – l'uomo deve muoversi ed operare con le proprie forze, deve attivarsi ed agire, poiché, come insegna la mistica dello Zohar, ogni «accadere superiore» necessita di uno stimolo da parte dell'«accadere inferiore».
Concetto sviluppato due millenni dopo dal «francese» Edmond Fleg né Flegenheimer: «Sono ebreo perché per Israele il mondo non è finito, lo finiscono gli uomini; sono ebreo perché per Israele l'uomo non è creato, lo creano gli uomini» e, nuovamente, da Buber: «Il teologumeno ebraico centrale, non formulato, non dogmatico, ma che fa da sfondo e coesione a tutta la dottrina e profezia, è la credenza nella partecipazione dell'azione umana all'opera di redenzione del mondo» (Das messianische Mysterium, conferenza tenuta a Berlino il 6 aprile 1925).
Redenzione che potrà presentarsi – dopo le catastrofiche Doglie che porteranno il mondo sulla soglia della distruzione – solo quando sarà crollata ogni barriera tra i popoli. Popoli infine riuniti, dopo il tormentato cammino della Storia, sotto un Unico Governo Mondiale, precisamente sotto il Governo dell'Unico Dio e la Signoria di Israele: «L'Europa Occidentale e l'Europa Orientale diverranno federazioni di stati autonome con un regime socialista e democratico. Tranne l'URSS, stato federato eurasiatico, gli altri continenti si uniranno in un'unica alleanza mondiale, e questa disporrà di una forza di polizia internazionale. Tutte gli eserciti saranno aboliti e non ci saranno più guerre. A Gerusalemme le Nazioni Unite – le vere Nazioni Unite – edificheranno un santuario dei Profeti che coadiuverà l'unione federale dei continenti; là siederà la Corte Suprema dell'Umanità, che comporrà tutte le controversie e le dispute che sorgeranno nella federazione dei continenti, come profetizzato da Isaia» (il «laico» Ben Gurion, capo del governo israeliano, ad Amram Ducovny, sul settimanale Look, 16 gennaio 1962, riportata in David Ben Gurion - In the own words, 1968 e in Hans Schmidt, End Times / End Games, 1999).
Quando fra tre decenni l'attuale Sistema sarà crollato – e sarà un crollo totale come fu per le Twin Towers del World Trade Center – sotto le proprie contraddizioni, in primo luogo economico-produttive prima che di politica internazionale, sarà quindi facile anche per l'uomo della strada accorgersi che nel Novecento sono state scagliate contro l'Europa, da parte di un potere all'inizio sfuggente ma via via più palese in quanto uscito sempre più allo scoperto, quattro guerre. Palesi e classiche le prime due, e cioè la Grande Guerra e il Secondo Conflitto mondiale. Assolutamente non convenzionali le due altre: la Colpevolizzazione Olocaustica, tesa a creare nuovi paradigmi storici e martellanti immaginarii esistenziali, e quindi a plasmare nuovi cervelli, e l'Invasione Terzomondiale. ***
Invero, la questione della «immigrazione» terzomondiale verso il ricco «Nord del mondo», in particolare verso l'Europa, è oggi non solo uno tra i più aspri problemi che agitano la pubblica opinione – un'opinione disorientata, frastornata, irretita e conculcata dai detentori del potere, dai loro ideologi e da ogni maestrina demo-umanitaria, un'opinione che considera, inquieta, i singoli alberi senza accorgersi che sono parte di una foresta – ma è, semplicemente, il problema capitale del nostro tempo. Quello la cui soluzione, seppure parziale, potrà o non potrà permettere la soluzione di ogni altro problema. Da quello primario dello sfacelo etnico delle nazioni, in particolare delle nazioni europee, a quelli di un corretto vivere sociale, della disoccupazione e di una più equa produttività industriale, fino a quello della salvezza dell'intera natura.
*** Usiamo i termini «terzomondiale» e «Terzomondo» non tanto nel senso stretto, coniato nei primi anni Cinquanta, di paesi «non allineati» o «in via di sviluppo», quanto comprendendo anche la Turchia e i frammenti dell'ex Secondo Mondo comunista, in particolare quelli più disastrati dall'implosione del Radioso Avvenire: Albania, Romania e Jugoslavia.
Aspetto, quindi, la questione dell'invasione scagliata contro l'Europa da quasi un ventennio, di discrimine assoluto, non patteggiabile. Aspetto che separa e sempre più nettamente separerà gli individui, le analisi e le proposte politiche, le visioni del mondo.
Da una parte coloro che individuano nella riconquista dell'identità nazionale e della sovranità statuale l'unica possibilità, e sottolineiamo: possibilità, di sopravvivenza dell'Europa – di se stessi, della memoria dei Padri, del futuro dei figli, di una trimillenaria cultura e di un irripetibile ambiente naturale – nonché, inscindibilmente intrecciata, l'unica possibilità di una più naturale, vale a dire: morale, organizzazione delle relazioni tra le nazioni.
Dall'altra coloro che, pervasi da allucinata incapacità di capire o da poco celata malafede, cavalcano impostazioni concettuali scaturite da una trimillenaria visione religiosa estranea all'ethos e agli interessi europei. Visione che, nutrita dalla più perversa volontà di mutare lo statuto ontologico del mondo – dell'uomo come della natura – sta portando l'intero pianeta – popoli e natura – nel caos e nella disperazione.
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I pretesti per l'invasione
A parte la maligna volontà dei più conseguenti liberali, quelli che propugnano la politica della «porta aperta» in nome del buonismo universale e del diritto cosmopolitico, *** e dei più conseguenti liberisti, quelli che rigettano ogni restrizione alla circolazione di merci, capitali, bestie e uomini, *** nel campionario degli invasionisti questi sono i pretesti più abusati:
*** Come ha fatto nelle tesi elettorali radicali del 16 aprile 2000 la mondialista filo-droga filo-aborto filo-invasione (il tutto: droga-aborto-invasione, ovviamente, «legale») Emma Bonino, commissaria dell'Unione Europea: «L'immigrazione non è una minaccia da cui noi dobbiamo difenderci con la forza né una disgrazia di altri da affrontare con la solidarietà e la carità [...] poiché molti sono i paesi prigionieri di una povertà estrema, ed è un diritto inalienabile di ogni essere umano fuggire la povertà e trovare, dove può, un lavoro per salvaguardare la dignità propria e della propria famiglia».
*** Tra i mille, vedi l'Innocenzo Cipolletta boss confindustriale e adepto Bilderberg Group: «Fissare un tetto, indicare numeri precisi ha il sapore del mercato degli schiavi. Se crediamo fino in fondo alla globalizzazione, il discorso non deve valere solo per le merci: lasciamo che le persone circolino liberamente, entrino ed escano dai nostri confini. Vedrete che l'intera società ne trarrà enormi vantaggi», in Zuccolini R., Cipolletta: ampliamo gli ingressi, il mercato assesterà domanda e offerta, «Corriere della Sera», 8 dicembre 1998, concetti ribaditi in Zuccolini R., Cipolletta: aboliamo i limiti di ingresso per i lavoratori, «Corriere della Sera», 30 marzo 2000.
punto 1. Il mitico arricchimento culturale ed umano – ad esempio, la quaedam de populo Ornella Rota: «i flussi migratori rappresentano un'inestimabile risorsa sia per il Paese d'origine, sia per il Paese d'arrivo» – aspetto assolutamente soggettivo, argomento malposto e oggettivamente sconsiderato.
Inoltre, all'ultimo Alain De Benoist, il più noto teorico dell'esiziale «multicomunitarismo» o «etnopluralismo» o «antirazzismo differenzialista» (vale a dire, della presenza dei gruppi etnici più vari all'interno di uno Stato), e all'insonne scrivano fiorentino Marco Tarchi, già suo allievo neodestrorso («Occorre reagire positivamente [all'invasione migratoria], portando al centro del dibattito delle idee l'idea di una coesistenza delle specificità che è l'unico ragionevole punto di mediazione fra la disordinata insorgenza degli egoismi individuali, tribali o nazionali e il panorama avvilente di una società globale dove lo scambio fra aggregati umani, perdendo i suoi residui connotati simbolici, culturali e religiosi, sia ridotto a mera competizione fra risorse materiali e fra opposte aspettative di potere»),
si aggiunge, per nulla originale, ma in linea con l'ecumenico parroco don Luigi Calonghi, promotore di un «tempio» per i sikh a Pessina Cremonese («L'importante è pregare il buon Dio, non importa se a farlo sono fedeli di altre religioni. Anche il papa ha pregato a fianco di esponenti di altri credo religiosi»), persino l'«anticonformista» Massimo Fini, rampognatore delle manifestazioni anti-invasioniste della Lega Nord scoppiate nell'ottobre 2000 contro l'erezione di moschee in Lombardia: «Ora che sta con Berlusconi, Bossi deve marcare la sua identità. E si butta su una xenofobia inaccettabile. Una cosa è regolamentare i flussi degli immigrati, un'altra è dire: tu no, perché sei musulmano. [Il politologo Giovanni] Sartori dice che l'Islam ha differenze troppo forti? Meglio, anche a New York c'è Chinatown. E da noi il diritto alla diversità è già riconosciuto agli ebrei: perché non dev'esserlo all'Islam? Viva le identità. Altrimenti si diventa una società monoetnica, di uomini tutti uguali [sic!]»... come se ci fosse al mondo un paese variegato, articolato, individualista ed anzi diviso più dell'Italia!
In realtà, affinché coesistano le specificità – a prescindere ovviamente dalla buona volontà e dalla predisposizione dell'Altro – non occorre certo importare milioni di alieni. Per un «assaggio di interculturalità» (così l'invasionista Vaifra Palanca, firmataria di una Guida al pianeta immigrazione per i comunistici Editori Riuniti) basterebbe aprire qualche ristorante tipico, sicché il suddito del Sistema, già fruitore di hamburger e Coca-Cola, possa apprezzare l'esotico riso al curry e non solo l'italica pizza, le tortillas invece delle piadine e della pastasciutta, il kefta alla marocchina invece degli agnolotti, le code di rondine oltre all'ossobuco alla milanese, il kebab piuttosto che il gorgonzola.
punto 2. Le migrazioni ci sono sempre state. Ribatte Giovanni Damiano: «Come se fossero equiparabili gli spostamenti di popoli in un mondo pressoché disabitato, con enormi estensioni di terre libere da presenza umana e con poche comunità già completamente stanziali e sedentarie, e la situazione di oggi, con un pianeta in larga parte addirittura sovrappopolato»!
Sulla stessa falsariga, ma con espressioni di pesante «discriminazione» anti-islamica in favore di immigrati di fede cattolica come sudamericani, filippini ed eritrei, persone «culturalmente compatibili» – espressioni che, non fosse un'Eminenza Porporata, varrebbero all'autore, malgrado l'assoluta rispondenza al reale, *** le attenzioni liberticide della Legge Mancino: per molto meno era stato colpito sette anni prima il Fronte Nazionale – tuona il 14 settembre 2000 il cardinale di Bologna Giacomo Biffi, tosto attaccato dal sinistrume di ogni risma, laica come religiosa e papa polacco compreso: «I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solo economici e previdenziali. Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l'identità della nazione. L'Italia non è una landa disabitata, senza storia e senza tradizioni, da popolare indiscriminatamente [...] Io dico che non esiste un diritto di invasione. Lo Stato italiano può ammettere chi vuole, giusto? E se vuole assicurare il benessere e l'identità del popolo italiano è meglio che faccia bene i suoi conti».
*** Oltre al dovere di sterminare i pagani ovunque si trovino, permettendo nella Dar al-Islam un'esistenza, di secondo ordine, solo agli adepti del Libro (ebrei e cristiani, con aggiunti gli zoroastriani), non dimentichiamo il dovere, per i Sottomessi (muslim: musulmani), di soggiogare il mondo. Ovviamente, al fine di ridurre, se pure non di eliminare, la Dar al-Harb, la "Casa della Guerra", e cioè popoli e Stati non ancora convertiti.
E tuttavia il politically incorrect Biffi – attaccato senza conseguenze non solo dal Wall Street Journal, ma anche da cristiani ecumenici quali monsignor Riboldi, don Ciotti, don Mazzi, gli adepti Caritas e Comunità di Sant'Egidio, i politici del Partito Popolare Italiano Castagnetti, Zecchino e Toia, etc. – non esce indenne dalla polemica. Il 28 ottobre 2000 l'agenzia Corrispondenza romana riporta, unica fra i tanti organi di «informazione», che il porporato è stato denunciato, sulla base della Legge Mancino, per «istigazione all'odio, al razzismo, alla segregazione razziale e alla discriminazione religiosa» da tale Habib Ben Sghaier, presidente di una tale Associazione Comunità Straniere. La medesima denuncia sulla base della Mancino viene firmata da don Vitaliano della Sala, personaggio già intruppato nella marcia per l'orgoglio gay tenutasi a Roma nel luglio precedente. Esattamente un anno dopo, il sinistro sacerdote è – col medico e miliardario cattolico Vittorio Agnoletto e col capo delle Tute Bianche Luca Casarini, boss dei Centri Sociali veneziani, stipendiato RAI e dell'invasionista ministra neocomunista per la Solidarietà Sociale Livia Turco, nonché persecutore dello studioso olorevisionista Franco Damiani, insegnante a Mestre – tra i principali istigatori «intellettuali» della contestazione del convegno del cosiddetto G8, aperto a Genova il 20 luglio e partecipato dai capi di governo o di Stato dei più ricchi otto paesi (USA, Giappone, Germania, Francia, Inghilterra, Italia e Canada, appendicizzati dalla Russia).
Recitata da una congerie di gruppi sé-dicenti «anti-global», la cruenta contestazione ai «potenti della terra» (ma non ai burattinai nascosti) non solo permette ai mondialisti «di destra» di proporsi al cittadino-medio come individui «responsabili» aggrediti da violenti criminali «di sinistra», ma offre, ai primi come ai secondi, un'eccellente vetrina propagandistica. Ai primi, che possiamo definire Globalisti Alti o Plutocratici, serve per proporsi al cittadino-medio come la consacrazione del governo mondiale in-carne-ed-ossa (troppo lontano e disincarnato è l'ONU), distinto, comprensivo, pacato e pieno di buona volontà verso il Terzomondo (impagabile la sfilata di un pugno di capi di governo e di Stato negri o di altro colore), al quale si condonerebbero briciole di debito. Ai secondi, che potremmo definire Globalisti Bassi o Lerci, permette non solo di sfogare nella violenza (esercitata non contro i Potenti, ma contro il cittadino-medio e le forze di polizia) le infinite frustrazioni dovute al crollo di ogni loro ideale, ma anche di continuare ad illudersi di costituire l'alternativa ai primi... quando ne sono solo la stupida massa di manovra. In effetti, non vediamo come tali utili idioti si possano pretendere «antiglobalisti» sbraitando, ovviamente in inglese, swahili mondialista par excellence, e magari ingurgitando à la Casarini cocacola ed hamburger, slogan come «no borders, no nations, niente confini, niente nazioni», ben accetti, e magari proprio da loro coniati, ai think tanks del G8. Che senso ha avversare gli aspetti economici della globalizzazione, quando se ne condivide il progetto sociale-culturale-politico?
Osserva Marcello Veneziani: «A vederli, gli antigiottini sono la sinistra in movimento: anarchici, marxisti, radicali, cattolici ribelli o progressisti, pacifisti, verdi, rivoluzionari. Più contorno iconografico di Marcos e Che Guevara. Poi ti accorgi che nessuno di loro mette in discussione il Dogma Globale, l'interdipendenza dei popoli e delle culture, il melting pot e la società multirazziale, la fine delle patrie. Sono internazionalisti, umanitari, ecumenisti, globalisti. Anzi, quanto più sono estremisti e violenti, tanto più sono internazionalisti e antitradizionalisti. Ovvero più contestano la globalizzazione, più condividono il suo fine ultimo. Del resto il Manifesto di Marx ed Engels è uno schietto elogio della globalizzazione, a opera della borghesia e del capitale, che spezza i vincoli territoriali e religiosi, etnici e familiari, e libera dalla tradizione. E nei vertici precedenti i leader dei Paesi industrializzati erano quasi tutti di provenienza progressista, se non sessantottina. Da Clinton ai leader nostrani, che sognavano di trasformare il G8 in Ulivo planetario. E allora dove sono i veri nemici della globalizzazione? Sono a destra, cari miei. È là che non da oggi si avversa il mondialismo e l'internazionalismo, la morte delle identità locali e nazionali. Tra i conservatori e i nazionalisti, tra i tradizionalisti e gli antimoderni, ma anche nell'ambito della nuova destra di Alain de Benoist e di Guillaume Faye, come dei movimenti localisti e populisti. C'è una ricca letteratura di destra che da tempo critica radicalmente la globalizzazione e i suoi esiti: il dominio della tecnica e dell'economia finanziaria a danno della politica e della religione. A Genova dunque si consuma un paradosso: pochi uomini di destra, tra agricoltori, artigiani e tradizionalisti, contesteranno il G8 in modo debole e marginale ma con scopi forti e radicali. E molta gente di sinistra contesterà, in modo radicale, una globalizzazione che in fondo condivide».
E lucido è anche l'ebreo americano Michael Hardt, co-autore, col sinistro intellettuale italiano Toni Negri, di Empire, «Impero», summa teorico-politica del movimento «no-global» pubblicata dalla Harvard University Press, la casa editrice di uno dei massimi centri forgiatori di cervelli per il Sistema: «Contrariamente a ciò che dicono molti massmedia, queste proteste non sono rivolte contro la globalizzazione in generale, ma contro l'attuale forma di globalizzazione, dunque a favore di una globalizzazione alternativa, che abbia come caratteristiche fondamentali l'uguaglianza e la democrazia. Per quanto riguarda l'uguaglianza, viviamo in un mondo con disparità sempre più profonde tra ricchi e poveri: è questa disparità che va sanata. Immaginare i meccanismi di una democrazia globale è più difficile. L'idea moderna della democrazia, infatti, era pensata e praticata nello spazio nazionale; sul piano globale la democrazia va inventata di nuovo» (corsivo nostro).
Egualmente l'anarco-marxista Negri il 30 luglio, allucinato sul Corriere della Sera, il più diffuso quotidiano italiano (del supercapitalista Gianni Agnelli è anche la Rizzoli, editrice del volume): «Lo Stato-nazione è sempre stato un nemico, e io considero la globalizzazione come un effetto dei movimenti operai, delle lotte anticoloniali e anche delle battaglie contro il socialismo reale avviate a partire dagli anni Sessanta [...] Lo Stato-nazione non è più adatto al controllo dei movimenti di classe, e dentro questo nuovo spazio il regime capitalista troverà difficoltà sempre più grandi [...] Il popolo è un concetto creato dallo Stato capitalista, un concetto che abbiamo sottoposto a una critica feroce: è la moltitudine ridotta a partecipare a quello Stato. E il nome di nazione è una sua estensione, melmosa e schifosa. La patria, poi, è aborrita [...] milioni di persone sono morte in suo nome: le lotte operaie per fortuna ci hanno liberato della patria e della nazione. Si spera che non compaiano mai più. Per questo l'Impero è benvenuto [...] Perché se Dio vuole c'è la globalizzazione». In effetti, gli unici veri antagonisti del Sistema, gli unici radicalmente alternativi ai processi di mondializzazione, gli unici veri nemici del globalismo sono i «razzisti» e i nazionalisti.
punto 3. Anche l'Europa fu terra di emigrazione, per cui esisterebbe un obbligo verso i nuovi «poveri». In primo luogo, l'essere stati emigranti, lungi dal costituire un vanto e non una perdita e una vergogna per la comunità di origine, non può essere fonte di alcun obbligo, né morale né giuridico, soprattutto per chi, non essendo emigrato, è rimasto in Europa continuando a portare il proprio contributo alla comunità nazionale, ad esempio vivendo le terribili crisi dei conflitti mondiali. Inoltre, non è proprio l'ideologia liberale a considerare «responsabili» gli individui e non le collettività? A «pagare» per l'emigrazione degli italiani di un secolo prima dovrebbero essere gli italiani di oggi, magari neppure imparentati coi primi? Si invertirebbe il concetto olocaustico helmutkohliano di «grazia della nascita tardiva», sostituito da quello di «colpa della nascita tardiva»?. In secondo luogo, non si risolverebbero certo i problemi della miseria di miliardi di uomini facendosi invadere da qualche decina di milioni di individui invece di cercare, da un lato, soluzioni congrue nei loro paesi e di ridurre, dall'altro, il mortifero standard di vita dell'Occidente. In terzo luogo, assurdo è comparare situazioni storiche nelle quali, ad esempio, la costruzione di una strada richiedeva l'impiego per mesi di centinaia di uomini, con situazioni nelle quali quello stesso lavoro viene svolto oggi in pochi giorni da macchinari serviti da qualche decina di tecnici.
punto 4. Gli immigrati sono una risorsa economico-sociale. Ma certo, e precisamente per i settori produttivi praticanti il lavoro nero, per gli industriali che comprimono il costo del lavoro o evitano la modernizzazione degli impianti, per il parassitismo affaristico dei produttori di merce contraffatta (oggi nazionali, domani planetari), di irresponsabili affittuari, dei costruttori di «alloggi sociali per immigrati» a spese dello Stato, per gli insegnanti e per chiunque ruoti intorno all'indotto migratorio, illegale o legale che sia. Si pensi anche solo al giubilo di Luigina Giliberti: «Arriva dall'Africa e "salva" la scuola - Un bambino dal Marocco e una ragazzina di Abbadia Lariana salvano la 1a media di Lierna. La classe, che rischiava d'essere soppressa per carenza di alunni, raggiunge ora il numero quindici previsto dal Provveditorato agli studi. Non resta che attendere il ritiro della soppressione e il ripristino della classe»!
Ancora più fiera, nel febbraio 2000 la scuola media genovese «Baliano» totalizza 80 allogeni sui 110 iscritti e vanta il primato della classe I A, composta per il 100% da non-italiani, facendo esultare il provveditore agli studi Gaetano Cuozzo: «Siamo una città multietnica, e quella classe è la dimostrazione dell'avvenuta integrazione a Genova tra popolazione e immigrati». Inoltre, se nel 1996 gli studenti stranieri erano in Italia 60.000 su una popolazione scolastica globale di sette milioni e mezzo, nel 2000 erano già 140.000, cioè più del doppio, mentre nel 2016 toccheranno, a fronte del calo degli italiani, i 500.000.
Inoltre, gli invasori sono una risorsa economico-sociale per le sinistre in attesa di garantirsi un illusorio bacino elettorale e una rivalsa psicologica per il loro miserabile fallimento storico-esistenziale, per le Chiese alla ricerca di presunti nuovi fedeli per fronteggiare il calo dell'«affezione» europea, per la criminalità organizzata che gestisce una manovalanza a basso costo, praticamente «invisibile», non controllabile dagli organi di polizia e facilmente rimpiazzabile.
Quanto alla «utilità» degli immigrati, il politologo liberale Giovanni Sartori continua, sfiorando il terribile problema della predominanza dell'economia sull'etica e su ogni altro aspetto della vita associata e dei rapporti con la natura: «Sì, è ovvio che gli immigrati servono. Ma servono a tutti, indiscriminatamente, per definizione? È altrettanto ovvio che no. E dunque gli immigrati che servono sono quelli che servono. Davvero una bella scoperta. A parte il fatto, soggiungo, che la formula dell'"immigrato utile" soffre di due gravi limiti. Intanto, chi è utile a breve, è utile anche a lungo? E poi, secondo, il problema non è soltanto economico. Anzi, dirò nel libro, è eminentemente non-economico. È preminentemente sociale ed etico-politico. Senza contare che anche l'utile economico può avere, e spesso ha, esternalità [!] "disutili", esternalità nocive. E dunque che l'immigrato possa risultare benefico pro tempore per l'economia, nulla dimostra fuori dall'economia e su quel che più conta: la "buona convivenza"».
Non è poi lecito prescindere dagli effetti morali della violenza, dal dolore, dall'ansia e dalla paura dei cittadini angariati dagli invasori ed irrisi proprio da coloro che dovrebbero tutelarne la sicurezza: politici, magistratura e polizia, effetti che agiscono in modo dissolvente sul vivere civile. Da un lato agevolando quando non promuovendo strutture criminali sempre più radicate e spavalde sia sull'intero territorio che in sempre più numerose «zone franche» nelle quali temono di entrare financo le forze dell'ordine (emblematici il quartiere San Salvario a Torino, la zona portuale a Genova o il quartiere Esquilino a Roma, o, per la Francia, le allucinanti periferie e gli agglomerati abitativi della cintura parigina), dall'altro aggravando l'impotenza e incentivando il pluridecennale disimpegno sociale degli italiani, la cinquantennale chiusura nel proprio «particulare».
Quanto alla piatta «utilità economica», nel conto del dare-avere va conteggiata la «disutilità» prodotta dai crimini compiuti, dagli uccisi e dai feriti, dalle lesioni prodotte alle vittime con aggravio dei costi e delle strutture sanitarie, dalla perdita della produttività lavorativa dovuta ai ricoveri ospedalieri e ai periodi di malattia, dai furti, dalle rapine, dai vandalismi nelle abitazioni e dalle conseguenti misure per riparare o prevenire (con guadagno, certo, oltre che degli avvocati, dei benemeriti produttori di antifurti, dei fabbri e dei facitori di opere murarie e falegnameria). Ed egualmente, se pensiamo che un detenuto costa quotidianamente allo Stato 550.000 lire e che a fine 2000 gli stranieri sono un terzo dei detenuti, sfiorando le ventimila unità, vanno conteggiate, a prescindere dai costi e dalle migliaia di ore sprecate in udienze giudiziarie sempre più impotenti e kafkiane, le migliaia di miliardi di lire spesi per il mantenimento, assolutamente inutile in quanto per il 99% non redentivo, di una sempre più folta popolazione carceraria allogena.
punto 5. Vista la denatalità europea, sono una risorsa biologica. Come se l'afflusso di altri patrimoni genici andasse a tutelare il patrimonio genico europeo e non contribuisse invece ad accelerarne la scomparsa! Come se l'«ecatombe demografica» degli europei, da sempre irrisa e voluta da tutti gli antifascisti e da tutti gli «umanitari», non potesse venire contrastata e invertita con idonei provvedimenti di sostegno alle famiglie! Come se un'ipotetica supernatalità europea di per sé riducesse o annullasse la pressione alle frontiere, pressione che ci sarebbe sempre in quanto nata dall'irresponsabile esplosione demografica del Terzomondo!
Criminale è poi l'ammonimento lanciato, attraverso il «francese» Joseph Alfred Grinblat, dall'ONU all'Europa nell'aprile 2000: per risolvere «in modo indolore», cioè senza tagli alle pensioni né aumenti degli anni contributivi, i problemi creati dalla denatalità – cioè dallo «spopolamento programmato [sic!] del continente», come si lascia sfuggire Laurence Caramel – entro il 2025 il Vecchio Continente dovrà accogliere 159 milioni di invasori. In particolare la Germania, l'Italia e la Francia, rispettivamente, 44, 26 e 23 milioni.
Identico incitamento al suicidio, sulla base di identiche considerazioni, quello lanciato nel successivo novembre a Bruxelles, presentando alla Commissione Europea il primo Rapporto sulla situazione del «razzismo» in Europa, da Jean Kahn, già presidente della sezione francese del World Jewish Congress e del Congresso Ebraico Europeo, nella veste di presidente dell'Osservatorio Europeo sui Fenomeni Razzisti e Xenofobi: «L'Europa ha bisogno di immigrazione per svilupparsi. Si parla di cinquanta milioni di nuovi immigrati in dieci anni. Dobbiamo essere pronti ad accoglierli, altrimenti il nostro modello economico non sarà in grado di reggere». E per chi resti perplesso, bacchettate sulle dita: un'inchiesta dell'European Commission on Intolerance and Racism rivela che «la stampa britannica attacca troppo spesso i rifugiati e chi chiede asilo politico, mentre quella danese alimenta l'intolleranza verso i cittadini di fede islamica» (in Internazionale n.381, aprile 2001).
Primo tra i «temi ebraicamente rilevanti che comportano l'assunzione di un ruolo politico da parte dell'ebraismo italiano» è infatti – assevera il presidente dell'UCEI Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Amos Luzzatto a Claudio Morpurgo sull'ufficiale Shalom nel maggio 2001 – «il razzismo, dato che qualsiasi forma di discriminazione, fondata su ragioni di appartenenza etnica, religiosa o politica, è di per se stessa l'anticamera dell'antisemitismo tradizionale. Il razzismo non si autolimita, ma ha una capacità di espandersi e di minacciare estremamente pericolosa. D'altra parte, poi, noi ebrei, da sempre colpiti da questo fenomeno, abbiamo una responsabilità particolare nel combattere il razzismo in tutte le sue forme [...] E questo richiamo alla multiculturalità è ancora più significativo nell'attuale fase storica in cui, in Europa, gli Stati nazionali rinunciano a parte della loro sovranità per integrarsi in una realtà sovrannazionale. Si tratta di un fenomeno irreversibile, di grande potenzialità, ma estremamente difficoltoso. Basti pensare alle continue spinte particolaristiche che, spesso, generano conflitti come nei Balcani e che, in ogni caso, comportano, quasi ovunque, sentimenti diffusi di chiusura verso il diverso e verso le minoranze».
Altrettanto esultante per una prossima «realtà irreversibile che oltre a cambiare la demografia finirà, in un modo o nell'altro, per ridefinire gli stessi fondamenti della nostra [sic!] identità nazionale», quasi non credesse ai suoi occhi, il 12 luglio 2000 era stato il recidivo sinistro maestrino «italiano» Guido Bolaffi: «L'immigrazione sta cambiando l'Italia assai più velocemente e in profondità di quanto si potesse fino a ieri persino immaginare. Gli ultimi dati dell'ISTAT mostrano infatti che, grazie alle tante nascite e all'incremento dei ricongiungimenti familiari, un segmento crescente della nostra popolazione è formato, e sempre più lo sarà, da coloro che hanno deciso di lasciare la loro terra per cercare da noi un futuro migliore per sé e i propri figli. Di fronte a un Paese che invecchia e che non vuole o non sa fare più figli, l'immigrazione funziona dunque come un possente meccanismo di riequilibrio esistenziale: una sorta di assicurazione sulla vita [!] per il Bel Paese del terzo millennio»; in parallelo, «consigliere» per l'immigrazione del socialista trotzkista francese Lionel Jospin è, all'epoca, l'ebreo Patrick Weil. ***
*** Ex-boss sessantottino a Roma, dirigente della comunistica FIOM-CGIL, il Bolaffi assurge nel 1996 a capo del Dipartimento per gli Affari Sociali presso la Presidenza del Consiglio e capo gabinetto del ministro per la Solidarietà Sociale di vari governi sinistri. Collaboratore di la Repubblica, acceso invasionista e membro della Commissione europea per la libera circolazione delle persone, il Bolaffi istiga a concedere la cittadinanza agli invasori purché... «con regole e quote», fino a concionare, il 23 maggio 2000 sul Corriere della Sera, contro «il grave ritardo culturale e istituzionale dell'Europa» nell'accogliere gli invasori. Malgrado tutto ciò, nell'agosto 2001 Roberto Maroni, neoministro «razzista» berluscoleghista del Lavoro e delle Politiche Sociali (alias ministro del Welfare), lo conferma, in attesa di farlo segretario generale del ministero, capo del dipartimento delle politiche sociali e previdenziali e, ad interim, del dipartimento delle politiche del lavoro.
A – Boss lottacontinui e affini, poi riciclati quali colonne del Sistema e compartecipi della «mafia sessantottina» – familiarmente nota come la «old boys net, rete dei vecchi ragazzi» – che coinvolge il fior fiore dell'invasionismo quale il socialista Claudio Martelli e la neocomunista Livia Turco, sono anche, oltre agli ebrei Peter Freeman, Daniele Jeoffe, Alexander Langer, Gad Eitan Lerner, Paolo Mieli, Enzo Piperno e Luca Zevi, i goyim Lucia Annunziata (giornalista RAI, nel 2001 direttrice dell'agenzia online AP-eBiscom de La Sette, il «terzo polo» televisivo in cui si metamorfosa Telemontecarlo), Roberto Aprile (attivista nel «volontariato»), Gianfranco Bettin (sindaco di Mestre e protettore del sinistro Luca Casarini), Marco Boato (vicepresidente nazionale di LC, poi senatore verde), Giorgio Boatti (dirigente della sinistra editrice Baldini & Castoldi), Roberto «Nini» Briglia (direttore di Radio Popolare, giornalista al settimanale claudiomartellico/berlusconico Reporter, direttore del settimanale Epoca, direttore editoriale di Sorrisi e canzoni tv e di tutte le riviste della Mondadori berlusconiana, poi direttore di Panorama e del settore Comunicazione e Immagine della stessa editrice), Paolo Brogi (Corriere della Sera), Adele Cambria (già direttrice di Lotta Continua, ultrafemminista, il quotidiano centrosinistro Il Giorno), Toni Cappuozzo (inviato di telegiornali berlusconiani), Franco Carrer (manager), Mimmo Cecchini (assessore a Roma con l'ex-radicale ulivista Francesco Rutelli), Giovanni Damiani (ambientalista), Giovanni De Luna (studioso del Pd'A), Enrico Deaglio (direttore di Lotta Continua, poi a Reporter e l'Unità, subentra a Lerner quale conduttore di Milano Italia su Raitre, direttore di Diario della settimana, il settimanale de l'Unità edito dal supercapitalista Luca Formenton-Mondadori), Erri De Luca (juif honoraire, non tanto per essersi dedicato a «tradurre» libri veterotestamentari, quanto perché «sofferto» guru sterminazionista sul cattolico Avvenire e sul Corriere della Sera), Fiorella Farinelli (assessore a Roma con Rutelli), Franca Fossati (ultrafemminista, giornalista su varie riviste femminili, portavoce della ministra neocomunista delle Pari Opportunità Livia Turco, recuperata dal duo Lerner-Ferrara quale caporedattrice di Stanlio e Ollio, il programma poi abortito di La Sette), Antonio Guidi (demopsichiatra, ministro primoberlusconico per la Famiglia), Ciccio La Licata (giornalista a La Stampa), Paolo Liguori (giornalista a il Giornale, direttore del cattolico il Sabato, de Il Giorno e del programma TV berlusconiano Studio Aperto), Luigi Manconi (tra i più frenetici guru invasionisti e, nel massacro NATO, tra i più ràbidi esponenti antiserbi, attivo anche sul Corriere della Sera, deputato e segretario/portavoce dei Verdi, un figlio con la telegiornalista picista/PDS Bianca Berlinguer, figlia dell'ex segretario picista Enrico), Andrea Marcenaro (marito della Fossati, giornalista a Lotta Continua e Reporter, poi sempre più destrorso a L'Europeo, Epoca, Il Giorno, il Foglio di Giuliano Ferrara e Panorama), Giampiero Mughini (direttore di Lotta Continua in attesa di farsi pluri-imperversatore liberal e sportivo dal Piccolo Schermo, Panorama), Giuseppe «Peppino» Ortoleva (massmediologo), Carlo Panella (su Lotta Continua e Reporter, poi ai televisivi Studio Aperto e Fatti e Misfatti), Marco Revelli (ricercatore-istigatore antifascista), Claudio Rinaldi (direttore di Panorama e L'Espresso), Sergio Saviori (dirigente dell'editrice Bruno Mondadori), Adriano Sofri (su Lotta Continua, l'Unità, Reporter, Panorama, L'Espresso, la Repubblica e il Foglio, condannato coi sodali Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani quale mandante «morale» dell'assassinio del commissario Luigi Calabresi; dopo che il 24 gennaio 2000 la Corte d'Appello di Venezia chiude l'ottava revisione confermando la condanna del trio, Boato definisce il processo «il caso Dreyfus del 2000»), Guido Viale (ambientalista), Vincino (Vincenzo Gallo, vignettista sull'anarco-comunista il Male, sui picisti-neocomunisti Tango e Cuore, sui borghesi Panorama, il Foglio, Corriere della Sera e su Boxer, inserto satirico dell'«eretico» il manifesto).
B – Della parallela mafia-lobby costituita dagli ex del Movimento Studentesco, il principale gruppo sessantottino, covo di picchiatori fratello-rivale di LC, sono gli ebrei Franco Piperno (poi fondatore/direttore di Metropolis e docente di Fisica all'Università della Calabria), il giornalista Stefano Jesurum (genero del goy Enzo Biagi, il top-giornalista per decenni imperversante su decine di giornali e in decine di teleprogrammi), il demoscopo Renato Mannheimer, il giornalista Giuliano Ferrara (notista su Epoca, Corriere della Sera e sull'effimero l'Italia settimanale, editorialista del settimanale lib-lab Tempi, anchorman sulle reti Fininvest/Mediaset, ex-comunista, ex-sessantottino ed ex-socialista divenuto ministro primoberlusconico per i Rapporti col Parlamento, fondatore-direttore del quotidiano Il Foglio e direttore di Panorama, del quale resta poi fondista, nel 2001 anchorman con Lerner a La Sette; marito della giornalista femminista Anselma «Selma» Dell'Olio, di madre «americana di origine russa» e padre pugliese, educata in collegio cattolico, la quale, dopo avere trascorso due «amori importanti» «entrambi ebrei. Un uomo d'affari e un compositore antropologo», e uno meno importante, il giornalista ebreo de l'Unità Franco Ottolenghi, nel 1987 impalma in Campidoglio il quarto Arruolato, e cioè il Ferrara, officiante l'ex-partigiano picista Antonello «Duccio» Trombadori). Seguono i goyim Mario Capanna (incantatore di dame dell'altaborghesia progressista, in particolare della proprietaria del Corriere della Sera Giulia Maria Crespi, poi deputato ultrasinistro e nostalgico rievocatore della «rivoluzione» mancata in Formidabili quegli anni), Mauro Rostagno, Luca Cafiero, Luigi Bobbio (figlio dell'acido pater patriae Norberto), «Popi» Saracino (poi docente liceale, condannato per stupro su una studentessa), «Chicco» Testa (poi verde e presidente dell'Enel prodian-dalemian-amatiana, confermato dal destrorso Berlusconi), la già detta Lucia Annunciata, Silvana Mazzocchi (poi giornalista de la Repubblica), il poi senatore picista-diessino Claudio Petruccioli, Sergio Cusani (l'ex «barone rosso» capobanda all'Università Bocconi, poi agente di Borsa para-socialista e ufficiale pagatore – 148 i miliardi ufficialmente girati a esponenti politici – del tangentista Enimont supercapitalista Raul Gardini; suicida nel 1993 Gardini, il Cusani viene condannato a cinque anni e cinque mesi per corruzione) e i top-telegiornalisti Lamberto Sposini di Canale 5 e Raiuno e Michele Cucuzza di Radio popolare e Raidue.
C – Da Potere Operaio, Avanguardia Operaia e dalle Brigate Rosse proviene l'ebreo Lanfranco Pace, riciclatosi giornalista su il Foglio e recuperato, come la shiksa Fossati, da Ferrara a La Sette.
D – Infine, dal maoistico Servire il Popolo giunge il salernitano Michele Santoro, poi livido top-anchorman sulle TV sia berlusconiane che pubbliche.
punto 6. Gli immigrati fanno lavori umili/pesanti che gli europei non vogliono più fare. A parte la sempre più diffusa introduzione di macchinari robotizzanti e la prevedibile crisi di assorbimento della superproduttività industriale da parte di mercati sempre più saturi,
a. che comporteranno a breve termine una disoccupazione epocale,
b. è da vedere se sia davvero morale accettare che il «padrone» comprima, a vantaggio esclusivamente suo e non della comunità nazionale, i costi assumendo manodopera straniera da retribuire in nero o con salari inferiori,
c. se sia davvero morale una posizione che vede l'Altro come mera merce e forza-lavoro, infischiandosene della creazione di più acuti problemi sociali,
d. se davvero gli immigrati si adatterebbero a fare i lavori per i quali sarebbero stati richiesti, e in tutti i casi, fosse questo il motivo (anche se pretestuosa sembra la giustificazione degli invasori fondata sul proverbio soninké «dalle gumme ya mpasu kalle nga, meglio lavorare all'estero che morire in patria»... certo il concetto di «lavoro» suona differente da popolo a popolo; in ogni caso, scrive il «francese» Jean-Paul Gourévitch citando il rapporto dell'Haut Conseil à l'Integration del gennaio 2000, dei 120.000 immigrati in Francia nel 1998, solo il 5% lavora),
e. se si avrebbe poi il coerente coraggio di rimandarli a casa quando più non servissero per i lavori per cui sarebbero stati richiesti, o di impedirne la mobilità in altri settori già saturi?... e impedirla, ovviamente, non solo a loro ma anche ai loro figli?,
f. se davvero ne servono sempre di nuovi, stanti i milioni di allogeni più o meno criminali o nullafacenti già presenti (di fronte alla «necessità» di manodopera straniera, tuttora non quantificata al di là dell'inverecondo balletto di cifre buttate al vento dai «responsabili» governativi e industriali, semplicemente criminali sono i messaggi lanciati oltre-frontiera sul «bisogno» e sulla cecità e viltà dell'Europa),
g. se sia davvero impossibile, da un lato attraverso l'eliminazione delle provvidenze clientelari e la riduzione dei sussidi di «disoccupazione» che ottundono la volontà di lavorare dei demoitaliani, dall'altro attraverso quegli adeguati incentivi economici che si renderebbero possibili liberando a favore dei connazionali le decine di migliaia di miliardi oggi dissipati pro-invasori (costruzione e gestione di centri di raccolta, strutture di «accoglienza» o repressione, edilizia popolare e servizi sanitari adeguati alle condizioni di salute spesso precarie dei nuovi «concittadini», scuole in lingua madre, edifici di culto, contributi assistenziali più o meno pro-tempore, «ricongiungimenti familiari» anche fino al quarto grado e con pluri-coniuge se musulmani, etc.), la razionalizzazione della forza-lavoro di un popolo di sessanta milioni di persone. Riordino in verità realizzabile solo da uno Stato Etico Nazionale, non certo dal fantoccio dis-animato dell'anarchismo liberista.
punto 7. Gli immigrati salveranno l'Europa dal collasso dei sistemi pensionistici. E come no... la salvezza verrebbe quindi non dalle pur possibili centinaia di migliaia di occupati in regola contributiva, *** ma dalle decine di milioni di nullafacenti, vulavà, raccoglitori di pomodori, venditori ambulanti senza licenza, venditori di fiori o altra cianfrusaglia ai semafori e nei ristoranti, menestrelli vaganti per le strade, accattoni, spacciatori, prostitute, vandali ottusi, criminali e altra genìa, individui sempre più numerosi, aizzati in primo luogo dal «buon cuore» delle sanatorie cattosinistre e dalla mancanza di reazioni dei paesi invasi. Inoltre, in futuro le pensioni agli Attuali Soccorritori non potranno che essere pagate da milioni di sempre Nuovi Soccorritori... e questo ovviamente a prescindere da ipotesi di riordino dell'intero sistema pensionistico, ad esempio con elevamento dell'età pensionabile (qualora non vi fossero giovani a rimpiazzo dei pensionandi, e in attesa della risalita della natalità europea) e con riduzione degli immorali cumuli delle «pensioni d'oro», sistema pensionistico da decenni saccheggiato per i più vari motivi di interesse, sia personali che demagogico-elettorali, proprio dagli invasionisti di ogni risma.
*** In realtà, sui 900.000 stranieri ufficialmente occupati, nota Alberto Ronchey nell'agosto 1999, regolari contribuzioni vengono versate solo da 300.000, e per importi minimi: i 2500 miliardi ufficialmente versati all'INPS sono nulla, assolutamente nulla rispetto ai 300.000 miliardi del costo dei pensionamenti. Inoltre, numerosi accordi bilaterali prevedono il pagamento all'estero delle pensioni ai lavoratori stranieri rientrati nei loro paesi e, in alternativa, una norma della riforma Dini del 1995 impone di rimborsare i contributi da loro versati. Infine, coloro che avranno acquisita la cittadinanza beneficeranno anch'essi, come ogni altro italiano, dell'integrazione al minimo delle pensioni sol che abbiano versato qualche contributo, o delle pensioni sociali e di altre forme di assistenza quando non abbiano mai versato nulla.
punto 8. E comunque gli immigrati non sono molti e anzi sono pochi, rispetto al totale degli europei. A parte che avvicinarsi a un fienile o a un bidone di benzina con un fiammifero acceso non è poi molto diverso dall'avvicinarvisi con in mano una torcia, il «saldo» allogeno ha non solo l'effetto immediato degli invasori testé giunti, ma anche, ben più pericoloso e incontrollabile in quanto impostato su più toccanti motivi «umanitari», quello differito dei ricongiungimenti familiari (integrando Gourévitch, Guillaume Faye riporta, nel n.1 di J'ai tout compris!, che sui centomila permessi di soggiorno rilasciati in Francia nel 1998, solo 4149 lo sono stati a titolo di lavoro, 4342 a titolo di rifugiato e i 90.000 restanti per ricongiungimento) e, soprattutto, delle nascite sul luogo, aspetto ancora più pericoloso.
Egualmente, nessun limite logico esiste all'arrivo in Europa di decine di milioni o miliardi di allogeni, stante che la causa prima dell'invasione è demografica, il primo problema dell'esubero umano in altri continenti essendo, appunto, una figliazione conigliesca da parte di quelle genti. Cosa della quale – a parte l'introduzione missionaristica di cure mediche e vaccini – non sono certo gli europei a portare la responsabilità. Come dire: agli altri un'attività sessuale incontrollata, a noi rimediare alle conseguenze di una tale frenesìa.
Come nel 1995 aveva scritto Damiano Marabelli nella memoria difensiva contro la persecuzione giudiziaria scagliata contro il Fronte Nazionale proprio a motivo della preveggenza da esso mostrata quanto agli ingravescenti danni dell'invasione: «Coloro che si battono per abolire ogni controllo alle frontiere dell'Europa, danno a intendere all'opinione pubblica che dal Terzo Mondo provenga un flusso migratorio modesto. Ciò è falso. Sulla base dei dati forniti dall'Istituto Centrale di Statistica, è possibile stimare, ad esempio, che il numero complessivo di persone allogene immigrate in Italia nel volgere degli ultimi quindici anni ammonta a circa 1,9 - 2,3 milioni. Peraltro, la dimensione di questa immigrazione diviene ancora più inquietante se proiettata nello scenario dei prossimi due decenni, periodo nel quale le sole popolazioni nordafricane limitrofe alla nostra penisola avranno un incremento demografico pari a 165 milioni di unità».
E si pensi, ripetiamo, che a tale invasione hard, legale, illegale e sanatorizzata, si aggiunge la colonizzazione soft di nascite, naturalizzazioni, ricongiungimenti familiari anche fino al terzo e al quarto grado, adozioni, matrimoni misti, etc.
Conferma «d'autore» della tensione demografica che attraversa il Mediterraneo la si trova in XXI secolo, periodico mondialista della mondialistica Fondazione Agnelli (il cui primo presidente fu l'«europeista» massone Jean Monnet): «Mentre nei paesi europei della sponda Nord l'aumento degli anziani e i ridotti tassi di natalità lanciano nuove sfide ai sistemi di welfare, nei paesi della sponda Sud, dalla Turchia al Marocco, il ritardo nel completamento della transizione demografica porterà ancora ad un lungo periodo di espansione. Il rapporto numerico tra mondo arabo e Comunità Europea si sta capovolgendo: entro il 2010 avverrà il sorpasso». Si consideri che se nel 1940 la popolazione dei tre paesi nordafricani sotto dominio francese era la metà di quella francese, nel 2025 Marocco, Algeria e Tunisia ne avranno una tre volte superiore.
Non dimentichiamo, poi, che le centinaia di migliaia di individui che ogni anno sciamano nel Vecchio Continente (e tacciamo delle centinaia di milioni di contadini africani e cinesi che, «spiazzati» dall'inarrestabile desertificazione del suolo africano e cinese e, per l'ex-paradiso maoista, dalla frenetica industrializzazione, sempre più cercheranno qualche «speranza» non solo nelle terre siberiane o nello spopolato subcontinente australiano, ma proprio in Europa) aggraveranno la già diffusa insofferenza degli europei verso l'invasione, oggi antidemocraticamente repressa dal Sistema coi mezzi più vari, dalla diffamazione dei reprobi a milionarie pene pecuniarie ed al carcere.
Riscontro qualificato di tale tendenza viene nel luglio 1993 da Eurobarometro, un'indagine demoscopica a carattere periodico patrocinata dall'Unione Europea. Da tale ricerca risulta che il 64% degli italiani, il 60% dei tedeschi, il 56% dei francesi e il 54% dei belgi ritiene ci sia, nei rispettivi paesi, una presenza eccessiva di stranieri. Talvolta – e come meravigliarsene? – si arriva financo a esplosioni di «razzismo e xenofobia» che colgono «di sorpresa» i fautori dell'abolizione dei controlli sull'immigrazione ( comprese le anime pie del convegno onusico che nel dicembre 2000 a Palermo hanno vincolato i paesi europei al divieto di introdurre nelle legislazioni la fattispecie di reato di ingresso clandestino !), i quali allora si scagliano contro le «paure irrazionali» o le presunte «responsabilità di demagoghi» che fomenterebbero l'odio verso gli stranieri. Il tutto, non venendo neppure sfiorati dal sospetto che alla base di tale «irrazionalità» ci siano da un lato quegli imperativi genetici di fitness radicati nella filogenesi (e che è certamente difficile «sublimare» nei contesti sociali degradati delle metropoli europee), dall'altro un istinto di difesa, sano e naturale, contro realtà criminali. Criminali non solo per nobili basi ideologiche, ma anche dal «volgare» punto di vista dell'egoistica incolumità personale e dell'ordine pubblico.
A causa della fecondità debordante di altri continenti e della denatalità europea (6,9 per i negri dell'Africa occidentale, 3,2 per i magrebini, 1,7 per i francesi, rileva Gourévitch; in alcune regioni d'Italia, come in Liguria, il tasso europeo di 1,5 precipita a 0,74, il che significa estinzione nell'arco di tre o quattro generazioni... estinzione in ogni caso agevolata dalle autorità statali, che continuano a finanziare e incentivare celibato, contraccezione ed aborto) *** negli ultimi due decenni l'Europa ha perso quella che nella storia demografica del pianeta è l'equivalente della perdita da una guerra mondiale. Le cifre sono eloquenti: nel 2037, tra neppure quarant'anni, gli italiani saranno 45 milioni, 12 in meno rispetto ad oggi. In vent'anni, tra il 2000 e il 2020, i soli paesi della Comunità Europea perderanno 10 milioni netti di abitanti, mentre quelli del Nordafrica saliranno di 100 milioni e verranno attirati nelle «società aperte» dalla cattiva coscienza instillata negli europei dai predicatori del multirazzialismo e della droga, peraltro coerente coi postulati liberali, dell'edonismo individualista.
*** Fenomeno lucidamente pre-visto dai regimi fascisti settant'anni or sono e negli anni Settanta aggravato, col pretesto di «salvare l'ambiente», dalla dissennata predicazione malthusiana dei verdi post-sessantottini (salvo poi difendere a spada tratta l'invasione multirazziale e richiedere le porte aperte per «rimpiazzare» la mano d'opera «mancante» per devastare ulteriormente il globo terracqueo!).
punto 9. E comunque l'Europa è moralmente tenuta, dal proprio codice etico fondato sull'«amore» cristiano e sulle sue propaggini liberali e socialcomuniste, a dare ricetto agli «sventurati» per motivi economici (quali che siano i loro meriti o demeriti o colpe: «anche loro devono pur vivere», guaiscono i benpensanti, giustificando il degrado, l'illecito, l'occupazione di case «vuote», il piccolo reato perpetrato dagli invasori clandestini come dai «regolari», obolizzando e compatendo i vulavà e i vucumprà, in attesa di fare altrettanto con i vuspaccià, o anche – commoventi episodi – «riscattando» e «redimendo» dai protettori prostitute variamente coloured o moldave o ucraine o romene o albanesi a seconda dei gusti), nonché giuridicamente obbligata da norme internazionali e dalle carte dell'ONU e dei Sacrosanti Diritti (l'Italia, inoltre, dall'art.10 della Costituzione) a praticare una politica di asilo indiscriminato per chiunque si dica «perseguitato», sia egli un singolo essere umano o siano decine di milioni di individui. Ognuno dovrebbe sapere che dietro persecuzioni e conflitti ci sono sempre, in modo diretto o indiretto, la grande mano del Sistema, come nel caso delle decine di migliaia di criminali albanesi, inviati in Europa a destabilizzarne le nazioni, e le piccole mani di governi che, come quello di Rabat per l'ingravescente irresponsabile esubero demografico marocchino, o quello impunito di Ankara per i curdi, vogliano liberarsi di milioni di indesiderati a spese altrui! ***
*** Aspetti acutamente analizzati da John Kleeves in Una terra occupata. Operazione albanesi - Come i ceceni contro la Russia, così gli albanesi contro l'Europa, «Rinascita», 4 febbraio 2001 e in L'invasione continua - E l'Italia è complice della pulizia etnica turca, «Rinascita», 7 giugno 2001.
Puntuale, contro l'invasionismo quale «ideologia dell'espiazione», propagata in prima fila dal sinistrismo europeo, Daniele Giannetti sul quotidiano della Lega Nord: «All'indomani della caduta del muro di Berlino e dell'implosione del comunismo, vittima di quelle stesse contraddizioni che pretendeva di riscontrare negli altri, il marxismo persiste ancora in modo massiccio nella società europea, laddove a una clamorosa disfatta sul piano politico e su quello economico non è seguita una sconfessione su quello culturale. Grazie all'intuizione gramsciana che investe l'"intellettuale organico" del ruolo di predicatore – profano – in seno alla "società civile", l'intero apparato culturale, informativo e massmediatico è ancora oggi perfettamente allineato alle posizioni di quel sistema livellatore delle differenze che sembra ormai essere stato assunto a modello "perfetto" e universalmente valido. Attraverso simili, formidabili strumenti di formazione, persuasione e repressione la sinistra gode quindi di una posizione privilegiata, "egemonica", nel dettare i tempi per la preparazione, l'accettazione e l'instaurazione della società multietnica. L'altra e forse più importante valutazione in ordine alle motivazioni recondite che animano i postcomunisti [leggi meglio: neocomunisti] nella realizzazione del loro progetto va ricercata e individuata a livello psicologico o, più precisamente, psicopatologico. La sinistra odia l'Europa: la odia profondamente perché vede in lei la scandalosa e oltraggiosa testimonianza di una resistenza culturale che ha rifiutato e rigettato l'opzione comunista combattendola e sconfiggendola. Il grande peccato della civiltà occidentale [leggi meglio: europea] risiede proprio in questo: nell'aver compreso come lo schema ideologico comunista fosse irriducibilmente alieno alla storia, alla cultura, alla civiltà europea e nell'essersi mostrata immune di fronte alle promesse di "felicità" e di "paradiso terrestre" che il marxismo scandiva regolarmente».
Ed ancora: «La "trasvalutazione" di tutti quei valori così peculiarmente europei che la filosofia marxista-leninista intendeva operare onde giungere a un "nuovo ordine" edificato sulle macerie di una civiltà sottoposta al procedimento della "tabula rasa" si ripresenta oggi sotto le spoglie di un "terzomondismo" nutrito dal senso di colpa – peraltro indotto – che l'uomo europeo prova di fronte alle presunte "ingiustizie" di cui le popolazioni extraeuropee sarebbero vittime. Il terzomondismo assolve allora la funzione di scardinare l'identità europea assicurando, da una parte, una copertura ideologica all'invasione allogena e colmando, dall'altra, il vuoto lasciato dalla dinamica classica nella misura in cui alla dittatura del proletariato succederà la società multietnica e alla società senza classi subentrerà la ri-formata e ri-nata civiltà europea scaturita dall'integrazione e dalla fusione con i nuovi venuti ».
Ed ancora, concludendo: «L'Europa, in questo senso, assurge per la sinistra a simbolo delle proprie frustrazioni e delle proprie paranoie, a specchio impietoso dei propri fallimenti, a scomodo testimone dei propri crimini [...] Qualsiasi opposizione all'ideologia multirazziale, infatti, seppur fondata sul ragionamento logico, sulle esperienze storiche, sui dati di fatto inoppugnabili, su fredde statistiche, è vana di fronte all'utilizzo di slogan che si caratterizzano, sempre più, come formule magiche irrazionali e prive di un riscontro reale atte a esorcizzare un presunto, incombente cataclisma sociale ("emergenza razzismo", "allarme xenofobia", "deriva populista", "rigurgiti nazisti", etc.). Su queste basi appare del tutto evidente l'intenzione di radicare nell'opinione pubblica il concetto di "antirazzismo militante" quale "sentinella democratica" delle istituzioni alla stregua di ciò che aveva rappresentato per il sistema l'"antifascismo militante" negli anni passati».
«Si potrebbe completare il quadro» – aggiunge lo svizzero Eric Werner – «osservando che l'attuale regime occidentale s'adopera con zelo a far sì che la maggioranza autoctona della popolazione acquisisca sempre più una mentalità e i riflessi che gli antropologi e gli storici della cultura considerano abitualmente come caratteristiche delle minoranze, al primo posto l'odio-di-sé (Selbsthass) e una tendenza patologica all'autodenigrazione e all'autorazzismo. I massmedia invitano in permanenza i cittadini a espiare la loro colpa, a chiedere perdono per fatti, reali o immaginari, che i dirigenti proclamano al contempo, senza tema di contraddirsi, "inescusabili". Fatti che non si rimprovera ai cittadini di averli commessi loro stessi, bensì i loro genitori, nonni o anche antenati più o meno lontani. Perché, come nelle società primitive, la colpevolezza è collettiva, si trasmette di generazione in generazione. Si aggiunga che tale colpevolezza è a senso unico e che naturalmente a nessuno verrà in mente l'idea di rimproverare "l'Altro", sia chi sia, di essersi mostrato in passato avido, crudele, odioso, intollerante, vendicativo, etc. È impensabile. "L'Altro" ha sempre ragione e mai torto. E naturalmente ha tutti i diritti».
Altrettanto chiaro, rilevando l'odio-dei-propri-simili che muove gli «antirazzisti», Rémi Trastour: «La propaganda cosiddetta "antirazzista", perseguendo una politica "multirazziale", cerca di indurre nelle etnie recalcitranti sentimenti di colpa favorevoli alle sue teorie, con l'obiettivo, ne sia o meno cosciente, di rendere preponderanti certe etnie a scapito delle etnie autoctone o dominanti».
punto 10. E comunque, le migrazioni sono inarrestabili e tutte le società del futuro saranno multirazziali. Sfruttando il sottile ricatto psicologico dell'«inevitabilità» e della «coraggiosa» apertura alle «sfide», l'invasionista Gourévitch, farneticando di «una lotta contro la rassegnazione in nome della sperimentazione di soluzioni nuove, coraggiose, destinate ad essere valutate prima che generalizzate», guaisce: «Al contempo dobbiamo riconoscere il carattere ineluttabile di queste migrazioni dal Sud al Nord, che nessuna politica comune europea può frenare o impedire. L'unica cosa possibile è armonizzarle e regolamentarle in un mondo retto dalla globalizzazione, ove nessuno Stato né gruppo di Stati può alzare barriere definitive contro il flusso di persone, merci e messaggi chi dilagano per il pianeta [...] Questa xenofobia richiede un trattamento terapeutico. Si può fare sparire la sofferenza ricorrendo a decreti che scaccino il male (l'espulsione dell'altro) o a una cura di lunga durata che porti ad associare l'altro alla sua guarigione [...] Non scamperemo all'avvento di una società di meticci [...] Non scamperemo ad un'etica della transazione».
«Premetto che io non credo agli inevitabili. Chi li afferma li produce. Dio li impicchi» – ribatte Sartori – «Ma la cultura della resa non proviene soltanto dagli "inevitabilisti". Proviene anche dai "mammisti" (copiosamente annaffiati dalle immagini lacrimose della televisione). E viene alimentata da chi ritiene che una società multietnica e multiculturale sia "buona", che sia da desiderare e da promuovere. Vediamo. L'argomento degli inevitabilisti è che tanto non ce la facciamo, che la resistenza è impossibile. Vedi, ci dicono, gli Stati Uniti, che vengono perforati al loro Sud da messicani e sudamericani a dispetto di ogni sorta di barriere e controlli. Sciocchezze. Se quei controlli non ci fossero, gli Stati Uniti verrebbero lestamente invasi non da centinaia di migliaia ma da milioni e milioni di clandestini. Idem per l'Europa. Se non resistesse, verrebbe sommersa; mentre ora come ora, o ancora, non lo è. L'argomento dei mammisti è invece che i derelitti del mondo debbono essere accolti per carità cristiana o perché è bene che sia così. Che far del bene sia bene, lo ritengo anch'io. Ma con un minimo di raziocinio. Volere il bene non equivale a conseguirlo. Le buone intenzioni, si sa, lastricano l'inferno. Oggi c'è chi ritiene buona la società multietnica. Ma lo è davvero? Il dubbio è più che lecito.
«C'è poi, all'altro estremo, l'argomento utilitario. Non importa che gli extracomunitari piacciano o non piacciano; il fatto resta che sono utili, che ci servono e che lo sviluppo economico li impone. Senza negare che anche l'economia abbia le sue ragioni, questo argomento è particolarmente malposto. Importare mano d'opera non è lo stesso che importare immigrati, e cioè potenziali cittadini. Inoltre entrare in un Paese legalmente con un contratto di lavoro in tasca è un conto; entrarci illegalmente, e spesso senza possibilità o capacità di lavoro, è un altro. E il punto è che non è certo l'economia che ci chiede di trasformare il lavoratore-ospite nell'immigrato-cittadino. Dunque il problema degli extracomunitari è malamente librato tra inevitabilisti, mammisti e utilitaristi malveggenti».
Quanto alla presunta multirazzialità planetaria, ben ribatte, in Archeofuturismo, Guillaume Faye: «Il cosmopolitismo egualitario ha suscitato paradossalmente il razzismo globalizzato, per ora sotterraneo e implicito ma che tra breve si manifesterà apertamente. I popoli messi uno di fronte all'altro, a stretto contatto nella "città globale" che è diventata la Terra, si stanno preparando allo scontro e l'Europa, vittima di una colonizzazione di popolamento, rischia di diventare il principale campo di battaglia. Coloro secondo i quali il meticciato generalizzato è già scritto nel futuro dell'umanità si sbagliano, perché esso dilaga solo in Europa. Gli altri continenti, soprattutto l'Africa e l'Asia, costituiscono sempre più dei blocchi etnici impermeabili, che esportano i surplus di popolazione, ma non ne importano ».
Conclude, a ragione, Giovanni Damiano: «In breve: gli "argomenti suesposti", oltre ad essere tra loro eterogenei, e in fondo risibili, sono, soprattutto, assolutamente inadatti, per la loro pochezza, a giustificare eventi di tale portata: è grottesco, ad esempio, il solo pensare che l'avvento di una società multirazziale possa essere auspicato perché in grado di risolvere il problema delle pensioni o perché i nostri nonni erano emigranti!».
Più ampio ancora è lo sguardo del procuratore dell'Aquila Bruno Tarquini nella Relazione inaugurale dell'anno giudiziario 1999: «Negli ultimi tempi il flusso migratorio ha assunto dimensioni così rilevanti [...] che si è indotti a ritenere fondata la tesi di chi sostiene che si tratti di una vera e propria invasione dell'Europa: voluta e finanziata da centrali operative internazionali, allo scopo di determinare col tempo l'ibridazione dei popoli e delle religioni, onde possano realizzarsi più facilmente e più compiutamente progetti di dominio universale».
A fronte alla lucidità intellettuale e al coraggio morale di Tarquini, ributtante è invece la «compassione» del procuratore di Cassino Gianfranco Izzo – inquirente sull'assassinio dell'undicenne Mauro Iavarone, il 18 novembre 1998 stuprato e strangolato da zingari – il quale, deduciamo, ben avrebbe visto colpevole un italiano: «Quando ad un certo punto le indagini si sono indirizzate verso quei due ragazzi nomadi, mi si è stretto il cuore. Mi creda, sospettare due nomadi, per me, è stato un vero sacrificio». Invero, il ventenne rom Denis Bogdan e il diciottenne peruviano Erik Schertzberger il 30 marzo 2001 saranno condannati rispettivamente all'ergastolo e a venti anni di carcere. Politically correct la protesta del Bogdan, che dimostra di avere capito la lezione: «Razzisti, mi condannate perché sono zingaro».
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La distruzione alimentare e sociale del Terzomondo
«Non insisterò sul fenomeno» – scrive nel 1911 Werner Sombart – «poco rilevante, del resto, che gli ebrei sono a capo, o almeno per molto tempo sono stati a capo, di parecchi e importantissimi settori commerciali, giungendo a monopolizzarne alcuni: il grano (principalmente nell'Ovest), il tabacco, la lana. Già a prima vista si comprende come si tratti dei tre fasci nervosi principali dell'economia americana, per cui chi detiene il monopolio di questi tre potenti settori dell'economia deve necessariamente svolgere una funzione di predominio nel contesto economico generale. Come ho appena detto, non insisto eccessivamente su tale circostanza, proponendomi di fondare la mia tesi del ruolo egemonico degli ebrei su ragioni molto più profonde».
Nel 2000 le multinazionali con capacità di ricatto mondiale nel commercio di cereali, Cina compresa, sono cinque: quattro in mani ebraiche e una ebreo-controllata (ben minore è la sesta, l'italiana Ferruzzi, giunta alla ribalta negli anni Settanta ad opera di Serafino Ferruzzi e potenziata dal genero Raul Gardini), chiamate, in analogia con le compagnie petrolifere, «le sorelle del grano». Nell'ordine:
1) Cargill di Minneapolis, della famiglia amero-scozzese Mc Millan, socio il «bielorusso» Julius Hendel. Prima delle cento imprese multinazionali agroalimentari elencate da Margherita Scoppola, fatturato totale 1997 di 56.000 milioni di dollari (oltre 100.000 miliardi di lire), con le altre quattro più la Ferruzzi la Cargill oligopolizza l'80% del mercato mondiale dei cereali e, con Continental Grain, Dreyfus e Bunge y Born, l'80% di quello dei semi oleosi. Nel 1978 essa acquista il secondo più grosso produttore statunitense di carne, la MBPXL Corporation di Wichita/Kansas, mutandone il nome in Excel e trasferendo gli impianti a Dodge City. Scrive Jeremy Rifkin: «La decisione di Cargill di aggiungere al proprio portafoglio aziendale attività di lavorazione delle carni bovine rifletteva la tendenza all'integrazione verticale che caratterizzava la scena imprenditoriale degli anni Settanta; segnalava anche il consolidamento finale dell'industria della carne, con il raggruppamento di cerealicoltura, allevamento e macellazione e trasformazione della carne in un unico, grande complesso bovino [...] Oggi, i tre grandi dell'industria della carne esercitano un significativo controllo su quasi tutte le fasi del processo produttivo della carne: posseggono le aziende che producono le sementi utilizzate per le colture di cereali destinati all'alimentazione bovina; producono i fertilizzanti e i prodotti chimici utilizzati sui terreni e sulle colture; sono proprietari di stalle intensive e di mandrie bovine sempre più numerose». ***
*** Il primo grande dell'industria della carne, la IBP Iowa Beef Packers, acquistata nel 1981 dalla Occidental Petroleum del miliardario ebreo filo-comunista Armand Hammer, nel 1988 macella il 29% dei bovini USA e controlla il 35-40% del mercato USA della carne bovina confezionata. Il terzo, la Read Meat Company, è creatura del colosso alimentare Con-Agra, dopo l'acquisto della Swift e di altre imprese.
2) Continental Grain di New York, della famiglia ebraica americana Fribourg. Il capo-casata è Michel, nato ad Anversa nel 1913. Cento anni prima il bis-bisnonno Simon riforniva di granaglie gli eserciti napoleonici. La prima filiale oltreoceano viene aperta a New York nel 1922; nel maggio 1940, all'arrivo in Belgio dei tedeschi, Michel si porta negli USA con tutti i beni liquidi. Il commercio con Mosca si apre nel 1963 con la vendita di 800.000 tonnellate di grano; nel novembre 1971 viene contrattata la vendita di 2,9 milioni di tonnellate di cereali, soprattutto grano, orzo e avena; nel luglio 1972 la cessione all'URSS al prezzo «politico» di 1,68 dollari a bushel porta ad un rialzo dei prezzi sul mercato americano che giunge a 5,24 dollari, mentre il mais triplica e la soia quadruplica per compensare il basso prezzo applicato all'URSS. Nel 1999 la CG si fonde con la Cargill a formare il supercolosso del settore alimentare.
3) Dreyfus di Stanford e Parigi, della famiglia «francese» Louis-Dreyfus.
4) Bunge y Born di Buenos Aires, della famiglia «argentina» Hirsh (tredicesima nell'elenco Scoppola con fatturato 1997 di 12.000 milioni di dollari).
5) Garnac di Chicago e Losanna, fondata nel 1877 dalla famiglia «svizzera» André, la quale, in difficoltà negli ultimi anni Novanta, nel marzo 2001 alza bandiera bianca davanti a 43 banche creditrici, affidandosi a una procedura prefallimentare.
Come scrive Giovanni Cesare Bianco, tale pentacipite superlobby economico-politica, mai quotata in Borsa e che non pubblica bilanci, è «molto aggressiva e determinata verso potenziali rischi e concorrenti, spregiudicata e rapace nei rapporti con contraenti, produttori ed acquirenti, quanto illuminata nei rapporti internazionali, votata al superamento della guerra fredda, alla composizione pacifica di ogni tensione locale o mondiale, alla massima apertura dei mercati e ad una politica internazionale molto avanzata e democratica, specie col blocco dei paesi comunisti ed asiatici [...] L'espansione innesca un nuovo ciclo di lotta oligopolistica nello schieramento ricordato, violenta e senza esclusione di colpi, quindi con costi elevati ed esiti incerti, e ciò pur in presenza di una situazione configurabile come oligopolio collusivo su scala mondiale. Conseguenti ripercussioni sono l'esaltazione dei corsi sui mercati, relativa inefficienza e sottoutilizzazione delle capacità produttive, possibilità di operare in termini fortemente speculativi».
Similmente Tony Spybey: «Le operazioni di queste società sono talmente estese che, considerata l'importanza del grano nella dieta umana, nel loro complesso esse formano il nucleo centrale del sistema alimentare globale. La portata delle loro operazioni è talmente vasta che esse impiegano la tecnologia satellitare per stimare l'offerta globale quando i cereali stanno ancora crescendo nelle praterie e nelle steppe dei vari continenti. Morgan [in Merchants of Grain, Viking Press, 1979] le presenta in questi termini: "Le società dei cereali furono coinvolte nel caso delle tanto controverse e pubblicizzate vendite di grano americano all'Unione Sovietica nel 1972. Fu solo però nell'anno successivo che, con il quadruplicarsi del prezzo del petrolio, si approfondì la consapevolezza dell'opinione pubblica sull'importanza strategica delle risorse fondamentali". Come già accennato, infatti, la crisi del petrolio del 1973 portò lo scompiglio nei prezzi delle merci internazionali. Il grano, essendo un alimento di prima necessità, è anche un bene essenziale e strategico a tutti i livelli, eppure il corso delle azioni di queste società non viene quotato in Borsa, esse non pubblicano rendiconti e nel complesso sono controllate da un'oligarchia di sette famiglie. Si tratta di società che esercitano un impatto certamente transnazionale su una rete integrata di domanda e offerta, che comprende agricoltori, intermediari, spedizionieri, mugnai, fornai, supermercati e consumatori in tutti e cinque i continenti».
Della potenza delle Cinque Sorelle relaziona anche la Scoppola: «Pur svolgendo un ruolo centrale nel funzionamento dei mercati di alcune commodities [derrate] di base, le sei multinazionali sono rimaste nell'ombra per alcuni decenni. Questo alone di riservatezza, e perfino di segretezza, è stato anche favorito dalla struttura proprietaria delle imprese: una sola famiglia, infatti, controlla le quote di maggioranza della casa madre e di quasi tutte le filiali; inoltre i manager del gruppo provengono frequentemente dalla stessa famiglia o sono comunque legati ad essa attraverso rapporti di parentela. La concentrazione della proprietà e del management nelle mani di una sola famiglia ha consentito alle multinazionali di operare in un clima di estrema riservatezza, non dovendo rendere conto all'esterno delle strategie di impresa».
La potenza delle Cinque Sorelle si esplica anche in politiche aziendali volte alla diversificazione in sempre nuove attività, tendenzialmente tutte a rischio contenuto, nei settori bancario, assicurativo, immobiliare e industriale. Di converso, confrères attivi in altri campi prendono sotto tutela altri settori alimentari strategici: vedi il superspeculatore ex-«ungherese» George Soros, che dopo avere investito miliardi di dollari in giganteschi complessi alberghieri e per uffici a Città del Messico, partecipato ai venezuelani Banco Provincial e Fondo de Valores Immobiliarios, a Bogotà al Banco de Colombia, in Brasile a ditte immobiliari e alla telefonica Telebras, a ditte immobiliari guatemalteche e, quanto all'Argentina, ad imprese di costruzione, catene alberghiere, centri sportivi, centri commerciali e primarie ditte immobiliari, prende sotto controllo il più vasto dei parchi-bestiame argentini, comprendente a fine 1997 oltre 160.000 capi.
E a fine secolo tutti i settori affaristici sono talmente intricati che il mondo assiste, impotente, ai più impensati, ma sempre remunerativi, sconfinamenti. Nessuna sorpresa, quindi, se Arianna Dagnino ci avverte – oltre che delle consimili imprese della Virgin dell'«inglese» Richard Branson e della Monsanto del superamericano Robert Shapiro, che acquista terreni in Africa per sperimentare, indisturbata, le nuove, redditizie culture transgeniche approvate dal confratello Gary Goldberg, capo dell'American Corn Growers Association, "Associazione dei coltivatori americani di grano" (nel 1999 negli USA sono transgenici il 40% del raccolto di mais e il 60% della soia) – che Soros, «il genio delle speculazioni finanziarie», punta ora «sull'Africa, sull'agricoltura, sulla natura e su un bene che è destinato a scarseggiare: lo spazio»:
«Saremo pure all'economia delle idee e alla ricchezza impalpabile dei flussi di informazione, ma la terra, bene fisico per eccellenza, rimane un asset [risorsa finanziaria]. E George Soros l'ha capito. Mentre i più fanno a gara per salire sul vascello dell'information technology, alcuni grandi investitori internazionali stanno puntando su ciò che l'Occidente pensava già di dover gettare fuori bordo: la terra. Terra come fornitrice di materie prime, di beni agro-industriali o minerali; terra su cui costruire case e complessi turistici; terra semplicemente come spazio (un bene che, a differenza delle idee, è limitato e tende sempre più a scarseggiare).
«Ma dove stanno acquistando i finanzieri delle city di New York e Londra? Soprattutto nel continente dimenticato, l'Africa. È questa la prospettiva strategica di società di investimenti come la londinese Blakeney Management – specializzata in mercati emergenti e unica, nel suo genere, a focalizzare i propri interessi esclusivamente in Africa e nei Paesi Arabi – che oltre a investire in azioni sulle borse locali ha cominciato ad acquisire società proprietarie di tenute e piantagioni. Dietro Blakeney Management ha fatto spesso capolino George Soros [...] Il Soros Fund Management, infatti, fa parte del consorzio di investitori stranieri che, capeggiato da Blakeney Management, nel 1997 divenne il maggior azionista di African Lakes Corporation, una trading company [da to trade «commerciare/trafficare/approfittare/speculare», e quindi: compagnia di commercio/speculazione] quotata a Londra e da oltre un secolo attiva nell'Africa subequatoriale, dove è proprietaria, soprattutto in Malawi e Zimbabwe, di piantagioni e foreste. La stessa African Lakes ha ora acquisito Automotive Export Supplies, distributore di Land Rover e BMW in dodici paesi africani».
Inoltre, «la presenza invisibile di George Soros si fece sentire anche quando nel 1998 Blakeney Management – il cui fondo d'investimenti per l'Africa include una coppia di banche newyorkesi e due fra i maggiori fondi pensione inglesi – divenne insieme ad African Lakes il maggior azionista di Lonrho Africa, una delle più importanti trading company del continente, quotata sia a Londra che a Johannesburg. Con sede a Nairobi, Lonrho Africa è proprietaria di grandi piantagioni di cotone, tè, canna da zucchero, enormi fattorie per l'allevamento di bestiame e immense foreste da taglio. I suoi interessi, radicati anche nel turismo e nella distribuzione di auto e macchinari industriali, toccano Ghana, Kenia, Uganda, Mozambico, Sudafrica, Mauritius, Zambia e Malawi. Sempre fra le società con un interesse in Lonrho Africa si trova un altro dei protagonisti di questo nuovo scramble for Africa [lotta per l'Africa]. È African Plantations, anch'essa associata a Soros. African Plantations Corporation è costituita da un gruppo di finanziatori lungimiranti, "convinti che le grandi piantagioni del continente abbiano di fronte a sé un futuro promettente, alla luce della crescente domanda di prodotti agro-industriali sui mercati internazionali e della concomitante riduzione di terre arabili nel resto del mondo", come recita il profilo aziendale. Ha acquistato grandi piantagioni di tè e caffè in Malawi, Tanzania, Zambia e Zimbabwe e vuole costruire la più importante società di produzione di tè e caffè di tutta l'Africa, con ramificazioni anche nelle foreste da taglio e nelle piantagioni di alberi della gomma [...] D'altronde persino un avveduto e ascoltato international investor come Jim Rogers, da un anno in giro per il pianeta per analizzare di persona i vari mercati, consiglia di puntare sulle materie prime: riso, cotone, lana, prodotti minerari. Tutta ricchezza che si può ancora toccare con mano».
A causa della politica agricola condotta dall'Occidente, in testa gli USA, nei confronti del Terzomondo, le gigantesche holding multi-transnazionali, in ispecie le Cinque Sorelle dei cereali, sono le responsabili prime di tutta una serie di fenomeni innescati
1. dal mutamento delle colture e dalla sostituzione dei cereali locali – in Africa, ad esempio, miglio e sorgo – con monocolture più redditizie per gli acquirenti ma ipersfruttatrici del suolo: caffè, arachidi, banane, ananas, soia e altri legumi, zucchero, vaniglia, gamberetti, juta, tabacco, albero della gomma o perfino erba alfalfa, prodotta in Etiopia per il bestiame giapponese mentre i contadini etiopici muoiono di fame, così come in Centroamerica alla fine degli anni Settanta due terzi della terra arabile sono occupati da bestiame per lo più destinato al Nordamerica (osceno ed irresponsabile gioco, dato che il 90% dei nuovi allevamenti in Amazzonia sospende l'attività entro otto anni dall'avvio, causa l'impoverimento del suolo dovuto all'eccesso di pascolo) o ancor più direttamente dannose per gli indigeni: coltivazione di stupefacenti come Cannabis sativa, coca e papavero d'oppio, con formazione di strutture criminali anche a livello statuale e ulteriore inserimento di tali economie nel circuito mondialista... il «vantaggio comparativo» inneggiato da Adam Smith!:
2. fenomeni, il più immediato dei quali è la vendita a tali paesi del surplus di cereali prodotti dall'agricoltore statunitense, il quale, per mantenere tale produzione,
3. viene a dipendere sempre più dai prestiti bancari e dagli acquirenti/commercianti del prodotto, e
4. impoverisce il suolo in modo sempre più aggressivo,
5. richiedendo quantità sempre maggiori di pesticidi e fertilizzanti come, d'altra parte, il Terzomondo per le monoculture (per quanto concerne i cereali, nel quarantennio 1950-90 il consumo mondiale dei fertilizzanti è praticamente decuplicato),
6. con una ricaduta negativa, diretta e indiretta, sulla salute non solo del Paese di Dio, ma dell'intera popolazione mondiale,
7. progressiva dipendenza alimentare dagli USA del Terzomondo (e con istruttivi risvolti: quando nel 1972 il Sahel viene devastato dalla siccità e dalla morte per fame, Washington paga ai propri agricoltori tre miliardi di dollari affinché lascino incolti cinquanta milioni di ettari che, se coltivati, sfamerebbero quelle popolazioni africane, e ciò per provocare un rialzo dei prezzi e trarre maggiore profitto sui grandi mercati: «I morti di fame del Sahel non avevano invece i quattrini sufficienti per comprare il grano a un prezzo interessante per i produttori americani», commenta Massimo Fini),
8. sfruttamento intensivo di campi, foreste e materie prime per fronteggiare non solo le esigenze di una popolazione in rapida irresponsabile crescita, ma anche il deficit della bilancia commerciale,
9. maggiore impulso, attraverso la commercializzazione di legname e minerali, alla capacità trasformativo-produttiva dei paesi industrializzati,
10. conseguente ulteriore accelerazione dell'inquinamento ambientale e del tasso di malattie infettive e degenerative in tali paesi,
11. abbandono, da parte dei governi locali, di ogni volontà di sviluppare le residue colture terzomondiali mediante costruzione, ad esempio, di difese arboree naturali o serbatoi e canali d'irrigazione,
12. desertificazione e abbandono dei campi (oltre alla Cina, vedi l'Africa subsahariana),
13. urbanizzazione accelerata, con formazione di megalopoli-cloaca composte da agglomerati di bidonville e favele, come ben riassume l'ebreo Giorgio Morpurgo il quale, all'interno di un realismo oltremodo pregevole, cede tuttavia a beceri spunti «antinazisti», scagliandosi contro l'unica Weltanschauung che abbia previsto e combattuto le devastazioni del Mondialismo: «Potrebbe a prima vista sembrare che l'esportazione dei ritrovati della nostra società non abbia portato che bene: disgraziatamente è proprio il contrario. Se la popolazione è aumentata, non per questo è aumentata la superficie delle terre coltivate e tutte le risorse che assicurano ad una popolazione una vita decente. Anzi, come vedremo in seguito, la superficie coltivata va gradualmente diminuendo. Fino ad un certo punto l'aumento della popolazione è stato compensato dall'aumento della produttività agricola dato dall'introduzione di varietà di cereali più produttive, un rimedio non privo di controindicazioni poiché le nuove varietà necessitano di maggiori quantità di costosi concimi, generalmente non prodotti nei paesi del Terzo Mondo. Una soluzione di questo genere, in assenza di un declino nel ritmo di accrescimento della popolazione, che si è verificato ma non è stato sufficiente, non può costituire che un palliativo. Dopo una breve pausa il male ritornerà più intenso di prima. La popolazione è aumentata più delle risorse e il risultato è stato il collasso economico e il completo degrado sociale delle popolazioni di ciò che siamo abituati a chiamare Terzo Mondo.
«Si vive (per ora) un po' di più, ma a quale prezzo?... al prezzo di una vita a un livello subumano, della desertificazione del territorio, dell'abolizione di ogni valore culturale. La vecchia cultura è morta, la nuova non esiste. Lasciati a se stessi, questi paesi che avevano una loro propria vita, miserabile ma dignitosa, potevano riuscire ad evolvere verso qualcosa di meglio. O anche potevano restare com'erano, poiché certamente lo scopo primario degli uomini non è allungare la speranza di vita alla nascita ma, per quelli che sopravvivono, vivere una vita che abbia un senso. Adesso questi popoli non hanno speranza: l'aumento della popolazione fa sì che ogni possibile risorsa sia dedicata unicamente alla sopravvivenza, rendendo al tempo stesso impossibile sia il cambiamento delle condizioni economiche che lo sviluppo di una qualsiasi cultura. In tutti questi paesi si è poi verificato un altro fenomeno che nel giro di pochissimi anni ha assunto proporzioni mostruose. Spinti dalla fame ricorrente (è impossibile nelle campagne in assenza di uno Stato organizzato evitare le carestie dovute ad eventi climatici, malattie, etc.) la popolazione si riversa nelle città sperando di trovare qualcosa da mangiare. Nel giro di trent'anni Città del Messico è passata da 2 a 18-20 milioni di abitanti, Lima in Perù da 5 a 10 milioni (circa la metà della popolazione del paese), il Cairo da 3 a circa 16 milioni, [quanto alla nigeriana Lagos, passa da 1 milione a 10 milioni] etc. In tutti i casi le città hanno un centro con l'aspetto di una città come noi la concepiamo, relativamente piccolo, che raccoglie meno di un decimo degli abitanti, contornato da un agglomerato di catapecchie fatiscenti in cui non esistono fognature, acqua potabile, elettricità, etc.»,
14. esasperazione della dicotomia classi ricche/povere, che già caratterizza il Terzomondo, con la formazione e l'imposizione, ancor più che nell'Europa del dopoguerra, di cricche dominanti prone al Potere. Scrivono gli ebrei Jeffrey Mander ed Edward Goldsmith: «Il modo più efficace per aprire i mercati è quello di occidentalizzare i quadri dirigenti locali e trasformarli in ardenti sostenitori dello sviluppo economico, che deve essere perseguito anche a danno della maggioranza dei concittadini [...] Oggi questo è uno degli obiettivi principali dei cosiddetti programmi di sviluppo, che comprendono l'addestramento militare, la fornitura di armi e il sostegno economico ai governi filoamericani. Rientrano in questa logica anche gli aiuti alimentari forniti dagli Stati Uniti, che sono divisi in due categorie. La prima si compone essenzialmente di prestiti a interesse ridotto che vengono erogati ai governi del Terzo Mondo. Questi soldi, come scrive Danaher, "servono a comprare prodotti alimentari americani per poi rivenderli sul mercato trattenendo il ricavato". Questo tipo di aiuto è soltanto un trasferimento di valuta nelle casse dei governi che Washington considera strategicamente importanti. La seconda categoria di aiuti alimentari, invece, ha funzione di rendere certi paesi sempre più dipendenti dalle forniture statunitensi. Molti uomini politici americani, compreso l'ex vicepresidente [democratico] Hubert Humphrey, hanno detto che gli aiuti alimentari devono essere usati come arma»,
15. ulteriore spinta all'ingresso nel Mercato-mondo per l'importazione di modelli di vita occidentali e per la necessità di approvvigionare la popolazione urbana enormemente aumentata, il che porta non solo ad istituire «adeguate» strutture di controllo, trasporto e commercio, ma anche a forzare i contadini a produrre non più per sé ma per il mercato-mondo (ad esempio con la formula della «agricoltura su contratto», ove la grande impresa, nazionale o multinazionale, prende in affitto dal contadino la sua terra e il suo lavoro e costui produce quanto gli viene richiesto), e
16. conseguente maggiore impotenza economico-politica del Terzomondo nei confronti dell'Occidente, con
17. la perdita del potere di controllo e difesa – come già fu nell'Ottocento in Cina con l'imposizione dell'oppio – nei confronti delle importazioni di alimenti giudicati dannosi dai singoli Stati: cibi transgenici, carni ormonizzate, vegetali disinfestati con precursori diossinici le cui caratteristiche e i cui limiti di tossicità vengono, rispettivamente, le prime sminuite e i secondi decuplicati su «base scientifica» per tranquillizzare l'«opinione pubblica», e
18. l'acquisizione dei moduli comportamentali occidentali a livello di struttura mentale/politica (la democrazia liberale diviene inevitabile), ma non a livello economico/produttivo. A prescindere dall'umanità del colonialismo di popolamento e strategico italiano, Massimo Fini rileva che il colonialismo classico, financo quello di sfruttamento commerciale di stampo anglo-olandese – non si dimentichi inoltre che, come nel caso francese, l'impegno si concluse, dal punto di vista economico, in perdita per via delle infrastrutture create e lasciate nelle colonie – fu molto più responsabile e meno brutale dell'odierno colonialismo finanziario di stampo americano:
«Non bisogna confondere l'omologazione del pianeta ad un unico modello economico con il colonialismo tradizionale. Non tanto perché quest'ultimo non arrivò mai ad occupare l'intero globo, quanto perché si tratta di due fenomeni che, seppur intrecciati, sono qualitativamente molto diversi. Il vecchio colonialismo, avendo soprattutto di mira la rapina di materie prime più che la conquista di nuovi mercati, tiene nettamente separate la comunità dei colonizzatori da quella indigena e non stravolge quindi l'esistenza e la cultura dei popoli autoctoni, che sostanzialmente continuano a vivere come hanno sempre vissuto. Il colonialismo economico invece, puntando sulla conquista di nuovi consumatori, ha bisogno di omologare le popolazioni indigene ai gusti, ai costumi, alla way of life del modello industriale, e quindi ne distrugge le culture, pur rispettando, almeno formalmente, a differenza del primo, la sovranità dei loro Stati», per cui quei paesi, entrati nel mercato mondiale e nel circuito internazionale del denaro, «vengono stritolati dalle interdipendenze create dal globalismo economico e dai suoi meccanismi. Per vari motivi. Perché, arrivando per ultimi, sono comunque troppo deboli per inserirsi nel meccanismo con qualche possibilità di successo. Perché i paesi industrializzati non solo gli rapinano, come han sempre fatto dall'epoca coloniale, le materie prime – e questo sarebbe ancora il meno – ma gli rivendono la loro roba inutile: Coca-Cola, radio portatili, pile, etc., impoverendoli ulteriormente. In alcuni casi i paesi del Terzo Mondo vengono persino "aiutati" [con prestiti o «donazioni»] per poterli depredare meglio»;
conferma il politologo Giancarlo Galli: «I prestiti al Terzo Mondo, che non rientreranno mai in quanto tali, sono stati in realtà già recuperati attraverso un circuito parallelo: le importazioni di materie prime da questi stessi paesi, e le esportazioni di prodotti finiti, beni di consumo e armamenti. Spirale nefasta, che accresce la dipendenza dal capitalismo di questi paesi: è il neocolonialismo economico-finanziario»,
19. ulteriore devastazione, in vista della rovina definitiva, delle civiltà locali e delle culture rurali: nota Umberto Malafronte che «il dissolvimento di queste strutture sociali ha disintegrato e atomizzato le società tribali o tradizionali [...] ingenerando uno stato di insicurezza e di disorientamento mal compensato dal parziale inserimento di una minoranza nell'economia formale sopravvenuta a quella originaria e principale causa della fuga di quegli individui dalle proprie terre e dai propri villaggi [...] La spinta all'occidentalizzazione finisce per destabilizzare vecchi e consolidati equilibri senza che si intravveda l'approdo verso i nuovi assetti sociali ed economici auspicati per le ovvie incompatibilità storico-culturali»,
20. ed infine, per quanto direttamente ci riguarda, mostruosa e insensata (ma non tale nella strategia del Piccolo Popolo) accelerazione del migrazionismo invasore verso l'Europa.
* * *
L'unica possibilità di riscatto
Poiché per gli artefici del Mondialismo assolutamente centrale è la perdita di ogni specificità personale e di ogni ricordo storico, il primo dovere verso i figli, verso la comunità e verso l'ambiente naturale si deve esplicare nel recupero e nel potenziamento della Memoria. Memoria, la cui perdita condanna gli esseri umani – ogni essere umano, a qualunque stirpe appartenga – alla perdita delle qualità più preziose:
1. la facoltà di discriminare le cose, cioè di assegnare ad ognuna la sua specifica dignità, di distinguere, di decidere, ***
*** De-cidere, dal latino de-caedere: «tagliare, colpire, separare». Invero, tutto l'antico realismo europeo riecheggia il concetto che «omnis determinatio est negatio», anche se del «discriminare», lehavdil, è il campione feroce, in senso moderno e aberrante maniera, proprio l'ebraismo.
2. il sentimento della radicalità di ogni cosa, la centralità vitale del legame col passato, col proprio popolo, coi propri figli, con se stessi. Non per nulla la nazione ebraica è riuscita a sopravvivere alle prove più dure nel corso di due millenni: perché ogni suo membro, pur (o proprio perché) segnato o guidato dall'Allucinazione, si è sempre posto, nella storia e nei costumi, nella quotidianità e nello slancio al futuro, a testimone della propria stirpe e comunità. La Memoria è Coscienza, la Memoria è Anima.
È il politologo Ernesto Galli della Loggia, cantore tra i più illustri di God's Own Country ad evidenziare nel modo più chiaro, in una Lettera agli amici americani, che questo è il nocciolo del problema, la ragione del contendere: «Sul principio "ci sono cose che non si possono comprare" l'Europa non può cedere. Se cedesse cosa le rimarrebbe? Assolutamente più nulla, in particolare nei vostri confronti. Perché al dunque quello che non si può comprare è una cosa soltanto: il passato. Ci sono cose – vuol dire quel principio – la cui essenza non sta nella loro consistenza effettiva e nell'uso che di esse si può fare, cose che alla radice non appartengono all'universo del "qui e ora", bensì all'universo stilistico che esse implicano e insieme richiedono: "stile" che solo al tempo è dato formare. Il tempo che filtra, che seleziona, che accumula [...] Voi siete intimamente convinti che la democrazia possa vincere e cancellare il tempo. Che ogni giorno e in ogni occasione si possa ricominciare da capo, che basti la volontà per impadronirsi di qualsiasi conoscenza».
Ma nel celebrare il Destino Manifesto che porta a rovina le nazioni e il pianeta, il Nostro si spinge ancor oltre, sulla via di una sincerità criminale, rasentando, peraltro tragicamente, il ridicolo: «Ai nostri occhi voi e la modernità siete [...] la stessa cosa, e quel che più conta lo siete nella realtà. Sicché ci accorgiamo che non possiamo essere moderni senza "americanizzarci", senza divenire un po' americani anche noi [...] Nella paura e nell'ostilità verso l'"americanizzazione" si manifesta nient'altro che la consapevolezza dell'Europa di possedere un'identità culturale ben poco congrua a ciò che è imposto dalla condizione dell'epoca [...] L'Europa non si ferma a pensare che quella cultura [americana] ha strappato centinaia e centinaia di migliaia di uomini a un'immobilità di secoli, portando sotto i loro occhi o dandogli il modo di conoscere per la prima volta cos'è un ristorante, cos'è una metropoli, cos'è un aeroplano. Tutto ciò ha beninteso un prezzo: la distruzione dell'antico. La modernità [al pari della morte, ci si permetta di aggiungere] è notoriamente una strada senza ritorno».
La cantata multirazzialista del Nostro, scandita per anni su tutte le gazzette in compagnia degli altri fratelli mondialisti (demoliberali, socialcomunisti e cristiani di ogni setta), sembra arrestarsi però nel 1994. Prendendo spunto da un fatto di cronaca – la condanna a morte, secondo la legge coranica, di un iraniano reo di avere abbandonato l'islam per il cristianesimo, annuncio di una prossima «guerra delle fedi», e specificamente tra la fede isalamica e quella liberale – il Galli della Loggia viene folgorato dal dubbio se, tutto sommato, il multirazzialismo non comporti, oltre all'Apertura Mentale offerta dall'Esperienza dell'Altro, anche un qualche inconveniente per le società (intanto, sulla scia degli insegnamenti galliani, le condizioni socio-politiche dei paesi europei si degradano tragicamente sotto l'urto dell'invasionismo «migrante»). Considerare il multiculturalismo l'unica alternativa ad «un razzismo di sapore hitleriano», scrive il Nostro, non solo è una di quelle «soluzioni complessive ed ottimali» spesso «terribilmente ottimistiche», ma anche una forma di precondizionamento, una «preventiva apposizione di etichette etiche alle diverse posizioni presenti in campo». Essendo il multirazzialismo (da lui riduttivamente chiamato «multiculturalismo») contrassegnato da una etichetta positiva, chiunque sarebbe tenuto a non dirne che bene.
Inoltre, mentre da un lato la convivenza tra le diverse culture non è mai sfociata in un irenico melting pot (il mitico «crogiuolo» nel quale dovrebbero scomparire tutte le differenze e fondersi tutte le razze a formare la superrazza del futuro), anche la salad bowl (la «insalatiera» nella quale ogni razza manterrebbe la propria individualità così come ogni componente dell'insalata, pur nell'amalgama dell'unico condimento, mantiene il proprio sapore) è solo una sorta di (effimera) pace armata: «Infatti lo scambio, la comunicazione, il passaggio – senza di che il multiculturalismo non sarebbe altro che una forma di apartheid democratico – sono inevitabilmente destinati, in un giro più o meno breve di tempo, a dissolvere e a cancellare le identità culturali. Queste possono sopravvivere e svilupparsi solo a patto di una separazione, di una lontananza reciproca. L'idea dei multiculturalisti di conservare in un unico spazio socio-statuale le più varie culture con la loro diversità, ma al tempo stesso di assicurare lo scambio "democratico" tra di esse e insieme, per sovrammercato, di riconoscere ai loro membri un insieme di diritti ritagliati sull'individuo (com'è nella tradizione delle democrazie occidentali), tale idea si rivela altrettanto realistica, mi sembra, di quella di svuotare il mare con un cucchiaino».
Ma – non ci si lasci sopraffare dall'entusiasmo per la scoperta di un presunto sodale – questo non è tutto! Il vero multiculturalismo, cioè il rispetto e la convivenza di culture dissimili entro una sola società, è incompatibile con l'idea stessa di società. Una società, afferma il Nostro Liberale con illiberale arditezza, «non è un condominio, di cui per far parte basta occupare un appartamento. Una società significa sempre, in qualche modo, un retaggio condiviso di valori, di tradizioni, di storia civile e religiosa. Ma come può aversi qualcosa del genere in un àmbito che veda la presenza di culture ugualmente forti ma di segno assai diverso? Non ci si illuda: questa impossibilità vale anche per le società democratiche. La parola cittadino nasce insieme a quella di patria. Non esiste una democrazia cosmopolita e, anzi, forse più di qualsiasi altro regime la democrazia ha bisogno di uno spazio nazionale [...] Gli Stati Uniti stanno sperimentando proprio in questi anni i cortocircuiti e le paralisi che il comunitarismo multiculturale rischia di produrre nel meccanismo politico di quella che è pure la più antica democrazia del mondo».
Ora – a parte che non è certo da oggi che gli States sono percorsi da una letale tensione interrazziale, devastati da reciproco odio – quali sarebbero le soluzioni? «Come molte idee astratte, ricalcate su princìpi altrettanto astratti», conciona il Galli, «il multiculturalismo non è una buona soluzione per i nostri problemi». Bene, assente il lettore, avanti allora le conclusioni. E qui casca il Nostro, che non prende neppure in considerazione l'unica soluzione, per quanto impotente e irrealistica possa oggi sembrare, per tentare – e sottolineiamo e risottolineiamo: tentare – di non morire della Devastazione: l'arroccamento delle società europee su se stesse, con 1) la chiusura all'Invasionismo nella pratica, 2) la distruzione dell'Allucinazione nella teoretica.
Soluzione articolata in cinque punti – tutti da discutere, affinare a ampliare con la massima apertura mentale – teoreticamente basati sulla massima antica di Averroè: «Chi cerca la pace a ogni costo non avrà che la guerra. Chi apre le porte della città al nemico per evitare il saccheggio e l'incendio sarà saccheggiato e incendiato ancora più crudelmente che se avesse combattuto con coraggio per difendersi» e su quella moderna di Carl Schmitt: «Non sei tu che decidi chi è il tuo nemico, è lui. Potrai bene dirlo tuo amico; se lui decide di essere tuo nemico, non potrai farci niente», e operativamente su equilibrio morale, determinazione caratteriale, consenso popolare e forza esecutiva (intenda il lettore: se anche Trastour e Faye invocano l'adozione di misure tanto più radicali quanto più inassimilabili sono le etnie, il ripristino dell'ordine va attuato nei riguardi di tutti gli immigrati, a prescindere dalla razza/etnia/nazionalità/religione, poiché, ricorda Thierry Desjardins citando il tribunale di Rennes del 22 ottobre 1991, «non costituiscono provocazione all'odio razziale i discorsi che trattano un fenomeno sociologico come l'immigrazione nella sua globalità, ove non si faccia riferimento a persone o gruppi determinati, o ad un'etnia, nazione, razza o religione»):
1. Varo legislativo di un organico pacchetto di provvedimenti, tra i quali:
schedatura degli immigrati, compresi, come afferma nel settembre 2001 il procuratore di Vicenza Antonio Fojadelli di fronte allo scatenarsi della criminalità albanese, «quelli con regolare permesso di soggiorno, purché si trovi una formula tecnico-giuridica che non li discrimini. Prendere le impronte a tutti non è umiliante [...] Solo chi non rispetta le regole ha da temere. Alle emergenze bisogna rispondere con strumenti idonei. Bisogna creare una banca dati per stranieri e coordinarci, altrimenti c'è il rischio che cresca l'intolleranza nei confronti degli immigrati con tutto ciò che comporta sul piano democratico. Perciò a tutti i clandestini vanno prese le impronte digitali e vanno fotografati»,
divieto del «ricongiungimento» dei familiari coi «lavoratori ospiti»: semplicemente allucinante, al contrario, che nel 2001 la Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale (il giudice «ammazzasentenze» già salvatore di decine di criminali, operante con formalismo maniacale e garantismo esasperato, nel giugno condannato in appello a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa), l'8 febbraio ammetta ed anzi promuova, in un'infinita «catena di sant'Antonio», la chiamata di un secondo familiare da parte di un primo individuo già «ricongiunto» a un invasore legale o sanatorizzato; ed egualmente allucinanti le decine di giudici che, in sette casi su dieci, obbligano le autorità a rilasciare i visti ai ricongiungenti, assistiti da una pletora di azzeccagarbugli – «gli avvocati che difendono gli stranieri considerano questo genere di cause come contenziosi facili da vincere», ghigna il giornalista Marco Galluzzo – sia il ministero degli Esteri sia quelle sempre più rare ambasciate italiane che osano dichiarare fasulli i presupposti del rilascio o non dimostrati identità, grado di parentela e l'essere i parenti a carico dell'immigrato), ***
*** Fatti altrettanto allucinanti: il TAR della Liguria, il 4 maggio, palesemente forzando l'art.51 della Costituzione, ammette la partecipazione di extracomunitari a concorsi pubblici; il Consiglio di Stato, il 6 maggio, sentenzia che né l'arresto in flagranza né la condanna sono ragioni per negare la richiesta di regolarizzazione avanzata da un criminale extracomunitario, neppure se clandestino; la prima sezione civile della Corte di Cassazione, con «una sentenza destinata a creare qualche disagio alle prefetture» (così, pudico, il Corriere della Sera del 10 luglio) dà ragione, contro il ricorso del governo e fondandosi sull'art.24 della Costituzione, a tale Igor B., «un immigrato che aveva presentato ricorso al Tribunale di Pordenone contro il decreto di espulsione perché gli era stato presentato in inglese e non nella propria lingua», sentenziando che il decreto vale solo se è scritto nella lingua madre dell'immigrato (immagini il lettore da sé i casi più singolari!). Infine, il generale Luigi Caligaris, ex-eurodeputato berlusconico farneticante di storia, propone di aprire le Forze Armate, carenti di militari dopo il voluto disfacimento cinquantennale e l'abolizione del servizio di leva varata il 14 novembre 2000 dal governo capitalcattocomunista dell'ex-socialista Giuliano Amato, a froci, invasori e criminali: «Se si comportano bene potrebbero essere premiati, dopo cinque anni di servizio, con la cittadinanza italiana. Gli antichi romani ricompensavano con la cittadinanza gli stranieri che servivano nel loro esercito. Gli americani l'hanno imparato dai romani. Perché noi non possiamo seguire l'esempio dell'antica Roma? [...] Io direi che la carenza dei professionisti può essere risolta con gli immigrati e anche con i gay. Nelle Forze armate c'è qualche gay nascosto. Io propongo di arruolare i gay dichiarati che garantiscano di mantenere in caserma un atteggiamento decoroso. I francesi e gli inglesi hanno avuto il coraggio di reclutarli. In Inghilterra offrono l'opportunità della vita militare perfino ai detenuti». Pressoché impossibile, commenta Marco Nese, è infatti il ripristino della leva, visto che la legge lo prevede solo in caso di grave emergenza nazionale. In pratica, solo se scoppia una guerra.
revisione della legge sulle adozioni internazionali approvata dai capitalcattocomunisti nel 1998 e deciso giro di vite restrittivo su tali pratiche,
ritiro della cittadinanza italiana ed espulsione per chi abbia contratto matrimoni «di comodo» (con punizione, ovviamente, anche dei mezzani-procacciatori e dei «coniugi» connazionali: difficilmente imitabile, comunque, il record della trentanovenne londinese Sylvia Evans, che dal 1989, oltre a due matrimoni veri, si è sposata sedici volte – tariffa: 1500 sterline, 4 milioni di lire, o un contributo all'arredamento – per assicurare agli invasori un passaporto del Regno! condannata nel settembre 2001 a tre anni di carcere dal giudice Quentin Campbell, l'intraprendente viene raggiunta in carcere dalla sorella, peraltro sposata sei sole volte), ai criminali di qualsiasi genere e a chi abbia mantenuto la vecchia cittadinanza,
divieto di concessione di diritti politici a qualsivoglia allogeno ad ogni livello, da quello circoscrizionale a quelli municipale, provinciale, regionale e nazionale,
non rinnovo del permesso di soggiorno alla massima parte di chi ne sia in possesso e qualunque ne sia la tipologia (lavoratori richiesti, lavoratori non richiesti, pseudolavoratori, «profughi» od espulsi per motivi politici, migrati per motivi economici, nullafacenti, criminali, etc.),
introduzione delle fattispecie di reato di ingresso clandestino e, nel caso di espulsione non osservata, di permanenza clandestina (aspetto da valutare con estrema attenzione, in particolare per evitare la piaga della durata del processo di primo grado e per non innescare il fenomeno del ricorso in secondo o terzo grado; lasciamo ai giuristi definire le soluzioni a tali incagli... magari adottando una legislazione speciale, come già fu per altri problemi centrali come il terrorismo rosso degli anni Settanta): malgrado il divieto a tali passi previsto dalla convenzione sottoscritta a Palermo da 38 – su 120 – paesi il 12-15 dicembre 2000, mentore l'invasionista Pino Arlacchi, sinistro mafiologo fatto sottosegretario generale dell'ONU, direttore dell'ufficio «per la lotta alla droga e la prevenzione della criminalità» e ***capo dell'agenzia ONU a Vienna contro il «terrorismo», il quale guaisce: «Gli immigrati non possono essere perseguiti penalmente per essere entrati clandestinamente in un Paese [...] La non punibilità dei clandestini è il punto fondamentale per l'accordo [...] Noi vogliamo combattere l'organizzazione criminale del traffico per proteggere i diritti dei lavoratori: con questo articolo abbiamo tenuto il Protocollo al riparo dal pericolo della xenofobia, altrimenti un regolamento non calibrato sarebbe potuto diventare uno strumento per chi vuole chiudere la frontiera a qualunque tipo di immigrazione»,
introduzione della fattispecie di reato di favoreggiamento dei clandestini: in primo luogo affitto e sub-affitto di appartamenti, capannoni e locali commerciali, sempre più spesso acquistati da torbidi gruppi multinazionali, in ispecie asiatici, e adibiti ad alveari-dormitorio o a fabbriche per prodotti, in ispecie tessili, di infima qualità, ma altrettanto certamente anche assistenza, compresa quella sanitaria, fornita da enti parareligiosi come la Caritas o laici come il milanese NAGA (presieduto quest'ultimo, per inciso, dall'«austriaca per metà» dottoressa Elena Sachsel),
espulsione amministrativa radicale e immediata dei clandestini (siano essi gli «invasori scalzi» di Giuseppe Sacco, i profughi «pietosi», i rifugiati sedicenti «politici» e i puri criminali), dei criminali e dei nullafacenti più vari (anche se la «Carta dei Diritti Fondamentali» dei cittadini europei, approvata a Nizza il 7 dicembre, guarda caso una settimana prima della convenzione onusica di Palermo, con l'art.19 vieta le «espulsioni collettive»), senza più quelle immonde «sanatorie» imposte dalle Chiese e dalle sinistre, vere e proprie istigazioni all'invasionismo e perciò al crimine.
Secondo i dati ufficiali per l'Italia, 350.000 sono i sanatorizzati (cioè gli ex-clandestini) dal socialista Martelli nel 1990, 250.000 dal liberalcapitalista Dini nel 1995, 38.000 + 250.000 quelli in conseguenza della legge voluta dalla coppia neocomunista Turco-Napolitano e applicata nel 1998-99 dal 2° capitalcattocomunista governo D'Alema, in testa la neodemocristiana ministra dell'Interno Rosa Russo Jervolino, che invoca la doppia cittadinanza ai figli dei sanatorizzati nati in Italia, e il più sinistro suo successore Enzo Bianco del 3â capitalcattocomunista governo Amato (con code di 80.000 nell'aprile e 50.000 + altri 41.000 richiesti dalla Confindustria nell'estate 2000... in realtà, gli invasori giunti nella penisola, in massima parte adducendo pretesti di lavoro, nel solo 2000 sono stati 270.000). E ciò, quando, a prescindere dai tre milioni di disoccupati italiani e dai milioni di allogeni già presenti, ad attendere nelle liste di collocamento ci sono 213.000 allogeni!
Totale ufficiale di sanatorizzati, quindi, oltre un milione di individui (ai quali vanno aggiunti i 400.000 che all'ottobre 2001 non sono riusciti, per i motivi più vari, a rientrare nell'ultima «regolarizzazione», o che hanno fatto irruzione in Italia dopo di essa e per i quali fin dal luglio invocano grazia, parlando di «regolarizzazione» invece che di «sanatoria», i più vari boss centrodestrorsi, dal neo-democristo Rocco Buttiglione, ministro delle Politiche Comunitarie, a Gian Paolo Landi, responsabile di Alleanza Nazionale per l'immigrazione, e Mirko Tremaglia, senile ministro per gli Italiani all'Estero ed ex-fascista della RSI). Individui tutti illegali sin dall'inizio, tutti resi «graditi» e legali da un tratto di penna... e tenendo conto in particolare di questo aspetto, altro che, come invocano i mondialisti di ogni risma, marxisti, liberali, cristiani e Anime Pie, la concessione del voto «amministrativo» agli invasori «presenti in Italia da cinque anni»!
Dobbiamo imparare, se pur non dagli USA, almeno da Nigeria, Zaire, Zambia, dal Sudafrica mandeliano e dal Gabon, che nel 1995, senza porsi tanti problemi, hanno ricacciato centinaia di migliaia di stranieri sciamati negli anni precedenti? o da Malesia, Thailandia, Australia e Algeria, che in attesa di uno svelto rimpatrio li internano senza tanti scandali in appositi campi?
In realtà «scandalo», ma neppure eccessivo, suscita a fine agosto 2000 l'impiego da parte della polizia australiana di cannoni ad acqua per sedare una rivolta, con incendio dei quattro edifici dell'area, di ottocento clandestini, in maggioranza iracheni ed afghani, confinati a Woomera in attesa di rimpatrio... Identica repressione nel marzo 2001 nel campo di Curtin, sperduto nell'Australia occidentale, ove le guardie ricorrono ai gas lacrimogeni. Nessuno scandalo suscitano poi, filtrati a stento al pubblico, i propositi del ministro israeliano del Lavoro Eli Ischai, che nell'autunno propone, in attesa di procedere alle espulsioni, internamenti in appositi lager di decine di migliaia di immigrati illegali. Semplicemente allucinanti, al contrario, le sentenze di un pugno di demomagistrati milanesi, tra cui le giudichesse Rita Cerrino e Anna Bonfilio, che nell'ottobre-dicembre, col pretesto di una dissonanza dei provvedimenti amministrativi di polizia col dettato costituzionale che prevede che un individuo debba essere giudicato dalla magistratura, rimettono uccel-di-bosco centinaia di clandestini, temporaneamente rinchiusi in centri di raccolta in attesa di espulsione.
2. Intelligente sbarramento delle frontiere, anche e soprattutto manu militari – troppo a lungo l'uomo europeo, intriso di nichilismo e viltà, ha voluto espellere la la Forza dalla gestione delle cose umane, ed anzi dal novero degli strumenti della vita, per privilegiare al contrario la «non-violenza», la «benevolenza», la «comprensione» e la «carità», con l'unico risultato di ottenere il caos e incentivare la violenza, e cioè una forza irrazionale, illegittima e incontrollata, troppo a lungo si è illuso che la Forza, quella divina Virtù che è l'opposto di quella violenza e di quella sopraffazione che prosperano sull'illegalità, la viltà e il tradimento, non facesse più parte della vita associata, soppiantata dall'«amore», dal «perdono» e dal cedimento – e ricerca di soluzioni produttive quanto più autarchiche, con conseguente riduzione dell'infernale meccanismo dell'iperproduttività industriale, della mortifera ipercommercializzazione, della mortifera devastazione mentale/ambientale e del «tenore di vita», peraltro già sulla via di un sempre più rapido ridimensionamento.
3. Assunzione di responsabilità da parte dell'Europa per favorire una quanto-più-rapida esistenza autocentrata di un Terzomondo infine svincolato dal Nuovo Ordine Economico giudaico-anglosassone, Terzomondo finora deresponsabilizzato, derubato, desertificato e stragizzato in primo luogo dalla pelosa «fraternità» degli antirazzisti di ogni risma: proprio sotto la loro egida, dagli anni Sessanta agli Ottanta il divario del reddito pro capite tra i venti paesi più ricchi e i venti più poveri è salito da 30 a 1 a 59 a 1. Altro, quindi, che le farneticazioni dell'Arruolato, co-reggente la Banca Centrale Europea, Tommaso Padoa-Schioppa, largite alle masse sul Corriere della Sera nell'editoriale Globalizzazione? Purtroppo è poca - Una democrazia mondiale da inventare: «Tornare indietro sarebbe dannoso soprattutto per i poveri del mondo. È la via del tribalismo, del nazionalismo, della miseria. Non si può ignorare che la questione sociale fu aggravata, non risolta, con la soppressione del mercato e la chiusura delle frontiere; che progresso tecnico e commercio internazionale abbiano enormemente ridotto l'area della fame nel mondo; che il terzomondismo inteso come ideologia alternativa abbia portato tirannia, disuguaglianza e povertà».
Assunzione di responsabilità attraverso: l'abbandono, da parte dei paesi industrializzati, della politica delle esportazioni (che serve solo a protrarre e incentivare la loro egemonia sfruttatrice), la formazione di tecnici e specialisti autoctoni, l'installazione nei paesi «sottosviluppati» di macchine utensili e infrastrutture atte alle esigenze locali, l'obbligo di investimento interno della quasi totalità dei guadagni delle imprese ivi impiantate (sia di quelle gestite dagli occidentali sia di quelle locali), l'annullamento unilaterale di tutti i debiti del Terzomondo (ma non si scordi, comunque, che la sua irresponsabile prolificità è, ancor prima dello sfruttamento capitalistico e dell'ideologia mortifera del Piccolo Popolo, causa assolutamente centrale dell'invasione). Tale terzo punto è non solo profondamente morale, ma altamente razionale poiché, come assevera nel 1997 il rettore della moschea di Marsiglia Hadj Alili, «se l'Europa non si fa carico del problema Nord-Sud che oggi infiamma il Mediterraneo introducendo un po' di giustizia, gli arabi del Maghreb sbarcheranno a Marsiglia e la distruggeranno. Magari fra un secolo, ma la ridurranno a un campo di rovine».
4. Obbligo per i datori di lavoro di provvedere a proprie spese all'alloggio della manodopera allogena legalmente permessa (con pene pecuniarie fino al sequestro e alla confisca della proprietà in caso di loro inadempienza), inasprimento delle pene per i fiancheggiatori, a qualsiasi titolo, dell'invasione («scafisti» e altre bande criminali, assistenti «pietosi» religiosi o politici «umanitari», affittuari clandestini, datori di lavoro «in nero», etc.) e fors'anche, incita Faye in attesa di sostituire all'insufficiente logica poliziesca restitutrice di un mero «ordine pubblico» un'intelligente logica militare che porti a riconquista (sul medio periodo, non certo nei sette secoli che durò la Reconquista in Spagna), riduzione al silenzio – sia dialetticamente sia con la rivalutazione, anche retroattiva (Norimberga docet!), del reato di Alto Tradimento della Nazione – delle lobby invasioniste che ne hanno sempre celato la minaccia illudendo gli europei, che non vi sono nemici ma solo amici (ma il nemico, come detto, non lo scegli tu, è lui che ti sceglie!), causa prima di un trentennio di sbandamenti intellettuali e cedimenti morali. ***
*** La pena di morte per il reato di Alto Tradimento della Nazione fu abolita in Italia nel 1994 da un demagogico provvedimento del Polo centrodestrorso, allora fugacemente al governo.
Aggiunge Trastour: «Non v'è dubbio, suvvia, che certe etnie dovranno andarsene. I responsabili del dramma sono coloro che hanno favorito l'immigrazione di gente inassimilabile all'etnia autoctona, col rischio di portarla a genocidio. I difensori dell'etnia autoctona saranno legittimati a prendere provvedimenti giudiziari, per crimini contro l'etnicità, nei confronti dei responsabili: governanti, parlamentari, funzionari, magistrati, giornalisti e scrittori. Il delitto potrà essere imprescrittibile e la legge avere effetti retroattivi. Certamente, un tale comportamento non concorda con la mentalità europea e cristiana che inclina all'oblio delle colpe dopo la vittoria».
Conclude Dario Binelli: «Ora, non vi è nessun motivo di credere che i fanatici dell'egualitarismo getteranno la spugna tanto facilmente: essi si stanno anzi organizzando ed adattando al mutato clima, puntando tutto sulla tutela degli allogeni e sulle tattiche politiche e psicologiche (prima ancora che repressive) per disarmare noi europei [...] Ciò che va notato è che non si tratterà tanto di una lotta per o contro gli allogeni (come appare ad un'osservazione superficiale), quanto di una lotta tra l'anima europea e lo spirito occidentale che parassita da troppi secoli l'Europa, assieme al corollario di tutti i suoi aggregati anti-europei; una lotta tra europei "liberati" ed europei ancora infettati di anti-europeità. Tale guerra civile sarà, in definitiva, l'ultima febbre necessaria per liberarsi di tale "virus" parassita».
5. Provvedimenti, quelli elencati, tutti preceduti/accompagnati da un'assidua, incessante opera di educazione dei connazionali:
a. da responsabilizzare quali membri di una comunità dotati di doveri prima che di diritti, comunità dotata di storia e legittimità millenarie,
b. da preferire nelle assunzioni lavorative, con salario adeguato per il lavoratore e giustizia fiscale per le imprese, alle quali verrebbero imposte più basse aliquote fiscali (ma anche, come detto, con pene pecuniarie fino al sequestro e alla confisca della proprietà in caso di inadempienze da parte del datore di lavoro che usi manodopera illegale),
c. da sollecitare con una politica demografica che riporti in attivo il tasso di crescita europeo (nella prospettiva, ovviamente, passata l'emergenza e rieducate le masse, di una strategia ecologicamente più meditata),
d. da rendere convinti della suprema moralità del rientro degli allogeni, incentivati con le opportune persuasioni, finanziarie e di altro genere, nei loro paesi: a parte i pesantissimi costi sociali sulla comunità nazionale – anomìa societaria, destrutturazione individuale, disoccupazione, aumento di una criminalità sempre più aggressiva ed inestricabile con quella autoctona, caos scolastico, degrado del territorio dovuto da un lato all'instaurarsi di bidonville e di ghetti, dall'altro alla costruzione di alloggi per i nuovi «fratelli», etc. – costa infinitamente meno, anche da un punto di vista meramente economico, regalare oboli milionari ai rimpatriandi... e d'altra parte ben vorranno, i democittadini, pagare in sonanti soldoni l'imprevidenza, l'ignavia, l'imbecillità, l'irresponsabilità e il «buon cuore» passati!
Con brutale franchezza, e rischiando l'incriminazione da parte del Sistema («Costituisce provocazione all'odio razziale la denuncia di un numero eccessivo di immigrati in termini voutamente allarmanti o guerreschi», Corte di Cassazione francese, 7 marzo 1989 ), Guillaume Faye scrive in Nouveau discours a la nation européenne, che «nell'interesse della pace mondiale l'Europa dovrà imperativamente liberarsi del peso delle popolazioni immigrate e sradicare l'Islam dal proprio suolo, finendola di sognare una coabitazione impossibile. Questo, per potere poi intendersi con gli altri popoli nell'ottica di un governo intelligente del pianeta».
E ciò anche se i paesi esportatori del loro surplus non vogliono il ritorno degli emigrati né dei loro figli.
E ciò anche se l'arcivescovo (ebreo) cardinale di Parigi Jean-Marie (Aaron) Lustiger definisce l'Europa, intervenendo al Centro culturale San Luigi di Francia a Roma il 4 marzo 1999, uno spazio destinato ad accogliere «pacificamente e umanitariamente» gli altri popoli, invitando l'Islam invasore «ad adottare i valori europei fondamentali e a sottoporsi alla ragion critica, quand'anche questa si dica atea» e avallando la dottrina di legittimare l'impotenza e santificare la rinuncia: «L'Europa non è mai stata per i popoli d'Africa o d'Asia una terra d'immigrazione. Ma oggi, la situazione dell'Europa si capovolge. Essa provoca [!: Elle provoque] una pressione migratoria impossibile a contenere. Gli europei non possono ignorare questo fatto».
E ciò anche se nel luglio 1999 il sinistro invasionista para-marxista tedesco Günter Grass, Nobel per la Letteratura, ci ammonisce, su Focus, che il rispedire uno straniero indesiderato «in questo o quel paese» «in fondo, non è che il proseguimento della persecuzione delle minoranze sulla base dell'etnia». ***
È per questo che Faye e il suo editore Gilles Soulas, inquisiti per il volume La Colonisation de l'Europe - Discours vrai sur l'immigration et l'Islam, nel dicembre 2000 vengono condannati dalla XVII Camera Correzionale di Parigi – specializzata in repressione ideologica come attestano le innumeri condanne emesse contro gli studiosi revisionisti della questione «olocausto» – per «incitamento all'odio razziale», ognuno a 50.000 franchi d'ammenda e 4000 di danni e «interessi» da versare alle «parti civili». Tali «parti civili» sono le leghe ebraico-antirazziste MRAP Mouvement contre le racisme et pour l'amitié entre les peuples e LICRA Ligue internationale contre le racisme et l'antisémitisme, che hanno denunciato i due intellettuali.
Concordano i biologi Aldo e Lamberto Sacchetti: «C'è da prevedere percorsi di conversione produttiva ma, prima ancora, da promuovere cambiamenti di valori, di stili, di modelli organizzativi in coerenza con il principio di realtà. Che non potranno non incidere sull'educazione e non comportare il ricupero dell'autorità, rivalutazione della parsimonia, del risparmio, della disciplina, del senso di responsabilità verso gli altri e verso le generazioni future, superiorità dei valori sovra-individuali su quelli individualistici [...] L'emigrazione dalle aree povere del mondo può essere demotivata nel quadro di una cooperazione a lungo raggio e di una pedagogia ecologica volte a massimizzare le potenzialità naturali dei rapporti di nicchia, a rendere le persone capaci di crescere autonome sulla propria terra, rovesciando la teoria della società multietnica per riaffermare il valore dei legami col territorio, la dignità storica delle culture nazionali, il loro diritto naturale alla libertà e all'identità».
* * *
Le premesse politiche
Una tale possibilità di riscatto dev'essere in ogni caso basata – a meno di un imprevedibile, supremo atto di disperata rivolta dei popoli europei – su due premesse, oggi fantapolitiche e irrealizzabili sul breve periodo.
1. Pur infinitamente più elastico di ogni organismo statuale/sociale del passato, il Sistema – a prescindere dalle convulsioni politiche internazionali, dalla crescita o rinascita della potenza di nuovi paesi e da pur possibili «scontri di civiltà» o «sassolini nelle scarpe», nonché a dispetto di tutte le buone intenzioni neo-illuministe chiuse nel vicolo cieco dell'autocontraddizione finanziario-produttiva – non avrà vita lunga a causa dei guasti ambientali (crisi idriche, alimentari ed ecobiologiche), dell'esaurimento delle materie prime e delle contraddizioni politico-sociali che incessantemente genera. Il crollo del mercato globale sarà il più decisivo degli eventi («dalle conseguenze inimmaginabili», prevede un pessimista George Soros).
Non può infatti essere più pensato né perseguito uno sviluppo sostenibile e neppure uno sviluppo alternativo e neppure una stabilizzazione in uno steady state che prolunghi l'attuale «benessere».
Possiamo solo pensare un'alternativa allo sviluppo; compiere una virata intellettuale che dimostri tutta l'inconsistenza morale, la debolezza intellettuale e la criminalità pratica del paradigma destabilizzante dello sviluppo e di quella «società aperta» che, «esaltando ogni mobilità e sgretolando ogni barriera» (Lamberto Sacchetti), ne è la premessa «etica» e il brodo di coltura. Possiamo solo innestare, con tutti gli ovvii e mostruosi contraccolpi non solo economici ma di repressione e guerra civile, una pratica e dura retromarcia in direzione di un sistema a bassa entropia, meno dissipativo, fondato sulla regolazione al minimo di bisogni e consumi.
E senza certo dimenticare né i delinquenti comuni né i delinquenti intellettuali cattosinistri né i delinquenti politici ultrasinistri, cani da guardia che, col pretesto dell'«antirazzismo», il Sistema, alla ricerca di un alibi «stabilizzante» per la propria criminale politica antinazionale, lancerà contro ogni non-conforme. Commenta sempre Sacchetti: «Il brigatismo sta sotto la cenere. Incrociare la protesta sociale con quella dei marginali extracomunitari è la nuova strategia rivoluzionaria. Una ricerca di alleanza già manifesta nelle iniziative dell'Autonomia e dei Centri Sociali e che può produrre, specie se si inasprisse il controllo dei clandestini, un composto ben più esplosivo di quello all'origine degli "anni di piombo". Gli stranieri marginali non hanno nulla da perdere, neppure le "catene" di cui al manifesto del 1848»!
Possiamo e dobbiamo farci convinti della giustezza dell'analisi del ribelle radicale Theodore Kaczynski, meglio noto come Unabomber: «La tecnologia sta riducendo in modo permanente gli esseri umani e molti altri organismi viventi a prodotti d'ingegneria, a meri maiali d'allevamento nella macchina sociale»; la Rivoluzione Industriale «è stata un disastro per l'umanità, ha destabilizzato la società, svuotato la vita, umiliato e sbilanciato gli esseri umani, li ha ridotti a ingranaggi del meccanismo produttivo»; tale Sistema dev'essere distrutto: se ci si riuscirà «le conseguenze saranno molto dolorose, ma lo saranno sempre di più quanto più il Sistema crescerà, e dunque prima lo si distrugge meglio è»; i critici «conservatori» del Sistema sono «cretini che piagnucolano per il declino dei valori tradizionali e poi appoggiano entusiasticamente il progresso tecnologico e la crescita economica, causa dei rapidi mutamenti della società in tutti i suoi aspetti e dunque del crollo di quei valori tradizionali». ***
*** «Il neoliberalismo è nemico di qualunque forma di comunità stabile [...] l'estensione del libero mercato agli angoli più remoti del pianeta è ancora più pericolosa del "socialismo reale" per la vita e la cultura delle società del Terzo Mondo», concorda l'economista inglese John Gray in Enlightenment's Wake.
Ed ancora: «Le nostre vite dipendono da decisioni prese da altri, su cui non abbiamo controllo e che neppure conosciamo; cinquecento, al massimo mille persone prendono tutte le decisioni importanti nel mondo »; una possibile soluzione allo Sfacelo non sta «a sinistra», poiché i progressisti di ogni genìa – marxisti, femministe, sessantottini, post-sessantottini, ecologisti da salotto, sinistri dei campus, fautori del politically correct, omosessuali, internazionalisti, pacifondai e altra spazzatura che s'illudono di combattere la società tecnoborghese aggravandone i mali e costituendone l'alibi – sono solo individui frustrati, pervasi da «bassa stima di sé, senso di impotenza, tendenze depressive, disfattismo, senso di colpa, odio di se stessi», miserabili intrisi della stessa ideologia che porta il mondo alla rovina.
«Nei mille anni della sua formazione» – aggiunge David Noble – «la religione della tecnologia è diventata un incantesimo comune non soltanto per i progettisti della tecnologia ma anche per coloro che sono stati catturati, e rovinati, dai loro progetti divini. L'attesa di una salvezza finale attraverso la tecnologia, quali che siano i costi immediati umani e sociali, è diventata l'ortodossia non rivelata, rafforzata da un entusiasmo indotto dal mercato per la novità e sanzionata da un desiderio millenaristico di nuovi inizi. Questa fede popolare, indotta in modo subliminale e intensificata dalle spinte delle corporations, dei governi e dei media, ispira un timorato rispetto verso i suoi esponenti e le loro premesse di liberazione, allontanando l'attenzione da problemi più urgenti. Così, senza una ragione, a uno sviluppo tecnologico privo di limitazioni viene permesso di procedere velocemente, senza un attento esame critico o una supervisione. Appelli a una qualche forma di razionalità, a una riflessione sui tempi e sugli obiettivi, a un assennato utilizzo dei costi e dei benefici, persino quando il valore economico è chiaramente molto più alto del guadagno sociale, vengono evitati perché considerati irrazionali. Per chi crede in quella fede, ogni critica appare irrilevante e irriverente. Ma possiamo permetterci di sopportare ancora a lungo questo sistema di fede cieca? Ironicamente, l'impresa tecnologica da cui noi siamo sempre più dipendenti per la conservazione e l'estensione delle nostre vite, rivela uno sguardo sdegnoso e di intolleranza verso la vita stessa».
In ogni caso il destino del demoliberalismo – di questo mostro assassino – è inscindibile da quello del supercapitalismo, nozione presente anche al superliberale Galli della Loggia: «Siamo entrati in una fase in cui la democrazia non può più contare, almeno nella misura in cui ha potuto farlo finora, sulla carta del benessere [...] Oggi la democrazia deve affrontare contemporaneamente risorgenti fremiti di messianismo politico [come se il supremo e più assassino messianismo non fosse quello democratico! n.d.A.] e il malessere sociale. Non saprei immaginare costellazione più sfavorevole. Forse anche in Europa occidentale si sta avvicinando la grande sfida per la nostra democrazia. Se supererà questa prova, vorrà dire che è veramente qualcosa di profondamente radicato nelle nostre coscienze. L'alternativa è la catastrofe. Bisogna convincersi che uno dei punti di maggior forza delle nostre democrazie è costituito dall'apparato industriale capitalistico, che diventa un fattore di aggregazione per tutte le energie che cercano di preservare uno spazio alla razionalità nell'organizzazione sociale e politica. Essa può mobilitare delle coalizioni di interessi a difesa del sistema liberaldemocratico».
2. Gli Stati Uniti – la Casa-Madre del Sistema, the Aliens Nation la Nazione di Estranei, the Litigious Society, the Empty Society la Società Vuota, the God's Own Country, il Regolatore della Megamacchina, la Nazione Universale (definizione dell'ebreo Ben Wattenberg) – portano in sé tali e tanti contrasti socio-economici che nell'arco di due generazioni li condurranno, anche a prescindere da imprevedibili eventi politici catalizzatori anti-americani di cui potrebbero essere protagonisti Cina ed Europa o gruppi islamici di guerriglia come è stato l'11 settembre 2001 a New York e Washington, e dall'ovvia feroce reazione scagliata contro i dissidenti prima del crollo, ad una implosione e quindi ad una lacerazione della ragnatela onusica, che solo sugli USA si regge. Segni, peraltro flebili, ne sono:
a. la loro particolare crisi economica/finanziaria, celata al grande pubblico dallo sfruttamento militare-economico dell'intero pianeta e dall'ubiquitaria imposizione di quella carta-straccia che è il dollaro, e
b. l'inarrestabile degenerazione della loro vita sociale, nonché altre spie, certamente iniziali e assolutamente minori, ma in prospettiva significative, quali:
c. la Proposizione 187 dell'8 novembre 1994, quando il 59% dei californiani rigetta il Mito del Crogiuolo approvando un progetto che nega servizi medici e sociali agli immigrati illegali (sei anni dopo, a fine 2000, stando ai dati ufficiali peraltro riduttivi del fenomeno, i bianchi di discendenza europea, che ancora nel 1970 erano l'80% dei californiani, divengono minoranza: 17,4 milioni contro 10,7 di ispanici, 3,4 di asiatici, 2,3 di negri e il resto ebrei, armeni e umanità varia, con aggiunto il fenomeno, ancora più grave, che su quattro neonati solo uno è di stirpe europea).
E qui, manco dirlo, i capi protesta contro il referendum sono i tre ebrei losangelini Mark Slavkin, presidente delle scuole cittadine, Zev Yaroslavsky, consigliere municipale, e Jackie Goldberg, lesboconsigliera per Hollywood, Silver Lake ed Echo Park (che dopo l'immancabile oloparagone tra l'esito del referendum e le «retate naziste» si vanta: «I'm an illegal alien»), mentre un quarto Arruolato, la giudichessa liberal Mariana Pfaelzer, nel novembre 1996 ne blocca l'attuazione. Nel marzo 1997, mentre vengono arrestati gli ebrei Jerry Stuchiner ed Herbie Weizenblut, funzionari del servizio di controllo dell'immigrazione INS, con l'accusa di avere agevolato per lucro l'immigrazione illegale di cinesi, si scagliano poi contro Clinton e il Congresso, artefici per motivi d'immagine di una più restrittiva legge anti-clandestini, l'ACLU e la testé fondata American Immigration Lawyers Association, capeggiate dagli ebrei avvocatessa Judy Rabinowitz e sociologo Rubin Cohen.
Altri invasionisti sono Abraham A.M. «Crazy Abe» Rosenthal, editorialista del New York Times con rubrica On My Mind (nulla conta se siete immigrati illegali: «If you are born in America, you are immediately and forever American, Se siete nati in America, siete immediatamente e per sempre americani», 9 agosto 1996), e Peter Salins, la cui ultima opera, Assimilation american style, sottotitolo «Una appassionata difesa di immigrazione e assimilazione quali fondamenti della grandezza americana e del Sogno Americano», viene così presentata dal conservatore Commentary febbraio 1997: «Il sociologo Peter Salins offre argomenti lucidi e altamente suasivi per mantenere viva l'immigrazione, rigettando i pericoli del multiculturalismo e incoraggiando l'assimilazione come unica via per realizzare con certezza il Sogno Americano».
E non parliamo dell'«italiano» Furio Colombo, tonitruante contro «lo spirito punitivo verso gli immigrati che un paese di emigranti, come gli USA, ha cominciato a dedicare ai nuovi venuti. L'America è stata fondata sul diritto di nascita: chi nasce negli Stati Uniti diventa americano. Era il superamento vitale e coraggioso del "diritto di sangue" europeo, secondo il quale si diventa cittadini di un paese solo per discendenza da cittadini di quel paese. Adesso basta, anche negli USA orologi indietro, ritorno alla brutalità europea [sic!] nel trattare "gli ospiti"».
Invero, per quanto il 2 maggio 1996 il Senato vari una legge che inasprisce le pene per la falsificazione di documenti, acceleri le procedure di espulsione e diminuisca i sussidi agli stranieri legali e illegali, resta invariata la quota di 750.000 persone annualmente ammesse nel Paese di Dio. Del resto, erano stati gli eletti sociologhi radical Abraham Maslow e Isaiah Minkoff a promuovere nel 1965 l'abolizione del McCarran Act del 1952, che consentiva l'immigrazione praticamente ai soli cittadini europei, mentre sempre nel 1965 il demo-ebraico duo formato dal senatore Jacob Javits e dal deputato Emanuel Celler aveva fatto varare il «ricongiungimento» dei familiari.
Attivo nella questione fin dal 1922 e fatto nel 1948 presidente dello House Judiciary Committee, il Celler, inneggia l'Encyclopaedia Judaica, «used this position to introduce liberal immigration legislation, usò la sua carica per varare una legislazione liberale in materia di immigrazione». Similmente, ben giudica Peter Brimelow che l'invasionistico Immigration Act del 1965 fu «un atto di vendetta per le umiliazioni inflitte a qualcuno dei gruppi respinti nel 1921-24 e la prova dell'affermazione del loro status nella società americana. Per simpatica coincidenza, ciò fu incarnato dal deputato che nel 1965 promosse la legge, il democratico newyorkese Emanuel Celler. Costui fu allora l'unico deputato presente anche nel Congresso che aveva varato il sistema delle quote nel 1924 [legge che, commenta MacDonald III, fu «percepita dagli ebrei come diretta contro di loro», in quanto «le politiche liberali d'immigrazione sono un interesse ebraico vitale»]. Egli tenne allora il discorso introduttivo in opposizione a quel disegno di legge. Nel 1965, parlando con un'emozione che traspare dai verbali, disse: "Sono felice di vivere oggi e di avere vissuto abbastanza per vedere che le mie idee [di allora] hanno avuto ragione, sono lieto che stiamo oggi per distruggere e annullare e cancellare quell'abominio che si chiama, per l'immigrazione, teoria delle origini nazionali».
Su tale impegno commenta MacDonald III, sottolineando il callido uso di ideologie umanitario-universalistiche quali forme secolari di giudaismo che, nel perseguimento di precise finalità giudaiche (razionalizzare la continuazione del proprio separatismo/etnocentrismo, e quindi del proprio potere, destrutturando al contempo la società ospitante, considerata sempre potenzialmente ostile), celano il ruolo dissolutore dell'ebraismo sulle strutture delle società ospitanti, trasformate in aggregati non omogenei e culturalmente/etnicamente pluralisti:
«Il coinvolgimento degli ebrei nel distorcere il dibattito intellettuale sulla razza e l'etnicità sembra avere avuto ripercussioni di lungo termine sulla politica immigratoria americana, ma il coinvolgimento politico degli ebrei è stato ultimamente di significato ancora maggiore. Gli ebrei sono stati "il gruppo di pressione più assiduo nel favorire una politica liberale di immigrazione" negli Stati Uniti per tutto il dibattito sull'immigrazione, fin dal suo inizio nel 1881 [...] I dati storici sostengono l'affermazione che fare degli Stati Uniti una società multiculturale è stato uno dei maggiori obiettivi dell'ebraismo fin dal XIX secolo [...] Come narrato da [Naomi] Cohen, gli sforzi dell'American Jewish Congress per opporsi alla restrizione dell'immigrazione nei primi decenni del XX secolo costituiscono un notevole esempio dell'abilità delle organizzazioni ebraiche di influenzare la politica pubblica [...] Cionondimeno, per timore dell'antisemitismo, ci si sforzò di prevenire la percezione del ruolo avuto dagli ebrei nella campagna anti-restrizioni [...] A partire dagli ultimi anni del secolo XIX, gli argomenti anti-restrizione sviluppati dagli ebrei vennero tipicamente espressi in termini di ideali umanitari universali; come parte di questi sforzi universalizzanti, vennero reclutati non-ebrei di antica ascendenza protestante per farli agire da vetrinisti per gli sforzi ebraici, mentre le organizzazioni ebraiche come l'American Jewish Congress diedero vita a gruppi pro-immigrazione composti da non-ebrei»,
d. l'abolizione delle «quote razziali» votata il 21 luglio 1995 dall'Università di California e l'approvazione della Proposizione 209 ad opera del 54% dei californiani, che il 5 novembre 1996 le elimina nell'intero Stato (manco ridirlo, il movimento Stop 209 che contrasta la consultazione e ricorre poi alla Corte Suprema è guidato dall'ebrea Kathy Spillar, mentre l'ebreo Mark Rosenbaum, direttore della sinistra American Civil Liberties Union per la California meridionale, spinge il giudice negro liberal Thelton Henderson a bloccare la conversione della proposizione in legge; la legge entra tuttavia in vigore il 28 agosto 1997 dopo la pronuncia della Corte d'Appello Federale),
e. la bocciatura, con la Proposizione 227, il 3 giugno 1998 e con una maggioranza del 61%, di quel bilinguismo anglo-spagnolo che dalla fine degli anni Sessanta regna nelle scuole pubbliche di uno stato destinato a vedere nel 2020 una popolazione con maggioranza assoluta ispanica,
f. la sempre più forte opposizione dei bianchi al School Busing Program, che da vent'anni trasporta quotidianamente, in un «educante» tourbillon antirazzista, i ragazzi negri dai loro quartieri alle scuole delle zone bianche e i bianchi alle meno gradite scuole dei «ghetti», ed infine
g. la formazione di gruppi di resistenza anti-governativi sia neri che bianchi sempre più radicali, per quanto oggi privi sia di prospettive ideo-strategiche che di vera forza economica e militare.
Della centralità dell'ONU nella difesa repressiva dello status quo mediante la criminalizzazione delle idee e dei gruppi eretici (a prescindere dall'impossibilità di accettare «democraticamente» un'eventuale democratica vittoria elettorale di forze antimondialiste francesi, tedesche, italiane o di altro paese: si pensi non solo agli artt.53 e 107 del suo statuto, ma anche agli artt.29/3 e 30 della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e all'art.18 del Grundgesetz!) è ben conscio anche il mondialista Gerhard Zwerenz, ex Volkspolizist, docente di Sociologia, la cui diserzione dal fronte nell'agosto 1944 era stata, scrive orgoglioso, una «dichiarazione di guerra al nazismo»:
«Tracciare confini precisi. Ciò che è criminale deve essere perseguito, cosa cui lo Stato è finora mancato. Criminale è ciò che viene definito tale dal Codice Penale. Criminale è il nazismo. Se lo Stato non procede contro di lui, è legale la resistenza (art.20/4 del Grundgesetz). Ribellismo, opposizione giovanile, ricerca di specifiche forme di espressione non sono criminali. Lo divengono in relazione al nazismo [...] La tattica di contrastare il nazismo col silenzio, il disprezzo e la minimizzazione non solo non ha dato risultati, ma gli ha giovato e ne ha reso possibile l'offensiva. È necessaria una difesa antinazista sotto forma di una controffensiva. Poiché in ciò lo Stato è finora mancato, i cittadini devono incalzare lo Stato. Altrimenti esso diverrà una vittima legale del nazismo come nel 1933 [...] Se il popolo fosse incapace di esercitare il diritto di resistenza garantitogli dalla Costituzione e non ci fossero altre possibilità di evitare la profanazione nazista del Grundgesetz (anche in caso d'impossibilità a tutelare da bande assassine la vita di singole minoranze minacciate), dovremmo chiedere l'invio di truppe di pace dell'ONU. Dobbiamo prendere in considerazione anche la possibilità di richiamare le potenze di occupazione alleate, cosa costituzionalmente praticabile reintroducendola nella giurisprudenza. Per quanto discutibili possano essere tali soluzioni, sono assolutamente da preferire alla nascita di un Quarto Reich».
Parzialmente discordi dalla nostra analisi, ma non opposte ed anzi complementari, sono le considerazioni dell'economista steinerian-calassiano Geminello Alvi I: «La situazione economica degli Stati Uniti non è affatto brillante, checché se ne dica. Il loro sviluppo attuale si deve a una congiuntura speculativa, al differenziale dei tassi di interesse tra l'Europa e l'America. Inoltre è la nazione più ricca del mondo, ma deve importare capitali. E deve importarli da un'altra nazione gravata da un debito enorme e da una situazione finanziaria precaria come il Giappone. Se questo flusso di capitali cessa, gli americani sono in un mare di guai [...] Io non credo dunque che l'America possa vincere nel mondo per la forza dell'economia. Sì, gli americani possiedono le produzioni del futuro, le tecnologie del sogno – cinema, informatica. Ma il resto non è all'altezza di un paese leader. La forza degli Stati Uniti sta nelle bombe atomiche e in un'élite politica capace di gestirle come fattore di potenza. Questo è il vero motivo per cui anche il secolo futuro rischia di essere americano. Non certo l'economia, tantomeno la superiorità spirituale o morale [...] Dobbiamo smetterla di pensare che sia l'economia a decidere. Dobbiamo restituire autonomia agli altri campi della vita. E questo significa avere il coraggio di lasciare andare per conto suo l'economia. Il liberismo in economia è la chiave per uno spiritualismo negli altri campi dell'esistenza. Se noi europei continuiamo a perseguire l'ideale americano di economicizzazione della felicità, poco conta stabilire se l'America sia o no in declino, perché continueremo ad essere americanizzati».
Ma tornando al Galli della Loggia del gennaio 1994, la soluzione consiste invece – in attesa di passare dalla multirazzialistica salad bowl al monorazzialistico melting pot – nell'accelerare il disfacimento societario europeo, affogando al contempo le culture allogene nel pantano demoliberale: «Il semplice riconoscimento agli immigrati del diritto di voto nelle elezioni amministrative servirebbe a migliorare le loro condizioni di vita [...] immensamente di più di tutte le vacue elucubrazioni sull'incontro tra le culture», aggiungendo, di lì a poco, che «non si può fare l'elogio o accettare il chador [il velo delle donne islamiche], simbolo di appartenenza. No, siamo tutti eguali, abbiamo acquisito i valori della democrazia europea». Il disfacimento di ogni nazione nel cosmopolitismo – la «cittadinanza planetaria» degli Allucinati – è condizione indispensabile per la democrazia, poiché «rinunciare all'universalismo significa aprire una contraddizione molto grave nella costruzione ideologica della democrazia. Vi si può rinunciare di fatto, sottovoce, ma è difficile per un democratico sostenere pubblicamente questa tesi. Perché nel momento in cui si dice che la democrazia funziona per gli inglesi ma non per i cinesi o per i russi, si afferma, di fatto, la prevalenza sugli ordinamenti politici di valori non politici, ma storici, spirituali, psicologici». ***
Che sono poi, chiosiamo noi, le vere, uniche coordinate che strutturano non solo l'agire politico, ma l'intera vita dell'uomo.
*** La dissociazione di individui quali il Galli della Loggia – che il 3 novembre 1998 ha l'impudenza di protestare dalla prima pagina del Corriere della Sera contro la neo-«moda» italiana di celebrare la festività USA di Halloween, dimenticando le proprie ricorrenze culturali – viene palesata in Francia da illuministi quali il ministro dell'Educazione Nazionale François Bayrou, che il 20 settembre 1994 vieta nelle scuole l'uso di simboli religiosi «ostentati». Dopo avere favorito il più sfrenato invasionismo terzomondiale esaltandone le peculiarità, la sezione francese del Sistema adotta una misura chiaramente diretta contro il chador e il più radicale abeyas o hijab (che copre il volto femminile lasciando visibili solo gli occhi; più radicale ancora è il burka «talebanico») con la motivazione che «la presenza e la moltiplicazione di segni ostentati» (tra i quali non rientra ovviamente la più discreta kippà) di appartenenza a una religione o comunità, rischia di «separare alcuni studenti dalle regole di vita comune» e devono essere proibite in nome «dell'ideale laico e nazionale» (!: aggettivo osceno sulle labbra di un mondialista). Similmente violatore dei Sacrosanti Diritti ed ennesima attestazione dell'aporia della tirannia liberale è il divieto a ricevere via satellite le TV musulmane imposto dal socialista Guy Briantais, sindaco di Courcouronnes, che il 7 agosto 1995 vieta l'installazione di antenne paraboliche nella cittadina (è anche vero che su 15.000 abitanti il 40% è composto da africani e maghrebini!). Più clamorosi i due casi del «velo» scoppiati nel gennaio 1999: la settimana di sciopero indetta dai 68 docenti «laici» del liceo Jean Monnet di Flers in Normandia a protesta contro i foulard colorati indossati dalle dodicenni Esmanur e Belghin, turche musulmane ortodosse, e l'emarginazione che investe nel liceo di Gran-Combe, nel sud dell'Esagono, le sorelle Romina e Diana, figlie di un francese neo-convertito all'islam. Nel loro caso, dopo uno sciopero attuato dai demodocenti nell'ottobre 1998, si arriva ad un compromesso: le ragazze vengono tenute in una sala isolata, dove possono studiare senza frequentare la classe regolare; i musulmani gridano all'intolleranza, commenta imbarazzato Stefano Cingolani, mentre i repubblicani intransigenti difendono la scuola laica, «sinonimo di integrazione», una scuola «che in realtà oggi si trova di fronte a dilemmi che i princìpi dell'89 non riescono a risolvere» (pilatescamente, il 27 novembre 1996 il Consiglio di Stato decreta che il foulard islamico a scuola, pur essendo incompatibile col buon svolgimento dei corsi di educazione fisica, non attenta alla laicità dello Stato). Quanto all'Italia «ormai multietnica» (così Roberto Zuccolini) nell'ottobre 1999 un disegno di legge «contro le discriminazioni» approvato dal governo D'Alema su proposta della ministra per le Pari Opportunità Laura Balbo, super-invasionista «esperta» del «razzismo» con l'ex-lottacontinuo verde Luigi Manconi, prevede il ricorso ai tribunali per analoga «insensibilità» delle autorità scolastiche. Infine, tornando alla Francia, dopo una circolare che invita tutti gli uffici a contatto col pubblico a dotarsi almeno di un agente arabofono, una seconda circolare del ministero dell'Interno invita con discrezione i gendarmi, per non offendere la sensibilità islamica, a togliersi il kepì nel caso di intervento nei confronti di giovani magrebini, essendo «insultante per un musulmano il presentarsi davanti a lui a capo coperto»: detto fatto, il 25 marzo 2001 a Lunel nell'Héraut, ove il 30% della popolazione è aliena, i poliziotti intervengono a testa nuda per sedare moti di piazza provocati da magrebini.
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Il federalismo, faccia nascosta del mondialismo
Non ci sembra coincidenza che la definizione di melting pot («crogiuolo»: autore il drammaturgo Israel Zangwill) e quelle, apparentemente opposte ma in realtà propedeutiche, di commonwealth of national cultures e cultural pluralism («federazione di culture nazionali» e «pluralismo culturale»: il politologo Horace Meyer Kallen, il superrabbino ricostruzionista Mordechai Kaplan, gli analisti politici Max Gottschalk e Abraham Duker), nation of nations («nazione di nazioni»: il giudice della Corte Suprema Louis Brandeis, i sociologhi Seymour Lipset e Martin Shils), symphony («sinfonia», a significare una società composta dai più diversi orchestranti, necessitante ovviamente di un direttore d'orchestra: ancora Kallen e il superrabbino Judah Magnes), mortar («malta»: lo storiografo William Lecky), peuple ciment («popolo-cemento»: al pari della «malta» riferito da Paul Giniewski ai confratelli, cui da tre millenni spetta il compito di aprire le porte del Nuovo Ordine Mondiale cementando le nazioni nel blocco dell'umanità) e, perché no?, del «genio creatore della storia» e «forza naturale altrettanto sacra e creatrice» (il protocomunista Moses Hess), nonché la loro articolazione sociopolitica da parte di Michael Walzer (union of social unions, «unione di unioni sociali») e Arthur Schlesinger jr (salad bowl, «insalatiera»), concetti tutti alla base dell'impostazione mondialista delle cose, siano – al pari della open society, la «società aperta» coniata dal filosofo Henri Bergson ed imposta dal socio-filosofo Karl Popper – opera tutti, ma proprio tutti, di ebrei.
Ed egualmente dovrebbero venire considerate con attenzione le considerazioni avanzate su Planète del novembre/dicembre 1970 dal barone «francese» Edmond de Rothschild, il più potente della tribù e probabilmente il più ricco, discendente del ramo napoletano della famiglia, ardente sionista, adepto del Bilderberg e co-fondatore della Trilateral: «L'Europa dell'Ovest, vale a dire i sei paesi del Mercato Comune, più la Gran Bretagna ed eventualmente l'Irlanda e i paesi scandinavi, secondo modalità da definire costruiranno una Europa politica federale, ma poiché ogni individuo sente il bisogno di collocarsi in un ambiente ristretto, egli si identificherà con una provincia, si chiami Württemberg, Savoia, Bretagna, Alsazia-Lorena o paese vallone. In queste condizioni la struttura che deve saltare è la Nazione».
Ancora più truce ad approfondire il concetto su Entreprise il 18 luglio precedente era stato il confratello e banchiere-associato Jean-Jacques Servan-Schreiber, figlio del vicepresidente della Alliance Israélite Universelle, anch'egli furbesco Trilateral e finto critico del mondialismo nel celeberrimo (a suo tempo) Le Défi américain, «La sfida americana»: «Dobbiamo distruggere a tutti i livelli il concetto di Stato quale depositario del bene comune» («gli Stati odierni sono la tomba dei popoli. Gli Stati sono bestialità collettive», aveva aizzato, mezzo secolo prima, Alfred Döblin in Reise in Polen). L'idea di Patria-Nazione, e quindi di Stato, deve cioè venire distrutta in favore di micro-entità facilmente dominabili da quell'autorità sovrannazionale impersonata non tanto dalla Grande Finanza o da quel plateale Braccio Armato del New World Order che sono gli States, ma proprio dall'autorità «morale» dell'ONU.
Per proteggere la nascita del Mondo Nuovo dal risorgere degli statalismi, dei nazionalismi e dal «rigurgito» dei «razzismi», primo tra tutti l'«antisemitismo», il più efficace strumento 1. politico-istituzionale, dopo quelli 2. legislativo-poliziesco, 3. scolastico-educazionale e 4. politico-invasionistico, è, come per il Reich sconfitto, cui fu imposta la frammentazione in Länder, 5. il federalismo delle «piccole patrie», cioè la settorializzazione regionale dello Stato-Nazione, operante in sintonia con 6. la lunga mano economico-finanziaria delle imprese multi-transnazionali.
Ciò, giusta l'antico-sempre-nuovo insegnamento di Ludwig Börne nato Loeb Baruch: «Die Juden sind die Lehrer des Kosmopolitismus, und die ganze Welt ist ihre Schule, und weil sie die Lehrer des Kosmopolitismus sind, sind sie auch die Lehrer der Freiheit. Keine Freiheit ist möglich, solange es Nationen gibt, Gli ebrei sono i maestri del cosmopolitismo, e l'intero mondo è la loro scuola, e poiché sono i maestri del cosmopolitismo, sono anche i maestri della libertà. Nessuna libertà è possibile finché esistono le nazioni» (Briefe aus Paris, 1830-1831, 103a lettera) e di Joseph Roth: «Gli ebrei sono più antichi del concetto di "nazione" [...] Tra la missione degli ebrei di dare un Dio al mondo, e la loro esigenza di possedere un "proprio paese", è contenuta un'enorme contraddizione [...] Erano stati sparpagliati nel mondo per diffondere il nome di Dio» (Der Segen des ewigen Juden, "La benedizione dell'eterno ebreo", 30 agosto 1934).
Di quel Roth che, recidivo, ribadisce: «Vorrei che non ci fossero patrie. Vorrei vedere su questo mondo nient'altro che un'unica "patria", il paese di Dio, padre di tutti noi, in cui ognuno possa andare in giro o rimanere senza passaporto, senza nome, come più gli piace o come corrisponde alla sua natura [...] Non esiste altra possibilità se non quella che gli ebrei che non si assimilano nei loro paesi, e quelli che non vanno in Palestina pur rimanendo ebrei, diventino i portatori del pensiero di una patria comune. La nostra patria è l'intero mondo» (Jedermann ohne Paß, "Tutti senza passaporto", 6 ottobre 1934).
Altrettanto illuminanti, Gottschalk e Duker in Jews in the Post-War World: «La migliore speranza per gli ebrei e per l'intera umanità sta in un mondo postbellico fondato su garanzie internazionali e sulla mutua comprensione. Se il futuro dell'Europa sarà costruito sulla cooperazione tra le Nazioni Unite, i diritti individuali e collettivi degli ebrei saranno adeguatamente protetti. Tale collaborazione sarà un fattore vitale per prevenire il risorgere del fascismo e dell'antisemitismo e per salvaguardare la posizione degli ebrei in tutto il mondo [...] I progetti federativi piacciono agli ebrei. L'ordine mondiale previsto da tali piani richiama l'ideale profetico della fratellanza mondiale, così profondamente radicato nel giudaismo [...] In un sistema federativo, le differenze di gruppo nazionali non saranno più in primo luogo politiche e nazionalistiche, ma culturali, linguistiche e religiose. Il problema dei diritti collettivi degli ebrei sarà essenzialmente culturale. Il principio del pluralismo culturale, che agirà in tale sistema, tutelerà automaticamente la vita religiosa e culturale ebraica [...] Gli ebrei amano la pace, di tutto cuore partecipano ad ogni sforzo per impostare una cooperazione internazionale. Inoltre, sono i precursori riconosciuti dei progetti che trascendono tutti i confini geografici».
«Lo Stato è, nel percorso, un momento storico, che forse ormai tende ad essere anche un pochino messo in crisi come istituzione identificante. L'ebraismo, secondo me, è un modello simbolico che potrà, in futuro, proporsi, se ben gestito, come un Modello Super-Statale», auspica Ileana Chivassi Colombo (Shalom, giugno 1995). «In epoca postmoderna la nozione di sovranità nazionale assoluta si deve arrendere all'interdipendenza internazionale e il mito dello Stato nazionale cede il passo alla realtà della quasi universalità delle comunità politiche multietniche», incita di conserva, riconoscendo nel Patto biblico le radici genetiche del federalismo moderno, il politologo superamericano Daniel Judah Elazar, direttore del Center for the Study of Federalism presso la filadelfiana Temple University e dell'israeliano Jerusalem Center for Public Affairs, ove insegna all'Università Bar Ilan.
Impudente come i sei Arruolati sull'essenza della regionalizzazione è nel 2000 il sinistro ex-ministro italiano Pierluigi Bersani: «Il vero federalismo non significa una Regione-Stato a base etnico-culturale, poiché ciò sarebbe una chiusura alla globalizzazione».
Altrettanto chiara, ed ancora più ovvia, la risposta di Vincenzo Mungo, per il quale i movimenti che si propongono di opporsi davvero alla globalizzazione devono assolutamente evitare di frammentare le nazioni storiche per chiudersi a difesa delle «piccole patrie» locali: «In questo caso si avvantaggia enormemente il sistema mondialista poiché esso, proprio perché opera su tutto il pianeta, può facilmente emarginare economicamente e socialmente un singolo paese che decida di estraniarsi dalla realtà mondiale e costringerlo, quindi, alla fine ad adattare le sue strutture sociali e la sua cultura alle esigenze del neocapitalismo. Questo tipo di discorso riguarda, ovviamente, a maggior ragione, i movimenti che si propongono di isolare le "culture" regionali esistenti nelle singole nazioni. Si deve, anzi, ritenere che in questi casi sia proprio l'attuale "Sistema" mondialista ad avere convenienza a che questi movimenti prendano piede. Esso può, infatti, meglio controllare delle realtà molto frammentate, che sono implicitamente più deboli rispetto a Stati nazionali ben organizzati».
Un trentennio prima, così aveva scritto Dietrich Klagges, nazionalsocialista già capo del governo regionale di Braunschweig dal 1933 al 1945, arrestato, torturato e accusato di «crimini contro l'umanità», nel 1950 dannato all'ergastolo dalla BRD in base alla legge di occupazione, pena ridotta a quindici anni nel 1957 (rifiutando peraltro i testi a discarico in quanto – testuale – avrebbero «testimoniato a discolpa»), scarcerato dopo un dodicennio di vessazioni e morto nel 1971: «Nemici del nazionalismo sono da un lato il particolarismo e il separatismo, dall'altro l'internazionalismo. Il particolarismo e il separatismo non hanno fondamenti ideologici, ma possono lacerare e smembrare una comunità popolare storicamente affermata tanto meglio e con maggiore successo, quanto più determinato è il carattere nazionale, quanto meno si piega a diventare gregge».
Ed ancora: «Esasperando diversità secondarie di natura e interessi tra le parti della nazione (stirpi, regioni, province), mettendole in primo piano e celando la ben più forte e radicata unitarietà del popolo, il particolarismo minaccia l'unità delle nazioni dall'interno. Esso si preoccupa anche di avocare a sé poteri politici e pertinenze statuali, cosicché il governo nazionale viene esautorato e indebolito fino all'impotenza. Se il particolarismo si spingesse fino a esigere e ottenere una piena autonomia statuale e il distacco di una parte del popolo, diverrebbe infame separatismo. Una tale situazione danneggia sia l'intera nazione sia la parte che si è distaccata. Il popolo della prima viene indebolito, dalla perdita demografica e territoriale, nella sua forza finanziaria, economica e difensiva, anzi in quella sua intera vitalità culturale che ne determina il posto e il rango nel mondo. Ma anche la parte distaccata, misera e insignificante fin dall'inizio, non riesce a difendere la propria esistenza sotto alcun aspetto, non può in autonomia assicurarla. Nel migliore dei casi essa vive delle rivalità dei suoi più forti vicini, nel peggiore è costretta a chiedere protezione ad un popolo straniero, fino a vedersi occupata e incorporata nel nuovo organismo. Diviene vittima o zavorra e parassita della politica di altri. Una condizione separatistica comporta inoltre sul lungo periodo non solo la perdita della coscienza dell'unità del popolo, ma anche la morte di differenze linguistiche, statuali e di destino storico, cosicché sorgono davvero diversità nazionali che renderanno impossibile una riunificazione. In virtù di queste conseguenze funeste per l'unità nazionale, le tendenze particolariste e separatiste vengono di buon grado sostenute dalle potenze straniere, venendo anzi artificiosamente esasperate per indebolire una nazione prospera ed escluderla, o almeno renderla impotente, nella gara per l'affermazione nel mondo».
Il vero potere onusico non risiede comunque tanto nelle decisioni politiche concrete, il più delle volte di mediocre portata o a rimorchio di decisioni prese in altra sede, quanto nelle funzioni ideologico-morali, nell'influenza politica che deriva al Palazzo di Vetro in quanto suprema istanza di legittimazione. I discorsi, le risoluzioni e tutti gli altri prodotti di tale funzione deliberativa esercitano un'influenza politica diffusa sulla scena mondiale. Nessun governo nazionale può permettersi di trascurare l'incidenza di tali attività, finendo quindi con l'improntare ad hoc sia la propria opinione pubblica che la formazione dei propri uomini politici.
Come nota Pierre de Senarclens, docente di Relazioni Internazionali e direttore della Divisione Diritti Umani dell'UNESCO: «L'ONU, allo stesso titolo delle istituzioni specializzate di natura politica, ha per mandato la propagazione di certe idee, di certi valori. L'esame dei loro bilanci mostra infatti che la loro attività essenziale consiste nell'organizzare incontri, diffondere le loro raccomandazioni, suggerire politiche [...] Esse contribuiscono alla concettualizzazione e, soprattutto, alla diffusione di numerosi temi politici, particolarmente in campo economico e sociale».
A tale primaria funzione che forgia immaginarii collettivi universali attraverso vincoli «morali» e indiretti, negli anni Novanta si è però venuta aggiungendo, complice il crollo dell'antagonismo sovietico e l'ingresso della Cina nel Mercato-Mondo, la pura e semplice brutalità. Esercitata, anche senza gli onusici «caschi blu», dalle truppe di Washington con lo sciacallo inglese – vedi Iraq, Bosnia, Somalia, Serbia ed Afghanistan – tale volpina violenza si riallaccia all'invocazione lanciata il 14 giugno 1946 da un decrepito Bernard Baruch, superbanchiere già intimo consigliere di Roosevelt, dal podio dell'onusica Commissione per l'Energia Atomica: «Dobbiamo infliggere un castigo immediato, spiccio e certo a chi violerà i patti raggiunti tra le nazioni. La penalizzazione è essenziale se la pace ha da essere qualcosa di più che un intervallo fra due guerre. E le Nazioni Unite devono prescrivere la responsabilità personale e il castigo secondo i princìpi applicati a Norimberga [...] I popoli delle democrazie non hanno nulla da temere da un internazionalismo protettivo, mentre non vogliono essere fuorviati da disquisizioni attorno a meschine sovranità, usate oggi per indicare l'isolazionismo».
Affiancano Baruch, nell'analisi critica delle prospettive dell'instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale, sei studiosi:
1. «Il lessico e la sintassi teorica che usiamo nel riferirci ai sistemi politici occidentali oggi sono gravemente fuorvianti [...] Nel funzionamento effettivo dei sistemi che chiamiamo democratici praticamente nulla sembra corrispondere a ciò che la teoria politica – e il linguaggio dei politici, dei giornalisti e in generale la comunicazione multimediale – presume o tenta di evocare con termini come "sovranità popolare", "partecipazione", "rappresentanza", "opinione pubblica", "consenso", "eguaglianza"» (Danilo Zolo).
2. «La grande questione del nostro tempo non è se si possa o non si possa arrivare ad un governo mondiale [One World], ma se si possa o non si possa arrivare ad un governo mondiale con mezzi pacifici. Lo si voglia o no, arriveremo a un governo mondiale. La sola questione è se ci arriveremo con un accordo o con la forza» (James Paul Warburg, adepto del Council of Foreign Relations, alla Commissione Esteri del Senato americano, 17 febbraio 1950).
3. «Dove finirà la marcia del cosmopolitismo? Se non la fermeremo, ci condurrà verosimilmente al comunismo [...] Come in campo sociale la più pura forma di totalitarismo è il comunismo, possiamo esser certi che, se non ci opporremo, il logico sbocco del processo sarà questo. Se dovremo diventare un unico mondo, dovremo essere regolati come un tutto. La libertà, al pari di un'economia libera, può incoraggiare l'anticonformismo. Questo, i nostri governanti totalitari non possono permetterlo» (Bryan Campbell). ***
*** Quanto al riferimento campbelliano al «comunismo» – ad un comunismo oggi presuntamente defunto – come esito finale del liberalismo, non si spaventi il lettore, poiché basta intendersi sul termine. Invero, controfaccia della stessa medaglia mondialista, il liberalismo reale non è, nel suo più intimo nocciolo, che un «supercomunismo», un «comunismo del benessere» sempre più monopolistico, diverso dal «socialismo reale» solo per la maggiore ricchezza distribuita (in ogni caso: pro tempore). È soprattutto tale aspetto che gli permette di non esercitare particolari repressioni contro i dissidenti.
Similmente Faye, dopo l'analisi compiuta nel 1985 in La Nuova Società dei Consumi, in Pourquoi nous combattons: «Ben meglio di quanto non abbia fatto il comunismo, [il liberalismo occidentale] ha realizzato il doppio sogno di Marx – e di Trockij: costruire una civilizzazione planetaria e cosmopolita esclusivamente fondata sul materialismo e i rapporti economici. In questo senso, è il capitalismo della civilizzazione occidentale, e non il comunismo, che ha realizzato l'essenza del marxismo».
Similmente, sempre nel 2001, Aurelio Lepre: «L'Eden laico sognato da Marx avrebbe dovuto essere il punto di approdo del massimo livello di sviluppo economico possibile nel capitalismo, il prodotto di una società ricca, che nel comunismo avrebbe trovato il mezzo per diventarlo ancora di più. Marx voleva il benessere per tutti: è stato anche lui il teorico di una affluent society, egualitaria ma opulenta. Non auspicò mai l'eguaglianza nella miseria [...] Oggi, i più lontani da Marx sono i movimenti che proclamano rivoluzioni o trasformazioni radicali. Se n'erano allontanati già i protagonisti del Sessantotto, che guardavano a Mao Zedong come a un maestro, ma ora il distacco è veramente completo. I nuovi rivoluzionari sono contro la globalizzazione, di cui Marx è stato il primo celebratore. Considerano una sciagura la formazione del mercato mondiale, che per Marx era l'indispensabile premessa per la costruzione di una civiltà universale. Avversano la ricchezza che Marx, invece, riteneva il fondamento necessario all'estrinsecazione di tutte le doti creative dell'uomo. Sono convinti che la natura venga violentata dallo sviluppo industriale, mentre Marx auspicava il suo assoggettamento. Non c'è una sola rivendicazione del cosiddetto "popolo di Seattle" [i presunti «contestatori» da sinistra delle oligarchie finanziarie mondiali, artefici del Nuovo Ordine Mondiale attraverso la globalizzazione delle economie] che lo troverebbe d'accordo. Tra chi difende l'Occidente e chi lo contesta, soltanto i primi potrebbero ancora legittimamente riferirsi a Marx. Non è certo mia intenzione sostenere che egli non sia stato un duro nemico del capitalismo. Ci mancherebbe. Ma non lo è stato della civiltà occidentale, alla quale appartiene in pieno».
Ed ancora l'antropologa Ida Magli: « Vogliamo deciderci a rompere un tabù? Vogliamo finalmente dirci la verità? Che il comunismo sia stato archiviato è un paradossale equivoco: lo stiamo vivendo. Si è realizzato. E si è realizzato molto al di là di quello che sperava o si proponeva Marx. Per questo non ne siamo consapevoli. È vero, la classe operaia non governa, ma semplicemente perché le classi non esistono più. L'annullamento delle differenze le ha travolte tutte, e al potere non ce n'è nessuna. Tutti uguali, infatti, ha significato tutti ugualmente privi di potere. Con la fine della rappresentanza assegnata, come era avvenuto per molti secoli, ai vari strati sociali (clero, esercito, contadini, borghesi, nobili), si è formato un gruppo specializzato esclusivamente nella gestione del potere; l'unico perciò davvero "diverso" il quale, con il comunismo, difende il suo interesse a che non si formino altre diversità.
I politici hanno così portato a termine l'opera di Marx proprio in quella parte dell'Europa che non soltanto vi riponeva una fede assoluta (era l'ateismo a mettere a disagio i cristiani, non l'egualitarismo e la solidarietà sociale), ma era anche ricca di spirito imprenditoriale. I grossi capitalisti, quelli che da secoli erano convinti che il mercato, il commercio e il denaro debbano scorrere senza mai trovare ostacoli davanti a sé, hanno capito che la fine delle "differenze", la fine delle classi, la fine degli Stati, la fine dei confini, era una macroscopica estensione della fine delle dogane, l'eliminazione di qualsiasi "barriera".
È stato così che in Italia e, con l'Unione, in Europa, ha trionfato il comunismo. Un comunismo che possiamo anche chiamare comunismo capitalistico. Ma non è necessario, perché il comunismo può vivere soltanto se è capitalistico; quando non è capitalistico crolla, come è successo nell'URSS, come a Cuba, come in Cambogia, in quanto non si può ridistribuire il denaro senza produrlo [...] Gli Stati dell'Unione Europea condividono questa situazione in quanto l'Unione è nata proprio per questo: estendere al massimo il territorio senza barriere a disposizione di banche, industrie e governanti. Il tema conduttore ripetuto ossessivamente: tutti i popoli sono uguali, tutte le religioni sono uguali, tutti i mestieri sono uguali, tutte le monete sono uguali, è il collante indispensabile al comunismo capitalistico che vede l'emergere di qualsiasi differenza come un pericolo »