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    Predefinito Le radici ideologiche dell'invasione

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    Le radici ideologiche dell'invasione
    Di Gianantonio Valli - Numero 52 del 01/11/2001

    Complici di Dio - Le basi psico-ideazionali - I pretesti per l'invasione - La distruzione del Terzomondo - L'unica possibilità di riscatto - Le premesse politiche - Il federalismo, faccia nascosta del mondialismo - Strategia di morte [Versione ampliata]

    Ciò che chiamiamo «la nostra moderna civiltà» è poco meno di un gigantesco meccanismo planetario di produzione e marketing, con l'Alta Finanza come centro di controllo, dapprima solo per le transazioni commerciali e poi per tutto, anche per la politica. La massima parte dei cittadini dell'Occidente è talmente presa a rendere efficiente il Sistema e ad occuparsi, in tale competizione, dei propri affari personali, che non è in grado di riflettere sui fatti della politica né di sentirli nell'intimo. È questo, inoltre, un Sistema nel quale le opinioni difformi e il dissenso possono venire puniti nei modi più diversi.

    Peter Blackwood, Das ABC der Insider, 1992

    Questa aberrante ed inquinante ideologia, che sogna di sostituire ovunque alle realtà naturali dei popoli altrettante società sempre più multirazziali, è solo l'espressione di un'esigenza pratica della Grande Finanza mondialista che ha bisogno – nelle aree più industrializzate – della immigrazione di mano d'opera a basso costo, e che è fortemente disturbata e infastidita – nel progressivo espandersi del proprio impero – dalla ingombrante presenza delle differenze nazionali, razziali e religiose offerte dai popoli che intendono mantenere la propria identità nell'indipendenza politica.

    Sergio Gozzoli, La perestrojka di Gorbaciov, 1989

    Nell'ultimo conflitto mondiale era in gioco molto più di quanto gli storici del Sistema oggi non lascino supporre, e forse anche più di quanto non apparisse allora ai primattori stessi della storia. Due antitetiche concezioni del mondo si scontravano: l'una fondata sulla stirpe e sul possesso territoriale, l'altra fondata sul libero scambio internazionale come strumento di dominio economico/politico. È assolutamente logico che il mercante internazionalista sia anche fautore dell'«eguaglianza tra gli individui» (salvo ignorarla poi nei fatti) e del principio di «libera autodeterminazione» del popolo (salvo imporre di fatto una patteggiata spartizione del mondo). Il primo principio serve a poter commerciare con chiunque, il secondo ad attaccare qualunque regime estraneo in crisi, giustificando agli occhi del mondo interventi miranti ad instaurare regimi sostitutivi (democratici) atti a favorire la penetrazione economica sullo specifico mercato.

    Enzo Caprioli, L'ideologia inquinante, 1989

    Il mondialismo è l'utopia che vede la felicità dell'uomo nell'abolizione di tutte le differenze e di tutte le identità. Esso cerca di creare il governo mondiale attraverso la distruzione delle nazioni, il meticciato delle razze, l'abolizione delle frontiere e il rimescolamento delle culture. Dall'utopia marxista che voleva abolire le classi, ridurre le ineguaglianze e costruire il paradiso rosso si è passati all'utopia mondialista che vuole abolire le differenze e creare il paradiso multicolore.

    Bruno Mégret, dirigente e poi segretario del Front National, 1992

    Mi chiedo come facciano taluni uomini politici a mettere in pericolo di morte, attraverso la droga e l'immigrazione, le collettività di cui sono i rappresentanti. C'è una ideologia che li rende folli. Un'ideologia internazionalista e mondialista che rimpiazza il grande sogno criminale dell'internazionalismo comunista. Siamo passati dall'internazionalismo comunista all'internazionalismo capitalista.

    Jean-Marie Le Pen, presidente del Front National, in il Giornale, 1â aprile 1995

    Il progetto mondialista non auspica la creazione di un ordine internazionale fondato sulla cooperazione tra liberi Stati sovrani. Al contrario, vuole imporre un unico governo mondiale che amministri grandi collettività multirazziali secondo un sistema di decentramento applicato per ampi spazi continentali. In questa prospettiva il ruolo del modello statunitense è di primaria importanza perché, se funziona, dimostra che è possibile organizzare grandi collettività su basi multirazziali. Al contrario, in caso di evidente insuccesso, la consapevolezza dei mali endemici che affliggono la società americana può condurre i popoli liberi a rifiutare il modello consumista e multirazziale [...] L'identità culturale dei popoli europei ha cominciato ad affievolirsi nel secondo dopoguerra con la diffusione dell'american way of life, ma finora siamo rimasti immuni dai mali del modello multirazziale. Ora il nemico vuole completare la sua opera. Ha banalizzato la nostra vita e ha imbastardito i nostri valori. Ora vuole attentare anche alla nostra eredità biologica. Il meticciato culturale è inquinamento mentale. Il meticciato biologico è inquinamento razziale.

    Lello Ragni, Il mondialismo capitalista, 1992

    Oggi, per la prima volta nella storia, il mondo si muove anteponendo a tutto i parametri economici e monetari. Ciò a scapito delle altre categorie dell'agire umano, e di quel patrimonio di valori che per millenni ha determinato il destino dei popoli. "Ogni discorso sul modello di società sembra ridursi all'àmbito economico e sempre in un'ottica a breve termine, senza prendere in considerazione cicli di più ampio respiro". Non si tratta, come molti superficialmente sono portati a credere, dell'ineludibile conseguenza del progresso e dello sviluppo tecnologico, ma di una situazione perseguita con pervicacia da precise forze e da quegli Stati che per primi sono stati condizionati da queste forze. Si tratta del cosciente operare di entità private internazionali che hanno fatto dell'economia il loro cavallo di Troia per infiltrarsi in tutte le società del mondo con evidenti scopi di speculazione, di prevaricazione e di potere, sconvolgendo la vita degli uomini e riducendola, nonostante le fantasmagoriche luci del palcoscenico contemporaneo, al suo minimo storico qualitativo. Droga, corruzione, perdita di identità, superficialità, angosce d'ogni tipo hanno preso violentemente il posto del senso di appartenenza, dei valori, delle tensioni ideali, della spinta ad elevarsi. Il dio denaro è l'immagine che meglio di tutte è adatta a rappresentare l'epoca che stiamo vivendo: un dio vuoto di contenuti, ma capace di asservire tutto e tutti. Un dio espressione di un potere globale che, invece di conquistarsi ciò che vuole, è avvezzo a comprarlo con moneta che esso stesso fabbrica dal nulla a suo uso e consumo. Questo potere, che noi definiamo Mondialismo e che si sta consolidando ovunque, è il vero nemico dei popoli e rappresenta ciò che impedisce ad ogni Nazione di affrontare e risolvere i propri problemi in maniera libera ed originale.

    Mario Consoli, Contro il dio denaro - Metamorfosi degli strumenti economici dalle origini alla tirannide mondialista, 1999

    Primaria finalità del mondialismo è il trasformare l'intero pianeta in un immenso supermarket dove tutte le popolazioni, tutte le etnie – massificate tramite la «società multirazziale» – verranno schiavisticamente sfruttate dal capitalismo internazionale: in altri termini, un'immensa mandria umana che i pastori mondialisti indirizzeranno, a proprio vantaggio, imponendo in tutti i continenti unificate direttive economiche e politiche. Una tirannide che degraderebbe irreversibilmente l'intera umanità e l'intero pianeta tra catastrofi ecologiche e demografiche. A ragione il mondialismo è stato definito «il più grave pericolo che incombe sulle generazioni presenti e future». Ma questo pericolo planetario non appare inevitabile, poiché il mondialismo è vulnerabile. Molto più vulnerabile di quanto credano i presuntuosi pastori mondialisti, i corrotti politici al loro servizio, gli ottusi ottimisti tecnologici di varie provenienze, le masse degradate dal consumismo e inebetite dalla propaganda mondialista. Le sempre più vicine catastrofi ecologiche di origine chimica e nucleare, i crescenti dissesti originati dalla sovrappopolazione e dalla società multirazziale, la divorante distruzione delle risorse alimentari e minerarie del pianeta, la progressiva distruzione delle civiltà e culture tradizionali: ecco le cause – causate da quel materialismo consumistico ovunque imposto – dell'imminente crollo del mondialismo stesso i cui santoni, servitori e seguaci sono insensati come coloro che abbattono gli alberi per raccoglierne più comodamente i frutti.

    Giuseppe Mosca, Konrad Lorenz, una voce antimondialista, «Rinascita», 10 gennaio 2001

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    Complici di Dio

    Le premesse psico-ideazionali

    I pretesti per l'invasione

    Un aspetto: la distruzione alimentare e sociale del Terzomondo

    L'unica possibilità

    Le premesse politiche

    Il federalismo, faccia nascosta del mondialismo

    Strategia di morte

    Acceleratori della Fine

    Diritto di resistenza

    Guerra di civiltà

    La superstizione monoteista

    Sui lidi estremi

    Fondamenti

    Hauptunterscheidung

    REGNO

    mondo avvenire

    haOlam haBah


    REALTA'

    questo mondo

    haOlam haZeh

    divino

    personale


    sacro

    impersonale

    monoteismo

    creazione (frattura)


    politeismo

    evoluzione (continuità)

    universalismo

    proselitismo


    radicamento

    rispetto / indifferenza

    individualismo

    egualitarismo


    organicità

    gerarchia

    materialismo / idealismo

    dualismo


    realismo

    unità psicofisica

    panmoralismo

    umanitarismo


    virtù

    forza

    provvidenzialismo

    teleologismo


    tragicità

    destino

    Due e solo due sono le posizioni teoriche di approccio al mondo;

    due e solo due i Sistemi di Valori discesi nel divenire storico.

    PRIMO

    Le radici ideologiche dell'invasione

    Complici di Dio

    Sistema ideo-sociale nato 2500 anni fa dallo psichismo e dalle vicende storiche delle genti ebraiche, lo Stato Teocratico Universale vaticinato dal giudaismo con le espressioni «Nuova Terra e Nuovo Cielo», «Mondo Nuovo» e «Regno» è disceso fino ai nostri giorni dopo avere cercato invano, per quindici secoli, di inverarsi in concrete strutture politico-societarie, sempre venendo respinto dal realismo indoeuropeo.

    La Suprema Utopia – il Mondo alla Rovescia dei puritani e delle infinite altre sette protestanti – si afferma infatti nell'Inghilterra del Seicento (l'autodefinito Nuovo Israele), si radica nel Settecento oltreoceano nelle Tredici Colonie (l'autodefinito Paese di Dio: the God's Own Country, raccolta degli spurghi cristiani più giudaizzanti), si laicizza nell'Ottocento nella bifronte concezione della democrazia (liberalmassonica da un lato e marxista dall'altro: pseudomorfosi ateistiche della gnosi giudaico-cristiana), esita infine, nel Novecento, nella teorizzazione e nella prassi del Nuovo Ordine Mondiale. ***

    *** Tra le mille suggestioni bibliche, vedi Isaia LXV 17 e Apocalisse XXI 1. Per il percorso propriamente storico indichiamo: Cohn N., I fanatici dell'Apocalisse, Edizioni di Comunità, 1965; Gobbi R., Figli dell'Apocalisse - Storia di un mito dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, 1993; Hill C., Il mondo alla rovescia - Idee e movimenti rivoluzionari nell'Inghilterra del Seicento, Einaudi, 1981. Per il percorso psico-ideologico vedi: De Marchi L., Scimmietta ti amo - Psicologia, cultura, esistenza: da Neanderthal agli scenari atomici, Longanesi, 1984 e Natoli S., L'esperienza del dolore - Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, 1986. Da parte nostra abbiamo trattato la questione in Lo specchio infranto - Mito, storia, psicologia della visione del mondo ellenica, Edizioni dell'Uomo libero, 1989, e la stiamo approfondendo in Le sorgenti di utopia - Il ruolo del cristianesimo e dell'Inghilterra secentesca nella genesi del mondo contemporaneo e in I complici di Dio - Genesi del Mondialismo.

    Fuorvianti e risibili sono gli strali lanciati dal giornalista Francesco Merlo contro i fondamentalisti della terza articolazione monoteista, quei «kamikaze di Dio» che, dopo avere, l'11 settembre 2001, «devastato New York, uccidendo migliaia di persone, di innocenti, di nostri fratelli americani», «vogliono portare l'Apocalisse nell'Occidente»: «Di sicuro oggi sono soprattutto gli islamici ad avere la presunzione di rappresentare Dio in terra. Finito il comunismo, sono loro i nemici più ostinati della tolleranza e della civiltà occidentali, sono i moderni interpreti di quella devastazione umana che è inevitabile ogni volta che si cerca di far stare l'Infinito nel finito, ogni volta che si vuole imporre agli uomini le leggi di un Dio, le leggi di Dio, il quale è e deve restare invece una grazia privata, la luce delle singole coscienze, una scelta di libertà individuale. L'irruzione di Dio nella storia si chiamava e si chiama Apocalisse».

    Invero, dimentico delle ben più immani responsabilità del fondamentalismo liberale nella distruzione dell'umanità e della natura, il buon liberale Merlo non può che essere cieco davanti al fanatismo liberale (e giudaico), per definizione inesistente. Inoltre, sempre da buon liberale, non può che ignorare che mai si è data una religione che, lungi dal restare patrimonio dei singoli, non abbia preteso di reggere da sola una società, emarginando o annientando ogni altra visione avversaria. Proprio non esiste una feroce religione liberale? o feroce una religione olocaustica?

    Teorizzazione e prassi che, discese dal criminale idealismo wilsoniano e passate per la criminale aggressività rooseveltiana, al passaggio del millennio sostanziano il criminale stragismo mondialmente praticato dai due Bush e da Bill Clinton.

    Teorizzazione e prassi proprie delle infinite articolazioni dell'ebraismo: dagli ultraortodossi ai ricostruzionisti, dai conservatori ai liberali, dai più cabbalistici ai più «razionali», dagli ortodossi ai miscredenti, dai grandi-sionisti ai piccolo-sionisti, dai sionisti religiosi ai sionisti laici, dai supercapitalisti della Diaspora ai kibbutznik d'Israele, dagli antisionisti religiosi agli antisionisti «atei», anarchici, comunisti o borghesi, dai più feroci destristi ai più beceri sinistri. Individui tesi, tutti, nelle forme, nei modi e nei tempi più vari, a inverare il fantasma del Regno.

    E il Regno, malkut, è, per la mistica della Qabbalah, la base dell'Albero della Vita, al di là del quale solo esiste l'ain sof, il «ciò che non ha limite», la «nessuna cosa», l'Infinito e il Nulla del Divino. Il Regno, l'Allucinazione la cui premessa è a livello teorico l'egualitarismo universale – l'individualismo assoluto da un lato e la distruzione delle nazioni dall'altro – è il veicolo finale di Dio, il portato della «bronzea necessità». È la più terrestre, la decima e ultima delle sephirot, le Potenze attraverso cui il Benedetto agisce nel mondo, equivalenti al Microcosmo dell'Uomo Archetipo. È l'Armonia, è il Mezzo coi quali le altre nove – le Tre Triadi – realizzano il proprio potenziale. ***

    *** Anche nella più generale tradizione ebraica il Regno viene identificato con la shekinah, la Sapienza Divina. Sapienza che nel Bet Hamiqdash – «la casa del luogo consacrato», il Tempio di Gerusalemme – sedeva nel Santo dei Santi, sulla roccia del monte Moriah usata da Abramo per il sacrificio di Isacco. Quella stessa donde Maometto sarebbe salito al cielo.

    Il Sistema Mondialista – la Terra Senza il Male e l'Unico Mondo, cui danno sostanza le strutture psico-esistenziali del Sogno Americano e la suggestione dell'Immaginario Olocaustico – è il referente attuale del Regno. Regno che ha necessitato e necessita, per la sua instaurazione, di concreti artefici umani, scelti e arruolati, tra tutte le genti, dall'Unico Dio. E chi può vantare, nei secoli come oggi, tale ruolo con maggiore legittimità della nazione ebraica?

    Siamo quindi grati al «francese» Paul Giniewski per averci suggerito, a definire tali trascelti, la splendida espressione Complici di Dio, icona del bimillenario percorso dell'Idea Mondialista: profeto-jahwista, farisaico-talmudica, esseno-zelota, terroristico-apocalittica, cristiana nelle sue mille sette ed infine: demoliberale da un lato e marxista dall'altro.

    Genesi e percorso – gesta Dei per haebraeos – illustrati il 3 aprile 1959, senza ritegno, a milioni di telespettatori dal premier israeliano Ben Gurion: «Il senso di Israele è di perfezionare la creazione».

    Genesi e percorso rivendicati da Rabbi Michael Goldberg, per il quale gli ebrei – «linchpin in His redemption of the world, cardini della Sua azione redentrice del mondo» – devono «comportarsi da popolo di Dio, poiché solo da loro dipendono la redenzione del mondo di Dio e il nome stesso di Dio» (non per nulla l'omonimo M. Hirsh Goldberg, caporedattore del Baltimore Jewish Times, postilla, arguto nel significato mafiosamente ambiguo di connection, che «He is the Ultimate Jewish Connection, per l'ebraismo Egli è la Suprema Relazione»).

    Genesi e percorso folgorati dall'«anglo-tedesco» Josef Kastein (nato Julius Katzenstein): «Tra le razze civili del mondo, il popolo ebraico è al contempo la migliore e la meno conosciuta [...] Un popolo così intensamente vitale come quello ebraico non necessita di apologia. Al contrario, occorre anzitutto che gli si rammenti sempre la sua vera natura, cosicché non rischi mai di scordare le stupende responsabilità di cui è stato caricato su questa Terra [so that they may never be in danger of forgetting the stupendous responsibilities which have been imposed upon them on this earth]».

    Genesi e percorso vantati da Milton Steinberg in Basic Judaism, "Fondamenti di giudaismo": «Proclamando l'unicità di Dio, quindi, i profeti intendevano più che il ripudio dell'adorazione degli idoli. Erano risoluti a fissare i seguenti princìpi: la realtà è un ordine e non un'anarchia; l'umanità è una totalità e non un caos di conflitti; una legge universale di giustizia sovrasta gli esseri umani, trascendendo i confini [delle nazioni], oltrepassando ogni divisione di classe [...] Basato sulle testimonianze del passato e del moderno rabbinato, il giudaismo opera oggi [...] per una pace internazionale garantita da un governo mondiale, poiché la nozione dell'assoluta sovranità dello Stato nazionale è sempre stata un'oscenità agli occhi della Tradizione».

    Genesi e percorso rivendicati da Rabbi Aharon Barth («il nostro compito è di creare la storia nello spirito di Dio») e psico-storicamente analizzati da Gerald Abrahams, che li sintetizza in pregnante pensiero: «La teocrazia, infatti, è uno dei grandi contributi non riconosciuti di Israele all'agire politico del mondo».

    Genesi e percorso ribaditi dall'insigne («has ordained more rabbis than anyone else in history, ha ordinato più rabbini di chiunque altro») Joseph Dov Soloveitchik, «the Rav», il rabbino per eccellenza, rampollo di tre generazioni di talmudisti «lituani»: «Per l'halachah il servizio di Dio (eccettuato lo studio della Torah) può essere svolto solo attuando, concretizzando i suoi princìpi nel mondo. L'ideale della giustizia è il faro di tale concezione. Il più fervido assillo dell'uomo halachico è di perfezionare il mondo sotto il dominio della giustizia e dell'amore: realizzare la creazione ideale, il cui nome è Torah (o Halachah), nella vita terrena». ***

    *** La halachah, «cammino», è la giurisprudenza, di fonte rabbinico-talmudica, che regge la vita rituale, personale e sociale dell'ebreo. Il termine Torah definisce i primi cinque libri biblici, noti ai cristiani come Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. Dati a Mosé sul Sinai da Dio stesso, essi sono detti in greco Pentateuco e in ebraico, appunto, Hamiflah Humley Torah, «i cinque libri dell'Istruzione [o della Legge]».

    Genesi e percorso rivendicati nel 1862 dal «rabbino comunista» Moses Hess, ispiratore e sodale di Marx: «Il genio divino della famiglia ebraica nella sua automanifestazione dice: "Per te saranno benedette tutte le famiglie della Terra" [Genesi XII 3]. Ogni ebreo ha in sé la stoffa di un Messia. Ogni ebrea ha quella di una mater dolorosa [...] La Fine dei Giorni, nella quale la conoscenza di Dio riempirà tutta la Terra, è ancora lontana da noi. Ma noi crediamo fermamente che giorno verrà in cui lo spirito santo del nostro popolo diverrà patrimonio dell'umanità; giorno verrà in cui tutta la Terra diverrà il Tempio in cui risiederà lo spirito di Dio. Perciò il Regno dello spirito è nella Bibbia annunziato come futuro».

    Genesi e percorso profetizzati due millenni prima nell'infocata pietraia qumranica: «E questo è il libro della Regola della Guerra. L'inizio si avrà allorché i Figli della Luce porranno mano all'attacco contro il partito dei Figli delle Tenebre, contro l'esercito di Belial, contro la milizia di Edom, di Moab, dei figli di Ammon, contro gli Amaleciti e il popolo della Filistea, contro le milizie dei kittim di Assur, ai quali andranno in aiuto coloro che agiscono empiamente verso il Patto. I figli di Levi, i figli di Giuda e i figli di Beniamin, gli esuli del deserto, combatteranno contro di essi; ... contro tutte le loro milizie, allorché gli esuli dei Figli della Luce ritorneranno dal deserto dei popoli per accamparsi nel deserto di Gerusalemme. E dopo la guerra se ne andranno di là, contro tutte le milizie dei kittim in Egitto [...] Vi sarà una costernazione grande tra i figli di Jafet, Assur cadrà e nessuno l'aiuterà, scomparirà la dominazione dei kittim [leggi: dei romani] facendo soccombere l'empietà senza lasciare traccia, e non rimarrà alcun rifugio per tutti i Figli delle Tenebre. Verità e giustizia risplenderanno per tutti i confini del mondo, illuminando senza posa fino a quando saranno finiti tutti i tempi stabiliti per le tenebre. E al tempo stabilito per Dio, la sua eminente maestà risplenderà per tutti i tempi determinati in eterno per la pace e la benedizione, la gloria, la gioia, e giorni lunghi per tutti i Figli della Luce. Nel giorno in cui i kittim cadranno vi sarà un combattimento e una strage grande al cospetto del Dio di Israele; giacché questo è il giorno, da lui determinato da molto tempo per la guerra di sterminio dei Figli delle Tenebre nel quale saranno impegnati in una grande strage [...] Sarà questo il tempo dell'angustia per tutto il Popolo della Redenzione di Dio: tra tutte le loro angustie non ce ne fu mai simile, dal momento nel quale si scatena fino al suo compimento nella redenzione eterna».

    Genesi e percorso celebrati due millenni dopo dal Reform Rabbi di Cincinnati dottor Kaufmann Kohler (1843-1926), genero del grande David Einhorn, capo dell'ala sinistra del movimento riformista e successore dell'illustre Isaac Mayer Wise a presidente dello Hebrew Union College, nemico sia del concetto che della pratica di «nazionalità ebraica»: «La speranza futura dell'ebraismo è racchiusa nell'espressione Regno di Dio, malkut shaddai o malkut shamajim, propriamente "signoria di Dio" [...] La predicazione dei profeti che il Dio Unico di Israele verrà riconosciuto [dalle nazioni] quale Signore del mondo intero ha creato questa idealità futura dell'ebraismo e con ciò conferito alla storia del mondo una meta e uno scopo ultimo, facendo di Israele, Popolo di Dio, il suo fulcro e il suo perno [...] La vera speranza messianica ha per sostanza il ristabilimento del Trono di Davide [...] Con specifico riguardo al Servo Sofferente del Deuteroisaia, il titolo di Messia sarà d'ora innanzi applicato al popolo di Israele: Israele, il Messia sofferente, diverrà alla fine dei tempi il Messia delle nazioni, coronato di vittoria» (in Grundriß einer systematischen Theologie des Judentums auf geschichtlicher Grundlage, "Lineamenti di una teologia sistematica dell'ebraismo basata su fondamenti storici", edito a Lipsia nel 1910, traduzione di Jewish Theology Systematically and Historically Considered).

    Genesi e percorso per il quale nel 1920, scatenato l'Orrore bolscevico ormai da un triennio, recita il mea culpa Rabbi Oscar Levy prefando The World Significance of the Russian Revolution di George Pitt-Rivers: «Noi siamo stati colpevoli. Noi, che ci siamo posti come salvatori del mondo, noi, che ci siamo perfino vantati di avergli dato "il" Salvatore, non siamo oggi nient'altro che i seduttori del mondo, i suoi distruttori, i suoi incendiari, i suoi carnefici [...] Noi, che abbiamo promesso di condurvi in un nuovo paradiso, siamo riusciti alla fine a condurvi in un nuovo inferno [...] Non c'è stato alcun progresso, men che meno un progresso morale [...] Gli ebrei sono i padri spirituali della democrazia, e perciò della plutocrazia [...] Elementi ebrei sono le forze propulsive sia del comunismo che del capitalismo».

    Genesi e percorso rivantati nel n.3-4 di Jeschurun - Monatschrift für Lehre und Leben im Judentum, "Jeshurun - Mensile di dottrina e di vita del giudaismo", *** marzo-aprile 1921: «Israele soltanto è in grado, per le sue qualità ereditarie, di donare profeti, uomini che possono entrare in relazione con Dio in maniera soprannaturale. Israele è come la semente che trasforma in propria natura gli elementi contenuti in seno alla terra: Israele è il cuore di quell'organismo che è l'umanità. È il cuore delle nazioni».

    *** Jeshurun = nome poetico per intendere Israele: «diletto», «giustissimo», «integro», «acuto».

    Genesi e percorso folgorati nel 1923 dal rabbino sionista Louis Israel Newman: «The modern mission of the Jew is to assume the moral leadership of the world, La missione moderna dell'ebreo è di assumere la guida morale del mondo».

    Genesi e percorso ostentati, a impossibilità di fusione, dal celebre polemista Maurice Samuel nel 1924: «Voi avete il vostro modo di essere, noi il nostro. Per il vostro modo di vita noi manchiamo sostanzialmente di "onore". Per il nostro modo di vita voi mancate sostanzialmente di moralità [si noti la sottile distinzione delle virgolette in onore e della loro assenza in moralità!]. A voi appariremo per sempre privi di grazia, a noi apparirete per sempre privi di Dio [...] Noi ebrei, noi, i distruttori, resteremo distruttori per sempre. Nulla di quanto farete placherà i nostri bisogni e le nostre domande. Distruggeremo in eterno, perché ci è necessario un nostro mondo, un mondo divino, che non è nella vostra natura edificare [We will forever destroy because we need a world of our own, a God-world, which it is not in your nature to build]».

    Genesi e percorso ricantati, quindici anni dopo a New York, dal confrère Harry Waton, filosofo spinoziano e paramarxista, in A Program for the Jews and Humanity, varato dal Committee for Preservation of the Jews: «Come il comunismo, l'internazionalismo è il fondamento della società, la base di ogni umano progresso, la speranza della classe lavoratrice, il destino dell'umanità [...] Facciamo sì che tutte le nazioni della Terra divengano razionali, facciamole entrare in una federazione di nazioni come in questo paese abbiamo una federazione di Stati [...] Ma al contempo gli ebrei sono nazionalisti in quanto ebrei. Gli ebrei, ovunque nel mondo, a prescindere dal posto in cui vivono, dalla lingua che parlano, dal sistema di vita e dagli usi e costumi che seguono, tutti si riconoscono l'un l'altro come un unico popolo».

    Dio li ha scelti come il Suo Popolo, e «per questa ragione lo Stato ebraico giunse sempre dove fu il popolo ebraico [always was co-extensive with the Jewish people], e poiché ora gli ebrei sono disseminati su tutta la Terra, lo Stato ebraico si estende su tutta la terra. Questo è il motivo perché lo Stato ebraico è internazionale e così potente». Inoltre, poiché è vero che «gli ebrei sono il popolo più nobile e civile della terra [the highest and most cultured people on earth]», «gli ebrei hanno il diritto di sottomettere a sé il resto dell'umanità e di essere i signori della terra [have a right to subordinate to themselves the rest of mankind and to be the masters over the whole earth]»; «gli ebrei diverranno i signori della Terra e sottometteranno a sé tutte le nazioni, non attraverso la potenza materiale, non con la bruta forza ma con la luce, la conoscenza, l'intelligenza, l'umanità, la pace, la giustizia e il progresso».

    Genesi e percorso ribaditi nel 1949, dopo il Secondo Conflitto, da Rabbi Ignaz Maybaum in The Jewish Mission: «Il giudaismo è messianismo. Il messianismo vede la storia come uno stadio in cui il piano di Dio si auto-rivela, dove la Sua promessa, dataci attraverso i Sui profeti, sarà compiuta [la storia non è che toledot ha-yeshuah, «storie della salvezza»!]. Il Regno di Dio giungerà. Con questa speranza nel cuore l'uomo continua a lottare, resta distaccato da tutte le soluzioni e da tutti i successi celebrati nelle vittorie e nei giorni fausti della storia, e resta fermo e coraggioso nella catastrofe, nella frustrazione, nella sofferenza con cui la storia lo assedia. Egli prosegue il cammino. Il suo cuore gli dice: il Regno di Dio verrà. Come uomo messianico l'ebreo vive nella storia e oltrepassa la storia. Il giudaismo è messianismo. Ma il giudaismo non è solo messianismo. Sia il profeta che il sacerdote sono gli eterni archetipi dell'ebreo. Fianco a fianco col profeta, che insegna la speranza per il tempo promesso, sta il sacerdote. Il sacerdote non guarda avanti, al futuro. È di fronte a Dio qui e ora, nei giorni di questa sua vita e nel luogo ove vive la sua vita [...] Il grande pericolo per noi in quanto popolo messianico è di fermarci incondizionatemente in un'epoca, considerarla un "tempo compiuto" [...] Dobbiamo essere più che cittadini di un qualunque Stato, in Palestina come altrove. Dobbiamo restare ebrei. Gli ebrei sono ebrei solo se restano cittadini del Regno di Dio».

    Genesi e percorso insistiti dal sionista-mistico «tedesco» Gershom Scholem nel 1963 in Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, "Per comprendere l'idea messianica nel giudaismo": «C'è nella natura dell'utopia messianica una componente anarchica [l'«anarchismo politico di principio» di cui tratta Shmuel N. Eisenstadt!], la dissoluzione dei vecchi vincoli, che nel nuovo contesto della libertà messianica perdono il loro vecchio senso».

    Genesi e percorso sottesi alla disinvoltura del laico «italiano» Shmuel ex-Edoardo Recanati, confidante al confratello Pezzana: «L'idea che Dio è il nostro Dio fa paura, però giustifica tante altre cose, è un messaggio fortissimo. Questo mi spinge a interrogarmi: non è forse il Dio di tutti? È ovvio che lo è, ma nei confronti del popolo ebraico ha un atteggiamento particolare [...] Il popolo ebraico non è che uno strumento, un rappresentante che visita la clientela per conto del boss».

    Genesi e percorso che trovano infine, in questo atroce inizio di secolo, il loro sbocco più alto nel criminale appello del «francese» André Chouraqui – già co-segretario dell'Alliance Israélite Universelle, consigliere di Ben Gurion e prosindaco di Gerusalemme, premio Fondazione Agnelli 1999 per l'espressione di una «dimensione etica nelle società avanzate» – sfrenato nella ricostruzione psico-fantastorica di Mosè: «Sappiatelo: le Porte del Paradiso sono ormai aperte davanti a voi. Uomini, miei fratelli, fate bene attenzione a non richiuderle mai più».

    * * *

    Le basi psico-ideazionali

    Se è quindi vero che i concetti di creazione e missione rientrano in una precisa visione delle cose scaturita da un preciso psichismo espresso da – e che ha in retroazione espresso e rafforzato – un preciso gruppo razziale-etnico-nazionale (invero, le religioni non sono altro che «la spiritualizzazione deificatrice della razza», ci conforta il rabbino «francese» Kadmi Cohen in Nomades - Essai sur l'âme juive, 1929), essi non possono essere, anche se lo hanno da sempre rivendicato con improntitudine, «universalmente umani».

    Se, come afferma Giniewski, «l'idea di un Dio Unico e supremo fonda [...] l'assioma religioso su una logica: dall'unità discenderà l'ordine; l'intera Torah non è che l'espressione di un certo ordine del mondo» – se, come afferma Itzchaq Abravanel, «la creazione è la radice e il fondamento su cui poggia tutta la Torah, la chiave di volta di tutte le credenze della nostra fede, che si tratti delle parole iniziali della Genesi, dei racconti dei patriarchi o dei miracoli e dei prodigi. Tutte le nostre credenze si giustificano solo se si crede nella creazione. Se l'uomo non crede alla creazione volontaria del mondo, non può avere una fede salda nell'onniscienza divina e nella provvidenza e nel rapporto che lega l'osservanza dei precetti alla ricompensa o al castigo» – e se, come recita lo Zohar, «Israel weTorah echad hu, Israele e la Torah sono la stessa cosa», è allora evidente che chi ha sempre combattuto e rifiutato, ed ancora rifiuta e combatte, tale «ordine» non può che – anzi deve – rigettare l'assioma religioso che lo fonda. ***

    *** Per converso, a chi rifiuti tale assioma non è logico né moralmente lecito perseguire un «ordine» similarmente universalistico o, per dirla con l'Evola del «vero» universalismo – quello del «superiore diritto» e della «missione di ordine supernazionale» – «imperiale».

    Ancor più, istiga nel 1919 l'anarchico «tedesco» Gustav Landauer, invocando come Trockij la Rivoluzione Permanente, nessun ordine dovrà mai essere raggiunto, e neppure auspicato: «Il sollevamento come costituzione, la trasformazione e il rovesciamento come una regola prevista per sempre... tale era la grandezza e la santità di questo ordine sociale mosaico. Noi abbiamo di nuovo bisogno di questo: una regolamentazione nuova e un rovesciamento dello spirito, che non fissi le cose e le leggi in modo definitivo, ma dichiari se stesso come permanente. La rivoluzione deve divenire la regola fondamentale della nostra costituzione».

    E similmente continua Kadmi Cohen: «Diversamente da quanto è avvenuto per gli altri popoli, lo stato nomadico non ha mai avuto presso il semita un carattere di transizione, di stadio transeunte che precede e prepara alla vita sedentaria: esso nasce nel profondo del cuore semita [...] Chi dice erranza di un gruppo umano dice al contempo isolamento di questo gruppo e, a dispetto dei suoi spostamenti, a ragione anzi dei suoi spostamenti, la tribù resta identica a se stessa»; similmente vanta il filosofo Abraham Joshua Heschel: «La nostra è una voce contro la sovranità di qualsiasi valore: sia esso l'io, lo Stato, la natura o la bellezza»; similmente conclude Rabbi Marc-Alain Ouaknin, direttore del Centre de Recherches et d'études juives Aleph: « L'ebreo afferma contemporaneamente l'impossibile fissarsi nell'identico e denuncia il concetto di identità [...] Il termine "giudeo", letto a partire dalla parola Yehudah dice esattamente che la definitiva identità è un'illusione e ci invita a pensare "al di là del principio di identità" [...] Essere ebreo entrando nel Nome significa, infatti, affermare la volontà di permanere al di fuori di una definizione e di un concetto ».

    Nulla quindi, davvero, di che stupirsi della rivendicazione compiuta dal londinese The Jewish World del 9 febbraio 1883, meglio detto 2 adar 5643: «Il più alto ideale del giudaismo si pone in contrapposizione ad ogni separatistico radunarsi del popolo ebraico. L'aspirazione a ricostituire l'impero di Israele non è il vero obiettivo della religione giudaica, è soltanto un'abnorme escrescenza di accese speranze nate del tempo della persecuzione [...] La missione [degli ebrei] può essere portata avanti solo in una sfera d'azione come quella loro permessa dalla diaspora. È chiaro, anche solo da un punto di vista tattico, che gli insegnamenti giudaici hanno migliori probabilità di venire inculcati fruttuosamente [nei non-ebrei], se questi sette milioni di missionari lavorano sparsi ovunque nel mondo, piuttosto che ridursi al silenzio da sé rinchiudendosi in precisi confini geografici, compromettendo in tal modo la possibilità di portare avanti la loro missione [...] La razza ebraica è certo pura e la religione ebraica si trova certo in uno stato incontaminato, ma noi vogliamo costituire ben più di una semplice nazione, vogliamo per il mondo un'unica lingua ed un unico spirito [...] Poiché gli ebrei sono il solo popolo cosmopolita, essi sono tenuti – cosa che peraltro fanno – ad agire come una forza dissolvente di ogni nazione o razza. Il più grande ideale del giudaismo non è ambire a mete separatiste, ma che il mondo venga permeato degli insegnamenti giudaici e che tutte le razze e le religioni scompaiano in una fratellanza universale delle nazioni, cioè in un più grande giudaismo; tutte le razze e le religioni scompariranno [...] Gli ebrei elessero a domicilio l'intero mondo e ora tendono le mani agli altri popoli della Terra affinché seguano il loro esempio. Sì, essi fanno ancora di più. Attraverso l'impegno in campo letterario e scientifico, attraverso la loro posizione dominante in tutti i settori della vita pubblica, gli ebrei sono arrivati a conformare in forme ebraiche i pensieri e i sistemi dei non ebrei».

    Nulla quindi, davvero, di che stupirsi dell'appello lanciato nel 1915, in pieno conflitto mondiale, da Nahum Goldmann in Der Geist des Militarismus, "Lo spirito del militarismo": «Il senso e la missione storica del nostro tempo possono essere compendiati in questo pensiero: vostro compito è il riordino della civiltà umana, la sostituzione di un nuovo Sistema societario a quello finora dominante. Ogni riordino consiste in due fasi: nella distruzione del vecchio Ordine e nella formazione del nuovo. In primo luogo, tutti i pali di confine, tutte le barriere e le qualifiche del vecchio Sistema devono essere abbattuti, tutti gli elementi del Sistema scomposti, quegli elementi che, resi indifferenti, verranno poi riordinati. Solo dopo questa prima fase inizierà la seconda, il riordino degli elementi. Il primo compito del nostro tempo è quindi la distruzione: tutte le stratificazioni sociali, tutte le forme societarie create dal vecchio Sistema saranno distrutte, ogni uomo sarà strappato al suo mondo tradizionale, nessuna tradizione sarà più tenuta per sacra, l'età conterà unicamente come segno di malattia, la parola d'ordine è: ciò che fu, deve perire. Le forze che eseguiranno tale missione distruttiva sono: in campo economico-sociale il capitalismo, in campo politico-spirituale la democrazia. Come abbiano agito in passato, lo sappiamo tutti; ma sappiamo anche che la loro opera non è ancora terminata. Ancora il capitalismo lotta contro le forme della vecchia economia tradizionale, ancora la democrazia conduce un'aspra lotta contro tutte le forze della reazione. Lo spirito del militarismo compirà l'opera. Il suo principio livellatore realizzerà, integralmente, la missione distruttiva del nostro tempo: solo quando tutti i sostenitori della nostra idea avranno indossato i panni di soldati dell'idea, solo allora la missione sarà compiuta».

    Nulla quindi, davvero, di che stupirsi delle concordanze di un Georg Hermann (nato Borchardt): «Dobbiamo finalmente imparare a porre l'umanità al di sopra della nazionalità [...] A tutt'oggi esiste un'unica stirpe di cittadini del mondo, e sono gli ebrei [...] Come ebreo appartengo a una razza troppo vecchia per cader preda di suggestioni di massa. Parole come popolo, guerra e Stato non hanno per me né colore né suono. Per me hanno suono unicamente le parole uomo e vita, ma un suono di tale altezza e ricchezza che, a quanto pare, le altre razze sono ancora troppo giovani per accogliere» (in Randbemerkungen "Considerazioni a margine", 1919) o di un Thomas Meyer: «Sempre il cosmopolitismo sovrannazionale fu il contrassegno storico della migliore civiltà ebraica» (postfazione al sempre ebreo Ludwig Thieben, Das Rätsel des Judentums, "L'enigma dell'ebraismo", 1931).

    Ma nulla quindi, anche, di che stupirsi del giudizio del grande storico, pur filo-ebreo, Theodor Mommsen: «L'ebreo è essenzialmente indifferente di fronte allo Stato; tanto è duro nel rinunciare alla propria peculiarità nazionale, tanto è pronto a travestirla con una qualsiasi nazionalità. Anche nel mondo antico l'ebraismo fu un attivo fermento di cosmopolitismo e decomposizione nazionale» (in Römische Geschichte, III 7, 1879).

    Tara atavica di anarchia, sovversivo di ogni ordinamento, agente di dissociazione, dissoluzione e denazionalizzazione, il popolo ebraico si vede infatti obbligato dalla parola del suo dio a combattere un'eterna Guerra Santa, ad imporre la sua idea di Dio come «the central religious truth for the human race, la fede religiosa centrale della razza umana» (dichiarazione della Reform Platform di Pittsburgh, 1885, diretta da Kaufmann Kohler), a perseguire quell'«inexorable universalisme» cantato dall'Alliance Israélite e ribaltare ogni altra struttura sociale. ***

    *** Autodefinizioni di Israele – «colui che lotta con Dio» o meglio, per Martin Buber, «Dio lotta» o «Dio regna» – il popolo inquieto detto da Rabbi W. Gunther Plaut «mankind's greatest blessing, la più grande benedizione dell'umanità»: la Primizia del Suo Raccolto (Osea II 25 e «Rashi» il Maestro Shelomo ben Jishaqi di Troyes, Commento alla Genesi, I), la schoriana «everlasting nation, nazione eterna», il plautiano-hertzberghiano «Eternal People, Popolo Eterno», il peguyano «Popolo Eletto dell'Inquietudine», il berleano «barometro di civiltà in ogni epoca» e «political instructor of the entire world», il buberiano «luogotenente» umano di Jahweh, l'eisenberghiano «missionario, psichiatra e medico», la fritzkahniana «madre etica dell'umanità» (tale diventata per la «genialità del suo cuore»), il bedaridano «Pellegrino della Speranza», «segnale d'allarme per l'umanità» e «termometro degli alti e bassi del sentimento morale nel mondo», presente nella Modernità «in funzione di protomartire e di nemico numero uno del nazifascismo», il robertaroniano «popolo votato al sacerdozio», i «Trasognati» dei Salmi CXXVI 1, gli steinsaltziani «Pastori di Dio», i benkaplaniani «Eterni Stranieri», il polishiano portatore di «eternal dissent, eterno dissenso» («di qualunque cosa si tratti, sono contro», lapideggia anche Groucho Marx in Horse Feathers, id., di Norman McLeod, 1932), gli hertzberghirtmanheimeriani «persistent dissenters in every society in which they have lived, ostinati dissenzienti in tutte le società ove hanno vissuto» («è impressionante il numero degli ebrei che hanno lottato nelle diverse insurrezioni», ammira il cabarettista «bulgaro-italiano» Salomone «Moni» Ovadia, oloquerulo invasionista), i bernanosiani «vagabonds éternels», i neheriani/hescheliani «eterni costruttori del tempo». Non per nulla il termine «ebreo», ivri dalla radice avar «passare», significante il Padre Abramo in Genesi XIV 13 quale «uno dell'altra parte», esprime mobilità, propensione a vagare, incessante dispersione, tensione verso l'Altrove, indifferenza e dematerializzazione dello spazio, ossessione di un popolo formato nel vuoto dell'aggressione nomadica. Similmente Pepe Rodríguez, che fa derivare il termine da ibri khapiru o aperu, «miserabili, stranieri erranti, schiavi e banditi».

    Al contrario, a identificare il simbolo tedesco della foresta come rifugio archetipico – rifugio stanziale e vitale necessità di radici che si oppongono quanto più drasticamente all'ethos del Wandering Jew, quell'«ebreo errante» di cui è prototipo l'irrequieto Ahasvero – è il livido cabbalista Elias Canetti, Nobel 1981 per la Letteratura.

    Rimarcando la contrapposizione terra-mare già magistralmente evidenziata dal politologo Carl Schmitt, così infatti Canetti si esprime: «Il simbolo di massa dei tedeschi era l'esercito. Ma l'esercito era più di un esercito: era la foresta che cammina. In nessuna parte del mondo il senso della foresta è rimasto così vivo come in Germania. La rigidità e il parallelismo degli alberi ritti, la loro densità e il loro numero riempiono il cuore tedesco di gioia profonda e segreta. L'inglese si vede volentieri sul mare, il tedesco si vede volentieri nella foresta; è difficile esprimere più concisamente ciò che li divide nel loro senso nazionale» .

    Ma è il politologo Reinhold Oberlercher a cogliere più profondamente, in "Essenza e decadenza dell'America", l'antitesi spirituale sottesa ai contrasti tra la potenza terrestre germanica e quella marittima angloamericana:

    «Le potenze marittime sono imperialiste. Esse formano imperi sconsacrati, perché il mare non conosce templi né porta travi o colonne celesti. Nessun tempio, nessun monte sacro si trova in questo elemento, nessun ordine e nessun diritto si possono radicare nell'acqua. L'elemento fluido, se non si lega a quello terrestre ma si raccoglie nell'immensità del mare, non risveglia alcuna fiducia, ma sempre diffidenza nella coscienza dell'onnipresente pericolo. Ci si può così poco fidare del mare come di una potenza marittima. Il mare non genera fiducia, bensì, accanto alla crudeltà del pirata, solo ipocrisia e finzione. Nel caso dell'anglo-americanismo la crudeltà è coperta dall'utopismo calvinistico-puritano della santità del successo, dunque dell'illusione del conseguimento della salvezza eterna nell'Aldilà attraverso l'attivistico operare sociale nell'Aldiquà. La scomparsa dell'Inghilterra come potenza marittima mondiale può valere, con qualche correzione, come paradigma per il tramonto degli USA».

    Spostando di poco il bersaglio, già Roderich-Stoltheim aveva rilevato, sulla scia di Sombart («Deserto e foresta sono i due grandi elementi antagonistici attorno ai quali si dispongono le essenze delle terre e degli uomini che le abitano»), che «in effetti il vero luogo natale e di vita del germano è il bosco, che già fece la Germania così poco rassicurante ai romani, che il bosco odiavano. Solo nel bosco e sui campi può ancora crescere, oggi, il vero tedesco; e come il bosco e il deserto sono opposti fra loro, così anche nel germanesimo e nell'ebraismo possiamo riconoscere i contrasti più estremi del genere umano . È certo che in ogni tempo l'agricoltura costituì il fondamento primo delle stirpi germaniche e che in nessuna epoca della loro preistoria essa è stata del tutto ignota ai popoli indoeuropei. Nella vita e nell'operare a stretto contatto con la natura, come accade per il contadino, si fonda l'essenza del germanesimo come quella di tutti i popoli civili e veri costruttori. L'estraneità nei confronti della natura è al contrario il marchio del semita».

    Ancor prima, Adolf Wahrmund sottolinea, insieme alla necessaria indifferenza del nomade per la natura, la sua necessaria rapacità, la sua necessaria ostilità verso i popoli sedentari, il suo necessario e connaturato bellicismo esistenziale, la necessaria e cruenta guerra da condurre contro ogni diverso, contro ogni infedele: «Si potrebbe ribattere che anche gli Stati contadini sono, non raramente, obbligati alla guerra, alla difesa come all'attacco – in verità per prevenire l'attacco – e che una tale condotta bellica appare cosa sacra anche al contadino, poiché con essa difende le sue cose più sacre ; è però evidente che il crescere e prosperare del contadino è legato in massima parte alla pace, poiché la sua forza vitale dipende dalla pace e in un guerreggiare continuo crollano i suoi fondamenti naturali. Il contrario è per il nomade: quando lascia i pascoli, può spostarsi solo come portatore di guerra, applicando contro il contadino la propria legge vitale, alla quale deve in eterno ubbidire, pur se diventasse sedentario e contadino egli stesso, cosa mostratasi finora praticamente impossibile sia per i popoli semiti che per quelli turanici. E quindi contro i popoli stanziali egli deve restare in un incessante status di guerra, simile a una nobiltà conquistatrice, come i dori spartani contro i perieci e gli iloti lacedemoni – egli vive nel corpo e nello spirito tale status di guerra, e il suo dio è un dio della guerra, come lo sono Allah e Jahweh, nel cui nome conduce una guerra santa».

    In parallelo, opposta è la concezione dello Stato per il nomade e per il sedentario: «In senso proprio, lo Stato è, come dice il nome (status = che sta), un'entità stanziale; perché una mobile società di briganti, come quella dei pirati nell'ultimo secolo della repubblica romana o le più tarde società di corsari e filibustieri, non viene detta Stato. Ogni società politica mobile (non stanziale) non può non essere una società di briganti, poiché nel movimento non può soddisfare da sola le proprie necessità vitali, e d'altro canto ogni società di briganti dev'essere mobile, poiché ogni territorio che abbia confini viene presto del tutto spogliato. Il deserto ed il mare costringono al movimento, e quindi entrambi, entità senza confini, sono il vero teatro del brigantaggio e del nomadismo. Al mare e al deserto si contrappone la terra fruttifera, ove nascono e crescono le forme più alte di società umana. Solo la terra coltivata permette e al contempo esige una vita sedentaria, dalla quale nascono pure le più varie professioni. L'agricoltura e le professioni rigettano e disprezzano il brigantaggio, mentre al contrario esso è l'orgoglio del nomadismo. Per questo presso gli antichi l'agricoltura e le professioni avevano le medesime divinità pacifiche e, solo in quanto dovevano essere anche capaci di difesa, il medesimo dio della guerra».

    «Il "bosco"» – continua Luisa Bonesio, docente di Estetica a Pavia, facendo equivalenti spirituali ed esistenziali il mare, il deserto e l'asfalto metropolitano – «è il nome dell'essere in contrapposizione alla fallacia dell'apparenza e del movimento; è la stabilità, la permanenza di fronte all'impermanenza e all'effimero; è il luogo dell'immagine e dei poteri da cui il mondo trae vita, in contrapposizione con la sterilità crescente del deserto e la fuga degli dei. In una parola, il bosco è per Jünger lo spazio del sacro, dell'essere che sprigiona i suoi poteri, in cui posa "la eccedenza del mondo". Perciò è un luogo periglioso, cui solo pochi possono veramente accedere, tramite un passo laterale, o la scoperta dell'altra faccia di ciò che c'è di più abituale. Insomma, al bosco si passa con una conversione, ossia mettendosi in consonanza con i ritmi profondi dell'essere. Il bosco è quel "santuario", quella soglia, quello spartiacque invisibile tra la terra desertica e la terra celeste: l'unica dimensione a partire dalla quale potremo davvero capire perché l'inaccessibile fierezza di una selva di una montagna siano "meglio", e per noi più ricche di possibilità vitali, di un intrico di ciminiere o un reticolo di superstrade».

    Ancora più ampiamente, l'ebreo – «ogni grande popolo crede, e deve credere se vuole una lunga vita, di possedere, e di possedere esso solo, la chiave della salvezza del mondo, di vivere per essere alla testa degli altri, trascinarli dietro sé come un tutto e guidarli insieme alla meta finale preordinata per tutti», scrisse Fëdor Dostoevskij, nel «Diario di uno scrittore», XII 22 – pervaso da una permanente infelicità nei confronti del mondo-com'è, da una profonda insoddisfazione delle presenti condizioni, da un'incessante inquietudine, dalla perenne ricerca di un Altro Mondo, eterno delirio di Nuovi Orizzonti, ancor più ampiamente l'ebreo si vede obbligato a sconvolgere ogni ordinamento naturale/tradizionale (ed invero, per l'ebreo l'epifania di Dio non si manifesta nella Natura ma nella Storia!) al fine di tiqqun olam, «restaurare/redimere/ riparare/correggere/ornare/migliorare il mondo», «fare il mondo più giusto» – «to mend, repair and transform the world», suona il motto di Tikkun, il bimonthly di Rabbi Michael Lerner, consigliere spirituale dell'ex-presidente USA Bill Clinton – operare per il «ristabilimento del mondo sotto il regno dell'Onnipotente» (Aharon Barth), trasformare il mondo in una dimora per la Presenza avvicinando la venuta del Messia, «scopo ultimo dell'intera creazione» (il rav lubavitch Menachem Brod).

    Il tutto, pretendendo – cosa stravagante per l'uomo pagano, ma obbligante per il sanguinario jahwismo – di vincolare ai precetti del suo dio anche chi di un tal dio nulla abbia mai udito o voglia sapere: «Ogni uomo [ish ish] che maledirà il suo Dio porterà la pena del suo peccato. Colui che avrà bestemmiato il Nome di Dio sarà punito con la morte» (Levitico XXIV 15-16, oltre a Sanhedrin 56a-57b e 99a); e ciò perché «l'umanità una poteva sorgere solo sotto il Dio uno [...] Il monoteismo è così in sé la causa immediata tanto del messianismo quanto del concetto della storia universale come storia dell'umanità. Senza il Dio unico non poteva sorgere l'idea dell'umanità» (il« filosofo» neokantiano Hermann Cohen, definito da Gillian Rose il «Kant tra i profeti») e perché «la credenza nell'unità della razza umana è il risultato naturale dell'Unità di Dio, poiché l'Unico Dio deve essere il Dio dell'intera umanità. Fu impossibile per il politeismo (la credenza in più Dei) raggiungere l'ideale di un'Unica Umanità» (Rabbi Israel H. Weisfeld della congregazione Shearit Israel di Dallas).

    Prodotto storico imperfetto, destinato a lasciare il posto ad un più alto ordine di cose alla Fine dei Giorni, il mondo non è, per l'ebreo, eterno o immutabile nelle proprie leggi. ***

    *** «Fine dei Giorni» = Baakharit haYamim, concetto di Genesi IXL 1 – nel greco dei Settanta: ep'eschátou tôn hemerôn – equivalente a «Tempo della Fine», Et haQetz, presente in Daniele XI 40 e X 21.

    Il tiqqun, l'espressione conclusiva dell'escatologismo cabalistico del divino Rabbi Yitzchak «Ari Zal» Luria Ha-ashkenazi (1534-72), è la fine del tzimtzum (il «ritrarsi» di Dio per far posto al creato, «esilio» della Presenza divina che ha il contraltare terreno da un lato nel fatto che da quel momento esiste qualcuno/qualcosa che, essendosi distinto da Dio, non ha la Sua stessa pienezza di vita e giustizia, e dall'altro nell'«esilio» diasporico di Israele), è il ristabilimento della Grande Armonia turbata dalla Rottura dei Vasi (Shvirat haKelim) e dal peccato di Adamo, è la Raccolta delle Scintille (nitzotzot) disperse nella qelippah – «scorza/conchiglia», cioè Questo Mondo terreno, il Regno del Male e delle forze demoniache, il Sitra Achara, l'Altro Lato – è la Pace, shalom, caratteristica fondamentale del tempo messianico («Principe della Pace», è il Messia in Isaia IX 6; «porta della perfezione», dicono la pace Walter Homolka e Albert Friedlander; in parallelo, il senso originario della radice tqn vale «approntare», «preparare»). Quella pace che con l'etimo shlemut identifica la «perfezione» (in ebraico, shalem), la «totalità», l'«interezza», il «compimento».

    Compimento preteso dal Grande Vanitoso a propria maggior gloria, dato che il mondo è stato creato solo perché gli esseri umani fossero consapevoli della gloria e dell'eternità del Nome, il Dio Inconoscibile che trascende la creazione: «Ogni cosa che il Santo Unico, benedetto Egli sia, creò nel Suo mondo, lo creò solo per la Sua gloria, come è detto: "E ogni cosa chiamata [altra versione: Chiunque viene chiamato] col Mio nome è davvero per la Mia gloria che l'ho creata, che l'ho costituita, sì, che l'ho fatta" [Isaia XLIII 7], ed è detto: "Il Signore regnerà per sempre e in eterno" [Esodo XV 18]» (Abot VI 10/11 o baraita 11 di Abot 15b).

    Ed ancora, dalla bocca diretta di Dio: «"Volgetevi a me e sarete salvi, voi, paesi tutti della Terra, ché io sono il Signore: non c'è altri! Lo giuro per me stesso: dalla mia bocca è uscita la giustizia, una parola che non torna indietro: sì, a me si curverà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua. Solo nel Signore si dirà, si trovano giustizia e potenza!". A lui verranno vergognosi tutti quelli che gli erano ostili; nel Signore menerà trionfo e vanto tutta la progenie d'Israele [...] Sì, col fuoco il Signore farà giustizia su tutta la terra e con la spada su ogni mortale, e molti saranno gli uccisi del Signore [...] "Io verrò per radunare tutte le nazioni e tutte le lingue. Esse verranno e vedranno la mia gloria"» (Isaia XVL 22-25 e LXVI 16 e 18).

    Ed ancora, aggiunge David Banon: «Questa restaurazione, questa cernita (berur) consiste nel separare le scintille della santità della luce eliminando le scorze, o meglio, nel trasfigurare le forze del male integrandole alla luce [...] La redenzione pertanto dipende dall'avanzare di questo processo di restaurazione-cernita e dalla possibilità che l'uomo ha di portarla a termine. Ne consegue che questo compito è affidato soprattutto all'uomo, anche se resta una dipendenza dalla grazia di Dio, poiché assistiamo a una trasposizione dei concetti centrali di esilio e di redenzione dal livello storico al livello cosmico e divino. Il compito dell'uomo è di raccogliere le scintille di santità celate nel fondo di ogni realtà, scintille che sono sia nascoste che protette dalla scorza del male che le avviluppa. È compito dell'uomo liberarle dalla loro scorza e reintegrarle nell'essenza divina da cui sono state separate. Lo strumento di questo processo di restaurazione-restituzione è la legge della Torah, e l'esilio di Israele è la condizione grazie alla quale le scintille disperse possono essere ritrovate e riunite. In questo senso, possiamo dire che, attraverso il suo destino storico, Israele lavora per la Redenzione di Dio stesso [sic!]».

    In questo contesto il Messia non è colui che apre l'Era Messianica, preludio a quel Mondo Avvenire col quale spesso l'Era si confonde; non è colui che realizza la Redenzione; non è neppure il principio messianico, «grandiosa immagine solitaria di un sollevamento collettivi» (Irving Howe), ma è la manifestazione stessa della Redenzione compiuta. E in effetti, assevera Klausner chiudendo il suo saggio, «la nozione di perfezione proviene dall'ardente progressismo che è parte dei fondamenti del giudaismo [...] la fede messianica ebraica è il seme del progresso, piantato dal giudaismo dovunque nel mondo». «Il Progresso, ecco, per l'ebreo moderno, il vero Messia», il Progresso, «cette notion moderne de la perfectibilité» che come la «nostra sete di giustizia e nostra ostinata speranza nella vittoria del diritto» scende dalle colline di Sion (il francese Anatole Leroy-Beaulieu).

    Quel Progresso alla fine cantato, a dispetto di ogni disincanto laico e riprova d'invincibilità genetica, dal sionista Max Nordau (il budapestino Max Simon Südfeld, braccio destro del padre del sionismo Theodor Herzl): «Un'umanità senza avventure, senza guerre e rivolgimenti, senza superstizione e misticismo, senza grandiose figure audaci e fastose e senza schiere di servi ciecamente devoti, una società egualitaria composta tutta di uomini illuminati, colti, intelligenti, che sono tutti sani e morigerati, dove tutti lavorano e raggiungono una vecchiaia avanzatissima, dove tutti vivono in ordine, uniformemente ed agiatamente, sembra enormemente noiosa e riempirebbe i romantici di oggi d'un disperato desiderio di ritorno ai tempi della più antica e più selvaggia barbarie. Ma l'avvenire ci sembra così incolore e monotono solo perché il nostro occhio è educato a vedere come pittoresco l'aspetto attuale della società [...] L'avvenire sarà incomparabilmente più felice di quello che è stato il passato. La scienza agevolerà il soddisfacimento di tutti i bisogni materiali. La conoscenza ampliata e approfondita diminuirà fino a farlo quasi scomparire il male che gli uomini si fanno a vicenda e che è la parte più crudele dei loro dolori. Le gioie nobili, procurate dalle scienze e dalle arti saranno più generali e più intense, perché verranno godute con uno spirito e con un sistema nervoso sviluppati più finemente. E per la felicità acuta ci penseranno gl'istinti organici e la cenestesia della giovinezza, dell'amore, della salute, del vigore che, in un'umanità libera da cure e vivente nell'abbondanza, sarà certamente più ricca e più robusta che in un'umanità sempre inquieta e spesso indigente. L'avvenire avrà una bellezza differente da quella del presente, più naturale, più elevata, più armonica».

    Ma cosa sia tale Regno, quale la sua struttura socio-economica, in realtà nessuno – neppure un Lenin, neppure un Marx – l'ha mai seriamente formulato. Infiniti sono stati, nei secoli, i progetti, le proposte di un cambiamento radicale, epperò tutti non tracciati sulla base del mondo reale, bensì sempre sognati da letterati, poeti, profeti à la Nordau o semplici folli che si proponevano di fuggire le asprezze, le contraddizioni, le limitazioni, il dolore di Questo Mondo. Il Regno – qualunque cosa significhi, comunque venga a strutturarsi – può invero essere descritto in termini quasi unicamente negativi. Esso è Altro Mondo da quello terreno, è Resurrezione, compiuta attraverso il Dettato del Padre, il Messaggio del Figlio o le ferree Leggi della Storia, è Liberazione dalla Sofferenza, dalla Divisione, dall'Ingiustizia, dalla Morte.

    Come afferma il pio esegeta nella scia di un millenario sentire, in esso la violenza e la rozzezza scompariranno, passerà l'empietà, che consuma le forze migliori dei popoli. Le nazioni non saranno più devastate da cieche lotte e cruente battaglie, l'umanità non sarà più lacerata dalla discordia. E quando l'uomo, «questo essere corruttibile si sarà rivestito d'incorruzione, e questo essere mortale si sarà rivestito d'immortalità, allora si compirà la parola che fu scritta: "La morte è stata assorbita nella vittoria. O morte, dov'è la tua vittoria?"» (I Corinzi, XV 54). Non si trovano invece parole per definire in positivo il Regno e il Nuovo Essere Umano, poiché, semplicemente, manca l'esperienza di ciò che saranno: «Ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è» (I Giovanni, III 2). «Sta scritto infatti: quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (o che si sono concessi fidenti al materialismo dialettico e al progressismo illuminista).

    In ogni caso le sofferenze del presente, come quelle inevitabili e maggiori del periodo di transizione al nuovo stato di cose (le «doglie messianiche», chevleh mashiach) non sono neppure lontanamente paragonabili alla gloria e alla felicità che saranno rivelate all'uomo risorto a nuova esistenza nel Regno. Dio dimorerà in mezzo agli uomini, «ed essi saranno Suo popolo ed Egli sarà "il Dio con loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. E colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"» (Apocalisse, XXI 3-5).

    E quindi il mondo, satireggia – anticipando ogni mentecatto giudaico-disceso, in primis i Testimoni di Geova – il russo Ascinà, antibolscevico riparato negli anni Venti nell'Italia fascista, non sarà distrutto, poiché dopo le inevitabili Doglie, la rovina e l'annientamento, gli uomini rimasti vivi ritroveranno il buon senso, dedicandosi al perfezionamento di sé, agli studi, alle invenzioni: «Arriveranno giorni felici. Tutti gioiosi, sani, scopriranno che la vita è un giuoco. Ci sarà poca fatica per tutti. L'energia solare muoverà le macchine, ogni cosa andrà a bottoni: pigia e parti dove vuoi. La lampada di Aladino sembrerà un balocco. Le case saranno tutte volanti: volendo, atterri sul monte e, se vuoi cambiare, navighi sull'acqua e sei sempre a casa. Non ti piace il mare, fermati in alto sopra le nuvole e non ti muoverai. Di figli ne verranno pochi, a secondo della tessera. La vita dell'uomo si prolungherà a mille anni e, per chi sarà più robusto, anche a duemila. L'igiene, lo sport, i giuochi, il riposo, l'allegria. Il cibo sarà scientificamente controllato, non nocivo per l'organismo. Niente denaro, niente imbrogli, tutto abbondante, tutto per tutti. La velocità degli spostamenti sarà superiore alla velocità della luce, insensibile per noi. Fra i pianeti, tutti scoperti, si sceglierà quelli adatti per le colonie. Niente guerre, niente delitti, niente prigioni. Già al cibo saranno aggiunti elementi per l'equilibrio psichico. Gli uomini saranno sempre affabili, generosi, allegri e cercheranno una buona compagnia».

    Di conseguenza il mondo del tiqqun è il mondo della riforma messianica («per i figli d'Israele è un dovere imperioso lavorare a realizzare le speranze messianiche», predica nel 1879 l'ebreo E.A. Astruc in Entretiens sur le judaïsme, son dogme et sa morale). Dell'instancabile impegno di Israele (il vero Redentore sarà non un discendente di Davide, né un Re-Messia, né una persona-Messia, sarà «non più un individuo, ma Israele trasformato in faro delle nazioni, elevato alla nobile funzione di precettore dell'umanità, che istruirà coi suoi libri come con la sua storia, con la costanza nelle prove non meno che con la fedeltà alla dottrina», c'insegna, con Drumont, il Gran Rabbino Michel Weil; «il popolo d'Israele, nel suo insieme, è rivestito di una funzione specifica: deve preparare il mondo del tiqqun, riportare tutto al proprio posto, e ha il dovere di riunire, raccogliere le scintille disperse ai quattro angoli del mondo [...] A partire da Luria non si attende più un movimento messianico determinato, legato a un Messia specificamente designato; il Messia diviene il popolo d'Israele tutto intero. È il popolo d'Israele, nel suo insieme, che con l'esempio si prepara a riparare la frattura originaria. In questo contesto si comprende come la Redenzione d'Israele, nel senso nazionale e politico del termine, sia stata vista come una prospettiva molto concreta», concorda Rabbi Ouaknin). Del suo rinato potere («non si può affermare con certezza se Isaia abbia pensato o no all'apparizione di un Messia personale [...] Certo è però che, con o senza un Messia-Re, gli ebrei costituiranno il centro dell'umanità, intorno al quale si raggrupperanno, dopo la loro conversione, i non-ebrei. I popoli si uniranno per prestare omaggio al Popolo di Dio. Tutte le ricchezze delle nazioni passeranno al popolo ebraico; esse staranno al seguito del popolo ebraico e si getteranno ai suoi piedi», conferma Rabbi Isidore Loeb, La littérature des pauvres dans la Bible, 1892).

    Condizioni, tutte, imprescindibili per la salvezza dei popoli («il giorno di sabato saranno tutti congiunti in uno e tutti avranno un unico sabato», recita il Sefer ha-Temunah, "Libro della Figura").

    Il tiqqun è capovolgimento gerarchico nelle cose terrene, eliminazione dell'impurità dal mondo. Ed anzi, con più conseguente radicalismo, il tiqqun non è tanto un miglioramento del mondo, quanto la creazione di un mondo nuovo, di un mondo altro, ontologicamente diverso da quello conosciuto dall'uomo negli infiniti millenni della sua storia. Di un mondo non situato in uno spirituale Aldilà ma in un concreto Aldiquà: «Il Regno di Dio è la comunità ventura, quella in cui tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia saranno saziati» (Martin Buber, Der heilige Weg, 1920).

    Il Maestro talmudico dichiara infatti, conferma Rabbi Isadore Goodman nell'eulogia rooseveltiana Man, Creator of God' Kingdom, "L'uomo, creatore del Regno di Dio", che «"ogni cosa è in potere del cielo, eccetto la paura del cielo" [Berakot 33b, oltre a Maimonide prefatore di Abot II 15 e Hilkhot Teshuvah V 2/1]; ogni cosa è in potere del cielo, eccetto l'istituzione del Regno di Dio sulla terra; questo dipende dall'uomo. Quando Dio creò l'uomo, gli conferì il dono e il potere di creare veri mondi. E il "Regno del Cielo" non è un atto di Dio, è l'unico atto lasciato all'uomo, è con gli atti virtuosi dell'uomo, è coi suoi misfatti maligni, che il Regno viene creato o rimandato».

    Ed è ancora Buber, figura centrale del giudaismo novecentesco, «l'apostolo dell'ebraismo presso l'umanità» (almeno a sentire il goy Enzo Bianchi, prefatore de La leggenda del Baal-Shem), a porre nel punto focale dell'idea messianica il concorso attivo dell'uomo alla redenzione in quanto partner di Dio, del quale, in quanto «gemello» e controparte, ritiene immagine e somiglianza (l'unica differenza tra i due, afferma l'antropologia giudaica, è che l'uomo dorme, mentre Dio non dorme mai).

    Uomo che trasforma la realtà («I filosofi hanno solo interpretato diversamente il mondo; si tratta ora di cambiarlo», aveva cantato il Rabbino Trevirense nel Manifesto del Partito Comunista), «co-worker of God, cooperatore di Dio» per destino (così Samuel Cohon, docente di Teologia Ebraica allo Hebrew Union College, ricalcando l'ex-Shaul di I Corinzi, III 9: «infatti noi siamo collaboratori di Dio»; per converso, Dio è il «co-pilota» dell'uomo, predica nel febbraio 1999 su Moment, il più diffuso mensile ebraico-americano non-confessionale, Rabbi Sherwin Wine, fondatore del laicizzante Humanistic Judaism).

    Fantasmatica giudaica, sottolinea David Noble, discesa nei secoli fino a quella «co-creazione» non solo permessa ma imposta dall'Onnipotente agli esseri umani (vedi lo schema millenarista di Gioacchino da Fiore, per cui l'uomo diventa, attraverso la storia, partecipe della propria redenzione e, di conseguenza, della ricostruzione della creazione per il compimento del piano provvidenziale per l'universo; vedi il filosofo rinascimentale Marsilio Ficino: «L'uomo agisce come vicario di Dio poiché domina tutti gli elementi e li coltiva e, presente sulla terra, non è assente dal cielo»; vedi il Bacone dell'Instauratio Magna e della Nuova Atlantide). Esseri umani che sono gli ausiliarii, i co-esploratori, gli amministratori e i «gestori della creazione di Dio» (vedi gli «ingegneri genetici», e più in generale i tremila scienziati membri dell'American Scientific Affiliation, operanti, recita il saggio di V. Elving Anderson, docente di Genetica all'Università del Minnesota, scritto nel 1994 con Bruce Reichenbach, On Behalf of God, "Per conto di Dio", per «cambiare la creazione in meglio»).

    Espressioni ribadite dal Servus Jesus Reinhard Neudecker, doctor in theologia a Monaco e Innsbruck e in philosophia allo stesso HUC, docente di Letteratura Rabbinica al Pontificio Istituto Biblico: «Dio e Israele, in quanto compartecipi o partner, sono legati l'uno all'altro. Insieme vanno in esilio, insieme fanno ritorno», poiché: «Quando essi [gli israeliti] un giorno ritorneranno dall'esilio, ritornerà, per così dire, anche la shekinah insieme con loro, come è detto: "E ritornerà il Signore, tuo Dio, con i tuoi deportati" [Deuteronomio XXX 3]» (in Mekhiltà de-Rabbi Ishmael Bo 14).

    Identico delirio nel «grande» rabbino «italiano» Elia Samuele Artom: «La funzione che Israele deve compiere è essenzialmente quella di preparare con i suoi atti esemplari e disciplinati dalle prescrizioni della Torah la venuta del tempo in cui tutti gli uomini riconosceranno di fatto quello che si chiama malkut shamajim, Regno dei Cieli, cioè la sovranità dell'Unico Dio, creatore, padrone e regolatore del mondo. Tale funzione può essere adempiuta da Israele solo se esso vive come popolo libero e indipendente nella terra che il Signore gli ha data [...] Così la redenzione d'Israele e il rinnovamento spirituale del mondo sono, nel pensiero ebraico, elementi l'uno dall'altro inscindibili» (in La vita di Israele, 1937, trionfalmente riedito nel 1993).

    «Si è detto» – conferma Rabbi Lawrence Hoffman, sottoscrivendo l'insegnamento di Rabbi Morris Kertzer – «che è possibile riassumere l'intero credo ebraico in queste tre parole: Dio, Torah, Israele. Come usano dire i mistici, "Dio, la Torah e Israele sono un tutt'uno". Se perdiamo la fede in uno qualsiasi di questi elementi, gli altri due periranno velocemente. La realtà di Dio [il Dio della creazione, della rivelazione e della redenzione], la virtù e le potenzialità di ogni individuo, l'eterno patto che il Popolo d'Israele ha fatto con Dio e la guida, il conforto e la saggezza della Torah, questi sono i fondamenti del nostro credo [...] Noi siamo i partner di Dio. Dio ha creato un mondo fisico: il corso delle stelle, le stagioni, l'ordinata crescita della natura, tutte le leggi della fisica, della chimica e della biologia. Ma noi esseri umani possiamo modellare le nostre stesse vite con comportamenti che creino un paradiso sulla terra».

    L'eredità dei Padri, la Terra Santa, la Città Eterna reintegrata sotto il dominio di Israele, l'unità futura del genere umano, il Messia ed il Regno sono un'unica, inscindibile realtà. L'indivisibilità di teologia e politica, ben rileva Schalom Ben-Chorin, scaturisce dalla struttura stessa dell'ebraismo; solo dalla Terra Promessa prenderà avvio la Redenzione divina, processo impensabile senza l'abbattimento del Giogo delle Nazioni (Shibud Malkhuta), senza la totale sovranità del Popolo Eletto (Am Segulah), del Popolo Sacerdotale (Am Kohanim) sull'intera Eretz Israel: «Il re messianico sorgerà nel futuro e restaurerà il regno di Davide nella sua potenza di un tempo. Ricostruirà il tempio e radunerà i dispersi di Israele. E tutti i precetti della legge torneranno ad avere vigore come un tempo. Si offriranno sacrifici e si osserveranno nuovamente l'anno sabbatico e l'anno giubilare secondo la legge, come è comandato dalla Torah. Chi però non crede in lui o non attende la sua venuta, rinnega non solo gli altri profeti, ma anche la Torah e il nostro maestro Mosè, perché la stessa Torah lo testimonia [...] I sapienti e i profeti non hanno desiderato che il tempo messianico giungesse per poter dominare il mondo o ridurre in loro potere i pagani o per essere esaltati dai popoli, o per poter mangiare e bere a sazietà, ma per poter trovare il tempo di studiare la Torah e la sua spiegazione, e perché nessuno li potesse ostacolare in questo loro lavoro» (Maimonide, Mishneh Torah XI e XII). ***

    *** La redenzione dei Figli di Israele per il Mondo Avvenire avverrà, secondo il tannaitico Rabbi Joshua su Esodo XII 42, la notte del 14 del mese di Nisan-aprile, giorno nel quale gli ebrei furono liberati dalla schiavitù egizia (la fine dell'Esodo viene celebrata istituendo la Pasqua dal 621 a.e.v.), mentre il suo rivale Rabbi Eliezer, basato su Salmi LXXXI 4-5, pone l'epoca nel mese di Tishri-settembre: vedi Klausner su Mekhiltà, Bo', Pisha, cap.XIV, 16b nell'edizione Friedmann.

    Come che sia, il Nuovo Eden sarà chiuso agli «idolatri» e agli «ingiusti»: «Il Giardino misura trecentomila anni. Laggiù vivono in pace tutto Israele e i proseliti di rettitudine. Invece i giusti perfetti, i patriarchi del mondo, i dieci martiri e coloro che sono stati provati dalle persecuzioni religiose, che si sono dati alla morte per il Dio unico, tutte queste anime risiedono in alto e ogni giorno scendono presso le anime dei giusti che si trovano nel giardino dell'Eden [...] Su poltrone di gemme e perle con sedili imbottiti essi siedono, inneggiando ed esaltando il Santo, sia Egli benedetto, che dà vita ai mondi, e ognuno gode a propria misura dello splendore della shekinah. Fra Questo Mondo e il giardino dell'Eden si trova la spada che da fuoco rovente si tramuta in gelida grandine e da grandine in tizzoni ardenti, affinché nessun uomo possa accedervi da vivo, come è detto: "Pose a oriente del giardino di Eden i cherubini" [Genesi III 24]. La fiamma della spada misura dieci anni, e quando le anime di Israele entrano nel giardino dell'Eden si immergono in duecentoquarantotto fiumi di balsamo ed essenza, poi vengono introdotte a godere dello splendore della shekinah, ognuna secondo le proprie opere e la propria dottrina» (l'alto-medioevale Midrash Konen su Proverbi XII 9: «Il Signore con la sapienza fondò la terra»).

    «Nei giorni del Messia [yamot ha-mashiah, in Berakot 12b]» – ribadisce il midrashico Alfa Beta de-Rabbi Aqiba, certificando che «il Mondo Avvenire è tutto di sabato» – «cadranno di bocca i denti di coloro che divorano la ricchezza d'Israele, finendo lontani ventidue braccia, sì che tutti vedendo diranno: Di quale colpa si sono macchiati, visto che gli cascano i denti di bocca? E così sarà loro risposto: Poiché hanno divorato la ricchezza d'Israele, che è santo al Signore, così come avviene per la prelevazione dell'offerta: chiunque ne mangia viene destinato all'eliminazione, come è detto: "Cosa sacra al Signore era Israele, primizia della sua rendita, quanti la divoravano si rendevano rei, la sventura cadeva su di loro" [Geremia II 3] [...] Quando giungerà il Messia per Israele scenderanno con lui Mikael e Gavriel, principi delle schiere, principi santi e nobili, che lotteranno con i malvagi dalle tre alle nove [sic!: mirabile precisione!], uccidendo 19.000 miriadi di malvagi incalliti fra le nazioni del mondo, com'è detto: "Scompaiano dal mondo i peccatori" [Salmi CIV 35]».

    In ogni caso, «nel Mondo Avvenire [haOlam haBah o, all'inglese: the World to Come] non si mangia né si beve, non c'è riproduzione della specie; ma i giusti siedono con corone sulle loro teste, godendo della luce della Shekinah, come è scritto [Esodo XXIV 11]: "E contemplarono Dio, poi mangiarono e bevvero" [cioè: la visione di Dio sostituisce il mangiare ed il bere]» (baraita Kallah Rabbathi, cap.II, la cui concezione è ripresa quasi letteralmente da Berakot 17a, che aggiunge: «non ci sarà disbrigo di affari, né gelosia, né odio, né liti»).

    «L'idea messianica e l'idea apocalittica» – commenta puntualmente Sergio Quinzio – «inseparabili secondo Gershom Scholem, rinviano al futuro e per ciò stesso contestano escatologicamente l'ordinamento attuale del mondo, facendo così cadere sugli ebrei l'accusa di essere dei pericolosi ribelli. Dei ribelli e, insieme, degli uomini che per una stolta illusione vivono nel futuro, anziché nel presente, e cioè vivono di una speranza assurda che spesso li condanna all'insoddisfazione, all'isolamento, all'angoscia, alla disperazione [...] Già in questa millenaria tensione ebraica tra presente e futuro si celano le aporìe che noi vediamo oggi manifestarsi nell'idea di progresso, l'idea che caratterizza nel modo più tipico, e addirittura definisce, la modernità. La prospettiva del progresso ci sospende infatti tra il presente, che viviamo sempre come inadeguato alla pienezza che attendiamo, e un futuro che immancabilmente, commisurato alle nostre aspettative, ci elude via via che sembra avvicinarsi alla trasformazione, alla liberazione, alla salvezza, alla redenzione del nostro mondo e della nostra vita».

    Ed ancora: «Dire che a contare veramente è il futuro è dire che il tempo di cui abbiamo fatto e facciamo esperienza – il passato e il presente – non ha solida consistenza, non è sostenuto da nessun necessario immutabile logos. Quello che nelle religioni e culture "pagane" è il cosmo, nell'ebraismo è la storia, e la storia è totale contingenza, come è espresso già dall'idea stessa di creazione. Totale contingenza e totale rischio. Il compito dell'uomo non è più quindi di uniformare se stesso all'ordine delle cose, alla "necessità dell'essere", ma di agire nel mondo per trasformarlo secondo la promessa di Dio. Il fare diviene ben più fondamentale del sapere, del rispecchiare cioè la realtà data, il cui "destino" è di essere superata (e apocalitticamente negata) da quella del "nuovo eone" che deve venire. Il pungolo essenziale alla trasformazione del mondo e all'operare dell'uomo per questa trasformazione che è insieme opera di Dio e dell'uomo obbediente alla sua Legge è questo, che sarà poi il lievito della modernità. In esso, la vicinanza nel Patto e la cooperazione fra Dio e uomo, che erano già concetti ebraici, finiscono per diventare, attraverso il cristianesimo che ha annunciato la venuta dell'Uomo-Dio, l'opera divina dell'uomo. L'idea del regno messianico diventa allora l'idea del progresso storico, l'idea del regno di Dio diventa l'idea del regno dell'uomo».

    Uomo guidato da tutti quei primi e maggiori Ammaestrati jahwisti, quei Weltverbesserer, "Riformatori del Mondo", che vogliono impadronirsi del potere per compiere quella redenzione che accadrà solo «alla fine dei giorni», quei Dochakei haQetz, «Acceleratori della Fine», cui è compito annunciare, perseguire, forzare l'Avvento del Regno: «Della missione degli stessi ebrei e della loro posizione nel mondo, Filone di Alessandria ha la concezione più nobile e ideale. Per quanto il cielo e la terra appartengano a Dio, Egli ha scelto il popolo ebraico come Suo popolo eletto e lo ha destinato al Suo servizio quale fonte eterna di ogni virtù [as the eternal source of all virtues]. Gli israeliti hanno, secondo lui, preso su di sé il grande compito di servire l'intera razza umana quali sacerdoti e profeti; di partecipare ai popoli la verità e, soprattutto, la pura conoscenza di Dio. E perciò il popolo ebraico gode della speciale grazia di Dio, che mai ritrarrà da lui la Sua mano» (l'autore di The Jewish Question, 1894; segnaliamo che la presunzione dell'elezione afferra anche i Fratelli Minori, vale a dire i cristiani, che fin dal II secolo si autodicono «la parte aurea» dell'umanità, «Israele di Dio», «popolo eletto», «popolo santo», «tertium genus hominum, terza stirpe umana», etc.). ***

    *** L'espressione «Acceleratori della Fine» è stupenda al pari degli ebrei quali «sacerdoti dell'Eterno» (Isaia LXI 6), «cuore dolorante delle nazioni», «i figli d'Israele per i quali fu mutata l'essenza delle cose ed altre cose furono create ex novo» (il rabbino Jehudah ha-Levi autore del Sefer ha-Kuzari, «una delle glorie dell'ebraismo medioevale»), «strumento della giustizia divina [che] vendica l'onore dell'umanità oltraggiata» (Elia Benamozegh), «medici dell'umanità» (Otto Rank, 1905), «Lehrer und Wegweiser, maestri e guida per tutti i popoli» (Hoennicke, 1908), «redentori dell'umanità» (Max Brod, 1915), «Messia dei popoli» (Gustav Landauer, 1917), «esercito di Dio», «coscienza del mondo» e «specchio all'umanità» (Max Ascoli, 1924), «gli avamposti più minacciati dell'umanità» (Joseph Roth, 1935), «i più perseguitati tra tutti gli esseri umani sulla faccia di questa terra» (Israel Weisfeld, 1948), il «rappresentante vicario della sofferenza umana» (Hermann Cohen), l'ebreo «custode di valori universali» per cui «se un ebreo muore, la sua morte sarà per la causa della vita di ogni uomo; nessuno può chiedere una ricompensa più alta» (Waldo Frank; «gli ebrei sono un'Idea fatta carne»: Albert Cohen, ibidem), il popolo che «darà al mondo un esempio del particolare: una nazione, che serve non se stesso ma l'universale: la comunità degli esseri umani» (il teologo protestante Reinhold Niebuhr, ibidem), il «popolo precorritore» (Clemens Thoma), i «testimoni della luce divina» per «vocazione ontologica» (André Neher), i «guardians of God's reputation in the world, guardiani del buon nome di Dio nel mondo» (Edward Bristow). Infine, il Piccolo Popolo del francese Augustin Cochin, i Nati Altrove (inorodtsy) della legislazione zarista.

    Ed ancora: «Gli ebrei furono e sono i capi dove l'incondizionato si impone, dove si fa piazza pulita» (Jakob Wasserman, Mein Weg als Deutscher und als Jude, 1921), poiché «siamo la scommessa di Dio nella storia umana. Siamo l'alba e il crepuscolo, la sfida e la prova. Com'è strano essere ebrei e smarrirsi nei perigliosi compiti dati di Dio» (Abraham Joshua Heschel, The Earth is the Lord's, «La terra è del Signore»), al punto da far dire a Chaim Bermant, in The Encyclopedia of Judaism, con intollerabile legittima impudenza, che «gli ebrei operano come visibile prova di una presenza invisibile. Gli ebrei sono, perciò Dio è [The Jews are, therefore God is]».

    Delirio propalato e vantato, in successione, dal super-rabbino «italiano» Elia Benamozegh: «Per l'ebraismo il mondo è come una grande famiglia dove il padre vive in contatto diretto coi figli che sono le diverse nazioni della terra. Tra i figli c'è un primogenito che conformemente alle vecchie istituzioni era il sacerdote della famiglia [...] Israele è il primogenito, incaricato di insegnare e amministrare la vera religione dell'umanità di cui è sacerdote. Questa religione è la legge di Noè: è quella che il genere umano abbraccerà nei giorni del Messia e che Israele ha la missione di conservare e fare prevalere a tempo debito» (in Israele e l'umanità, 1914) e dai «francesi» Jean Izoulet: «L'idea dell'unificazione progressiva del globo è un'idea in marcia. Ma essa è generalmente abbinata ad un'altra idea, l'idea di pacifismo e di disarmo immediato e universale [...] C'è un'ultima e prima religione, che non ha nulla di regionale e locale e che è presente ovunque, una religione internazionale e intercontinentale, in una parola, una religione planetaria. È il mosaismo d'Israele [...] Se Israele aspira all'impero del mondo, ne ha tutto il diritto» (Paris capitale des religions, ou La mission d'Israel, 1926) ed Elia Eberlin: «Israele compie instancabile la sua missione storica di redenzione della libertà dei popoli, di Messia collettivo dei Diritti dell'Uomo» (in Les Juifs d'aujourd'hui, 1927).

    Ed egualmente, oltreoceano, il rabbino ricostruzionista Mordecai Menahem Kaplan: «Come un individuo, il popolo ebraico ha un obiettivo dominante che indirizza la sua esistenza, o funzione, e non dubita di essere lo strumento più efficace per raggiungere questo obiettivo. Lo scopo della sua esistenza in quanto popolo, come concepito dai nostri antenati in epoca biblica, è chiaramente delineato chiaramente da Isaia XLIII 12. Così un passo dice: "Voi sì, siete i Miei testimoni, che io sono Dio"; e un altro: "Questo popolo ho costituito, per fare conoscere la mia grandezza [la Bibbia Concordata ha: "Il popolo che mi son formato, narrerà le mie lodi"]" (XLIII 21)».

    «Un'idea di questi profeti pastorali ad un tempo poeti e politici» – commenta nel 1944 lo scrittore ebreo americano Waldo Frank – «fu che adorare Dio significava praticare misericordia e giustizia per tutti gli uomini. Una seconda idea, che la storia dell'umanità fosse la progressiva realizzazione dell'amore, della Regola Aurea. Una terza idea, che ogni uomo e ogni donna, qualsiasi fossero la loro razza o condizione, essendo figli di Dio, possedessero una dignità sovrana, una responsabilità individuale, nella realizzazione del piano divino di giustizia terrena. Così nacque, oltre due millenni prima della scoperta dell'America, la Promessa Americana e la Missione Americana. Allora si concepì, da un piccolo popolo di pastori e contadini, l'idea di democrazia che vede oggi i suoi nemici incarnati nella Germania e nel Giappone».

    «Secondo le concezioni talmudico-rabbiniche» – aveva commentato fin dal 1886 l'«antisemita» Adolf Wahrmund in Das Gesetz des Nomadentums und die heutige Judenherrschaft, "La legge del nomadismo e l'odierno dominio ebraico" – «il cammino degli ebrei sulla terra è una guerra di conquista, non altro. Essi si considerano soldati in marcia, che accampano nascosti o che operano coperti da false bandiere – nel mezzo del nemico, sempre in attesa del segnale di attacco [...] Il punto focale delle visioni e delle allucinazioni semitiche, in particolare di quelle ebraiche, è l'incondizionato dominio sugli altri, conquistato dagli ebrei con l'ultima cruenta svolta epocale, la battaglia decisiva nella valle di Iosaphat (Gioele, II e IV): "E dopo questo avverrà che io effonderò il mio spirito su ogni creatura e i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri vecchi avranno dei sogni e i vostri giovani delle visioni [...] Gridatelo fra le nazioni, bandite una crociata santa, svegliate i prodi, s'avanzino e salgano tutti gli uomini di guerra"... alla battaglia nella Valle della Decisione, dopo la quale, secondo i rabbini, s'aprirà il Regno messianico. Allora, secondo lo Jalkut Shimoni, verranno i goyim sopravvissuti, leccheranno la polvere sotto i piedi del Messia, cadranno sui volti e diranno: "Vogliamo servirti ed essere servi dei Figli di Israele. E ogni israelita avrà duemilaottocento servi".

    Gioele profetò intorno al 950 a.C, lo Jalkut Shimoni fu scritto due millenni dopo, intorno al 1050; nell'appello che [nel 1860] il nostro contemporaneo [Isaac Moïse/Aron dit Adolphe] Crémieux ha inviato al mondo per la fondazione dell'Alliance Israélite Universelle si afferma: "Le venerabili profezie dei nostri libri sacri si compiranno. Verrà il giorno in cui Gerusalemme sarà casa di preghiera per le nazioni (unite sotto la signoria di Israele), in cui le bandiere del monoteismo ebraico sventoleranno sui lidi più lontani. Cogliamo ogni occasione! Grande è il nostro potere, impariamo ad usarlo! Cosa dobbiamo temere? Non lontano è il giorno in cui le ricchezze della terra apparterranno tutte agli ebrei (les richesses de la terre appartiendront exclusivement aux Juifs)"».

    Gli ebrei, conferma vigoroso Leon I. Feuer nel 1942, «had been chosen to bear the yoke of His law, to be the vicars and witnesses of His truth upon hearth, sono stati scelti per portare il giogo della Sua legge, per essere vicari e testimoni della Sua verità sulla terra. Essi hanno la responsabilità, da cui non possono sfuggire [an inescapable responsibility], di preservare la religione giudaica, e furono determinati a farlo al prezzo di sacrifici e senza compromessi».

    Compito altissimo e unico, per il quale il dovere di Israele è di conservarsi distinto dalle nazioni, non cercarne la conversione, perché, virtuoseggia Elio Toaff, caporabbino in Roma, «noi non vogliamo che il mondo sia tutto di ebrei, noi vogliamo che il mondo sia formato di uomini che credono nel Dio unico, creatore del cielo e della terra. Questa è la missione del popolo ebraico. Tale popolo si dice eletto non perché sia migliore degli altri, ma perché è stato scelto per svolgere la missione di portare tutti i popoli a credere nel Dio unico». ***

    *** Il termine «eletto» è definizione di trimillenaria ascendenza, fin dal dono cioè della Torah, alle prime luci del sesto giorno di Siwan, anno 2448 della Creazione, ovviamente un Sabato. Derivato dalla radice semitica bhr – da cui il babilonese beh—ru, «scegliere, arruolare truppe» – il participio passato ebraico b~hìr, «prescelto», viene sostituito nel linguaggio religioso dall'aggettivo sostantivato b~h°r, «eletto». In verità, a definire la missione dell'ebreo nel mondo, ancora più pregnante di Eletto è, a parer nostro, il termine Arruolato.

    Concetti ribaditi da Michael Wyschogrod, preside del dipartimento di Filosofia al Baruch College dell'Università di New York: «Tradizionalmente il popolo ebraico fu detto Knesses Israel, "Assemblea d'Israele". Non fu una sommatoria di individui. La Knesses Israel fu l'interlocutore [dialogue partner] di Dio. Fu il popolo ebraico nella sua totalità, che entrò nel patto, visitò Dio, credette e fu incredulo, eletto e sofferente. Abbracciò tutti gli ebrei, presenti, passati e futuri. Ogni ebreo fu ebreo in virtù della partecipazione alla comunità. Nei punti cruciali della storia ebraica fu questa comunità a compiere le scelte, a selezionare le opinioni. Fu essa, la comunità cui si rivolsero i profeti, ma fu anche essa, quella da cui uscirono i profeti [...] Il popolo circonciso d'Israele è l'oscura, carnale presenza attraverso cui la redenzione si apre il cammino nella storia. La salvezza si compie attraverso gli ebrei, perché la carne d'Israele è la dimora della presenza divina nel mondo. È l'àncora carnale che Dio ha affondato nel terreno della creazione».

    Concludendo con un richiamo all'Anabasi l'opera The Eternal Dissent - A Search for Meaning in Jewish History, "L'eterno dissenso - Indagine sul significato della storia ebraica" – e dopo avere affermato che l'elezione non è per Israele «un titolo o un encomio, ma un mandato etico [...] non una condizione o uno stato, ma un ruolo [...] l'elezione è più di una vocazione, è un cimento», Israele essendo stato scelto «quale entità etica e strumento per i fini di Dio» – David Polish, direttore della Cornell University, rabbino a Cedar Rapids/Iowa, fondatore del Temple Beth Emet di Evanston/Illinois e presidente della Chicago Rabbinical Association, aggiunge: «Questa [quella dei greci di Senofonte] è una storia davvero eroica. Una storia immortale. La nostra è però la storia non di un esercito, ma di un intero popolo, non di diecimila uomini, ma di miriadi; non di una singola ritirata, ma di innumerevoli sconfitte; non di un tradimento, ma di molti; della fuga non attraverso un solo paese, ma attraverso continenti e continenti; di una prova durata non mesi, ma quattromila anni. Ma quando gli ebrei si mossero, per lontani che potessero essere da casa, erano spinti da una Voce Interiore: "Banim atem L'Adonoy, Siete i figli di Dio"».

    «To be Jewish means to be chosen, or it means nothing at all» – ribadisce con forza il lettore di Moment E.A. Addington contro ogni pur benintenzionato tentativo di trovare al giudaismo una dimensione laica – «Essere ebrei significa essere eletti o non significa nulla; ed essere eletti deve significare essere scelti da qualcuno, per fare qualcosa [...] Ciò che fondamentalmente definisce il popolo ebraico non è una storia condivisa o un'esperienza culturale o il "destino sociale" (qualunque cosa ciò voglia dire), ma piuttosto l'onore e il fardello di essere chiamati, trascelti tra l'intera umanità, per proclamare al mondo l'esistenza e la santità di un unico Dio vero e vivente. Spogliato da questo scopo divino, il giudaismo diventa nulla più che uno stupido anacronismo, un club etnico e sociale bizzarro/antiquato [quaint] ma fondamentalmente privo di scopo, con pretese morali e filantropiche».

    «Sono un ebreo appassionatamente laico e agnostico» – concorda su altro registro nel maggio 1992 l'attore Richard Dreyfuss (il co-protagonista di Jaws, «Lo squalo» di Steven Spielberg, 1975), intervenendo ad una raccolta di fondi degli American Friends of the Israel Museum of the Diaspora – «che crede sinceramente che gli ebrei sono il Popolo Eletto, come è detto. Credo che siamo scelti per redimere la condizione umana [I believe we are chosen to illuminate the human condition]. La nostra etica è la vittoria più grande dell'umanità».

    «La storia ebraica» – ribadisce l'ex-«tedesco» dottore in legge W. Gunther Plaut, Senior Rabbi del torontico Holy Blossom Temple e one of Canada's best known rabbi-authors – «in tutte le sue manifestazioni riflette un solo tema, o meglio, una sola convinzione: Israele fu il popolo scelto da Dio. La storia ebraica fu tracciata fin dai giorni di Abramo. I suoi discendenti furono numerosi come la sabbia del mare e saranno una benedizione per l'intera umanità. Attraverso epoche di speranza e disperazione, di agonia e vittoria, questa antica promessa fu vista chiaramente e gli storici del popolo ne registrarono fedelmente il lento ma inevitabile compimento. Se Israele è fedele, il piano di Dio giungerà a compimento; se Israele diviene davvero "un regno di sacerdoti ed un popolo santo", il mondo intero vedrà la salvezza»; ma ciò, solo con la «missione dinamica», col concorso attivo, «perché non fu abbastanza essere il popolo della Sua scelta, amato e punito come nessun altro. Non è abbastanza essere un oggetto, neppure d'amore. Bisogna essere un partner attivo, nelle imprese umane come in quelle divine. Se Israele ha bisogno di Dio per marcare il proprio destino, altrettanto Dio ha bisogno di Israele per realizzare i Suoi piani».

    «Non sta a te finire l'opera, ma non sei neppure libero di sottrartene», sprona Rabbi Tarfon in Abot II 21 (e Pirqe Abot II 19/16). L'uomo infatti, concorda il fondatore del cristianesimo – il nabi la-goyim, «profeta delle nazioni», l'ex Rabbi Shaul in piena sintonia coi farisei e con la «quarta filosofia» di Giuda il Galileo – non è condannato all'attesa né tenuto alla contemplazione: «Sappiamo che tutta la creazione geme e soffre i dolori del parto; ma attende la sua liberazione da noi, che siamo i primogeniti dello Spirito» (Romani VIII 22-23, come citato da Benamozegh). Mosso dalla kavannah – l'«intenzione» che, secondo il Talmud, deve accompagnare l'adempimento dei precetti, l'«anima dell'azione» – l'uomo deve muoversi ed operare con le proprie forze, deve attivarsi ed agire, poiché, come insegna la mistica dello Zohar, ogni «accadere superiore» necessita di uno stimolo da parte dell'«accadere inferiore».

    Concetto sviluppato due millenni dopo dal «francese» Edmond Fleg né Flegenheimer: «Sono ebreo perché per Israele il mondo non è finito, lo finiscono gli uomini; sono ebreo perché per Israele l'uomo non è creato, lo creano gli uomini» e, nuovamente, da Buber: «Il teologumeno ebraico centrale, non formulato, non dogmatico, ma che fa da sfondo e coesione a tutta la dottrina e profezia, è la credenza nella partecipazione dell'azione umana all'opera di redenzione del mondo» (Das messianische Mysterium, conferenza tenuta a Berlino il 6 aprile 1925).

    Redenzione che potrà presentarsi – dopo le catastrofiche Doglie che porteranno il mondo sulla soglia della distruzione – solo quando sarà crollata ogni barriera tra i popoli. Popoli infine riuniti, dopo il tormentato cammino della Storia, sotto un Unico Governo Mondiale, precisamente sotto il Governo dell'Unico Dio e la Signoria di Israele: «L'Europa Occidentale e l'Europa Orientale diverranno federazioni di stati autonome con un regime socialista e democratico. Tranne l'URSS, stato federato eurasiatico, gli altri continenti si uniranno in un'unica alleanza mondiale, e questa disporrà di una forza di polizia internazionale. Tutte gli eserciti saranno aboliti e non ci saranno più guerre. A Gerusalemme le Nazioni Unite – le vere Nazioni Unite – edificheranno un santuario dei Profeti che coadiuverà l'unione federale dei continenti; là siederà la Corte Suprema dell'Umanità, che comporrà tutte le controversie e le dispute che sorgeranno nella federazione dei continenti, come profetizzato da Isaia» (il «laico» Ben Gurion, capo del governo israeliano, ad Amram Ducovny, sul settimanale Look, 16 gennaio 1962, riportata in David Ben Gurion - In the own words, 1968 e in Hans Schmidt, End Times / End Games, 1999).

    Quando fra tre decenni l'attuale Sistema sarà crollato – e sarà un crollo totale come fu per le Twin Towers del World Trade Center – sotto le proprie contraddizioni, in primo luogo economico-produttive prima che di politica internazionale, sarà quindi facile anche per l'uomo della strada accorgersi che nel Novecento sono state scagliate contro l'Europa, da parte di un potere all'inizio sfuggente ma via via più palese in quanto uscito sempre più allo scoperto, quattro guerre. Palesi e classiche le prime due, e cioè la Grande Guerra e il Secondo Conflitto mondiale. Assolutamente non convenzionali le due altre: la Colpevolizzazione Olocaustica, tesa a creare nuovi paradigmi storici e martellanti immaginarii esistenziali, e quindi a plasmare nuovi cervelli, e l'Invasione Terzomondiale. ***

    Invero, la questione della «immigrazione» terzomondiale verso il ricco «Nord del mondo», in particolare verso l'Europa, è oggi non solo uno tra i più aspri problemi che agitano la pubblica opinione – un'opinione disorientata, frastornata, irretita e conculcata dai detentori del potere, dai loro ideologi e da ogni maestrina demo-umanitaria, un'opinione che considera, inquieta, i singoli alberi senza accorgersi che sono parte di una foresta – ma è, semplicemente, il problema capitale del nostro tempo. Quello la cui soluzione, seppure parziale, potrà o non potrà permettere la soluzione di ogni altro problema. Da quello primario dello sfacelo etnico delle nazioni, in particolare delle nazioni europee, a quelli di un corretto vivere sociale, della disoccupazione e di una più equa produttività industriale, fino a quello della salvezza dell'intera natura.

    *** Usiamo i termini «terzomondiale» e «Terzomondo» non tanto nel senso stretto, coniato nei primi anni Cinquanta, di paesi «non allineati» o «in via di sviluppo», quanto comprendendo anche la Turchia e i frammenti dell'ex Secondo Mondo comunista, in particolare quelli più disastrati dall'implosione del Radioso Avvenire: Albania, Romania e Jugoslavia.

    Aspetto, quindi, la questione dell'invasione scagliata contro l'Europa da quasi un ventennio, di discrimine assoluto, non patteggiabile. Aspetto che separa e sempre più nettamente separerà gli individui, le analisi e le proposte politiche, le visioni del mondo.

    Da una parte coloro che individuano nella riconquista dell'identità nazionale e della sovranità statuale l'unica possibilità, e sottolineiamo: possibilità, di sopravvivenza dell'Europa – di se stessi, della memoria dei Padri, del futuro dei figli, di una trimillenaria cultura e di un irripetibile ambiente naturale – nonché, inscindibilmente intrecciata, l'unica possibilità di una più naturale, vale a dire: morale, organizzazione delle relazioni tra le nazioni.

    Dall'altra coloro che, pervasi da allucinata incapacità di capire o da poco celata malafede, cavalcano impostazioni concettuali scaturite da una trimillenaria visione religiosa estranea all'ethos e agli interessi europei. Visione che, nutrita dalla più perversa volontà di mutare lo statuto ontologico del mondo – dell'uomo come della natura – sta portando l'intero pianeta – popoli e natura – nel caos e nella disperazione.

    * * *

    I pretesti per l'invasione

    A parte la maligna volontà dei più conseguenti liberali, quelli che propugnano la politica della «porta aperta» in nome del buonismo universale e del diritto cosmopolitico, *** e dei più conseguenti liberisti, quelli che rigettano ogni restrizione alla circolazione di merci, capitali, bestie e uomini, *** nel campionario degli invasionisti questi sono i pretesti più abusati:

    *** Come ha fatto nelle tesi elettorali radicali del 16 aprile 2000 la mondialista filo-droga filo-aborto filo-invasione (il tutto: droga-aborto-invasione, ovviamente, «legale») Emma Bonino, commissaria dell'Unione Europea: «L'immigrazione non è una minaccia da cui noi dobbiamo difenderci con la forza né una disgrazia di altri da affrontare con la solidarietà e la carità [...] poiché molti sono i paesi prigionieri di una povertà estrema, ed è un diritto inalienabile di ogni essere umano fuggire la povertà e trovare, dove può, un lavoro per salvaguardare la dignità propria e della propria famiglia».

    *** Tra i mille, vedi l'Innocenzo Cipolletta boss confindustriale e adepto Bilderberg Group: «Fissare un tetto, indicare numeri precisi ha il sapore del mercato degli schiavi. Se crediamo fino in fondo alla globalizzazione, il discorso non deve valere solo per le merci: lasciamo che le persone circolino liberamente, entrino ed escano dai nostri confini. Vedrete che l'intera società ne trarrà enormi vantaggi», in Zuccolini R., Cipolletta: ampliamo gli ingressi, il mercato assesterà domanda e offerta, «Corriere della Sera», 8 dicembre 1998, concetti ribaditi in Zuccolini R., Cipolletta: aboliamo i limiti di ingresso per i lavoratori, «Corriere della Sera», 30 marzo 2000.





    punto 1. Il mitico arricchimento culturale ed umano – ad esempio, la quaedam de populo Ornella Rota: «i flussi migratori rappresentano un'inestimabile risorsa sia per il Paese d'origine, sia per il Paese d'arrivo» – aspetto assolutamente soggettivo, argomento malposto e oggettivamente sconsiderato.

    Inoltre, all'ultimo Alain De Benoist, il più noto teorico dell'esiziale «multicomunitarismo» o «etnopluralismo» o «antirazzismo differenzialista» (vale a dire, della presenza dei gruppi etnici più vari all'interno di uno Stato), e all'insonne scrivano fiorentino Marco Tarchi, già suo allievo neodestrorso («Occorre reagire positivamente [all'invasione migratoria], portando al centro del dibattito delle idee l'idea di una coesistenza delle specificità che è l'unico ragionevole punto di mediazione fra la disordinata insorgenza degli egoismi individuali, tribali o nazionali e il panorama avvilente di una società globale dove lo scambio fra aggregati umani, perdendo i suoi residui connotati simbolici, culturali e religiosi, sia ridotto a mera competizione fra risorse materiali e fra opposte aspettative di potere»),

    si aggiunge, per nulla originale, ma in linea con l'ecumenico parroco don Luigi Calonghi, promotore di un «tempio» per i sikh a Pessina Cremonese («L'importante è pregare il buon Dio, non importa se a farlo sono fedeli di altre religioni. Anche il papa ha pregato a fianco di esponenti di altri credo religiosi»), persino l'«anticonformista» Massimo Fini, rampognatore delle manifestazioni anti-invasioniste della Lega Nord scoppiate nell'ottobre 2000 contro l'erezione di moschee in Lombardia: «Ora che sta con Berlusconi, Bossi deve marcare la sua identità. E si butta su una xenofobia inaccettabile. Una cosa è regolamentare i flussi degli immigrati, un'altra è dire: tu no, perché sei musulmano. [Il politologo Giovanni] Sartori dice che l'Islam ha differenze troppo forti? Meglio, anche a New York c'è Chinatown. E da noi il diritto alla diversità è già riconosciuto agli ebrei: perché non dev'esserlo all'Islam? Viva le identità. Altrimenti si diventa una società monoetnica, di uomini tutti uguali [sic!]»... come se ci fosse al mondo un paese variegato, articolato, individualista ed anzi diviso più dell'Italia!

    In realtà, affinché coesistano le specificità – a prescindere ovviamente dalla buona volontà e dalla predisposizione dell'Altro – non occorre certo importare milioni di alieni. Per un «assaggio di interculturalità» (così l'invasionista Vaifra Palanca, firmataria di una Guida al pianeta immigrazione per i comunistici Editori Riuniti) basterebbe aprire qualche ristorante tipico, sicché il suddito del Sistema, già fruitore di hamburger e Coca-Cola, possa apprezzare l'esotico riso al curry e non solo l'italica pizza, le tortillas invece delle piadine e della pastasciutta, il kefta alla marocchina invece degli agnolotti, le code di rondine oltre all'ossobuco alla milanese, il kebab piuttosto che il gorgonzola.





    punto 2. Le migrazioni ci sono sempre state. Ribatte Giovanni Damiano: «Come se fossero equiparabili gli spostamenti di popoli in un mondo pressoché disabitato, con enormi estensioni di terre libere da presenza umana e con poche comunità già completamente stanziali e sedentarie, e la situazione di oggi, con un pianeta in larga parte addirittura sovrappopolato»!

    Sulla stessa falsariga, ma con espressioni di pesante «discriminazione» anti-islamica in favore di immigrati di fede cattolica come sudamericani, filippini ed eritrei, persone «culturalmente compatibili» – espressioni che, non fosse un'Eminenza Porporata, varrebbero all'autore, malgrado l'assoluta rispondenza al reale, *** le attenzioni liberticide della Legge Mancino: per molto meno era stato colpito sette anni prima il Fronte Nazionale – tuona il 14 settembre 2000 il cardinale di Bologna Giacomo Biffi, tosto attaccato dal sinistrume di ogni risma, laica come religiosa e papa polacco compreso: «I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solo economici e previdenziali. Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l'identità della nazione. L'Italia non è una landa disabitata, senza storia e senza tradizioni, da popolare indiscriminatamente [...] Io dico che non esiste un diritto di invasione. Lo Stato italiano può ammettere chi vuole, giusto? E se vuole assicurare il benessere e l'identità del popolo italiano è meglio che faccia bene i suoi conti».

    *** Oltre al dovere di sterminare i pagani ovunque si trovino, permettendo nella Dar al-Islam un'esistenza, di secondo ordine, solo agli adepti del Libro (ebrei e cristiani, con aggiunti gli zoroastriani), non dimentichiamo il dovere, per i Sottomessi (muslim: musulmani), di soggiogare il mondo. Ovviamente, al fine di ridurre, se pure non di eliminare, la Dar al-Harb, la "Casa della Guerra", e cioè popoli e Stati non ancora convertiti.

    E tuttavia il politically incorrect Biffi – attaccato senza conseguenze non solo dal Wall Street Journal, ma anche da cristiani ecumenici quali monsignor Riboldi, don Ciotti, don Mazzi, gli adepti Caritas e Comunità di Sant'Egidio, i politici del Partito Popolare Italiano Castagnetti, Zecchino e Toia, etc. – non esce indenne dalla polemica. Il 28 ottobre 2000 l'agenzia Corrispondenza romana riporta, unica fra i tanti organi di «informazione», che il porporato è stato denunciato, sulla base della Legge Mancino, per «istigazione all'odio, al razzismo, alla segregazione razziale e alla discriminazione religiosa» da tale Habib Ben Sghaier, presidente di una tale Associazione Comunità Straniere. La medesima denuncia sulla base della Mancino viene firmata da don Vitaliano della Sala, personaggio già intruppato nella marcia per l'orgoglio gay tenutasi a Roma nel luglio precedente. Esattamente un anno dopo, il sinistro sacerdote è – col medico e miliardario cattolico Vittorio Agnoletto e col capo delle Tute Bianche Luca Casarini, boss dei Centri Sociali veneziani, stipendiato RAI e dell'invasionista ministra neocomunista per la Solidarietà Sociale Livia Turco, nonché persecutore dello studioso olorevisionista Franco Damiani, insegnante a Mestre – tra i principali istigatori «intellettuali» della contestazione del convegno del cosiddetto G8, aperto a Genova il 20 luglio e partecipato dai capi di governo o di Stato dei più ricchi otto paesi (USA, Giappone, Germania, Francia, Inghilterra, Italia e Canada, appendicizzati dalla Russia).

    Recitata da una congerie di gruppi sé-dicenti «anti-global», la cruenta contestazione ai «potenti della terra» (ma non ai burattinai nascosti) non solo permette ai mondialisti «di destra» di proporsi al cittadino-medio come individui «responsabili» aggrediti da violenti criminali «di sinistra», ma offre, ai primi come ai secondi, un'eccellente vetrina propagandistica. Ai primi, che possiamo definire Globalisti Alti o Plutocratici, serve per proporsi al cittadino-medio come la consacrazione del governo mondiale in-carne-ed-ossa (troppo lontano e disincarnato è l'ONU), distinto, comprensivo, pacato e pieno di buona volontà verso il Terzomondo (impagabile la sfilata di un pugno di capi di governo e di Stato negri o di altro colore), al quale si condonerebbero briciole di debito. Ai secondi, che potremmo definire Globalisti Bassi o Lerci, permette non solo di sfogare nella violenza (esercitata non contro i Potenti, ma contro il cittadino-medio e le forze di polizia) le infinite frustrazioni dovute al crollo di ogni loro ideale, ma anche di continuare ad illudersi di costituire l'alternativa ai primi... quando ne sono solo la stupida massa di manovra. In effetti, non vediamo come tali utili idioti si possano pretendere «antiglobalisti» sbraitando, ovviamente in inglese, swahili mondialista par excellence, e magari ingurgitando à la Casarini cocacola ed hamburger, slogan come «no borders, no nations, niente confini, niente nazioni», ben accetti, e magari proprio da loro coniati, ai think tanks del G8. Che senso ha avversare gli aspetti economici della globalizzazione, quando se ne condivide il progetto sociale-culturale-politico?

    Osserva Marcello Veneziani: «A vederli, gli antigiottini sono la sinistra in movimento: anarchici, marxisti, radicali, cattolici ribelli o progressisti, pacifisti, verdi, rivoluzionari. Più contorno iconografico di Marcos e Che Guevara. Poi ti accorgi che nessuno di loro mette in discussione il Dogma Globale, l'interdipendenza dei popoli e delle culture, il melting pot e la società multirazziale, la fine delle patrie. Sono internazionalisti, umanitari, ecumenisti, globalisti. Anzi, quanto più sono estremisti e violenti, tanto più sono internazionalisti e antitradizionalisti. Ovvero più contestano la globalizzazione, più condividono il suo fine ultimo. Del resto il Manifesto di Marx ed Engels è uno schietto elogio della globalizzazione, a opera della borghesia e del capitale, che spezza i vincoli territoriali e religiosi, etnici e familiari, e libera dalla tradizione. E nei vertici precedenti i leader dei Paesi industrializzati erano quasi tutti di provenienza progressista, se non sessantottina. Da Clinton ai leader nostrani, che sognavano di trasformare il G8 in Ulivo planetario. E allora dove sono i veri nemici della globalizzazione? Sono a destra, cari miei. È là che non da oggi si avversa il mondialismo e l'internazionalismo, la morte delle identità locali e nazionali. Tra i conservatori e i nazionalisti, tra i tradizionalisti e gli antimoderni, ma anche nell'ambito della nuova destra di Alain de Benoist e di Guillaume Faye, come dei movimenti localisti e populisti. C'è una ricca letteratura di destra che da tempo critica radicalmente la globalizzazione e i suoi esiti: il dominio della tecnica e dell'economia finanziaria a danno della politica e della religione. A Genova dunque si consuma un paradosso: pochi uomini di destra, tra agricoltori, artigiani e tradizionalisti, contesteranno il G8 in modo debole e marginale ma con scopi forti e radicali. E molta gente di sinistra contesterà, in modo radicale, una globalizzazione che in fondo condivide».

    E lucido è anche l'ebreo americano Michael Hardt, co-autore, col sinistro intellettuale italiano Toni Negri, di Empire, «Impero», summa teorico-politica del movimento «no-global» pubblicata dalla Harvard University Press, la casa editrice di uno dei massimi centri forgiatori di cervelli per il Sistema: «Contrariamente a ciò che dicono molti massmedia, queste proteste non sono rivolte contro la globalizzazione in generale, ma contro l'attuale forma di globalizzazione, dunque a favore di una globalizzazione alternativa, che abbia come caratteristiche fondamentali l'uguaglianza e la democrazia. Per quanto riguarda l'uguaglianza, viviamo in un mondo con disparità sempre più profonde tra ricchi e poveri: è questa disparità che va sanata. Immaginare i meccanismi di una democrazia globale è più difficile. L'idea moderna della democrazia, infatti, era pensata e praticata nello spazio nazionale; sul piano globale la democrazia va inventata di nuovo» (corsivo nostro).

    Egualmente l'anarco-marxista Negri il 30 luglio, allucinato sul Corriere della Sera, il più diffuso quotidiano italiano (del supercapitalista Gianni Agnelli è anche la Rizzoli, editrice del volume): «Lo Stato-nazione è sempre stato un nemico, e io considero la globalizzazione come un effetto dei movimenti operai, delle lotte anticoloniali e anche delle battaglie contro il socialismo reale avviate a partire dagli anni Sessanta [...] Lo Stato-nazione non è più adatto al controllo dei movimenti di classe, e dentro questo nuovo spazio il regime capitalista troverà difficoltà sempre più grandi [...] Il popolo è un concetto creato dallo Stato capitalista, un concetto che abbiamo sottoposto a una critica feroce: è la moltitudine ridotta a partecipare a quello Stato. E il nome di nazione è una sua estensione, melmosa e schifosa. La patria, poi, è aborrita [...] milioni di persone sono morte in suo nome: le lotte operaie per fortuna ci hanno liberato della patria e della nazione. Si spera che non compaiano mai più. Per questo l'Impero è benvenuto [...] Perché se Dio vuole c'è la globalizzazione». In effetti, gli unici veri antagonisti del Sistema, gli unici radicalmente alternativi ai processi di mondializzazione, gli unici veri nemici del globalismo sono i «razzisti» e i nazionalisti.





    punto 3. Anche l'Europa fu terra di emigrazione, per cui esisterebbe un obbligo verso i nuovi «poveri». In primo luogo, l'essere stati emigranti, lungi dal costituire un vanto e non una perdita e una vergogna per la comunità di origine, non può essere fonte di alcun obbligo, né morale né giuridico, soprattutto per chi, non essendo emigrato, è rimasto in Europa continuando a portare il proprio contributo alla comunità nazionale, ad esempio vivendo le terribili crisi dei conflitti mondiali. Inoltre, non è proprio l'ideologia liberale a considerare «responsabili» gli individui e non le collettività? A «pagare» per l'emigrazione degli italiani di un secolo prima dovrebbero essere gli italiani di oggi, magari neppure imparentati coi primi? Si invertirebbe il concetto olocaustico helmutkohliano di «grazia della nascita tardiva», sostituito da quello di «colpa della nascita tardiva»?. In secondo luogo, non si risolverebbero certo i problemi della miseria di miliardi di uomini facendosi invadere da qualche decina di milioni di individui invece di cercare, da un lato, soluzioni congrue nei loro paesi e di ridurre, dall'altro, il mortifero standard di vita dell'Occidente. In terzo luogo, assurdo è comparare situazioni storiche nelle quali, ad esempio, la costruzione di una strada richiedeva l'impiego per mesi di centinaia di uomini, con situazioni nelle quali quello stesso lavoro viene svolto oggi in pochi giorni da macchinari serviti da qualche decina di tecnici.





    punto 4. Gli immigrati sono una risorsa economico-sociale. Ma certo, e precisamente per i settori produttivi praticanti il lavoro nero, per gli industriali che comprimono il costo del lavoro o evitano la modernizzazione degli impianti, per il parassitismo affaristico dei produttori di merce contraffatta (oggi nazionali, domani planetari), di irresponsabili affittuari, dei costruttori di «alloggi sociali per immigrati» a spese dello Stato, per gli insegnanti e per chiunque ruoti intorno all'indotto migratorio, illegale o legale che sia. Si pensi anche solo al giubilo di Luigina Giliberti: «Arriva dall'Africa e "salva" la scuola - Un bambino dal Marocco e una ragazzina di Abbadia Lariana salvano la 1a media di Lierna. La classe, che rischiava d'essere soppressa per carenza di alunni, raggiunge ora il numero quindici previsto dal Provveditorato agli studi. Non resta che attendere il ritiro della soppressione e il ripristino della classe»!

    Ancora più fiera, nel febbraio 2000 la scuola media genovese «Baliano» totalizza 80 allogeni sui 110 iscritti e vanta il primato della classe I A, composta per il 100% da non-italiani, facendo esultare il provveditore agli studi Gaetano Cuozzo: «Siamo una città multietnica, e quella classe è la dimostrazione dell'avvenuta integrazione a Genova tra popolazione e immigrati». Inoltre, se nel 1996 gli studenti stranieri erano in Italia 60.000 su una popolazione scolastica globale di sette milioni e mezzo, nel 2000 erano già 140.000, cioè più del doppio, mentre nel 2016 toccheranno, a fronte del calo degli italiani, i 500.000.

    Inoltre, gli invasori sono una risorsa economico-sociale per le sinistre in attesa di garantirsi un illusorio bacino elettorale e una rivalsa psicologica per il loro miserabile fallimento storico-esistenziale, per le Chiese alla ricerca di presunti nuovi fedeli per fronteggiare il calo dell'«affezione» europea, per la criminalità organizzata che gestisce una manovalanza a basso costo, praticamente «invisibile», non controllabile dagli organi di polizia e facilmente rimpiazzabile.

    Quanto alla «utilità» degli immigrati, il politologo liberale Giovanni Sartori continua, sfiorando il terribile problema della predominanza dell'economia sull'etica e su ogni altro aspetto della vita associata e dei rapporti con la natura: «Sì, è ovvio che gli immigrati servono. Ma servono a tutti, indiscriminatamente, per definizione? È altrettanto ovvio che no. E dunque gli immigrati che servono sono quelli che servono. Davvero una bella scoperta. A parte il fatto, soggiungo, che la formula dell'"immigrato utile" soffre di due gravi limiti. Intanto, chi è utile a breve, è utile anche a lungo? E poi, secondo, il problema non è soltanto economico. Anzi, dirò nel libro, è eminentemente non-economico. È preminentemente sociale ed etico-politico. Senza contare che anche l'utile economico può avere, e spesso ha, esternalità [!] "disutili", esternalità nocive. E dunque che l'immigrato possa risultare benefico pro tempore per l'economia, nulla dimostra fuori dall'economia e su quel che più conta: la "buona convivenza"».

    Non è poi lecito prescindere dagli effetti morali della violenza, dal dolore, dall'ansia e dalla paura dei cittadini angariati dagli invasori ed irrisi proprio da coloro che dovrebbero tutelarne la sicurezza: politici, magistratura e polizia, effetti che agiscono in modo dissolvente sul vivere civile. Da un lato agevolando quando non promuovendo strutture criminali sempre più radicate e spavalde sia sull'intero territorio che in sempre più numerose «zone franche» nelle quali temono di entrare financo le forze dell'ordine (emblematici il quartiere San Salvario a Torino, la zona portuale a Genova o il quartiere Esquilino a Roma, o, per la Francia, le allucinanti periferie e gli agglomerati abitativi della cintura parigina), dall'altro aggravando l'impotenza e incentivando il pluridecennale disimpegno sociale degli italiani, la cinquantennale chiusura nel proprio «particulare».

    Quanto alla piatta «utilità economica», nel conto del dare-avere va conteggiata la «disutilità» prodotta dai crimini compiuti, dagli uccisi e dai feriti, dalle lesioni prodotte alle vittime con aggravio dei costi e delle strutture sanitarie, dalla perdita della produttività lavorativa dovuta ai ricoveri ospedalieri e ai periodi di malattia, dai furti, dalle rapine, dai vandalismi nelle abitazioni e dalle conseguenti misure per riparare o prevenire (con guadagno, certo, oltre che degli avvocati, dei benemeriti produttori di antifurti, dei fabbri e dei facitori di opere murarie e falegnameria). Ed egualmente, se pensiamo che un detenuto costa quotidianamente allo Stato 550.000 lire e che a fine 2000 gli stranieri sono un terzo dei detenuti, sfiorando le ventimila unità, vanno conteggiate, a prescindere dai costi e dalle migliaia di ore sprecate in udienze giudiziarie sempre più impotenti e kafkiane, le migliaia di miliardi di lire spesi per il mantenimento, assolutamente inutile in quanto per il 99% non redentivo, di una sempre più folta popolazione carceraria allogena.





    punto 5. Vista la denatalità europea, sono una risorsa biologica. Come se l'afflusso di altri patrimoni genici andasse a tutelare il patrimonio genico europeo e non contribuisse invece ad accelerarne la scomparsa! Come se l'«ecatombe demografica» degli europei, da sempre irrisa e voluta da tutti gli antifascisti e da tutti gli «umanitari», non potesse venire contrastata e invertita con idonei provvedimenti di sostegno alle famiglie! Come se un'ipotetica supernatalità europea di per sé riducesse o annullasse la pressione alle frontiere, pressione che ci sarebbe sempre in quanto nata dall'irresponsabile esplosione demografica del Terzomondo!

    Criminale è poi l'ammonimento lanciato, attraverso il «francese» Joseph Alfred Grinblat, dall'ONU all'Europa nell'aprile 2000: per risolvere «in modo indolore», cioè senza tagli alle pensioni né aumenti degli anni contributivi, i problemi creati dalla denatalità – cioè dallo «spopolamento programmato [sic!] del continente», come si lascia sfuggire Laurence Caramel – entro il 2025 il Vecchio Continente dovrà accogliere 159 milioni di invasori. In particolare la Germania, l'Italia e la Francia, rispettivamente, 44, 26 e 23 milioni.

    Identico incitamento al suicidio, sulla base di identiche considerazioni, quello lanciato nel successivo novembre a Bruxelles, presentando alla Commissione Europea il primo Rapporto sulla situazione del «razzismo» in Europa, da Jean Kahn, già presidente della sezione francese del World Jewish Congress e del Congresso Ebraico Europeo, nella veste di presidente dell'Osservatorio Europeo sui Fenomeni Razzisti e Xenofobi: «L'Europa ha bisogno di immigrazione per svilupparsi. Si parla di cinquanta milioni di nuovi immigrati in dieci anni. Dobbiamo essere pronti ad accoglierli, altrimenti il nostro modello economico non sarà in grado di reggere». E per chi resti perplesso, bacchettate sulle dita: un'inchiesta dell'European Commission on Intolerance and Racism rivela che «la stampa britannica attacca troppo spesso i rifugiati e chi chiede asilo politico, mentre quella danese alimenta l'intolleranza verso i cittadini di fede islamica» (in Internazionale n.381, aprile 2001).

    Primo tra i «temi ebraicamente rilevanti che comportano l'assunzione di un ruolo politico da parte dell'ebraismo italiano» è infatti – assevera il presidente dell'UCEI Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Amos Luzzatto a Claudio Morpurgo sull'ufficiale Shalom nel maggio 2001 – «il razzismo, dato che qualsiasi forma di discriminazione, fondata su ragioni di appartenenza etnica, religiosa o politica, è di per se stessa l'anticamera dell'antisemitismo tradizionale. Il razzismo non si autolimita, ma ha una capacità di espandersi e di minacciare estremamente pericolosa. D'altra parte, poi, noi ebrei, da sempre colpiti da questo fenomeno, abbiamo una responsabilità particolare nel combattere il razzismo in tutte le sue forme [...] E questo richiamo alla multiculturalità è ancora più significativo nell'attuale fase storica in cui, in Europa, gli Stati nazionali rinunciano a parte della loro sovranità per integrarsi in una realtà sovrannazionale. Si tratta di un fenomeno irreversibile, di grande potenzialità, ma estremamente difficoltoso. Basti pensare alle continue spinte particolaristiche che, spesso, generano conflitti come nei Balcani e che, in ogni caso, comportano, quasi ovunque, sentimenti diffusi di chiusura verso il diverso e verso le minoranze».

    Altrettanto esultante per una prossima «realtà irreversibile che oltre a cambiare la demografia finirà, in un modo o nell'altro, per ridefinire gli stessi fondamenti della nostra [sic!] identità nazionale», quasi non credesse ai suoi occhi, il 12 luglio 2000 era stato il recidivo sinistro maestrino «italiano» Guido Bolaffi: «L'immigrazione sta cambiando l'Italia assai più velocemente e in profondità di quanto si potesse fino a ieri persino immaginare. Gli ultimi dati dell'ISTAT mostrano infatti che, grazie alle tante nascite e all'incremento dei ricongiungimenti familiari, un segmento crescente della nostra popolazione è formato, e sempre più lo sarà, da coloro che hanno deciso di lasciare la loro terra per cercare da noi un futuro migliore per sé e i propri figli. Di fronte a un Paese che invecchia e che non vuole o non sa fare più figli, l'immigrazione funziona dunque come un possente meccanismo di riequilibrio esistenziale: una sorta di assicurazione sulla vita [!] per il Bel Paese del terzo millennio»; in parallelo, «consigliere» per l'immigrazione del socialista trotzkista francese Lionel Jospin è, all'epoca, l'ebreo Patrick Weil. ***

    *** Ex-boss sessantottino a Roma, dirigente della comunistica FIOM-CGIL, il Bolaffi assurge nel 1996 a capo del Dipartimento per gli Affari Sociali presso la Presidenza del Consiglio e capo gabinetto del ministro per la Solidarietà Sociale di vari governi sinistri. Collaboratore di la Repubblica, acceso invasionista e membro della Commissione europea per la libera circolazione delle persone, il Bolaffi istiga a concedere la cittadinanza agli invasori purché... «con regole e quote», fino a concionare, il 23 maggio 2000 sul Corriere della Sera, contro «il grave ritardo culturale e istituzionale dell'Europa» nell'accogliere gli invasori. Malgrado tutto ciò, nell'agosto 2001 Roberto Maroni, neoministro «razzista» berluscoleghista del Lavoro e delle Politiche Sociali (alias ministro del Welfare), lo conferma, in attesa di farlo segretario generale del ministero, capo del dipartimento delle politiche sociali e previdenziali e, ad interim, del dipartimento delle politiche del lavoro.

    A – Boss lottacontinui e affini, poi riciclati quali colonne del Sistema e compartecipi della «mafia sessantottina» – familiarmente nota come la «old boys net, rete dei vecchi ragazzi» – che coinvolge il fior fiore dell'invasionismo quale il socialista Claudio Martelli e la neocomunista Livia Turco, sono anche, oltre agli ebrei Peter Freeman, Daniele Jeoffe, Alexander Langer, Gad Eitan Lerner, Paolo Mieli, Enzo Piperno e Luca Zevi, i goyim Lucia Annunziata (giornalista RAI, nel 2001 direttrice dell'agenzia online AP-eBiscom de La Sette, il «terzo polo» televisivo in cui si metamorfosa Telemontecarlo), Roberto Aprile (attivista nel «volontariato»), Gianfranco Bettin (sindaco di Mestre e protettore del sinistro Luca Casarini), Marco Boato (vicepresidente nazionale di LC, poi senatore verde), Giorgio Boatti (dirigente della sinistra editrice Baldini & Castoldi), Roberto «Nini» Briglia (direttore di Radio Popolare, giornalista al settimanale claudiomartellico/berlusconico Reporter, direttore del settimanale Epoca, direttore editoriale di Sorrisi e canzoni tv e di tutte le riviste della Mondadori berlusconiana, poi direttore di Panorama e del settore Comunicazione e Immagine della stessa editrice), Paolo Brogi (Corriere della Sera), Adele Cambria (già direttrice di Lotta Continua, ultrafemminista, il quotidiano centrosinistro Il Giorno), Toni Cappuozzo (inviato di telegiornali berlusconiani), Franco Carrer (manager), Mimmo Cecchini (assessore a Roma con l'ex-radicale ulivista Francesco Rutelli), Giovanni Damiani (ambientalista), Giovanni De Luna (studioso del Pd'A), Enrico Deaglio (direttore di Lotta Continua, poi a Reporter e l'Unità, subentra a Lerner quale conduttore di Milano Italia su Raitre, direttore di Diario della settimana, il settimanale de l'Unità edito dal supercapitalista Luca Formenton-Mondadori), Erri De Luca (juif honoraire, non tanto per essersi dedicato a «tradurre» libri veterotestamentari, quanto perché «sofferto» guru sterminazionista sul cattolico Avvenire e sul Corriere della Sera), Fiorella Farinelli (assessore a Roma con Rutelli), Franca Fossati (ultrafemminista, giornalista su varie riviste femminili, portavoce della ministra neocomunista delle Pari Opportunità Livia Turco, recuperata dal duo Lerner-Ferrara quale caporedattrice di Stanlio e Ollio, il programma poi abortito di La Sette), Antonio Guidi (demopsichiatra, ministro primoberlusconico per la Famiglia), Ciccio La Licata (giornalista a La Stampa), Paolo Liguori (giornalista a il Giornale, direttore del cattolico il Sabato, de Il Giorno e del programma TV berlusconiano Studio Aperto), Luigi Manconi (tra i più frenetici guru invasionisti e, nel massacro NATO, tra i più ràbidi esponenti antiserbi, attivo anche sul Corriere della Sera, deputato e segretario/portavoce dei Verdi, un figlio con la telegiornalista picista/PDS Bianca Berlinguer, figlia dell'ex segretario picista Enrico), Andrea Marcenaro (marito della Fossati, giornalista a Lotta Continua e Reporter, poi sempre più destrorso a L'Europeo, Epoca, Il Giorno, il Foglio di Giuliano Ferrara e Panorama), Giampiero Mughini (direttore di Lotta Continua in attesa di farsi pluri-imperversatore liberal e sportivo dal Piccolo Schermo, Panorama), Giuseppe «Peppino» Ortoleva (massmediologo), Carlo Panella (su Lotta Continua e Reporter, poi ai televisivi Studio Aperto e Fatti e Misfatti), Marco Revelli (ricercatore-istigatore antifascista), Claudio Rinaldi (direttore di Panorama e L'Espresso), Sergio Saviori (dirigente dell'editrice Bruno Mondadori), Adriano Sofri (su Lotta Continua, l'Unità, Reporter, Panorama, L'Espresso, la Repubblica e il Foglio, condannato coi sodali Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani quale mandante «morale» dell'assassinio del commissario Luigi Calabresi; dopo che il 24 gennaio 2000 la Corte d'Appello di Venezia chiude l'ottava revisione confermando la condanna del trio, Boato definisce il processo «il caso Dreyfus del 2000»), Guido Viale (ambientalista), Vincino (Vincenzo Gallo, vignettista sull'anarco-comunista il Male, sui picisti-neocomunisti Tango e Cuore, sui borghesi Panorama, il Foglio, Corriere della Sera e su Boxer, inserto satirico dell'«eretico» il manifesto).

    B – Della parallela mafia-lobby costituita dagli ex del Movimento Studentesco, il principale gruppo sessantottino, covo di picchiatori fratello-rivale di LC, sono gli ebrei Franco Piperno (poi fondatore/direttore di Metropolis e docente di Fisica all'Università della Calabria), il giornalista Stefano Jesurum (genero del goy Enzo Biagi, il top-giornalista per decenni imperversante su decine di giornali e in decine di teleprogrammi), il demoscopo Renato Mannheimer, il giornalista Giuliano Ferrara (notista su Epoca, Corriere della Sera e sull'effimero l'Italia settimanale, editorialista del settimanale lib-lab Tempi, anchorman sulle reti Fininvest/Mediaset, ex-comunista, ex-sessantottino ed ex-socialista divenuto ministro primoberlusconico per i Rapporti col Parlamento, fondatore-direttore del quotidiano Il Foglio e direttore di Panorama, del quale resta poi fondista, nel 2001 anchorman con Lerner a La Sette; marito della giornalista femminista Anselma «Selma» Dell'Olio, di madre «americana di origine russa» e padre pugliese, educata in collegio cattolico, la quale, dopo avere trascorso due «amori importanti» «entrambi ebrei. Un uomo d'affari e un compositore antropologo», e uno meno importante, il giornalista ebreo de l'Unità Franco Ottolenghi, nel 1987 impalma in Campidoglio il quarto Arruolato, e cioè il Ferrara, officiante l'ex-partigiano picista Antonello «Duccio» Trombadori). Seguono i goyim Mario Capanna (incantatore di dame dell'altaborghesia progressista, in particolare della proprietaria del Corriere della Sera Giulia Maria Crespi, poi deputato ultrasinistro e nostalgico rievocatore della «rivoluzione» mancata in Formidabili quegli anni), Mauro Rostagno, Luca Cafiero, Luigi Bobbio (figlio dell'acido pater patriae Norberto), «Popi» Saracino (poi docente liceale, condannato per stupro su una studentessa), «Chicco» Testa (poi verde e presidente dell'Enel prodian-dalemian-amatiana, confermato dal destrorso Berlusconi), la già detta Lucia Annunciata, Silvana Mazzocchi (poi giornalista de la Repubblica), il poi senatore picista-diessino Claudio Petruccioli, Sergio Cusani (l'ex «barone rosso» capobanda all'Università Bocconi, poi agente di Borsa para-socialista e ufficiale pagatore – 148 i miliardi ufficialmente girati a esponenti politici – del tangentista Enimont supercapitalista Raul Gardini; suicida nel 1993 Gardini, il Cusani viene condannato a cinque anni e cinque mesi per corruzione) e i top-telegiornalisti Lamberto Sposini di Canale 5 e Raiuno e Michele Cucuzza di Radio popolare e Raidue.

    C – Da Potere Operaio, Avanguardia Operaia e dalle Brigate Rosse proviene l'ebreo Lanfranco Pace, riciclatosi giornalista su il Foglio e recuperato, come la shiksa Fossati, da Ferrara a La Sette.

    D – Infine, dal maoistico Servire il Popolo giunge il salernitano Michele Santoro, poi livido top-anchorman sulle TV sia berlusconiane che pubbliche.







    punto 6. Gli immigrati fanno lavori umili/pesanti che gli europei non vogliono più fare. A parte la sempre più diffusa introduzione di macchinari robotizzanti e la prevedibile crisi di assorbimento della superproduttività industriale da parte di mercati sempre più saturi,

    a. che comporteranno a breve termine una disoccupazione epocale,

    b. è da vedere se sia davvero morale accettare che il «padrone» comprima, a vantaggio esclusivamente suo e non della comunità nazionale, i costi assumendo manodopera straniera da retribuire in nero o con salari inferiori,

    c. se sia davvero morale una posizione che vede l'Altro come mera merce e forza-lavoro, infischiandosene della creazione di più acuti problemi sociali,

    d. se davvero gli immigrati si adatterebbero a fare i lavori per i quali sarebbero stati richiesti, e in tutti i casi, fosse questo il motivo (anche se pretestuosa sembra la giustificazione degli invasori fondata sul proverbio soninké «dalle gumme ya mpasu kalle nga, meglio lavorare all'estero che morire in patria»... certo il concetto di «lavoro» suona differente da popolo a popolo; in ogni caso, scrive il «francese» Jean-Paul Gourévitch citando il rapporto dell'Haut Conseil à l'Integration del gennaio 2000, dei 120.000 immigrati in Francia nel 1998, solo il 5% lavora),

    e. se si avrebbe poi il coerente coraggio di rimandarli a casa quando più non servissero per i lavori per cui sarebbero stati richiesti, o di impedirne la mobilità in altri settori già saturi?... e impedirla, ovviamente, non solo a loro ma anche ai loro figli?,

    f. se davvero ne servono sempre di nuovi, stanti i milioni di allogeni più o meno criminali o nullafacenti già presenti (di fronte alla «necessità» di manodopera straniera, tuttora non quantificata al di là dell'inverecondo balletto di cifre buttate al vento dai «responsabili» governativi e industriali, semplicemente criminali sono i messaggi lanciati oltre-frontiera sul «bisogno» e sulla cecità e viltà dell'Europa),

    g. se sia davvero impossibile, da un lato attraverso l'eliminazione delle provvidenze clientelari e la riduzione dei sussidi di «disoccupazione» che ottundono la volontà di lavorare dei demoitaliani, dall'altro attraverso quegli adeguati incentivi economici che si renderebbero possibili liberando a favore dei connazionali le decine di migliaia di miliardi oggi dissipati pro-invasori (costruzione e gestione di centri di raccolta, strutture di «accoglienza» o repressione, edilizia popolare e servizi sanitari adeguati alle condizioni di salute spesso precarie dei nuovi «concittadini», scuole in lingua madre, edifici di culto, contributi assistenziali più o meno pro-tempore, «ricongiungimenti familiari» anche fino al quarto grado e con pluri-coniuge se musulmani, etc.), la razionalizzazione della forza-lavoro di un popolo di sessanta milioni di persone. Riordino in verità realizzabile solo da uno Stato Etico Nazionale, non certo dal fantoccio dis-animato dell'anarchismo liberista.





    punto 7. Gli immigrati salveranno l'Europa dal collasso dei sistemi pensionistici. E come no... la salvezza verrebbe quindi non dalle pur possibili centinaia di migliaia di occupati in regola contributiva, *** ma dalle decine di milioni di nullafacenti, vulavà, raccoglitori di pomodori, venditori ambulanti senza licenza, venditori di fiori o altra cianfrusaglia ai semafori e nei ristoranti, menestrelli vaganti per le strade, accattoni, spacciatori, prostitute, vandali ottusi, criminali e altra genìa, individui sempre più numerosi, aizzati in primo luogo dal «buon cuore» delle sanatorie cattosinistre e dalla mancanza di reazioni dei paesi invasi. Inoltre, in futuro le pensioni agli Attuali Soccorritori non potranno che essere pagate da milioni di sempre Nuovi Soccorritori... e questo ovviamente a prescindere da ipotesi di riordino dell'intero sistema pensionistico, ad esempio con elevamento dell'età pensionabile (qualora non vi fossero giovani a rimpiazzo dei pensionandi, e in attesa della risalita della natalità europea) e con riduzione degli immorali cumuli delle «pensioni d'oro», sistema pensionistico da decenni saccheggiato per i più vari motivi di interesse, sia personali che demagogico-elettorali, proprio dagli invasionisti di ogni risma.

    *** In realtà, sui 900.000 stranieri ufficialmente occupati, nota Alberto Ronchey nell'agosto 1999, regolari contribuzioni vengono versate solo da 300.000, e per importi minimi: i 2500 miliardi ufficialmente versati all'INPS sono nulla, assolutamente nulla rispetto ai 300.000 miliardi del costo dei pensionamenti. Inoltre, numerosi accordi bilaterali prevedono il pagamento all'estero delle pensioni ai lavoratori stranieri rientrati nei loro paesi e, in alternativa, una norma della riforma Dini del 1995 impone di rimborsare i contributi da loro versati. Infine, coloro che avranno acquisita la cittadinanza beneficeranno anch'essi, come ogni altro italiano, dell'integrazione al minimo delle pensioni sol che abbiano versato qualche contributo, o delle pensioni sociali e di altre forme di assistenza quando non abbiano mai versato nulla.





    punto 8. E comunque gli immigrati non sono molti e anzi sono pochi, rispetto al totale degli europei. A parte che avvicinarsi a un fienile o a un bidone di benzina con un fiammifero acceso non è poi molto diverso dall'avvicinarvisi con in mano una torcia, il «saldo» allogeno ha non solo l'effetto immediato degli invasori testé giunti, ma anche, ben più pericoloso e incontrollabile in quanto impostato su più toccanti motivi «umanitari», quello differito dei ricongiungimenti familiari (integrando Gourévitch, Guillaume Faye riporta, nel n.1 di J'ai tout compris!, che sui centomila permessi di soggiorno rilasciati in Francia nel 1998, solo 4149 lo sono stati a titolo di lavoro, 4342 a titolo di rifugiato e i 90.000 restanti per ricongiungimento) e, soprattutto, delle nascite sul luogo, aspetto ancora più pericoloso.

    Egualmente, nessun limite logico esiste all'arrivo in Europa di decine di milioni o miliardi di allogeni, stante che la causa prima dell'invasione è demografica, il primo problema dell'esubero umano in altri continenti essendo, appunto, una figliazione conigliesca da parte di quelle genti. Cosa della quale – a parte l'introduzione missionaristica di cure mediche e vaccini – non sono certo gli europei a portare la responsabilità. Come dire: agli altri un'attività sessuale incontrollata, a noi rimediare alle conseguenze di una tale frenesìa.

    Come nel 1995 aveva scritto Damiano Marabelli nella memoria difensiva contro la persecuzione giudiziaria scagliata contro il Fronte Nazionale proprio a motivo della preveggenza da esso mostrata quanto agli ingravescenti danni dell'invasione: «Coloro che si battono per abolire ogni controllo alle frontiere dell'Europa, danno a intendere all'opinione pubblica che dal Terzo Mondo provenga un flusso migratorio modesto. Ciò è falso. Sulla base dei dati forniti dall'Istituto Centrale di Statistica, è possibile stimare, ad esempio, che il numero complessivo di persone allogene immigrate in Italia nel volgere degli ultimi quindici anni ammonta a circa 1,9 - 2,3 milioni. Peraltro, la dimensione di questa immigrazione diviene ancora più inquietante se proiettata nello scenario dei prossimi due decenni, periodo nel quale le sole popolazioni nordafricane limitrofe alla nostra penisola avranno un incremento demografico pari a 165 milioni di unità».

    E si pensi, ripetiamo, che a tale invasione hard, legale, illegale e sanatorizzata, si aggiunge la colonizzazione soft di nascite, naturalizzazioni, ricongiungimenti familiari anche fino al terzo e al quarto grado, adozioni, matrimoni misti, etc.

    Conferma «d'autore» della tensione demografica che attraversa il Mediterraneo la si trova in XXI secolo, periodico mondialista della mondialistica Fondazione Agnelli (il cui primo presidente fu l'«europeista» massone Jean Monnet): «Mentre nei paesi europei della sponda Nord l'aumento degli anziani e i ridotti tassi di natalità lanciano nuove sfide ai sistemi di welfare, nei paesi della sponda Sud, dalla Turchia al Marocco, il ritardo nel completamento della transizione demografica porterà ancora ad un lungo periodo di espansione. Il rapporto numerico tra mondo arabo e Comunità Europea si sta capovolgendo: entro il 2010 avverrà il sorpasso». Si consideri che se nel 1940 la popolazione dei tre paesi nordafricani sotto dominio francese era la metà di quella francese, nel 2025 Marocco, Algeria e Tunisia ne avranno una tre volte superiore.

    Non dimentichiamo, poi, che le centinaia di migliaia di individui che ogni anno sciamano nel Vecchio Continente (e tacciamo delle centinaia di milioni di contadini africani e cinesi che, «spiazzati» dall'inarrestabile desertificazione del suolo africano e cinese e, per l'ex-paradiso maoista, dalla frenetica industrializzazione, sempre più cercheranno qualche «speranza» non solo nelle terre siberiane o nello spopolato subcontinente australiano, ma proprio in Europa) aggraveranno la già diffusa insofferenza degli europei verso l'invasione, oggi antidemocraticamente repressa dal Sistema coi mezzi più vari, dalla diffamazione dei reprobi a milionarie pene pecuniarie ed al carcere.

    Riscontro qualificato di tale tendenza viene nel luglio 1993 da Eurobarometro, un'indagine demoscopica a carattere periodico patrocinata dall'Unione Europea. Da tale ricerca risulta che il 64% degli italiani, il 60% dei tedeschi, il 56% dei francesi e il 54% dei belgi ritiene ci sia, nei rispettivi paesi, una presenza eccessiva di stranieri. Talvolta – e come meravigliarsene? – si arriva financo a esplosioni di «razzismo e xenofobia» che colgono «di sorpresa» i fautori dell'abolizione dei controlli sull'immigrazione ( comprese le anime pie del convegno onusico che nel dicembre 2000 a Palermo hanno vincolato i paesi europei al divieto di introdurre nelle legislazioni la fattispecie di reato di ingresso clandestino !), i quali allora si scagliano contro le «paure irrazionali» o le presunte «responsabilità di demagoghi» che fomenterebbero l'odio verso gli stranieri. Il tutto, non venendo neppure sfiorati dal sospetto che alla base di tale «irrazionalità» ci siano da un lato quegli imperativi genetici di fitness radicati nella filogenesi (e che è certamente difficile «sublimare» nei contesti sociali degradati delle metropoli europee), dall'altro un istinto di difesa, sano e naturale, contro realtà criminali. Criminali non solo per nobili basi ideologiche, ma anche dal «volgare» punto di vista dell'egoistica incolumità personale e dell'ordine pubblico.

    A causa della fecondità debordante di altri continenti e della denatalità europea (6,9 per i negri dell'Africa occidentale, 3,2 per i magrebini, 1,7 per i francesi, rileva Gourévitch; in alcune regioni d'Italia, come in Liguria, il tasso europeo di 1,5 precipita a 0,74, il che significa estinzione nell'arco di tre o quattro generazioni... estinzione in ogni caso agevolata dalle autorità statali, che continuano a finanziare e incentivare celibato, contraccezione ed aborto) *** negli ultimi due decenni l'Europa ha perso quella che nella storia demografica del pianeta è l'equivalente della perdita da una guerra mondiale. Le cifre sono eloquenti: nel 2037, tra neppure quarant'anni, gli italiani saranno 45 milioni, 12 in meno rispetto ad oggi. In vent'anni, tra il 2000 e il 2020, i soli paesi della Comunità Europea perderanno 10 milioni netti di abitanti, mentre quelli del Nordafrica saliranno di 100 milioni e verranno attirati nelle «società aperte» dalla cattiva coscienza instillata negli europei dai predicatori del multirazzialismo e della droga, peraltro coerente coi postulati liberali, dell'edonismo individualista.

    *** Fenomeno lucidamente pre-visto dai regimi fascisti settant'anni or sono e negli anni Settanta aggravato, col pretesto di «salvare l'ambiente», dalla dissennata predicazione malthusiana dei verdi post-sessantottini (salvo poi difendere a spada tratta l'invasione multirazziale e richiedere le porte aperte per «rimpiazzare» la mano d'opera «mancante» per devastare ulteriormente il globo terracqueo!).







    punto 9. E comunque l'Europa è moralmente tenuta, dal proprio codice etico fondato sull'«amore» cristiano e sulle sue propaggini liberali e socialcomuniste, a dare ricetto agli «sventurati» per motivi economici (quali che siano i loro meriti o demeriti o colpe: «anche loro devono pur vivere», guaiscono i benpensanti, giustificando il degrado, l'illecito, l'occupazione di case «vuote», il piccolo reato perpetrato dagli invasori clandestini come dai «regolari», obolizzando e compatendo i vulavà e i vucumprà, in attesa di fare altrettanto con i vuspaccià, o anche – commoventi episodi – «riscattando» e «redimendo» dai protettori prostitute variamente coloured o moldave o ucraine o romene o albanesi a seconda dei gusti), nonché giuridicamente obbligata da norme internazionali e dalle carte dell'ONU e dei Sacrosanti Diritti (l'Italia, inoltre, dall'art.10 della Costituzione) a praticare una politica di asilo indiscriminato per chiunque si dica «perseguitato», sia egli un singolo essere umano o siano decine di milioni di individui. Ognuno dovrebbe sapere che dietro persecuzioni e conflitti ci sono sempre, in modo diretto o indiretto, la grande mano del Sistema, come nel caso delle decine di migliaia di criminali albanesi, inviati in Europa a destabilizzarne le nazioni, e le piccole mani di governi che, come quello di Rabat per l'ingravescente irresponsabile esubero demografico marocchino, o quello impunito di Ankara per i curdi, vogliano liberarsi di milioni di indesiderati a spese altrui! ***

    *** Aspetti acutamente analizzati da John Kleeves in Una terra occupata. Operazione albanesi - Come i ceceni contro la Russia, così gli albanesi contro l'Europa, «Rinascita», 4 febbraio 2001 e in L'invasione continua - E l'Italia è complice della pulizia etnica turca, «Rinascita», 7 giugno 2001.

    Puntuale, contro l'invasionismo quale «ideologia dell'espiazione», propagata in prima fila dal sinistrismo europeo, Daniele Giannetti sul quotidiano della Lega Nord: «All'indomani della caduta del muro di Berlino e dell'implosione del comunismo, vittima di quelle stesse contraddizioni che pretendeva di riscontrare negli altri, il marxismo persiste ancora in modo massiccio nella società europea, laddove a una clamorosa disfatta sul piano politico e su quello economico non è seguita una sconfessione su quello culturale. Grazie all'intuizione gramsciana che investe l'"intellettuale organico" del ruolo di predicatore – profano – in seno alla "società civile", l'intero apparato culturale, informativo e massmediatico è ancora oggi perfettamente allineato alle posizioni di quel sistema livellatore delle differenze che sembra ormai essere stato assunto a modello "perfetto" e universalmente valido. Attraverso simili, formidabili strumenti di formazione, persuasione e repressione la sinistra gode quindi di una posizione privilegiata, "egemonica", nel dettare i tempi per la preparazione, l'accettazione e l'instaurazione della società multietnica. L'altra e forse più importante valutazione in ordine alle motivazioni recondite che animano i postcomunisti [leggi meglio: neocomunisti] nella realizzazione del loro progetto va ricercata e individuata a livello psicologico o, più precisamente, psicopatologico. La sinistra odia l'Europa: la odia profondamente perché vede in lei la scandalosa e oltraggiosa testimonianza di una resistenza culturale che ha rifiutato e rigettato l'opzione comunista combattendola e sconfiggendola. Il grande peccato della civiltà occidentale [leggi meglio: europea] risiede proprio in questo: nell'aver compreso come lo schema ideologico comunista fosse irriducibilmente alieno alla storia, alla cultura, alla civiltà europea e nell'essersi mostrata immune di fronte alle promesse di "felicità" e di "paradiso terrestre" che il marxismo scandiva regolarmente».

    Ed ancora: «La "trasvalutazione" di tutti quei valori così peculiarmente europei che la filosofia marxista-leninista intendeva operare onde giungere a un "nuovo ordine" edificato sulle macerie di una civiltà sottoposta al procedimento della "tabula rasa" si ripresenta oggi sotto le spoglie di un "terzomondismo" nutrito dal senso di colpa – peraltro indotto – che l'uomo europeo prova di fronte alle presunte "ingiustizie" di cui le popolazioni extraeuropee sarebbero vittime. Il terzomondismo assolve allora la funzione di scardinare l'identità europea assicurando, da una parte, una copertura ideologica all'invasione allogena e colmando, dall'altra, il vuoto lasciato dalla dinamica classica nella misura in cui alla dittatura del proletariato succederà la società multietnica e alla società senza classi subentrerà la ri-formata e ri-nata civiltà europea scaturita dall'integrazione e dalla fusione con i nuovi venuti ».

    Ed ancora, concludendo: «L'Europa, in questo senso, assurge per la sinistra a simbolo delle proprie frustrazioni e delle proprie paranoie, a specchio impietoso dei propri fallimenti, a scomodo testimone dei propri crimini [...] Qualsiasi opposizione all'ideologia multirazziale, infatti, seppur fondata sul ragionamento logico, sulle esperienze storiche, sui dati di fatto inoppugnabili, su fredde statistiche, è vana di fronte all'utilizzo di slogan che si caratterizzano, sempre più, come formule magiche irrazionali e prive di un riscontro reale atte a esorcizzare un presunto, incombente cataclisma sociale ("emergenza razzismo", "allarme xenofobia", "deriva populista", "rigurgiti nazisti", etc.). Su queste basi appare del tutto evidente l'intenzione di radicare nell'opinione pubblica il concetto di "antirazzismo militante" quale "sentinella democratica" delle istituzioni alla stregua di ciò che aveva rappresentato per il sistema l'"antifascismo militante" negli anni passati».

    «Si potrebbe completare il quadro» – aggiunge lo svizzero Eric Werner – «osservando che l'attuale regime occidentale s'adopera con zelo a far sì che la maggioranza autoctona della popolazione acquisisca sempre più una mentalità e i riflessi che gli antropologi e gli storici della cultura considerano abitualmente come caratteristiche delle minoranze, al primo posto l'odio-di-sé (Selbsthass) e una tendenza patologica all'autodenigrazione e all'autorazzismo. I massmedia invitano in permanenza i cittadini a espiare la loro colpa, a chiedere perdono per fatti, reali o immaginari, che i dirigenti proclamano al contempo, senza tema di contraddirsi, "inescusabili". Fatti che non si rimprovera ai cittadini di averli commessi loro stessi, bensì i loro genitori, nonni o anche antenati più o meno lontani. Perché, come nelle società primitive, la colpevolezza è collettiva, si trasmette di generazione in generazione. Si aggiunga che tale colpevolezza è a senso unico e che naturalmente a nessuno verrà in mente l'idea di rimproverare "l'Altro", sia chi sia, di essersi mostrato in passato avido, crudele, odioso, intollerante, vendicativo, etc. È impensabile. "L'Altro" ha sempre ragione e mai torto. E naturalmente ha tutti i diritti».

    Altrettanto chiaro, rilevando l'odio-dei-propri-simili che muove gli «antirazzisti», Rémi Trastour: «La propaganda cosiddetta "antirazzista", perseguendo una politica "multirazziale", cerca di indurre nelle etnie recalcitranti sentimenti di colpa favorevoli alle sue teorie, con l'obiettivo, ne sia o meno cosciente, di rendere preponderanti certe etnie a scapito delle etnie autoctone o dominanti».





    punto 10. E comunque, le migrazioni sono inarrestabili e tutte le società del futuro saranno multirazziali. Sfruttando il sottile ricatto psicologico dell'«inevitabilità» e della «coraggiosa» apertura alle «sfide», l'invasionista Gourévitch, farneticando di «una lotta contro la rassegnazione in nome della sperimentazione di soluzioni nuove, coraggiose, destinate ad essere valutate prima che generalizzate», guaisce: «Al contempo dobbiamo riconoscere il carattere ineluttabile di queste migrazioni dal Sud al Nord, che nessuna politica comune europea può frenare o impedire. L'unica cosa possibile è armonizzarle e regolamentarle in un mondo retto dalla globalizzazione, ove nessuno Stato né gruppo di Stati può alzare barriere definitive contro il flusso di persone, merci e messaggi chi dilagano per il pianeta [...] Questa xenofobia richiede un trattamento terapeutico. Si può fare sparire la sofferenza ricorrendo a decreti che scaccino il male (l'espulsione dell'altro) o a una cura di lunga durata che porti ad associare l'altro alla sua guarigione [...] Non scamperemo all'avvento di una società di meticci [...] Non scamperemo ad un'etica della transazione».

    «Premetto che io non credo agli inevitabili. Chi li afferma li produce. Dio li impicchi» – ribatte Sartori – «Ma la cultura della resa non proviene soltanto dagli "inevitabilisti". Proviene anche dai "mammisti" (copiosamente annaffiati dalle immagini lacrimose della televisione). E viene alimentata da chi ritiene che una società multietnica e multiculturale sia "buona", che sia da desiderare e da promuovere. Vediamo. L'argomento degli inevitabilisti è che tanto non ce la facciamo, che la resistenza è impossibile. Vedi, ci dicono, gli Stati Uniti, che vengono perforati al loro Sud da messicani e sudamericani a dispetto di ogni sorta di barriere e controlli. Sciocchezze. Se quei controlli non ci fossero, gli Stati Uniti verrebbero lestamente invasi non da centinaia di migliaia ma da milioni e milioni di clandestini. Idem per l'Europa. Se non resistesse, verrebbe sommersa; mentre ora come ora, o ancora, non lo è. L'argomento dei mammisti è invece che i derelitti del mondo debbono essere accolti per carità cristiana o perché è bene che sia così. Che far del bene sia bene, lo ritengo anch'io. Ma con un minimo di raziocinio. Volere il bene non equivale a conseguirlo. Le buone intenzioni, si sa, lastricano l'inferno. Oggi c'è chi ritiene buona la società multietnica. Ma lo è davvero? Il dubbio è più che lecito.

    «C'è poi, all'altro estremo, l'argomento utilitario. Non importa che gli extracomunitari piacciano o non piacciano; il fatto resta che sono utili, che ci servono e che lo sviluppo economico li impone. Senza negare che anche l'economia abbia le sue ragioni, questo argomento è particolarmente malposto. Importare mano d'opera non è lo stesso che importare immigrati, e cioè potenziali cittadini. Inoltre entrare in un Paese legalmente con un contratto di lavoro in tasca è un conto; entrarci illegalmente, e spesso senza possibilità o capacità di lavoro, è un altro. E il punto è che non è certo l'economia che ci chiede di trasformare il lavoratore-ospite nell'immigrato-cittadino. Dunque il problema degli extracomunitari è malamente librato tra inevitabilisti, mammisti e utilitaristi malveggenti».

    Quanto alla presunta multirazzialità planetaria, ben ribatte, in Archeofuturismo, Guillaume Faye: «Il cosmopolitismo egualitario ha suscitato paradossalmente il razzismo globalizzato, per ora sotterraneo e implicito ma che tra breve si manifesterà apertamente. I popoli messi uno di fronte all'altro, a stretto contatto nella "città globale" che è diventata la Terra, si stanno preparando allo scontro e l'Europa, vittima di una colonizzazione di popolamento, rischia di diventare il principale campo di battaglia. Coloro secondo i quali il meticciato generalizzato è già scritto nel futuro dell'umanità si sbagliano, perché esso dilaga solo in Europa. Gli altri continenti, soprattutto l'Africa e l'Asia, costituiscono sempre più dei blocchi etnici impermeabili, che esportano i surplus di popolazione, ma non ne importano ».

    Conclude, a ragione, Giovanni Damiano: «In breve: gli "argomenti suesposti", oltre ad essere tra loro eterogenei, e in fondo risibili, sono, soprattutto, assolutamente inadatti, per la loro pochezza, a giustificare eventi di tale portata: è grottesco, ad esempio, il solo pensare che l'avvento di una società multirazziale possa essere auspicato perché in grado di risolvere il problema delle pensioni o perché i nostri nonni erano emigranti!».

    Più ampio ancora è lo sguardo del procuratore dell'Aquila Bruno Tarquini nella Relazione inaugurale dell'anno giudiziario 1999: «Negli ultimi tempi il flusso migratorio ha assunto dimensioni così rilevanti [...] che si è indotti a ritenere fondata la tesi di chi sostiene che si tratti di una vera e propria invasione dell'Europa: voluta e finanziata da centrali operative internazionali, allo scopo di determinare col tempo l'ibridazione dei popoli e delle religioni, onde possano realizzarsi più facilmente e più compiutamente progetti di dominio universale».

    A fronte alla lucidità intellettuale e al coraggio morale di Tarquini, ributtante è invece la «compassione» del procuratore di Cassino Gianfranco Izzo – inquirente sull'assassinio dell'undicenne Mauro Iavarone, il 18 novembre 1998 stuprato e strangolato da zingari – il quale, deduciamo, ben avrebbe visto colpevole un italiano: «Quando ad un certo punto le indagini si sono indirizzate verso quei due ragazzi nomadi, mi si è stretto il cuore. Mi creda, sospettare due nomadi, per me, è stato un vero sacrificio». Invero, il ventenne rom Denis Bogdan e il diciottenne peruviano Erik Schertzberger il 30 marzo 2001 saranno condannati rispettivamente all'ergastolo e a venti anni di carcere. Politically correct la protesta del Bogdan, che dimostra di avere capito la lezione: «Razzisti, mi condannate perché sono zingaro».

    * * *

    La distruzione alimentare e sociale del Terzomondo

    «Non insisterò sul fenomeno» – scrive nel 1911 Werner Sombart – «poco rilevante, del resto, che gli ebrei sono a capo, o almeno per molto tempo sono stati a capo, di parecchi e importantissimi settori commerciali, giungendo a monopolizzarne alcuni: il grano (principalmente nell'Ovest), il tabacco, la lana. Già a prima vista si comprende come si tratti dei tre fasci nervosi principali dell'economia americana, per cui chi detiene il monopolio di questi tre potenti settori dell'economia deve necessariamente svolgere una funzione di predominio nel contesto economico generale. Come ho appena detto, non insisto eccessivamente su tale circostanza, proponendomi di fondare la mia tesi del ruolo egemonico degli ebrei su ragioni molto più profonde».

    Nel 2000 le multinazionali con capacità di ricatto mondiale nel commercio di cereali, Cina compresa, sono cinque: quattro in mani ebraiche e una ebreo-controllata (ben minore è la sesta, l'italiana Ferruzzi, giunta alla ribalta negli anni Settanta ad opera di Serafino Ferruzzi e potenziata dal genero Raul Gardini), chiamate, in analogia con le compagnie petrolifere, «le sorelle del grano». Nell'ordine:

    1) Cargill di Minneapolis, della famiglia amero-scozzese Mc Millan, socio il «bielorusso» Julius Hendel. Prima delle cento imprese multinazionali agroalimentari elencate da Margherita Scoppola, fatturato totale 1997 di 56.000 milioni di dollari (oltre 100.000 miliardi di lire), con le altre quattro più la Ferruzzi la Cargill oligopolizza l'80% del mercato mondiale dei cereali e, con Continental Grain, Dreyfus e Bunge y Born, l'80% di quello dei semi oleosi. Nel 1978 essa acquista il secondo più grosso produttore statunitense di carne, la MBPXL Corporation di Wichita/Kansas, mutandone il nome in Excel e trasferendo gli impianti a Dodge City. Scrive Jeremy Rifkin: «La decisione di Cargill di aggiungere al proprio portafoglio aziendale attività di lavorazione delle carni bovine rifletteva la tendenza all'integrazione verticale che caratterizzava la scena imprenditoriale degli anni Settanta; segnalava anche il consolidamento finale dell'industria della carne, con il raggruppamento di cerealicoltura, allevamento e macellazione e trasformazione della carne in un unico, grande complesso bovino [...] Oggi, i tre grandi dell'industria della carne esercitano un significativo controllo su quasi tutte le fasi del processo produttivo della carne: posseggono le aziende che producono le sementi utilizzate per le colture di cereali destinati all'alimentazione bovina; producono i fertilizzanti e i prodotti chimici utilizzati sui terreni e sulle colture; sono proprietari di stalle intensive e di mandrie bovine sempre più numerose». ***

    *** Il primo grande dell'industria della carne, la IBP Iowa Beef Packers, acquistata nel 1981 dalla Occidental Petroleum del miliardario ebreo filo-comunista Armand Hammer, nel 1988 macella il 29% dei bovini USA e controlla il 35-40% del mercato USA della carne bovina confezionata. Il terzo, la Read Meat Company, è creatura del colosso alimentare Con-Agra, dopo l'acquisto della Swift e di altre imprese.

    2) Continental Grain di New York, della famiglia ebraica americana Fribourg. Il capo-casata è Michel, nato ad Anversa nel 1913. Cento anni prima il bis-bisnonno Simon riforniva di granaglie gli eserciti napoleonici. La prima filiale oltreoceano viene aperta a New York nel 1922; nel maggio 1940, all'arrivo in Belgio dei tedeschi, Michel si porta negli USA con tutti i beni liquidi. Il commercio con Mosca si apre nel 1963 con la vendita di 800.000 tonnellate di grano; nel novembre 1971 viene contrattata la vendita di 2,9 milioni di tonnellate di cereali, soprattutto grano, orzo e avena; nel luglio 1972 la cessione all'URSS al prezzo «politico» di 1,68 dollari a bushel porta ad un rialzo dei prezzi sul mercato americano che giunge a 5,24 dollari, mentre il mais triplica e la soia quadruplica per compensare il basso prezzo applicato all'URSS. Nel 1999 la CG si fonde con la Cargill a formare il supercolosso del settore alimentare.

    3) Dreyfus di Stanford e Parigi, della famiglia «francese» Louis-Dreyfus.

    4) Bunge y Born di Buenos Aires, della famiglia «argentina» Hirsh (tredicesima nell'elenco Scoppola con fatturato 1997 di 12.000 milioni di dollari).

    5) Garnac di Chicago e Losanna, fondata nel 1877 dalla famiglia «svizzera» André, la quale, in difficoltà negli ultimi anni Novanta, nel marzo 2001 alza bandiera bianca davanti a 43 banche creditrici, affidandosi a una procedura prefallimentare.

    Come scrive Giovanni Cesare Bianco, tale pentacipite superlobby economico-politica, mai quotata in Borsa e che non pubblica bilanci, è «molto aggressiva e determinata verso potenziali rischi e concorrenti, spregiudicata e rapace nei rapporti con contraenti, produttori ed acquirenti, quanto illuminata nei rapporti internazionali, votata al superamento della guerra fredda, alla composizione pacifica di ogni tensione locale o mondiale, alla massima apertura dei mercati e ad una politica internazionale molto avanzata e democratica, specie col blocco dei paesi comunisti ed asiatici [...] L'espansione innesca un nuovo ciclo di lotta oligopolistica nello schieramento ricordato, violenta e senza esclusione di colpi, quindi con costi elevati ed esiti incerti, e ciò pur in presenza di una situazione configurabile come oligopolio collusivo su scala mondiale. Conseguenti ripercussioni sono l'esaltazione dei corsi sui mercati, relativa inefficienza e sottoutilizzazione delle capacità produttive, possibilità di operare in termini fortemente speculativi».

    Similmente Tony Spybey: «Le operazioni di queste società sono talmente estese che, considerata l'importanza del grano nella dieta umana, nel loro complesso esse formano il nucleo centrale del sistema alimentare globale. La portata delle loro operazioni è talmente vasta che esse impiegano la tecnologia satellitare per stimare l'offerta globale quando i cereali stanno ancora crescendo nelle praterie e nelle steppe dei vari continenti. Morgan [in Merchants of Grain, Viking Press, 1979] le presenta in questi termini: "Le società dei cereali furono coinvolte nel caso delle tanto controverse e pubblicizzate vendite di grano americano all'Unione Sovietica nel 1972. Fu solo però nell'anno successivo che, con il quadruplicarsi del prezzo del petrolio, si approfondì la consapevolezza dell'opinione pubblica sull'importanza strategica delle risorse fondamentali". Come già accennato, infatti, la crisi del petrolio del 1973 portò lo scompiglio nei prezzi delle merci internazionali. Il grano, essendo un alimento di prima necessità, è anche un bene essenziale e strategico a tutti i livelli, eppure il corso delle azioni di queste società non viene quotato in Borsa, esse non pubblicano rendiconti e nel complesso sono controllate da un'oligarchia di sette famiglie. Si tratta di società che esercitano un impatto certamente transnazionale su una rete integrata di domanda e offerta, che comprende agricoltori, intermediari, spedizionieri, mugnai, fornai, supermercati e consumatori in tutti e cinque i continenti».

    Della potenza delle Cinque Sorelle relaziona anche la Scoppola: «Pur svolgendo un ruolo centrale nel funzionamento dei mercati di alcune commodities [derrate] di base, le sei multinazionali sono rimaste nell'ombra per alcuni decenni. Questo alone di riservatezza, e perfino di segretezza, è stato anche favorito dalla struttura proprietaria delle imprese: una sola famiglia, infatti, controlla le quote di maggioranza della casa madre e di quasi tutte le filiali; inoltre i manager del gruppo provengono frequentemente dalla stessa famiglia o sono comunque legati ad essa attraverso rapporti di parentela. La concentrazione della proprietà e del management nelle mani di una sola famiglia ha consentito alle multinazionali di operare in un clima di estrema riservatezza, non dovendo rendere conto all'esterno delle strategie di impresa».

    La potenza delle Cinque Sorelle si esplica anche in politiche aziendali volte alla diversificazione in sempre nuove attività, tendenzialmente tutte a rischio contenuto, nei settori bancario, assicurativo, immobiliare e industriale. Di converso, confrères attivi in altri campi prendono sotto tutela altri settori alimentari strategici: vedi il superspeculatore ex-«ungherese» George Soros, che dopo avere investito miliardi di dollari in giganteschi complessi alberghieri e per uffici a Città del Messico, partecipato ai venezuelani Banco Provincial e Fondo de Valores Immobiliarios, a Bogotà al Banco de Colombia, in Brasile a ditte immobiliari e alla telefonica Telebras, a ditte immobiliari guatemalteche e, quanto all'Argentina, ad imprese di costruzione, catene alberghiere, centri sportivi, centri commerciali e primarie ditte immobiliari, prende sotto controllo il più vasto dei parchi-bestiame argentini, comprendente a fine 1997 oltre 160.000 capi.

    E a fine secolo tutti i settori affaristici sono talmente intricati che il mondo assiste, impotente, ai più impensati, ma sempre remunerativi, sconfinamenti. Nessuna sorpresa, quindi, se Arianna Dagnino ci avverte – oltre che delle consimili imprese della Virgin dell'«inglese» Richard Branson e della Monsanto del superamericano Robert Shapiro, che acquista terreni in Africa per sperimentare, indisturbata, le nuove, redditizie culture transgeniche approvate dal confratello Gary Goldberg, capo dell'American Corn Growers Association, "Associazione dei coltivatori americani di grano" (nel 1999 negli USA sono transgenici il 40% del raccolto di mais e il 60% della soia) – che Soros, «il genio delle speculazioni finanziarie», punta ora «sull'Africa, sull'agricoltura, sulla natura e su un bene che è destinato a scarseggiare: lo spazio»:

    «Saremo pure all'economia delle idee e alla ricchezza impalpabile dei flussi di informazione, ma la terra, bene fisico per eccellenza, rimane un asset [risorsa finanziaria]. E George Soros l'ha capito. Mentre i più fanno a gara per salire sul vascello dell'information technology, alcuni grandi investitori internazionali stanno puntando su ciò che l'Occidente pensava già di dover gettare fuori bordo: la terra. Terra come fornitrice di materie prime, di beni agro-industriali o minerali; terra su cui costruire case e complessi turistici; terra semplicemente come spazio (un bene che, a differenza delle idee, è limitato e tende sempre più a scarseggiare).

    «Ma dove stanno acquistando i finanzieri delle city di New York e Londra? Soprattutto nel continente dimenticato, l'Africa. È questa la prospettiva strategica di società di investimenti come la londinese Blakeney Management – specializzata in mercati emergenti e unica, nel suo genere, a focalizzare i propri interessi esclusivamente in Africa e nei Paesi Arabi – che oltre a investire in azioni sulle borse locali ha cominciato ad acquisire società proprietarie di tenute e piantagioni. Dietro Blakeney Management ha fatto spesso capolino George Soros [...] Il Soros Fund Management, infatti, fa parte del consorzio di investitori stranieri che, capeggiato da Blakeney Management, nel 1997 divenne il maggior azionista di African Lakes Corporation, una trading company [da to trade «commerciare/trafficare/approfittare/speculare», e quindi: compagnia di commercio/speculazione] quotata a Londra e da oltre un secolo attiva nell'Africa subequatoriale, dove è proprietaria, soprattutto in Malawi e Zimbabwe, di piantagioni e foreste. La stessa African Lakes ha ora acquisito Automotive Export Supplies, distributore di Land Rover e BMW in dodici paesi africani».

    Inoltre, «la presenza invisibile di George Soros si fece sentire anche quando nel 1998 Blakeney Management – il cui fondo d'investimenti per l'Africa include una coppia di banche newyorkesi e due fra i maggiori fondi pensione inglesi – divenne insieme ad African Lakes il maggior azionista di Lonrho Africa, una delle più importanti trading company del continente, quotata sia a Londra che a Johannesburg. Con sede a Nairobi, Lonrho Africa è proprietaria di grandi piantagioni di cotone, tè, canna da zucchero, enormi fattorie per l'allevamento di bestiame e immense foreste da taglio. I suoi interessi, radicati anche nel turismo e nella distribuzione di auto e macchinari industriali, toccano Ghana, Kenia, Uganda, Mozambico, Sudafrica, Mauritius, Zambia e Malawi. Sempre fra le società con un interesse in Lonrho Africa si trova un altro dei protagonisti di questo nuovo scramble for Africa [lotta per l'Africa]. È African Plantations, anch'essa associata a Soros. African Plantations Corporation è costituita da un gruppo di finanziatori lungimiranti, "convinti che le grandi piantagioni del continente abbiano di fronte a sé un futuro promettente, alla luce della crescente domanda di prodotti agro-industriali sui mercati internazionali e della concomitante riduzione di terre arabili nel resto del mondo", come recita il profilo aziendale. Ha acquistato grandi piantagioni di tè e caffè in Malawi, Tanzania, Zambia e Zimbabwe e vuole costruire la più importante società di produzione di tè e caffè di tutta l'Africa, con ramificazioni anche nelle foreste da taglio e nelle piantagioni di alberi della gomma [...] D'altronde persino un avveduto e ascoltato international investor come Jim Rogers, da un anno in giro per il pianeta per analizzare di persona i vari mercati, consiglia di puntare sulle materie prime: riso, cotone, lana, prodotti minerari. Tutta ricchezza che si può ancora toccare con mano».

    A causa della politica agricola condotta dall'Occidente, in testa gli USA, nei confronti del Terzomondo, le gigantesche holding multi-transnazionali, in ispecie le Cinque Sorelle dei cereali, sono le responsabili prime di tutta una serie di fenomeni innescati

    1. dal mutamento delle colture e dalla sostituzione dei cereali locali – in Africa, ad esempio, miglio e sorgo – con monocolture più redditizie per gli acquirenti ma ipersfruttatrici del suolo: caffè, arachidi, banane, ananas, soia e altri legumi, zucchero, vaniglia, gamberetti, juta, tabacco, albero della gomma o perfino erba alfalfa, prodotta in Etiopia per il bestiame giapponese mentre i contadini etiopici muoiono di fame, così come in Centroamerica alla fine degli anni Settanta due terzi della terra arabile sono occupati da bestiame per lo più destinato al Nordamerica (osceno ed irresponsabile gioco, dato che il 90% dei nuovi allevamenti in Amazzonia sospende l'attività entro otto anni dall'avvio, causa l'impoverimento del suolo dovuto all'eccesso di pascolo) o ancor più direttamente dannose per gli indigeni: coltivazione di stupefacenti come Cannabis sativa, coca e papavero d'oppio, con formazione di strutture criminali anche a livello statuale e ulteriore inserimento di tali economie nel circuito mondialista... il «vantaggio comparativo» inneggiato da Adam Smith!:

    2. fenomeni, il più immediato dei quali è la vendita a tali paesi del surplus di cereali prodotti dall'agricoltore statunitense, il quale, per mantenere tale produzione,

    3. viene a dipendere sempre più dai prestiti bancari e dagli acquirenti/commercianti del prodotto, e

    4. impoverisce il suolo in modo sempre più aggressivo,

    5. richiedendo quantità sempre maggiori di pesticidi e fertilizzanti come, d'altra parte, il Terzomondo per le monoculture (per quanto concerne i cereali, nel quarantennio 1950-90 il consumo mondiale dei fertilizzanti è praticamente decuplicato),

    6. con una ricaduta negativa, diretta e indiretta, sulla salute non solo del Paese di Dio, ma dell'intera popolazione mondiale,

    7. progressiva dipendenza alimentare dagli USA del Terzomondo (e con istruttivi risvolti: quando nel 1972 il Sahel viene devastato dalla siccità e dalla morte per fame, Washington paga ai propri agricoltori tre miliardi di dollari affinché lascino incolti cinquanta milioni di ettari che, se coltivati, sfamerebbero quelle popolazioni africane, e ciò per provocare un rialzo dei prezzi e trarre maggiore profitto sui grandi mercati: «I morti di fame del Sahel non avevano invece i quattrini sufficienti per comprare il grano a un prezzo interessante per i produttori americani», commenta Massimo Fini),

    8. sfruttamento intensivo di campi, foreste e materie prime per fronteggiare non solo le esigenze di una popolazione in rapida irresponsabile crescita, ma anche il deficit della bilancia commerciale,

    9. maggiore impulso, attraverso la commercializzazione di legname e minerali, alla capacità trasformativo-produttiva dei paesi industrializzati,

    10. conseguente ulteriore accelerazione dell'inquinamento ambientale e del tasso di malattie infettive e degenerative in tali paesi,

    11. abbandono, da parte dei governi locali, di ogni volontà di sviluppare le residue colture terzomondiali mediante costruzione, ad esempio, di difese arboree naturali o serbatoi e canali d'irrigazione,

    12. desertificazione e abbandono dei campi (oltre alla Cina, vedi l'Africa subsahariana),

    13. urbanizzazione accelerata, con formazione di megalopoli-cloaca composte da agglomerati di bidonville e favele, come ben riassume l'ebreo Giorgio Morpurgo il quale, all'interno di un realismo oltremodo pregevole, cede tuttavia a beceri spunti «antinazisti», scagliandosi contro l'unica Weltanschauung che abbia previsto e combattuto le devastazioni del Mondialismo: «Potrebbe a prima vista sembrare che l'esportazione dei ritrovati della nostra società non abbia portato che bene: disgraziatamente è proprio il contrario. Se la popolazione è aumentata, non per questo è aumentata la superficie delle terre coltivate e tutte le risorse che assicurano ad una popolazione una vita decente. Anzi, come vedremo in seguito, la superficie coltivata va gradualmente diminuendo. Fino ad un certo punto l'aumento della popolazione è stato compensato dall'aumento della produttività agricola dato dall'introduzione di varietà di cereali più produttive, un rimedio non privo di controindicazioni poiché le nuove varietà necessitano di maggiori quantità di costosi concimi, generalmente non prodotti nei paesi del Terzo Mondo. Una soluzione di questo genere, in assenza di un declino nel ritmo di accrescimento della popolazione, che si è verificato ma non è stato sufficiente, non può costituire che un palliativo. Dopo una breve pausa il male ritornerà più intenso di prima. La popolazione è aumentata più delle risorse e il risultato è stato il collasso economico e il completo degrado sociale delle popolazioni di ciò che siamo abituati a chiamare Terzo Mondo.

    «Si vive (per ora) un po' di più, ma a quale prezzo?... al prezzo di una vita a un livello subumano, della desertificazione del territorio, dell'abolizione di ogni valore culturale. La vecchia cultura è morta, la nuova non esiste. Lasciati a se stessi, questi paesi che avevano una loro propria vita, miserabile ma dignitosa, potevano riuscire ad evolvere verso qualcosa di meglio. O anche potevano restare com'erano, poiché certamente lo scopo primario degli uomini non è allungare la speranza di vita alla nascita ma, per quelli che sopravvivono, vivere una vita che abbia un senso. Adesso questi popoli non hanno speranza: l'aumento della popolazione fa sì che ogni possibile risorsa sia dedicata unicamente alla sopravvivenza, rendendo al tempo stesso impossibile sia il cambiamento delle condizioni economiche che lo sviluppo di una qualsiasi cultura. In tutti questi paesi si è poi verificato un altro fenomeno che nel giro di pochissimi anni ha assunto proporzioni mostruose. Spinti dalla fame ricorrente (è impossibile nelle campagne in assenza di uno Stato organizzato evitare le carestie dovute ad eventi climatici, malattie, etc.) la popolazione si riversa nelle città sperando di trovare qualcosa da mangiare. Nel giro di trent'anni Città del Messico è passata da 2 a 18-20 milioni di abitanti, Lima in Perù da 5 a 10 milioni (circa la metà della popolazione del paese), il Cairo da 3 a circa 16 milioni, [quanto alla nigeriana Lagos, passa da 1 milione a 10 milioni] etc. In tutti i casi le città hanno un centro con l'aspetto di una città come noi la concepiamo, relativamente piccolo, che raccoglie meno di un decimo degli abitanti, contornato da un agglomerato di catapecchie fatiscenti in cui non esistono fognature, acqua potabile, elettricità, etc.»,

    14. esasperazione della dicotomia classi ricche/povere, che già caratterizza il Terzomondo, con la formazione e l'imposizione, ancor più che nell'Europa del dopoguerra, di cricche dominanti prone al Potere. Scrivono gli ebrei Jeffrey Mander ed Edward Goldsmith: «Il modo più efficace per aprire i mercati è quello di occidentalizzare i quadri dirigenti locali e trasformarli in ardenti sostenitori dello sviluppo economico, che deve essere perseguito anche a danno della maggioranza dei concittadini [...] Oggi questo è uno degli obiettivi principali dei cosiddetti programmi di sviluppo, che comprendono l'addestramento militare, la fornitura di armi e il sostegno economico ai governi filoamericani. Rientrano in questa logica anche gli aiuti alimentari forniti dagli Stati Uniti, che sono divisi in due categorie. La prima si compone essenzialmente di prestiti a interesse ridotto che vengono erogati ai governi del Terzo Mondo. Questi soldi, come scrive Danaher, "servono a comprare prodotti alimentari americani per poi rivenderli sul mercato trattenendo il ricavato". Questo tipo di aiuto è soltanto un trasferimento di valuta nelle casse dei governi che Washington considera strategicamente importanti. La seconda categoria di aiuti alimentari, invece, ha funzione di rendere certi paesi sempre più dipendenti dalle forniture statunitensi. Molti uomini politici americani, compreso l'ex vicepresidente [democratico] Hubert Humphrey, hanno detto che gli aiuti alimentari devono essere usati come arma»,

    15. ulteriore spinta all'ingresso nel Mercato-mondo per l'importazione di modelli di vita occidentali e per la necessità di approvvigionare la popolazione urbana enormemente aumentata, il che porta non solo ad istituire «adeguate» strutture di controllo, trasporto e commercio, ma anche a forzare i contadini a produrre non più per sé ma per il mercato-mondo (ad esempio con la formula della «agricoltura su contratto», ove la grande impresa, nazionale o multinazionale, prende in affitto dal contadino la sua terra e il suo lavoro e costui produce quanto gli viene richiesto), e

    16. conseguente maggiore impotenza economico-politica del Terzomondo nei confronti dell'Occidente, con

    17. la perdita del potere di controllo e difesa – come già fu nell'Ottocento in Cina con l'imposizione dell'oppio – nei confronti delle importazioni di alimenti giudicati dannosi dai singoli Stati: cibi transgenici, carni ormonizzate, vegetali disinfestati con precursori diossinici le cui caratteristiche e i cui limiti di tossicità vengono, rispettivamente, le prime sminuite e i secondi decuplicati su «base scientifica» per tranquillizzare l'«opinione pubblica», e

    18. l'acquisizione dei moduli comportamentali occidentali a livello di struttura mentale/politica (la democrazia liberale diviene inevitabile), ma non a livello economico/produttivo. A prescindere dall'umanità del colonialismo di popolamento e strategico italiano, Massimo Fini rileva che il colonialismo classico, financo quello di sfruttamento commerciale di stampo anglo-olandese – non si dimentichi inoltre che, come nel caso francese, l'impegno si concluse, dal punto di vista economico, in perdita per via delle infrastrutture create e lasciate nelle colonie – fu molto più responsabile e meno brutale dell'odierno colonialismo finanziario di stampo americano:

    «Non bisogna confondere l'omologazione del pianeta ad un unico modello economico con il colonialismo tradizionale. Non tanto perché quest'ultimo non arrivò mai ad occupare l'intero globo, quanto perché si tratta di due fenomeni che, seppur intrecciati, sono qualitativamente molto diversi. Il vecchio colonialismo, avendo soprattutto di mira la rapina di materie prime più che la conquista di nuovi mercati, tiene nettamente separate la comunità dei colonizzatori da quella indigena e non stravolge quindi l'esistenza e la cultura dei popoli autoctoni, che sostanzialmente continuano a vivere come hanno sempre vissuto. Il colonialismo economico invece, puntando sulla conquista di nuovi consumatori, ha bisogno di omologare le popolazioni indigene ai gusti, ai costumi, alla way of life del modello industriale, e quindi ne distrugge le culture, pur rispettando, almeno formalmente, a differenza del primo, la sovranità dei loro Stati», per cui quei paesi, entrati nel mercato mondiale e nel circuito internazionale del denaro, «vengono stritolati dalle interdipendenze create dal globalismo economico e dai suoi meccanismi. Per vari motivi. Perché, arrivando per ultimi, sono comunque troppo deboli per inserirsi nel meccanismo con qualche possibilità di successo. Perché i paesi industrializzati non solo gli rapinano, come han sempre fatto dall'epoca coloniale, le materie prime – e questo sarebbe ancora il meno – ma gli rivendono la loro roba inutile: Coca-Cola, radio portatili, pile, etc., impoverendoli ulteriormente. In alcuni casi i paesi del Terzo Mondo vengono persino "aiutati" [con prestiti o «donazioni»] per poterli depredare meglio»;

    conferma il politologo Giancarlo Galli: «I prestiti al Terzo Mondo, che non rientreranno mai in quanto tali, sono stati in realtà già recuperati attraverso un circuito parallelo: le importazioni di materie prime da questi stessi paesi, e le esportazioni di prodotti finiti, beni di consumo e armamenti. Spirale nefasta, che accresce la dipendenza dal capitalismo di questi paesi: è il neocolonialismo economico-finanziario»,

    19. ulteriore devastazione, in vista della rovina definitiva, delle civiltà locali e delle culture rurali: nota Umberto Malafronte che «il dissolvimento di queste strutture sociali ha disintegrato e atomizzato le società tribali o tradizionali [...] ingenerando uno stato di insicurezza e di disorientamento mal compensato dal parziale inserimento di una minoranza nell'economia formale sopravvenuta a quella originaria e principale causa della fuga di quegli individui dalle proprie terre e dai propri villaggi [...] La spinta all'occidentalizzazione finisce per destabilizzare vecchi e consolidati equilibri senza che si intravveda l'approdo verso i nuovi assetti sociali ed economici auspicati per le ovvie incompatibilità storico-culturali»,

    20. ed infine, per quanto direttamente ci riguarda, mostruosa e insensata (ma non tale nella strategia del Piccolo Popolo) accelerazione del migrazionismo invasore verso l'Europa.

    * * *

    L'unica possibilità di riscatto

    Poiché per gli artefici del Mondialismo assolutamente centrale è la perdita di ogni specificità personale e di ogni ricordo storico, il primo dovere verso i figli, verso la comunità e verso l'ambiente naturale si deve esplicare nel recupero e nel potenziamento della Memoria. Memoria, la cui perdita condanna gli esseri umani – ogni essere umano, a qualunque stirpe appartenga – alla perdita delle qualità più preziose:

    1. la facoltà di discriminare le cose, cioè di assegnare ad ognuna la sua specifica dignità, di distinguere, di decidere, ***

    *** De-cidere, dal latino de-caedere: «tagliare, colpire, separare». Invero, tutto l'antico realismo europeo riecheggia il concetto che «omnis determinatio est negatio», anche se del «discriminare», lehavdil, è il campione feroce, in senso moderno e aberrante maniera, proprio l'ebraismo.

    2. il sentimento della radicalità di ogni cosa, la centralità vitale del legame col passato, col proprio popolo, coi propri figli, con se stessi. Non per nulla la nazione ebraica è riuscita a sopravvivere alle prove più dure nel corso di due millenni: perché ogni suo membro, pur (o proprio perché) segnato o guidato dall'Allucinazione, si è sempre posto, nella storia e nei costumi, nella quotidianità e nello slancio al futuro, a testimone della propria stirpe e comunità. La Memoria è Coscienza, la Memoria è Anima.



    È il politologo Ernesto Galli della Loggia, cantore tra i più illustri di God's Own Country ad evidenziare nel modo più chiaro, in una Lettera agli amici americani, che questo è il nocciolo del problema, la ragione del contendere: «Sul principio "ci sono cose che non si possono comprare" l'Europa non può cedere. Se cedesse cosa le rimarrebbe? Assolutamente più nulla, in particolare nei vostri confronti. Perché al dunque quello che non si può comprare è una cosa soltanto: il passato. Ci sono cose – vuol dire quel principio – la cui essenza non sta nella loro consistenza effettiva e nell'uso che di esse si può fare, cose che alla radice non appartengono all'universo del "qui e ora", bensì all'universo stilistico che esse implicano e insieme richiedono: "stile" che solo al tempo è dato formare. Il tempo che filtra, che seleziona, che accumula [...] Voi siete intimamente convinti che la democrazia possa vincere e cancellare il tempo. Che ogni giorno e in ogni occasione si possa ricominciare da capo, che basti la volontà per impadronirsi di qualsiasi conoscenza».

    Ma nel celebrare il Destino Manifesto che porta a rovina le nazioni e il pianeta, il Nostro si spinge ancor oltre, sulla via di una sincerità criminale, rasentando, peraltro tragicamente, il ridicolo: «Ai nostri occhi voi e la modernità siete [...] la stessa cosa, e quel che più conta lo siete nella realtà. Sicché ci accorgiamo che non possiamo essere moderni senza "americanizzarci", senza divenire un po' americani anche noi [...] Nella paura e nell'ostilità verso l'"americanizzazione" si manifesta nient'altro che la consapevolezza dell'Europa di possedere un'identità culturale ben poco congrua a ciò che è imposto dalla condizione dell'epoca [...] L'Europa non si ferma a pensare che quella cultura [americana] ha strappato centinaia e centinaia di migliaia di uomini a un'immobilità di secoli, portando sotto i loro occhi o dandogli il modo di conoscere per la prima volta cos'è un ristorante, cos'è una metropoli, cos'è un aeroplano. Tutto ciò ha beninteso un prezzo: la distruzione dell'antico. La modernità [al pari della morte, ci si permetta di aggiungere] è notoriamente una strada senza ritorno».

    La cantata multirazzialista del Nostro, scandita per anni su tutte le gazzette in compagnia degli altri fratelli mondialisti (demoliberali, socialcomunisti e cristiani di ogni setta), sembra arrestarsi però nel 1994. Prendendo spunto da un fatto di cronaca – la condanna a morte, secondo la legge coranica, di un iraniano reo di avere abbandonato l'islam per il cristianesimo, annuncio di una prossima «guerra delle fedi», e specificamente tra la fede isalamica e quella liberale – il Galli della Loggia viene folgorato dal dubbio se, tutto sommato, il multirazzialismo non comporti, oltre all'Apertura Mentale offerta dall'Esperienza dell'Altro, anche un qualche inconveniente per le società (intanto, sulla scia degli insegnamenti galliani, le condizioni socio-politiche dei paesi europei si degradano tragicamente sotto l'urto dell'invasionismo «migrante»). Considerare il multiculturalismo l'unica alternativa ad «un razzismo di sapore hitleriano», scrive il Nostro, non solo è una di quelle «soluzioni complessive ed ottimali» spesso «terribilmente ottimistiche», ma anche una forma di precondizionamento, una «preventiva apposizione di etichette etiche alle diverse posizioni presenti in campo». Essendo il multirazzialismo (da lui riduttivamente chiamato «multiculturalismo») contrassegnato da una etichetta positiva, chiunque sarebbe tenuto a non dirne che bene.

    Inoltre, mentre da un lato la convivenza tra le diverse culture non è mai sfociata in un irenico melting pot (il mitico «crogiuolo» nel quale dovrebbero scomparire tutte le differenze e fondersi tutte le razze a formare la superrazza del futuro), anche la salad bowl (la «insalatiera» nella quale ogni razza manterrebbe la propria individualità così come ogni componente dell'insalata, pur nell'amalgama dell'unico condimento, mantiene il proprio sapore) è solo una sorta di (effimera) pace armata: «Infatti lo scambio, la comunicazione, il passaggio – senza di che il multiculturalismo non sarebbe altro che una forma di apartheid democratico – sono inevitabilmente destinati, in un giro più o meno breve di tempo, a dissolvere e a cancellare le identità culturali. Queste possono sopravvivere e svilupparsi solo a patto di una separazione, di una lontananza reciproca. L'idea dei multiculturalisti di conservare in un unico spazio socio-statuale le più varie culture con la loro diversità, ma al tempo stesso di assicurare lo scambio "democratico" tra di esse e insieme, per sovrammercato, di riconoscere ai loro membri un insieme di diritti ritagliati sull'individuo (com'è nella tradizione delle democrazie occidentali), tale idea si rivela altrettanto realistica, mi sembra, di quella di svuotare il mare con un cucchiaino».

    Ma – non ci si lasci sopraffare dall'entusiasmo per la scoperta di un presunto sodale – questo non è tutto! Il vero multiculturalismo, cioè il rispetto e la convivenza di culture dissimili entro una sola società, è incompatibile con l'idea stessa di società. Una società, afferma il Nostro Liberale con illiberale arditezza, «non è un condominio, di cui per far parte basta occupare un appartamento. Una società significa sempre, in qualche modo, un retaggio condiviso di valori, di tradizioni, di storia civile e religiosa. Ma come può aversi qualcosa del genere in un àmbito che veda la presenza di culture ugualmente forti ma di segno assai diverso? Non ci si illuda: questa impossibilità vale anche per le società democratiche. La parola cittadino nasce insieme a quella di patria. Non esiste una democrazia cosmopolita e, anzi, forse più di qualsiasi altro regime la democrazia ha bisogno di uno spazio nazionale [...] Gli Stati Uniti stanno sperimentando proprio in questi anni i cortocircuiti e le paralisi che il comunitarismo multiculturale rischia di produrre nel meccanismo politico di quella che è pure la più antica democrazia del mondo».



    Ora – a parte che non è certo da oggi che gli States sono percorsi da una letale tensione interrazziale, devastati da reciproco odio – quali sarebbero le soluzioni? «Come molte idee astratte, ricalcate su princìpi altrettanto astratti», conciona il Galli, «il multiculturalismo non è una buona soluzione per i nostri problemi». Bene, assente il lettore, avanti allora le conclusioni. E qui casca il Nostro, che non prende neppure in considerazione l'unica soluzione, per quanto impotente e irrealistica possa oggi sembrare, per tentare – e sottolineiamo e risottolineiamo: tentare – di non morire della Devastazione: l'arroccamento delle società europee su se stesse, con 1) la chiusura all'Invasionismo nella pratica, 2) la distruzione dell'Allucinazione nella teoretica.



    Soluzione articolata in cinque punti – tutti da discutere, affinare a ampliare con la massima apertura mentale – teoreticamente basati sulla massima antica di Averroè: «Chi cerca la pace a ogni costo non avrà che la guerra. Chi apre le porte della città al nemico per evitare il saccheggio e l'incendio sarà saccheggiato e incendiato ancora più crudelmente che se avesse combattuto con coraggio per difendersi» e su quella moderna di Carl Schmitt: «Non sei tu che decidi chi è il tuo nemico, è lui. Potrai bene dirlo tuo amico; se lui decide di essere tuo nemico, non potrai farci niente», e operativamente su equilibrio morale, determinazione caratteriale, consenso popolare e forza esecutiva (intenda il lettore: se anche Trastour e Faye invocano l'adozione di misure tanto più radicali quanto più inassimilabili sono le etnie, il ripristino dell'ordine va attuato nei riguardi di tutti gli immigrati, a prescindere dalla razza/etnia/nazionalità/religione, poiché, ricorda Thierry Desjardins citando il tribunale di Rennes del 22 ottobre 1991, «non costituiscono provocazione all'odio razziale i discorsi che trattano un fenomeno sociologico come l'immigrazione nella sua globalità, ove non si faccia riferimento a persone o gruppi determinati, o ad un'etnia, nazione, razza o religione»):

    1. Varo legislativo di un organico pacchetto di provvedimenti, tra i quali:

    schedatura degli immigrati, compresi, come afferma nel settembre 2001 il procuratore di Vicenza Antonio Fojadelli di fronte allo scatenarsi della criminalità albanese, «quelli con regolare permesso di soggiorno, purché si trovi una formula tecnico-giuridica che non li discrimini. Prendere le impronte a tutti non è umiliante [...] Solo chi non rispetta le regole ha da temere. Alle emergenze bisogna rispondere con strumenti idonei. Bisogna creare una banca dati per stranieri e coordinarci, altrimenti c'è il rischio che cresca l'intolleranza nei confronti degli immigrati con tutto ciò che comporta sul piano democratico. Perciò a tutti i clandestini vanno prese le impronte digitali e vanno fotografati»,

    divieto del «ricongiungimento» dei familiari coi «lavoratori ospiti»: semplicemente allucinante, al contrario, che nel 2001 la Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale (il giudice «ammazzasentenze» già salvatore di decine di criminali, operante con formalismo maniacale e garantismo esasperato, nel giugno condannato in appello a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa), l'8 febbraio ammetta ed anzi promuova, in un'infinita «catena di sant'Antonio», la chiamata di un secondo familiare da parte di un primo individuo già «ricongiunto» a un invasore legale o sanatorizzato; ed egualmente allucinanti le decine di giudici che, in sette casi su dieci, obbligano le autorità a rilasciare i visti ai ricongiungenti, assistiti da una pletora di azzeccagarbugli – «gli avvocati che difendono gli stranieri considerano questo genere di cause come contenziosi facili da vincere», ghigna il giornalista Marco Galluzzo – sia il ministero degli Esteri sia quelle sempre più rare ambasciate italiane che osano dichiarare fasulli i presupposti del rilascio o non dimostrati identità, grado di parentela e l'essere i parenti a carico dell'immigrato), ***

    *** Fatti altrettanto allucinanti: il TAR della Liguria, il 4 maggio, palesemente forzando l'art.51 della Costituzione, ammette la partecipazione di extracomunitari a concorsi pubblici; il Consiglio di Stato, il 6 maggio, sentenzia che né l'arresto in flagranza né la condanna sono ragioni per negare la richiesta di regolarizzazione avanzata da un criminale extracomunitario, neppure se clandestino; la prima sezione civile della Corte di Cassazione, con «una sentenza destinata a creare qualche disagio alle prefetture» (così, pudico, il Corriere della Sera del 10 luglio) dà ragione, contro il ricorso del governo e fondandosi sull'art.24 della Costituzione, a tale Igor B., «un immigrato che aveva presentato ricorso al Tribunale di Pordenone contro il decreto di espulsione perché gli era stato presentato in inglese e non nella propria lingua», sentenziando che il decreto vale solo se è scritto nella lingua madre dell'immigrato (immagini il lettore da sé i casi più singolari!). Infine, il generale Luigi Caligaris, ex-eurodeputato berlusconico farneticante di storia, propone di aprire le Forze Armate, carenti di militari dopo il voluto disfacimento cinquantennale e l'abolizione del servizio di leva varata il 14 novembre 2000 dal governo capitalcattocomunista dell'ex-socialista Giuliano Amato, a froci, invasori e criminali: «Se si comportano bene potrebbero essere premiati, dopo cinque anni di servizio, con la cittadinanza italiana. Gli antichi romani ricompensavano con la cittadinanza gli stranieri che servivano nel loro esercito. Gli americani l'hanno imparato dai romani. Perché noi non possiamo seguire l'esempio dell'antica Roma? [...] Io direi che la carenza dei professionisti può essere risolta con gli immigrati e anche con i gay. Nelle Forze armate c'è qualche gay nascosto. Io propongo di arruolare i gay dichiarati che garantiscano di mantenere in caserma un atteggiamento decoroso. I francesi e gli inglesi hanno avuto il coraggio di reclutarli. In Inghilterra offrono l'opportunità della vita militare perfino ai detenuti». Pressoché impossibile, commenta Marco Nese, è infatti il ripristino della leva, visto che la legge lo prevede solo in caso di grave emergenza nazionale. In pratica, solo se scoppia una guerra.

    revisione della legge sulle adozioni internazionali approvata dai capitalcattocomunisti nel 1998 e deciso giro di vite restrittivo su tali pratiche,

    ritiro della cittadinanza italiana ed espulsione per chi abbia contratto matrimoni «di comodo» (con punizione, ovviamente, anche dei mezzani-procacciatori e dei «coniugi» connazionali: difficilmente imitabile, comunque, il record della trentanovenne londinese Sylvia Evans, che dal 1989, oltre a due matrimoni veri, si è sposata sedici volte – tariffa: 1500 sterline, 4 milioni di lire, o un contributo all'arredamento – per assicurare agli invasori un passaporto del Regno! condannata nel settembre 2001 a tre anni di carcere dal giudice Quentin Campbell, l'intraprendente viene raggiunta in carcere dalla sorella, peraltro sposata sei sole volte), ai criminali di qualsiasi genere e a chi abbia mantenuto la vecchia cittadinanza,

    divieto di concessione di diritti politici a qualsivoglia allogeno ad ogni livello, da quello circoscrizionale a quelli municipale, provinciale, regionale e nazionale,

    non rinnovo del permesso di soggiorno alla massima parte di chi ne sia in possesso e qualunque ne sia la tipologia (lavoratori richiesti, lavoratori non richiesti, pseudolavoratori, «profughi» od espulsi per motivi politici, migrati per motivi economici, nullafacenti, criminali, etc.),

    introduzione delle fattispecie di reato di ingresso clandestino e, nel caso di espulsione non osservata, di permanenza clandestina (aspetto da valutare con estrema attenzione, in particolare per evitare la piaga della durata del processo di primo grado e per non innescare il fenomeno del ricorso in secondo o terzo grado; lasciamo ai giuristi definire le soluzioni a tali incagli... magari adottando una legislazione speciale, come già fu per altri problemi centrali come il terrorismo rosso degli anni Settanta): malgrado il divieto a tali passi previsto dalla convenzione sottoscritta a Palermo da 38 – su 120 – paesi il 12-15 dicembre 2000, mentore l'invasionista Pino Arlacchi, sinistro mafiologo fatto sottosegretario generale dell'ONU, direttore dell'ufficio «per la lotta alla droga e la prevenzione della criminalità» e ***capo dell'agenzia ONU a Vienna contro il «terrorismo», il quale guaisce: «Gli immigrati non possono essere perseguiti penalmente per essere entrati clandestinamente in un Paese [...] La non punibilità dei clandestini è il punto fondamentale per l'accordo [...] Noi vogliamo combattere l'organizzazione criminale del traffico per proteggere i diritti dei lavoratori: con questo articolo abbiamo tenuto il Protocollo al riparo dal pericolo della xenofobia, altrimenti un regolamento non calibrato sarebbe potuto diventare uno strumento per chi vuole chiudere la frontiera a qualunque tipo di immigrazione»,

    introduzione della fattispecie di reato di favoreggiamento dei clandestini: in primo luogo affitto e sub-affitto di appartamenti, capannoni e locali commerciali, sempre più spesso acquistati da torbidi gruppi multinazionali, in ispecie asiatici, e adibiti ad alveari-dormitorio o a fabbriche per prodotti, in ispecie tessili, di infima qualità, ma altrettanto certamente anche assistenza, compresa quella sanitaria, fornita da enti parareligiosi come la Caritas o laici come il milanese NAGA (presieduto quest'ultimo, per inciso, dall'«austriaca per metà» dottoressa Elena Sachsel),

    espulsione amministrativa radicale e immediata dei clandestini (siano essi gli «invasori scalzi» di Giuseppe Sacco, i profughi «pietosi», i rifugiati sedicenti «politici» e i puri criminali), dei criminali e dei nullafacenti più vari (anche se la «Carta dei Diritti Fondamentali» dei cittadini europei, approvata a Nizza il 7 dicembre, guarda caso una settimana prima della convenzione onusica di Palermo, con l'art.19 vieta le «espulsioni collettive»), senza più quelle immonde «sanatorie» imposte dalle Chiese e dalle sinistre, vere e proprie istigazioni all'invasionismo e perciò al crimine.

    Secondo i dati ufficiali per l'Italia, 350.000 sono i sanatorizzati (cioè gli ex-clandestini) dal socialista Martelli nel 1990, 250.000 dal liberalcapitalista Dini nel 1995, 38.000 + 250.000 quelli in conseguenza della legge voluta dalla coppia neocomunista Turco-Napolitano e applicata nel 1998-99 dal 2° capitalcattocomunista governo D'Alema, in testa la neodemocristiana ministra dell'Interno Rosa Russo Jervolino, che invoca la doppia cittadinanza ai figli dei sanatorizzati nati in Italia, e il più sinistro suo successore Enzo Bianco del 3â capitalcattocomunista governo Amato (con code di 80.000 nell'aprile e 50.000 + altri 41.000 richiesti dalla Confindustria nell'estate 2000... in realtà, gli invasori giunti nella penisola, in massima parte adducendo pretesti di lavoro, nel solo 2000 sono stati 270.000). E ciò, quando, a prescindere dai tre milioni di disoccupati italiani e dai milioni di allogeni già presenti, ad attendere nelle liste di collocamento ci sono 213.000 allogeni!

    Totale ufficiale di sanatorizzati, quindi, oltre un milione di individui (ai quali vanno aggiunti i 400.000 che all'ottobre 2001 non sono riusciti, per i motivi più vari, a rientrare nell'ultima «regolarizzazione», o che hanno fatto irruzione in Italia dopo di essa e per i quali fin dal luglio invocano grazia, parlando di «regolarizzazione» invece che di «sanatoria», i più vari boss centrodestrorsi, dal neo-democristo Rocco Buttiglione, ministro delle Politiche Comunitarie, a Gian Paolo Landi, responsabile di Alleanza Nazionale per l'immigrazione, e Mirko Tremaglia, senile ministro per gli Italiani all'Estero ed ex-fascista della RSI). Individui tutti illegali sin dall'inizio, tutti resi «graditi» e legali da un tratto di penna... e tenendo conto in particolare di questo aspetto, altro che, come invocano i mondialisti di ogni risma, marxisti, liberali, cristiani e Anime Pie, la concessione del voto «amministrativo» agli invasori «presenti in Italia da cinque anni»!

    Dobbiamo imparare, se pur non dagli USA, almeno da Nigeria, Zaire, Zambia, dal Sudafrica mandeliano e dal Gabon, che nel 1995, senza porsi tanti problemi, hanno ricacciato centinaia di migliaia di stranieri sciamati negli anni precedenti? o da Malesia, Thailandia, Australia e Algeria, che in attesa di uno svelto rimpatrio li internano senza tanti scandali in appositi campi?

    In realtà «scandalo», ma neppure eccessivo, suscita a fine agosto 2000 l'impiego da parte della polizia australiana di cannoni ad acqua per sedare una rivolta, con incendio dei quattro edifici dell'area, di ottocento clandestini, in maggioranza iracheni ed afghani, confinati a Woomera in attesa di rimpatrio... Identica repressione nel marzo 2001 nel campo di Curtin, sperduto nell'Australia occidentale, ove le guardie ricorrono ai gas lacrimogeni. Nessuno scandalo suscitano poi, filtrati a stento al pubblico, i propositi del ministro israeliano del Lavoro Eli Ischai, che nell'autunno propone, in attesa di procedere alle espulsioni, internamenti in appositi lager di decine di migliaia di immigrati illegali. Semplicemente allucinanti, al contrario, le sentenze di un pugno di demomagistrati milanesi, tra cui le giudichesse Rita Cerrino e Anna Bonfilio, che nell'ottobre-dicembre, col pretesto di una dissonanza dei provvedimenti amministrativi di polizia col dettato costituzionale che prevede che un individuo debba essere giudicato dalla magistratura, rimettono uccel-di-bosco centinaia di clandestini, temporaneamente rinchiusi in centri di raccolta in attesa di espulsione.

    2. Intelligente sbarramento delle frontiere, anche e soprattutto manu militari – troppo a lungo l'uomo europeo, intriso di nichilismo e viltà, ha voluto espellere la la Forza dalla gestione delle cose umane, ed anzi dal novero degli strumenti della vita, per privilegiare al contrario la «non-violenza», la «benevolenza», la «comprensione» e la «carità», con l'unico risultato di ottenere il caos e incentivare la violenza, e cioè una forza irrazionale, illegittima e incontrollata, troppo a lungo si è illuso che la Forza, quella divina Virtù che è l'opposto di quella violenza e di quella sopraffazione che prosperano sull'illegalità, la viltà e il tradimento, non facesse più parte della vita associata, soppiantata dall'«amore», dal «perdono» e dal cedimento – e ricerca di soluzioni produttive quanto più autarchiche, con conseguente riduzione dell'infernale meccanismo dell'iperproduttività industriale, della mortifera ipercommercializzazione, della mortifera devastazione mentale/ambientale e del «tenore di vita», peraltro già sulla via di un sempre più rapido ridimensionamento.

    3. Assunzione di responsabilità da parte dell'Europa per favorire una quanto-più-rapida esistenza autocentrata di un Terzomondo infine svincolato dal Nuovo Ordine Economico giudaico-anglosassone, Terzomondo finora deresponsabilizzato, derubato, desertificato e stragizzato in primo luogo dalla pelosa «fraternità» degli antirazzisti di ogni risma: proprio sotto la loro egida, dagli anni Sessanta agli Ottanta il divario del reddito pro capite tra i venti paesi più ricchi e i venti più poveri è salito da 30 a 1 a 59 a 1. Altro, quindi, che le farneticazioni dell'Arruolato, co-reggente la Banca Centrale Europea, Tommaso Padoa-Schioppa, largite alle masse sul Corriere della Sera nell'editoriale Globalizzazione? Purtroppo è poca - Una democrazia mondiale da inventare: «Tornare indietro sarebbe dannoso soprattutto per i poveri del mondo. È la via del tribalismo, del nazionalismo, della miseria. Non si può ignorare che la questione sociale fu aggravata, non risolta, con la soppressione del mercato e la chiusura delle frontiere; che progresso tecnico e commercio internazionale abbiano enormemente ridotto l'area della fame nel mondo; che il terzomondismo inteso come ideologia alternativa abbia portato tirannia, disuguaglianza e povertà».

    Assunzione di responsabilità attraverso: l'abbandono, da parte dei paesi industrializzati, della politica delle esportazioni (che serve solo a protrarre e incentivare la loro egemonia sfruttatrice), la formazione di tecnici e specialisti autoctoni, l'installazione nei paesi «sottosviluppati» di macchine utensili e infrastrutture atte alle esigenze locali, l'obbligo di investimento interno della quasi totalità dei guadagni delle imprese ivi impiantate (sia di quelle gestite dagli occidentali sia di quelle locali), l'annullamento unilaterale di tutti i debiti del Terzomondo (ma non si scordi, comunque, che la sua irresponsabile prolificità è, ancor prima dello sfruttamento capitalistico e dell'ideologia mortifera del Piccolo Popolo, causa assolutamente centrale dell'invasione). Tale terzo punto è non solo profondamente morale, ma altamente razionale poiché, come assevera nel 1997 il rettore della moschea di Marsiglia Hadj Alili, «se l'Europa non si fa carico del problema Nord-Sud che oggi infiamma il Mediterraneo introducendo un po' di giustizia, gli arabi del Maghreb sbarcheranno a Marsiglia e la distruggeranno. Magari fra un secolo, ma la ridurranno a un campo di rovine».

    4. Obbligo per i datori di lavoro di provvedere a proprie spese all'alloggio della manodopera allogena legalmente permessa (con pene pecuniarie fino al sequestro e alla confisca della proprietà in caso di loro inadempienza), inasprimento delle pene per i fiancheggiatori, a qualsiasi titolo, dell'invasione («scafisti» e altre bande criminali, assistenti «pietosi» religiosi o politici «umanitari», affittuari clandestini, datori di lavoro «in nero», etc.) e fors'anche, incita Faye in attesa di sostituire all'insufficiente logica poliziesca restitutrice di un mero «ordine pubblico» un'intelligente logica militare che porti a riconquista (sul medio periodo, non certo nei sette secoli che durò la Reconquista in Spagna), riduzione al silenzio – sia dialetticamente sia con la rivalutazione, anche retroattiva (Norimberga docet!), del reato di Alto Tradimento della Nazione – delle lobby invasioniste che ne hanno sempre celato la minaccia illudendo gli europei, che non vi sono nemici ma solo amici (ma il nemico, come detto, non lo scegli tu, è lui che ti sceglie!), causa prima di un trentennio di sbandamenti intellettuali e cedimenti morali. ***

    *** La pena di morte per il reato di Alto Tradimento della Nazione fu abolita in Italia nel 1994 da un demagogico provvedimento del Polo centrodestrorso, allora fugacemente al governo.

    Aggiunge Trastour: «Non v'è dubbio, suvvia, che certe etnie dovranno andarsene. I responsabili del dramma sono coloro che hanno favorito l'immigrazione di gente inassimilabile all'etnia autoctona, col rischio di portarla a genocidio. I difensori dell'etnia autoctona saranno legittimati a prendere provvedimenti giudiziari, per crimini contro l'etnicità, nei confronti dei responsabili: governanti, parlamentari, funzionari, magistrati, giornalisti e scrittori. Il delitto potrà essere imprescrittibile e la legge avere effetti retroattivi. Certamente, un tale comportamento non concorda con la mentalità europea e cristiana che inclina all'oblio delle colpe dopo la vittoria».

    Conclude Dario Binelli: «Ora, non vi è nessun motivo di credere che i fanatici dell'egualitarismo getteranno la spugna tanto facilmente: essi si stanno anzi organizzando ed adattando al mutato clima, puntando tutto sulla tutela degli allogeni e sulle tattiche politiche e psicologiche (prima ancora che repressive) per disarmare noi europei [...] Ciò che va notato è che non si tratterà tanto di una lotta per o contro gli allogeni (come appare ad un'osservazione superficiale), quanto di una lotta tra l'anima europea e lo spirito occidentale che parassita da troppi secoli l'Europa, assieme al corollario di tutti i suoi aggregati anti-europei; una lotta tra europei "liberati" ed europei ancora infettati di anti-europeità. Tale guerra civile sarà, in definitiva, l'ultima febbre necessaria per liberarsi di tale "virus" parassita».

    5. Provvedimenti, quelli elencati, tutti preceduti/accompagnati da un'assidua, incessante opera di educazione dei connazionali:

    a. da responsabilizzare quali membri di una comunità dotati di doveri prima che di diritti, comunità dotata di storia e legittimità millenarie,

    b. da preferire nelle assunzioni lavorative, con salario adeguato per il lavoratore e giustizia fiscale per le imprese, alle quali verrebbero imposte più basse aliquote fiscali (ma anche, come detto, con pene pecuniarie fino al sequestro e alla confisca della proprietà in caso di inadempienze da parte del datore di lavoro che usi manodopera illegale),

    c. da sollecitare con una politica demografica che riporti in attivo il tasso di crescita europeo (nella prospettiva, ovviamente, passata l'emergenza e rieducate le masse, di una strategia ecologicamente più meditata),

    d. da rendere convinti della suprema moralità del rientro degli allogeni, incentivati con le opportune persuasioni, finanziarie e di altro genere, nei loro paesi: a parte i pesantissimi costi sociali sulla comunità nazionale – anomìa societaria, destrutturazione individuale, disoccupazione, aumento di una criminalità sempre più aggressiva ed inestricabile con quella autoctona, caos scolastico, degrado del territorio dovuto da un lato all'instaurarsi di bidonville e di ghetti, dall'altro alla costruzione di alloggi per i nuovi «fratelli», etc. – costa infinitamente meno, anche da un punto di vista meramente economico, regalare oboli milionari ai rimpatriandi... e d'altra parte ben vorranno, i democittadini, pagare in sonanti soldoni l'imprevidenza, l'ignavia, l'imbecillità, l'irresponsabilità e il «buon cuore» passati!

    Con brutale franchezza, e rischiando l'incriminazione da parte del Sistema («Costituisce provocazione all'odio razziale la denuncia di un numero eccessivo di immigrati in termini voutamente allarmanti o guerreschi», Corte di Cassazione francese, 7 marzo 1989 ), Guillaume Faye scrive in Nouveau discours a la nation européenne, che «nell'interesse della pace mondiale l'Europa dovrà imperativamente liberarsi del peso delle popolazioni immigrate e sradicare l'Islam dal proprio suolo, finendola di sognare una coabitazione impossibile. Questo, per potere poi intendersi con gli altri popoli nell'ottica di un governo intelligente del pianeta».

    E ciò anche se i paesi esportatori del loro surplus non vogliono il ritorno degli emigrati né dei loro figli.

    E ciò anche se l'arcivescovo (ebreo) cardinale di Parigi Jean-Marie (Aaron) Lustiger definisce l'Europa, intervenendo al Centro culturale San Luigi di Francia a Roma il 4 marzo 1999, uno spazio destinato ad accogliere «pacificamente e umanitariamente» gli altri popoli, invitando l'Islam invasore «ad adottare i valori europei fondamentali e a sottoporsi alla ragion critica, quand'anche questa si dica atea» e avallando la dottrina di legittimare l'impotenza e santificare la rinuncia: «L'Europa non è mai stata per i popoli d'Africa o d'Asia una terra d'immigrazione. Ma oggi, la situazione dell'Europa si capovolge. Essa provoca [!: Elle provoque] una pressione migratoria impossibile a contenere. Gli europei non possono ignorare questo fatto».

    E ciò anche se nel luglio 1999 il sinistro invasionista para-marxista tedesco Günter Grass, Nobel per la Letteratura, ci ammonisce, su Focus, che il rispedire uno straniero indesiderato «in questo o quel paese» «in fondo, non è che il proseguimento della persecuzione delle minoranze sulla base dell'etnia». ***

    È per questo che Faye e il suo editore Gilles Soulas, inquisiti per il volume La Colonisation de l'Europe - Discours vrai sur l'immigration et l'Islam, nel dicembre 2000 vengono condannati dalla XVII Camera Correzionale di Parigi – specializzata in repressione ideologica come attestano le innumeri condanne emesse contro gli studiosi revisionisti della questione «olocausto» – per «incitamento all'odio razziale», ognuno a 50.000 franchi d'ammenda e 4000 di danni e «interessi» da versare alle «parti civili». Tali «parti civili» sono le leghe ebraico-antirazziste MRAP Mouvement contre le racisme et pour l'amitié entre les peuples e LICRA Ligue internationale contre le racisme et l'antisémitisme, che hanno denunciato i due intellettuali.

    Concordano i biologi Aldo e Lamberto Sacchetti: «C'è da prevedere percorsi di conversione produttiva ma, prima ancora, da promuovere cambiamenti di valori, di stili, di modelli organizzativi in coerenza con il principio di realtà. Che non potranno non incidere sull'educazione e non comportare il ricupero dell'autorità, rivalutazione della parsimonia, del risparmio, della disciplina, del senso di responsabilità verso gli altri e verso le generazioni future, superiorità dei valori sovra-individuali su quelli individualistici [...] L'emigrazione dalle aree povere del mondo può essere demotivata nel quadro di una cooperazione a lungo raggio e di una pedagogia ecologica volte a massimizzare le potenzialità naturali dei rapporti di nicchia, a rendere le persone capaci di crescere autonome sulla propria terra, rovesciando la teoria della società multietnica per riaffermare il valore dei legami col territorio, la dignità storica delle culture nazionali, il loro diritto naturale alla libertà e all'identità».

    * * *

    Le premesse politiche

    Una tale possibilità di riscatto dev'essere in ogni caso basata – a meno di un imprevedibile, supremo atto di disperata rivolta dei popoli europei – su due premesse, oggi fantapolitiche e irrealizzabili sul breve periodo.

    1. Pur infinitamente più elastico di ogni organismo statuale/sociale del passato, il Sistema – a prescindere dalle convulsioni politiche internazionali, dalla crescita o rinascita della potenza di nuovi paesi e da pur possibili «scontri di civiltà» o «sassolini nelle scarpe», nonché a dispetto di tutte le buone intenzioni neo-illuministe chiuse nel vicolo cieco dell'autocontraddizione finanziario-produttiva – non avrà vita lunga a causa dei guasti ambientali (crisi idriche, alimentari ed ecobiologiche), dell'esaurimento delle materie prime e delle contraddizioni politico-sociali che incessantemente genera. Il crollo del mercato globale sarà il più decisivo degli eventi («dalle conseguenze inimmaginabili», prevede un pessimista George Soros).

    Non può infatti essere più pensato né perseguito uno sviluppo sostenibile e neppure uno sviluppo alternativo e neppure una stabilizzazione in uno steady state che prolunghi l'attuale «benessere».

    Possiamo solo pensare un'alternativa allo sviluppo; compiere una virata intellettuale che dimostri tutta l'inconsistenza morale, la debolezza intellettuale e la criminalità pratica del paradigma destabilizzante dello sviluppo e di quella «società aperta» che, «esaltando ogni mobilità e sgretolando ogni barriera» (Lamberto Sacchetti), ne è la premessa «etica» e il brodo di coltura. Possiamo solo innestare, con tutti gli ovvii e mostruosi contraccolpi non solo economici ma di repressione e guerra civile, una pratica e dura retromarcia in direzione di un sistema a bassa entropia, meno dissipativo, fondato sulla regolazione al minimo di bisogni e consumi.

    E senza certo dimenticare né i delinquenti comuni né i delinquenti intellettuali cattosinistri né i delinquenti politici ultrasinistri, cani da guardia che, col pretesto dell'«antirazzismo», il Sistema, alla ricerca di un alibi «stabilizzante» per la propria criminale politica antinazionale, lancerà contro ogni non-conforme. Commenta sempre Sacchetti: «Il brigatismo sta sotto la cenere. Incrociare la protesta sociale con quella dei marginali extracomunitari è la nuova strategia rivoluzionaria. Una ricerca di alleanza già manifesta nelle iniziative dell'Autonomia e dei Centri Sociali e che può produrre, specie se si inasprisse il controllo dei clandestini, un composto ben più esplosivo di quello all'origine degli "anni di piombo". Gli stranieri marginali non hanno nulla da perdere, neppure le "catene" di cui al manifesto del 1848»!

    Possiamo e dobbiamo farci convinti della giustezza dell'analisi del ribelle radicale Theodore Kaczynski, meglio noto come Unabomber: «La tecnologia sta riducendo in modo permanente gli esseri umani e molti altri organismi viventi a prodotti d'ingegneria, a meri maiali d'allevamento nella macchina sociale»; la Rivoluzione Industriale «è stata un disastro per l'umanità, ha destabilizzato la società, svuotato la vita, umiliato e sbilanciato gli esseri umani, li ha ridotti a ingranaggi del meccanismo produttivo»; tale Sistema dev'essere distrutto: se ci si riuscirà «le conseguenze saranno molto dolorose, ma lo saranno sempre di più quanto più il Sistema crescerà, e dunque prima lo si distrugge meglio è»; i critici «conservatori» del Sistema sono «cretini che piagnucolano per il declino dei valori tradizionali e poi appoggiano entusiasticamente il progresso tecnologico e la crescita economica, causa dei rapidi mutamenti della società in tutti i suoi aspetti e dunque del crollo di quei valori tradizionali». ***

    *** «Il neoliberalismo è nemico di qualunque forma di comunità stabile [...] l'estensione del libero mercato agli angoli più remoti del pianeta è ancora più pericolosa del "socialismo reale" per la vita e la cultura delle società del Terzo Mondo», concorda l'economista inglese John Gray in Enlightenment's Wake.

    Ed ancora: «Le nostre vite dipendono da decisioni prese da altri, su cui non abbiamo controllo e che neppure conosciamo; cinquecento, al massimo mille persone prendono tutte le decisioni importanti nel mondo »; una possibile soluzione allo Sfacelo non sta «a sinistra», poiché i progressisti di ogni genìa – marxisti, femministe, sessantottini, post-sessantottini, ecologisti da salotto, sinistri dei campus, fautori del politically correct, omosessuali, internazionalisti, pacifondai e altra spazzatura che s'illudono di combattere la società tecnoborghese aggravandone i mali e costituendone l'alibi – sono solo individui frustrati, pervasi da «bassa stima di sé, senso di impotenza, tendenze depressive, disfattismo, senso di colpa, odio di se stessi», miserabili intrisi della stessa ideologia che porta il mondo alla rovina.

    «Nei mille anni della sua formazione» – aggiunge David Noble – «la religione della tecnologia è diventata un incantesimo comune non soltanto per i progettisti della tecnologia ma anche per coloro che sono stati catturati, e rovinati, dai loro progetti divini. L'attesa di una salvezza finale attraverso la tecnologia, quali che siano i costi immediati umani e sociali, è diventata l'ortodossia non rivelata, rafforzata da un entusiasmo indotto dal mercato per la novità e sanzionata da un desiderio millenaristico di nuovi inizi. Questa fede popolare, indotta in modo subliminale e intensificata dalle spinte delle corporations, dei governi e dei media, ispira un timorato rispetto verso i suoi esponenti e le loro premesse di liberazione, allontanando l'attenzione da problemi più urgenti. Così, senza una ragione, a uno sviluppo tecnologico privo di limitazioni viene permesso di procedere velocemente, senza un attento esame critico o una supervisione. Appelli a una qualche forma di razionalità, a una riflessione sui tempi e sugli obiettivi, a un assennato utilizzo dei costi e dei benefici, persino quando il valore economico è chiaramente molto più alto del guadagno sociale, vengono evitati perché considerati irrazionali. Per chi crede in quella fede, ogni critica appare irrilevante e irriverente. Ma possiamo permetterci di sopportare ancora a lungo questo sistema di fede cieca? Ironicamente, l'impresa tecnologica da cui noi siamo sempre più dipendenti per la conservazione e l'estensione delle nostre vite, rivela uno sguardo sdegnoso e di intolleranza verso la vita stessa».

    In ogni caso il destino del demoliberalismo – di questo mostro assassino – è inscindibile da quello del supercapitalismo, nozione presente anche al superliberale Galli della Loggia: «Siamo entrati in una fase in cui la democrazia non può più contare, almeno nella misura in cui ha potuto farlo finora, sulla carta del benessere [...] Oggi la democrazia deve affrontare contemporaneamente risorgenti fremiti di messianismo politico [come se il supremo e più assassino messianismo non fosse quello democratico! n.d.A.] e il malessere sociale. Non saprei immaginare costellazione più sfavorevole. Forse anche in Europa occidentale si sta avvicinando la grande sfida per la nostra democrazia. Se supererà questa prova, vorrà dire che è veramente qualcosa di profondamente radicato nelle nostre coscienze. L'alternativa è la catastrofe. Bisogna convincersi che uno dei punti di maggior forza delle nostre democrazie è costituito dall'apparato industriale capitalistico, che diventa un fattore di aggregazione per tutte le energie che cercano di preservare uno spazio alla razionalità nell'organizzazione sociale e politica. Essa può mobilitare delle coalizioni di interessi a difesa del sistema liberaldemocratico».

    2. Gli Stati Uniti – la Casa-Madre del Sistema, the Aliens Nation la Nazione di Estranei, the Litigious Society, the Empty Society la Società Vuota, the God's Own Country, il Regolatore della Megamacchina, la Nazione Universale (definizione dell'ebreo Ben Wattenberg) – portano in sé tali e tanti contrasti socio-economici che nell'arco di due generazioni li condurranno, anche a prescindere da imprevedibili eventi politici catalizzatori anti-americani di cui potrebbero essere protagonisti Cina ed Europa o gruppi islamici di guerriglia come è stato l'11 settembre 2001 a New York e Washington, e dall'ovvia feroce reazione scagliata contro i dissidenti prima del crollo, ad una implosione e quindi ad una lacerazione della ragnatela onusica, che solo sugli USA si regge. Segni, peraltro flebili, ne sono:

    a. la loro particolare crisi economica/finanziaria, celata al grande pubblico dallo sfruttamento militare-economico dell'intero pianeta e dall'ubiquitaria imposizione di quella carta-straccia che è il dollaro, e

    b. l'inarrestabile degenerazione della loro vita sociale, nonché altre spie, certamente iniziali e assolutamente minori, ma in prospettiva significative, quali:

    c. la Proposizione 187 dell'8 novembre 1994, quando il 59% dei californiani rigetta il Mito del Crogiuolo approvando un progetto che nega servizi medici e sociali agli immigrati illegali (sei anni dopo, a fine 2000, stando ai dati ufficiali peraltro riduttivi del fenomeno, i bianchi di discendenza europea, che ancora nel 1970 erano l'80% dei californiani, divengono minoranza: 17,4 milioni contro 10,7 di ispanici, 3,4 di asiatici, 2,3 di negri e il resto ebrei, armeni e umanità varia, con aggiunto il fenomeno, ancora più grave, che su quattro neonati solo uno è di stirpe europea).

    E qui, manco dirlo, i capi protesta contro il referendum sono i tre ebrei losangelini Mark Slavkin, presidente delle scuole cittadine, Zev Yaroslavsky, consigliere municipale, e Jackie Goldberg, lesboconsigliera per Hollywood, Silver Lake ed Echo Park (che dopo l'immancabile oloparagone tra l'esito del referendum e le «retate naziste» si vanta: «I'm an illegal alien»), mentre un quarto Arruolato, la giudichessa liberal Mariana Pfaelzer, nel novembre 1996 ne blocca l'attuazione. Nel marzo 1997, mentre vengono arrestati gli ebrei Jerry Stuchiner ed Herbie Weizenblut, funzionari del servizio di controllo dell'immigrazione INS, con l'accusa di avere agevolato per lucro l'immigrazione illegale di cinesi, si scagliano poi contro Clinton e il Congresso, artefici per motivi d'immagine di una più restrittiva legge anti-clandestini, l'ACLU e la testé fondata American Immigration Lawyers Association, capeggiate dagli ebrei avvocatessa Judy Rabinowitz e sociologo Rubin Cohen.

    Altri invasionisti sono Abraham A.M. «Crazy Abe» Rosenthal, editorialista del New York Times con rubrica On My Mind (nulla conta se siete immigrati illegali: «If you are born in America, you are immediately and forever American, Se siete nati in America, siete immediatamente e per sempre americani», 9 agosto 1996), e Peter Salins, la cui ultima opera, Assimilation american style, sottotitolo «Una appassionata difesa di immigrazione e assimilazione quali fondamenti della grandezza americana e del Sogno Americano», viene così presentata dal conservatore Commentary febbraio 1997: «Il sociologo Peter Salins offre argomenti lucidi e altamente suasivi per mantenere viva l'immigrazione, rigettando i pericoli del multiculturalismo e incoraggiando l'assimilazione come unica via per realizzare con certezza il Sogno Americano».

    E non parliamo dell'«italiano» Furio Colombo, tonitruante contro «lo spirito punitivo verso gli immigrati che un paese di emigranti, come gli USA, ha cominciato a dedicare ai nuovi venuti. L'America è stata fondata sul diritto di nascita: chi nasce negli Stati Uniti diventa americano. Era il superamento vitale e coraggioso del "diritto di sangue" europeo, secondo il quale si diventa cittadini di un paese solo per discendenza da cittadini di quel paese. Adesso basta, anche negli USA orologi indietro, ritorno alla brutalità europea [sic!] nel trattare "gli ospiti"».

    Invero, per quanto il 2 maggio 1996 il Senato vari una legge che inasprisce le pene per la falsificazione di documenti, acceleri le procedure di espulsione e diminuisca i sussidi agli stranieri legali e illegali, resta invariata la quota di 750.000 persone annualmente ammesse nel Paese di Dio. Del resto, erano stati gli eletti sociologhi radical Abraham Maslow e Isaiah Minkoff a promuovere nel 1965 l'abolizione del McCarran Act del 1952, che consentiva l'immigrazione praticamente ai soli cittadini europei, mentre sempre nel 1965 il demo-ebraico duo formato dal senatore Jacob Javits e dal deputato Emanuel Celler aveva fatto varare il «ricongiungimento» dei familiari.

    Attivo nella questione fin dal 1922 e fatto nel 1948 presidente dello House Judiciary Committee, il Celler, inneggia l'Encyclopaedia Judaica, «used this position to introduce liberal immigration legislation, usò la sua carica per varare una legislazione liberale in materia di immigrazione». Similmente, ben giudica Peter Brimelow che l'invasionistico Immigration Act del 1965 fu «un atto di vendetta per le umiliazioni inflitte a qualcuno dei gruppi respinti nel 1921-24 e la prova dell'affermazione del loro status nella società americana. Per simpatica coincidenza, ciò fu incarnato dal deputato che nel 1965 promosse la legge, il democratico newyorkese Emanuel Celler. Costui fu allora l'unico deputato presente anche nel Congresso che aveva varato il sistema delle quote nel 1924 [legge che, commenta MacDonald III, fu «percepita dagli ebrei come diretta contro di loro», in quanto «le politiche liberali d'immigrazione sono un interesse ebraico vitale»]. Egli tenne allora il discorso introduttivo in opposizione a quel disegno di legge. Nel 1965, parlando con un'emozione che traspare dai verbali, disse: "Sono felice di vivere oggi e di avere vissuto abbastanza per vedere che le mie idee [di allora] hanno avuto ragione, sono lieto che stiamo oggi per distruggere e annullare e cancellare quell'abominio che si chiama, per l'immigrazione, teoria delle origini nazionali».

    Su tale impegno commenta MacDonald III, sottolineando il callido uso di ideologie umanitario-universalistiche quali forme secolari di giudaismo che, nel perseguimento di precise finalità giudaiche (razionalizzare la continuazione del proprio separatismo/etnocentrismo, e quindi del proprio potere, destrutturando al contempo la società ospitante, considerata sempre potenzialmente ostile), celano il ruolo dissolutore dell'ebraismo sulle strutture delle società ospitanti, trasformate in aggregati non omogenei e culturalmente/etnicamente pluralisti:

    «Il coinvolgimento degli ebrei nel distorcere il dibattito intellettuale sulla razza e l'etnicità sembra avere avuto ripercussioni di lungo termine sulla politica immigratoria americana, ma il coinvolgimento politico degli ebrei è stato ultimamente di significato ancora maggiore. Gli ebrei sono stati "il gruppo di pressione più assiduo nel favorire una politica liberale di immigrazione" negli Stati Uniti per tutto il dibattito sull'immigrazione, fin dal suo inizio nel 1881 [...] I dati storici sostengono l'affermazione che fare degli Stati Uniti una società multiculturale è stato uno dei maggiori obiettivi dell'ebraismo fin dal XIX secolo [...] Come narrato da [Naomi] Cohen, gli sforzi dell'American Jewish Congress per opporsi alla restrizione dell'immigrazione nei primi decenni del XX secolo costituiscono un notevole esempio dell'abilità delle organizzazioni ebraiche di influenzare la politica pubblica [...] Cionondimeno, per timore dell'antisemitismo, ci si sforzò di prevenire la percezione del ruolo avuto dagli ebrei nella campagna anti-restrizioni [...] A partire dagli ultimi anni del secolo XIX, gli argomenti anti-restrizione sviluppati dagli ebrei vennero tipicamente espressi in termini di ideali umanitari universali; come parte di questi sforzi universalizzanti, vennero reclutati non-ebrei di antica ascendenza protestante per farli agire da vetrinisti per gli sforzi ebraici, mentre le organizzazioni ebraiche come l'American Jewish Congress diedero vita a gruppi pro-immigrazione composti da non-ebrei»,

    d. l'abolizione delle «quote razziali» votata il 21 luglio 1995 dall'Università di California e l'approvazione della Proposizione 209 ad opera del 54% dei californiani, che il 5 novembre 1996 le elimina nell'intero Stato (manco ridirlo, il movimento Stop 209 che contrasta la consultazione e ricorre poi alla Corte Suprema è guidato dall'ebrea Kathy Spillar, mentre l'ebreo Mark Rosenbaum, direttore della sinistra American Civil Liberties Union per la California meridionale, spinge il giudice negro liberal Thelton Henderson a bloccare la conversione della proposizione in legge; la legge entra tuttavia in vigore il 28 agosto 1997 dopo la pronuncia della Corte d'Appello Federale),

    e. la bocciatura, con la Proposizione 227, il 3 giugno 1998 e con una maggioranza del 61%, di quel bilinguismo anglo-spagnolo che dalla fine degli anni Sessanta regna nelle scuole pubbliche di uno stato destinato a vedere nel 2020 una popolazione con maggioranza assoluta ispanica,

    f. la sempre più forte opposizione dei bianchi al School Busing Program, che da vent'anni trasporta quotidianamente, in un «educante» tourbillon antirazzista, i ragazzi negri dai loro quartieri alle scuole delle zone bianche e i bianchi alle meno gradite scuole dei «ghetti», ed infine

    g. la formazione di gruppi di resistenza anti-governativi sia neri che bianchi sempre più radicali, per quanto oggi privi sia di prospettive ideo-strategiche che di vera forza economica e militare.

    Della centralità dell'ONU nella difesa repressiva dello status quo mediante la criminalizzazione delle idee e dei gruppi eretici (a prescindere dall'impossibilità di accettare «democraticamente» un'eventuale democratica vittoria elettorale di forze antimondialiste francesi, tedesche, italiane o di altro paese: si pensi non solo agli artt.53 e 107 del suo statuto, ma anche agli artt.29/3 e 30 della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e all'art.18 del Grundgesetz!) è ben conscio anche il mondialista Gerhard Zwerenz, ex Volkspolizist, docente di Sociologia, la cui diserzione dal fronte nell'agosto 1944 era stata, scrive orgoglioso, una «dichiarazione di guerra al nazismo»:

    «Tracciare confini precisi. Ciò che è criminale deve essere perseguito, cosa cui lo Stato è finora mancato. Criminale è ciò che viene definito tale dal Codice Penale. Criminale è il nazismo. Se lo Stato non procede contro di lui, è legale la resistenza (art.20/4 del Grundgesetz). Ribellismo, opposizione giovanile, ricerca di specifiche forme di espressione non sono criminali. Lo divengono in relazione al nazismo [...] La tattica di contrastare il nazismo col silenzio, il disprezzo e la minimizzazione non solo non ha dato risultati, ma gli ha giovato e ne ha reso possibile l'offensiva. È necessaria una difesa antinazista sotto forma di una controffensiva. Poiché in ciò lo Stato è finora mancato, i cittadini devono incalzare lo Stato. Altrimenti esso diverrà una vittima legale del nazismo come nel 1933 [...] Se il popolo fosse incapace di esercitare il diritto di resistenza garantitogli dalla Costituzione e non ci fossero altre possibilità di evitare la profanazione nazista del Grundgesetz (anche in caso d'impossibilità a tutelare da bande assassine la vita di singole minoranze minacciate), dovremmo chiedere l'invio di truppe di pace dell'ONU. Dobbiamo prendere in considerazione anche la possibilità di richiamare le potenze di occupazione alleate, cosa costituzionalmente praticabile reintroducendola nella giurisprudenza. Per quanto discutibili possano essere tali soluzioni, sono assolutamente da preferire alla nascita di un Quarto Reich».

    Parzialmente discordi dalla nostra analisi, ma non opposte ed anzi complementari, sono le considerazioni dell'economista steinerian-calassiano Geminello Alvi I: «La situazione economica degli Stati Uniti non è affatto brillante, checché se ne dica. Il loro sviluppo attuale si deve a una congiuntura speculativa, al differenziale dei tassi di interesse tra l'Europa e l'America. Inoltre è la nazione più ricca del mondo, ma deve importare capitali. E deve importarli da un'altra nazione gravata da un debito enorme e da una situazione finanziaria precaria come il Giappone. Se questo flusso di capitali cessa, gli americani sono in un mare di guai [...] Io non credo dunque che l'America possa vincere nel mondo per la forza dell'economia. Sì, gli americani possiedono le produzioni del futuro, le tecnologie del sogno – cinema, informatica. Ma il resto non è all'altezza di un paese leader. La forza degli Stati Uniti sta nelle bombe atomiche e in un'élite politica capace di gestirle come fattore di potenza. Questo è il vero motivo per cui anche il secolo futuro rischia di essere americano. Non certo l'economia, tantomeno la superiorità spirituale o morale [...] Dobbiamo smetterla di pensare che sia l'economia a decidere. Dobbiamo restituire autonomia agli altri campi della vita. E questo significa avere il coraggio di lasciare andare per conto suo l'economia. Il liberismo in economia è la chiave per uno spiritualismo negli altri campi dell'esistenza. Se noi europei continuiamo a perseguire l'ideale americano di economicizzazione della felicità, poco conta stabilire se l'America sia o no in declino, perché continueremo ad essere americanizzati».

    Ma tornando al Galli della Loggia del gennaio 1994, la soluzione consiste invece – in attesa di passare dalla multirazzialistica salad bowl al monorazzialistico melting pot – nell'accelerare il disfacimento societario europeo, affogando al contempo le culture allogene nel pantano demoliberale: «Il semplice riconoscimento agli immigrati del diritto di voto nelle elezioni amministrative servirebbe a migliorare le loro condizioni di vita [...] immensamente di più di tutte le vacue elucubrazioni sull'incontro tra le culture», aggiungendo, di lì a poco, che «non si può fare l'elogio o accettare il chador [il velo delle donne islamiche], simbolo di appartenenza. No, siamo tutti eguali, abbiamo acquisito i valori della democrazia europea». Il disfacimento di ogni nazione nel cosmopolitismo – la «cittadinanza planetaria» degli Allucinati – è condizione indispensabile per la democrazia, poiché «rinunciare all'universalismo significa aprire una contraddizione molto grave nella costruzione ideologica della democrazia. Vi si può rinunciare di fatto, sottovoce, ma è difficile per un democratico sostenere pubblicamente questa tesi. Perché nel momento in cui si dice che la democrazia funziona per gli inglesi ma non per i cinesi o per i russi, si afferma, di fatto, la prevalenza sugli ordinamenti politici di valori non politici, ma storici, spirituali, psicologici». ***

    Che sono poi, chiosiamo noi, le vere, uniche coordinate che strutturano non solo l'agire politico, ma l'intera vita dell'uomo.

    *** La dissociazione di individui quali il Galli della Loggia – che il 3 novembre 1998 ha l'impudenza di protestare dalla prima pagina del Corriere della Sera contro la neo-«moda» italiana di celebrare la festività USA di Halloween, dimenticando le proprie ricorrenze culturali – viene palesata in Francia da illuministi quali il ministro dell'Educazione Nazionale François Bayrou, che il 20 settembre 1994 vieta nelle scuole l'uso di simboli religiosi «ostentati». Dopo avere favorito il più sfrenato invasionismo terzomondiale esaltandone le peculiarità, la sezione francese del Sistema adotta una misura chiaramente diretta contro il chador e il più radicale abeyas o hijab (che copre il volto femminile lasciando visibili solo gli occhi; più radicale ancora è il burka «talebanico») con la motivazione che «la presenza e la moltiplicazione di segni ostentati» (tra i quali non rientra ovviamente la più discreta kippà) di appartenenza a una religione o comunità, rischia di «separare alcuni studenti dalle regole di vita comune» e devono essere proibite in nome «dell'ideale laico e nazionale» (!: aggettivo osceno sulle labbra di un mondialista). Similmente violatore dei Sacrosanti Diritti ed ennesima attestazione dell'aporia della tirannia liberale è il divieto a ricevere via satellite le TV musulmane imposto dal socialista Guy Briantais, sindaco di Courcouronnes, che il 7 agosto 1995 vieta l'installazione di antenne paraboliche nella cittadina (è anche vero che su 15.000 abitanti il 40% è composto da africani e maghrebini!). Più clamorosi i due casi del «velo» scoppiati nel gennaio 1999: la settimana di sciopero indetta dai 68 docenti «laici» del liceo Jean Monnet di Flers in Normandia a protesta contro i foulard colorati indossati dalle dodicenni Esmanur e Belghin, turche musulmane ortodosse, e l'emarginazione che investe nel liceo di Gran-Combe, nel sud dell'Esagono, le sorelle Romina e Diana, figlie di un francese neo-convertito all'islam. Nel loro caso, dopo uno sciopero attuato dai demodocenti nell'ottobre 1998, si arriva ad un compromesso: le ragazze vengono tenute in una sala isolata, dove possono studiare senza frequentare la classe regolare; i musulmani gridano all'intolleranza, commenta imbarazzato Stefano Cingolani, mentre i repubblicani intransigenti difendono la scuola laica, «sinonimo di integrazione», una scuola «che in realtà oggi si trova di fronte a dilemmi che i princìpi dell'89 non riescono a risolvere» (pilatescamente, il 27 novembre 1996 il Consiglio di Stato decreta che il foulard islamico a scuola, pur essendo incompatibile col buon svolgimento dei corsi di educazione fisica, non attenta alla laicità dello Stato). Quanto all'Italia «ormai multietnica» (così Roberto Zuccolini) nell'ottobre 1999 un disegno di legge «contro le discriminazioni» approvato dal governo D'Alema su proposta della ministra per le Pari Opportunità Laura Balbo, super-invasionista «esperta» del «razzismo» con l'ex-lottacontinuo verde Luigi Manconi, prevede il ricorso ai tribunali per analoga «insensibilità» delle autorità scolastiche. Infine, tornando alla Francia, dopo una circolare che invita tutti gli uffici a contatto col pubblico a dotarsi almeno di un agente arabofono, una seconda circolare del ministero dell'Interno invita con discrezione i gendarmi, per non offendere la sensibilità islamica, a togliersi il kepì nel caso di intervento nei confronti di giovani magrebini, essendo «insultante per un musulmano il presentarsi davanti a lui a capo coperto»: detto fatto, il 25 marzo 2001 a Lunel nell'Héraut, ove il 30% della popolazione è aliena, i poliziotti intervengono a testa nuda per sedare moti di piazza provocati da magrebini.

    * * *

    Il federalismo, faccia nascosta del mondialismo

    Non ci sembra coincidenza che la definizione di melting pot («crogiuolo»: autore il drammaturgo Israel Zangwill) e quelle, apparentemente opposte ma in realtà propedeutiche, di commonwealth of national cultures e cultural pluralism («federazione di culture nazionali» e «pluralismo culturale»: il politologo Horace Meyer Kallen, il superrabbino ricostruzionista Mordechai Kaplan, gli analisti politici Max Gottschalk e Abraham Duker), nation of nations («nazione di nazioni»: il giudice della Corte Suprema Louis Brandeis, i sociologhi Seymour Lipset e Martin Shils), symphony («sinfonia», a significare una società composta dai più diversi orchestranti, necessitante ovviamente di un direttore d'orchestra: ancora Kallen e il superrabbino Judah Magnes), mortar («malta»: lo storiografo William Lecky), peuple ciment («popolo-cemento»: al pari della «malta» riferito da Paul Giniewski ai confratelli, cui da tre millenni spetta il compito di aprire le porte del Nuovo Ordine Mondiale cementando le nazioni nel blocco dell'umanità) e, perché no?, del «genio creatore della storia» e «forza naturale altrettanto sacra e creatrice» (il protocomunista Moses Hess), nonché la loro articolazione sociopolitica da parte di Michael Walzer (union of social unions, «unione di unioni sociali») e Arthur Schlesinger jr (salad bowl, «insalatiera»), concetti tutti alla base dell'impostazione mondialista delle cose, siano – al pari della open society, la «società aperta» coniata dal filosofo Henri Bergson ed imposta dal socio-filosofo Karl Popper – opera tutti, ma proprio tutti, di ebrei.

    Ed egualmente dovrebbero venire considerate con attenzione le considerazioni avanzate su Planète del novembre/dicembre 1970 dal barone «francese» Edmond de Rothschild, il più potente della tribù e probabilmente il più ricco, discendente del ramo napoletano della famiglia, ardente sionista, adepto del Bilderberg e co-fondatore della Trilateral: «L'Europa dell'Ovest, vale a dire i sei paesi del Mercato Comune, più la Gran Bretagna ed eventualmente l'Irlanda e i paesi scandinavi, secondo modalità da definire costruiranno una Europa politica federale, ma poiché ogni individuo sente il bisogno di collocarsi in un ambiente ristretto, egli si identificherà con una provincia, si chiami Württemberg, Savoia, Bretagna, Alsazia-Lorena o paese vallone. In queste condizioni la struttura che deve saltare è la Nazione».

    Ancora più truce ad approfondire il concetto su Entreprise il 18 luglio precedente era stato il confratello e banchiere-associato Jean-Jacques Servan-Schreiber, figlio del vicepresidente della Alliance Israélite Universelle, anch'egli furbesco Trilateral e finto critico del mondialismo nel celeberrimo (a suo tempo) Le Défi américain, «La sfida americana»: «Dobbiamo distruggere a tutti i livelli il concetto di Stato quale depositario del bene comune» («gli Stati odierni sono la tomba dei popoli. Gli Stati sono bestialità collettive», aveva aizzato, mezzo secolo prima, Alfred Döblin in Reise in Polen). L'idea di Patria-Nazione, e quindi di Stato, deve cioè venire distrutta in favore di micro-entità facilmente dominabili da quell'autorità sovrannazionale impersonata non tanto dalla Grande Finanza o da quel plateale Braccio Armato del New World Order che sono gli States, ma proprio dall'autorità «morale» dell'ONU.

    Per proteggere la nascita del Mondo Nuovo dal risorgere degli statalismi, dei nazionalismi e dal «rigurgito» dei «razzismi», primo tra tutti l'«antisemitismo», il più efficace strumento 1. politico-istituzionale, dopo quelli 2. legislativo-poliziesco, 3. scolastico-educazionale e 4. politico-invasionistico, è, come per il Reich sconfitto, cui fu imposta la frammentazione in Länder, 5. il federalismo delle «piccole patrie», cioè la settorializzazione regionale dello Stato-Nazione, operante in sintonia con 6. la lunga mano economico-finanziaria delle imprese multi-transnazionali.

    Ciò, giusta l'antico-sempre-nuovo insegnamento di Ludwig Börne nato Loeb Baruch: «Die Juden sind die Lehrer des Kosmopolitismus, und die ganze Welt ist ihre Schule, und weil sie die Lehrer des Kosmopolitismus sind, sind sie auch die Lehrer der Freiheit. Keine Freiheit ist möglich, solange es Nationen gibt, Gli ebrei sono i maestri del cosmopolitismo, e l'intero mondo è la loro scuola, e poiché sono i maestri del cosmopolitismo, sono anche i maestri della libertà. Nessuna libertà è possibile finché esistono le nazioni» (Briefe aus Paris, 1830-1831, 103a lettera) e di Joseph Roth: «Gli ebrei sono più antichi del concetto di "nazione" [...] Tra la missione degli ebrei di dare un Dio al mondo, e la loro esigenza di possedere un "proprio paese", è contenuta un'enorme contraddizione [...] Erano stati sparpagliati nel mondo per diffondere il nome di Dio» (Der Segen des ewigen Juden, "La benedizione dell'eterno ebreo", 30 agosto 1934).

    Di quel Roth che, recidivo, ribadisce: «Vorrei che non ci fossero patrie. Vorrei vedere su questo mondo nient'altro che un'unica "patria", il paese di Dio, padre di tutti noi, in cui ognuno possa andare in giro o rimanere senza passaporto, senza nome, come più gli piace o come corrisponde alla sua natura [...] Non esiste altra possibilità se non quella che gli ebrei che non si assimilano nei loro paesi, e quelli che non vanno in Palestina pur rimanendo ebrei, diventino i portatori del pensiero di una patria comune. La nostra patria è l'intero mondo» (Jedermann ohne Paß, "Tutti senza passaporto", 6 ottobre 1934).

    Altrettanto illuminanti, Gottschalk e Duker in Jews in the Post-War World: «La migliore speranza per gli ebrei e per l'intera umanità sta in un mondo postbellico fondato su garanzie internazionali e sulla mutua comprensione. Se il futuro dell'Europa sarà costruito sulla cooperazione tra le Nazioni Unite, i diritti individuali e collettivi degli ebrei saranno adeguatamente protetti. Tale collaborazione sarà un fattore vitale per prevenire il risorgere del fascismo e dell'antisemitismo e per salvaguardare la posizione degli ebrei in tutto il mondo [...] I progetti federativi piacciono agli ebrei. L'ordine mondiale previsto da tali piani richiama l'ideale profetico della fratellanza mondiale, così profondamente radicato nel giudaismo [...] In un sistema federativo, le differenze di gruppo nazionali non saranno più in primo luogo politiche e nazionalistiche, ma culturali, linguistiche e religiose. Il problema dei diritti collettivi degli ebrei sarà essenzialmente culturale. Il principio del pluralismo culturale, che agirà in tale sistema, tutelerà automaticamente la vita religiosa e culturale ebraica [...] Gli ebrei amano la pace, di tutto cuore partecipano ad ogni sforzo per impostare una cooperazione internazionale. Inoltre, sono i precursori riconosciuti dei progetti che trascendono tutti i confini geografici».

    «Lo Stato è, nel percorso, un momento storico, che forse ormai tende ad essere anche un pochino messo in crisi come istituzione identificante. L'ebraismo, secondo me, è un modello simbolico che potrà, in futuro, proporsi, se ben gestito, come un Modello Super-Statale», auspica Ileana Chivassi Colombo (Shalom, giugno 1995). «In epoca postmoderna la nozione di sovranità nazionale assoluta si deve arrendere all'interdipendenza internazionale e il mito dello Stato nazionale cede il passo alla realtà della quasi universalità delle comunità politiche multietniche», incita di conserva, riconoscendo nel Patto biblico le radici genetiche del federalismo moderno, il politologo superamericano Daniel Judah Elazar, direttore del Center for the Study of Federalism presso la filadelfiana Temple University e dell'israeliano Jerusalem Center for Public Affairs, ove insegna all'Università Bar Ilan.

    Impudente come i sei Arruolati sull'essenza della regionalizzazione è nel 2000 il sinistro ex-ministro italiano Pierluigi Bersani: «Il vero federalismo non significa una Regione-Stato a base etnico-culturale, poiché ciò sarebbe una chiusura alla globalizzazione».

    Altrettanto chiara, ed ancora più ovvia, la risposta di Vincenzo Mungo, per il quale i movimenti che si propongono di opporsi davvero alla globalizzazione devono assolutamente evitare di frammentare le nazioni storiche per chiudersi a difesa delle «piccole patrie» locali: «In questo caso si avvantaggia enormemente il sistema mondialista poiché esso, proprio perché opera su tutto il pianeta, può facilmente emarginare economicamente e socialmente un singolo paese che decida di estraniarsi dalla realtà mondiale e costringerlo, quindi, alla fine ad adattare le sue strutture sociali e la sua cultura alle esigenze del neocapitalismo. Questo tipo di discorso riguarda, ovviamente, a maggior ragione, i movimenti che si propongono di isolare le "culture" regionali esistenti nelle singole nazioni. Si deve, anzi, ritenere che in questi casi sia proprio l'attuale "Sistema" mondialista ad avere convenienza a che questi movimenti prendano piede. Esso può, infatti, meglio controllare delle realtà molto frammentate, che sono implicitamente più deboli rispetto a Stati nazionali ben organizzati».

    Un trentennio prima, così aveva scritto Dietrich Klagges, nazionalsocialista già capo del governo regionale di Braunschweig dal 1933 al 1945, arrestato, torturato e accusato di «crimini contro l'umanità», nel 1950 dannato all'ergastolo dalla BRD in base alla legge di occupazione, pena ridotta a quindici anni nel 1957 (rifiutando peraltro i testi a discarico in quanto – testuale – avrebbero «testimoniato a discolpa»), scarcerato dopo un dodicennio di vessazioni e morto nel 1971: «Nemici del nazionalismo sono da un lato il particolarismo e il separatismo, dall'altro l'internazionalismo. Il particolarismo e il separatismo non hanno fondamenti ideologici, ma possono lacerare e smembrare una comunità popolare storicamente affermata tanto meglio e con maggiore successo, quanto più determinato è il carattere nazionale, quanto meno si piega a diventare gregge».

    Ed ancora: «Esasperando diversità secondarie di natura e interessi tra le parti della nazione (stirpi, regioni, province), mettendole in primo piano e celando la ben più forte e radicata unitarietà del popolo, il particolarismo minaccia l'unità delle nazioni dall'interno. Esso si preoccupa anche di avocare a sé poteri politici e pertinenze statuali, cosicché il governo nazionale viene esautorato e indebolito fino all'impotenza. Se il particolarismo si spingesse fino a esigere e ottenere una piena autonomia statuale e il distacco di una parte del popolo, diverrebbe infame separatismo. Una tale situazione danneggia sia l'intera nazione sia la parte che si è distaccata. Il popolo della prima viene indebolito, dalla perdita demografica e territoriale, nella sua forza finanziaria, economica e difensiva, anzi in quella sua intera vitalità culturale che ne determina il posto e il rango nel mondo. Ma anche la parte distaccata, misera e insignificante fin dall'inizio, non riesce a difendere la propria esistenza sotto alcun aspetto, non può in autonomia assicurarla. Nel migliore dei casi essa vive delle rivalità dei suoi più forti vicini, nel peggiore è costretta a chiedere protezione ad un popolo straniero, fino a vedersi occupata e incorporata nel nuovo organismo. Diviene vittima o zavorra e parassita della politica di altri. Una condizione separatistica comporta inoltre sul lungo periodo non solo la perdita della coscienza dell'unità del popolo, ma anche la morte di differenze linguistiche, statuali e di destino storico, cosicché sorgono davvero diversità nazionali che renderanno impossibile una riunificazione. In virtù di queste conseguenze funeste per l'unità nazionale, le tendenze particolariste e separatiste vengono di buon grado sostenute dalle potenze straniere, venendo anzi artificiosamente esasperate per indebolire una nazione prospera ed escluderla, o almeno renderla impotente, nella gara per l'affermazione nel mondo».

    Il vero potere onusico non risiede comunque tanto nelle decisioni politiche concrete, il più delle volte di mediocre portata o a rimorchio di decisioni prese in altra sede, quanto nelle funzioni ideologico-morali, nell'influenza politica che deriva al Palazzo di Vetro in quanto suprema istanza di legittimazione. I discorsi, le risoluzioni e tutti gli altri prodotti di tale funzione deliberativa esercitano un'influenza politica diffusa sulla scena mondiale. Nessun governo nazionale può permettersi di trascurare l'incidenza di tali attività, finendo quindi con l'improntare ad hoc sia la propria opinione pubblica che la formazione dei propri uomini politici.

    Come nota Pierre de Senarclens, docente di Relazioni Internazionali e direttore della Divisione Diritti Umani dell'UNESCO: «L'ONU, allo stesso titolo delle istituzioni specializzate di natura politica, ha per mandato la propagazione di certe idee, di certi valori. L'esame dei loro bilanci mostra infatti che la loro attività essenziale consiste nell'organizzare incontri, diffondere le loro raccomandazioni, suggerire politiche [...] Esse contribuiscono alla concettualizzazione e, soprattutto, alla diffusione di numerosi temi politici, particolarmente in campo economico e sociale».

    A tale primaria funzione che forgia immaginarii collettivi universali attraverso vincoli «morali» e indiretti, negli anni Novanta si è però venuta aggiungendo, complice il crollo dell'antagonismo sovietico e l'ingresso della Cina nel Mercato-Mondo, la pura e semplice brutalità. Esercitata, anche senza gli onusici «caschi blu», dalle truppe di Washington con lo sciacallo inglese – vedi Iraq, Bosnia, Somalia, Serbia ed Afghanistan – tale volpina violenza si riallaccia all'invocazione lanciata il 14 giugno 1946 da un decrepito Bernard Baruch, superbanchiere già intimo consigliere di Roosevelt, dal podio dell'onusica Commissione per l'Energia Atomica: «Dobbiamo infliggere un castigo immediato, spiccio e certo a chi violerà i patti raggiunti tra le nazioni. La penalizzazione è essenziale se la pace ha da essere qualcosa di più che un intervallo fra due guerre. E le Nazioni Unite devono prescrivere la responsabilità personale e il castigo secondo i princìpi applicati a Norimberga [...] I popoli delle democrazie non hanno nulla da temere da un internazionalismo protettivo, mentre non vogliono essere fuorviati da disquisizioni attorno a meschine sovranità, usate oggi per indicare l'isolazionismo».

    Affiancano Baruch, nell'analisi critica delle prospettive dell'instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale, sei studiosi:

    1. «Il lessico e la sintassi teorica che usiamo nel riferirci ai sistemi politici occidentali oggi sono gravemente fuorvianti [...] Nel funzionamento effettivo dei sistemi che chiamiamo democratici praticamente nulla sembra corrispondere a ciò che la teoria politica – e il linguaggio dei politici, dei giornalisti e in generale la comunicazione multimediale – presume o tenta di evocare con termini come "sovranità popolare", "partecipazione", "rappresentanza", "opinione pubblica", "consenso", "eguaglianza"» (Danilo Zolo).

    2. «La grande questione del nostro tempo non è se si possa o non si possa arrivare ad un governo mondiale [One World], ma se si possa o non si possa arrivare ad un governo mondiale con mezzi pacifici. Lo si voglia o no, arriveremo a un governo mondiale. La sola questione è se ci arriveremo con un accordo o con la forza» (James Paul Warburg, adepto del Council of Foreign Relations, alla Commissione Esteri del Senato americano, 17 febbraio 1950).

    3. «Dove finirà la marcia del cosmopolitismo? Se non la fermeremo, ci condurrà verosimilmente al comunismo [...] Come in campo sociale la più pura forma di totalitarismo è il comunismo, possiamo esser certi che, se non ci opporremo, il logico sbocco del processo sarà questo. Se dovremo diventare un unico mondo, dovremo essere regolati come un tutto. La libertà, al pari di un'economia libera, può incoraggiare l'anticonformismo. Questo, i nostri governanti totalitari non possono permetterlo» (Bryan Campbell). ***

    *** Quanto al riferimento campbelliano al «comunismo» – ad un comunismo oggi presuntamente defunto – come esito finale del liberalismo, non si spaventi il lettore, poiché basta intendersi sul termine. Invero, controfaccia della stessa medaglia mondialista, il liberalismo reale non è, nel suo più intimo nocciolo, che un «supercomunismo», un «comunismo del benessere» sempre più monopolistico, diverso dal «socialismo reale» solo per la maggiore ricchezza distribuita (in ogni caso: pro tempore). È soprattutto tale aspetto che gli permette di non esercitare particolari repressioni contro i dissidenti.

    Similmente Faye, dopo l'analisi compiuta nel 1985 in La Nuova Società dei Consumi, in Pourquoi nous combattons: «Ben meglio di quanto non abbia fatto il comunismo, [il liberalismo occidentale] ha realizzato il doppio sogno di Marx – e di Trockij: costruire una civilizzazione planetaria e cosmopolita esclusivamente fondata sul materialismo e i rapporti economici. In questo senso, è il capitalismo della civilizzazione occidentale, e non il comunismo, che ha realizzato l'essenza del marxismo».

    Similmente, sempre nel 2001, Aurelio Lepre: «L'Eden laico sognato da Marx avrebbe dovuto essere il punto di approdo del massimo livello di sviluppo economico possibile nel capitalismo, il prodotto di una società ricca, che nel comunismo avrebbe trovato il mezzo per diventarlo ancora di più. Marx voleva il benessere per tutti: è stato anche lui il teorico di una affluent society, egualitaria ma opulenta. Non auspicò mai l'eguaglianza nella miseria [...] Oggi, i più lontani da Marx sono i movimenti che proclamano rivoluzioni o trasformazioni radicali. Se n'erano allontanati già i protagonisti del Sessantotto, che guardavano a Mao Zedong come a un maestro, ma ora il distacco è veramente completo. I nuovi rivoluzionari sono contro la globalizzazione, di cui Marx è stato il primo celebratore. Considerano una sciagura la formazione del mercato mondiale, che per Marx era l'indispensabile premessa per la costruzione di una civiltà universale. Avversano la ricchezza che Marx, invece, riteneva il fondamento necessario all'estrinsecazione di tutte le doti creative dell'uomo. Sono convinti che la natura venga violentata dallo sviluppo industriale, mentre Marx auspicava il suo assoggettamento. Non c'è una sola rivendicazione del cosiddetto "popolo di Seattle" [i presunti «contestatori» da sinistra delle oligarchie finanziarie mondiali, artefici del Nuovo Ordine Mondiale attraverso la globalizzazione delle economie] che lo troverebbe d'accordo. Tra chi difende l'Occidente e chi lo contesta, soltanto i primi potrebbero ancora legittimamente riferirsi a Marx. Non è certo mia intenzione sostenere che egli non sia stato un duro nemico del capitalismo. Ci mancherebbe. Ma non lo è stato della civiltà occidentale, alla quale appartiene in pieno».

    Ed ancora l'antropologa Ida Magli: « Vogliamo deciderci a rompere un tabù? Vogliamo finalmente dirci la verità? Che il comunismo sia stato archiviato è un paradossale equivoco: lo stiamo vivendo. Si è realizzato. E si è realizzato molto al di là di quello che sperava o si proponeva Marx. Per questo non ne siamo consapevoli. È vero, la classe operaia non governa, ma semplicemente perché le classi non esistono più. L'annullamento delle differenze le ha travolte tutte, e al potere non ce n'è nessuna. Tutti uguali, infatti, ha significato tutti ugualmente privi di potere. Con la fine della rappresentanza assegnata, come era avvenuto per molti secoli, ai vari strati sociali (clero, esercito, contadini, borghesi, nobili), si è formato un gruppo specializzato esclusivamente nella gestione del potere; l'unico perciò davvero "diverso" il quale, con il comunismo, difende il suo interesse a che non si formino altre diversità.

    I politici hanno così portato a termine l'opera di Marx proprio in quella parte dell'Europa che non soltanto vi riponeva una fede assoluta (era l'ateismo a mettere a disagio i cristiani, non l'egualitarismo e la solidarietà sociale), ma era anche ricca di spirito imprenditoriale. I grossi capitalisti, quelli che da secoli erano convinti che il mercato, il commercio e il denaro debbano scorrere senza mai trovare ostacoli davanti a sé, hanno capito che la fine delle "differenze", la fine delle classi, la fine degli Stati, la fine dei confini, era una macroscopica estensione della fine delle dogane, l'eliminazione di qualsiasi "barriera".

    È stato così che in Italia e, con l'Unione, in Europa, ha trionfato il comunismo. Un comunismo che possiamo anche chiamare comunismo capitalistico. Ma non è necessario, perché il comunismo può vivere soltanto se è capitalistico; quando non è capitalistico crolla, come è successo nell'URSS, come a Cuba, come in Cambogia, in quanto non si può ridistribuire il denaro senza produrlo [...] Gli Stati dell'Unione Europea condividono questa situazione in quanto l'Unione è nata proprio per questo: estendere al massimo il territorio senza barriere a disposizione di banche, industrie e governanti. Il tema conduttore ripetuto ossessivamente: tutti i popoli sono uguali, tutte le religioni sono uguali, tutti i mestieri sono uguali, tutte le monete sono uguali, è il collante indispensabile al comunismo capitalistico che vede l'emergere di qualsiasi differenza come un pericolo »

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    Purtroppo non lo leggerà nessuno.
    Comunque su!
    Per i pochi che allora vorranno finire...

    Similmente, sempre nel 2001, Aurelio Lepre: «L'Eden laico sognato da Marx avrebbe dovuto essere il punto di approdo del massimo livello di sviluppo economico possibile nel capitalismo, il prodotto di una società ricca, che nel comunismo avrebbe trovato il mezzo per diventarlo ancora di più. Marx voleva il benessere per tutti: è stato anche lui il teorico di una affluent society, egualitaria ma opulenta. Non auspicò mai l'eguaglianza nella miseria [...] Oggi, i più lontani da Marx sono i movimenti che proclamano rivoluzioni o trasformazioni radicali. Se n'erano allontanati già i protagonisti del Sessantotto, che guardavano a Mao Zedong come a un maestro, ma ora il distacco è veramente completo. I nuovi rivoluzionari sono contro la globalizzazione, di cui Marx è stato il primo celebratore. Considerano una sciagura la formazione del mercato mondiale, che per Marx era l'indispensabile premessa per la costruzione di una civiltà universale. Avversano la ricchezza che Marx, invece, riteneva il fondamento necessario all'estrinsecazione di tutte le doti creative dell'uomo. Sono convinti che la natura venga violentata dallo sviluppo industriale, mentre Marx auspicava il suo assoggettamento. Non c'è una sola rivendicazione del cosiddetto "popolo di Seattle" [i presunti «contestatori» da sinistra delle oligarchie finanziarie mondiali, artefici del Nuovo Ordine Mondiale attraverso la globalizzazione delle economie] che lo troverebbe d'accordo. Tra chi difende l'Occidente e chi lo contesta, soltanto i primi potrebbero ancora legittimamente riferirsi a Marx. Non è certo mia intenzione sostenere che egli non sia stato un duro nemico del capitalismo. Ci mancherebbe. Ma non lo è stato della civiltà occidentale, alla quale appartiene in pieno».

    Ed ancora l'antropologa Ida Magli: «Vogliamo deciderci a rompere un tabù? Vogliamo finalmente dirci la verità? Che il comunismo sia stato archiviato è un paradossale equivoco: lo stiamo vivendo. Si è realizzato. E si è realizzato molto al di là di quello che sperava o si proponeva Marx. Per questo non ne siamo consapevoli. È vero, la classe operaia non governa, ma semplicemente perché le classi non esistono più. L'annullamento delle differenze le ha travolte tutte, e al potere non ce n'è nessuna. Tutti uguali, infatti, ha significato tutti ugualmente privi di potere. Con la fine della rappresentanza assegnata, come era avvenuto per molti secoli, ai vari strati sociali (clero, esercito, contadini, borghesi, nobili), si è formato un gruppo specializzato esclusivamente nella gestione del potere; l'unico perciò davvero "diverso" il quale, con il comunismo, difende il suo interesse a che non si formino altre diversità.

    I politici hanno così portato a termine l'opera di Marx proprio in quella parte dell'Europa che non soltanto vi riponeva una fede assoluta (era l'ateismo a mettere a disagio i cristiani, non l'egualitarismo e la solidarietà sociale), ma era anche ricca di spirito imprenditoriale. I grossi capitalisti, quelli che da secoli erano convinti che il mercato, il commercio e il denaro debbano scorrere senza mai trovare ostacoli davanti a sé, hanno capito che la fine delle "differenze", la fine delle classi, la fine degli Stati, la fine dei confini, era una macroscopica estensione della fine delle dogane, l'eliminazione di qualsiasi "barriera".

    È stato così che in Italia e, con l'Unione, in Europa, ha trionfato il comunismo. Un comunismo che possiamo anche chiamare comunismo capitalistico. Ma non è necessario, perché il comunismo può vivere soltanto se è capitalistico; quando non è capitalistico crolla, come è successo nell'URSS, come a Cuba, come in Cambogia, in quanto non si può ridistribuire il denaro senza produrlo [...] Gli Stati dell'Unione Europea condividono questa situazione in quanto l'Unione è nata proprio per questo: estendere al massimo il territorio senza barriere a disposizione di banche, industrie e governanti. Il tema conduttore ripetuto ossessivamente: tutti i popoli sono uguali, tutte le religioni sono uguali, tutti i mestieri sono uguali, tutte le monete sono uguali, è il collante indispensabile al comunismo capitalistico che vede l'emergere di qualsiasi differenza come un pericolo»

    4. «Se dobbiamo salvarci, dovremo certamente rassegnarci a sottostare ad una quantità di cambiamenti politici ed economici altamente sgradevoli e poco accetti alla massima parte della gente. L'indipendenza sovrana dei 140 stati del pianeta dovrà, ad esempio, sottostare ad un unico governo mondiale [...] Possono queste indispensabili riforme essere compiute da un regime non dotato di poteri dittatoriali? Questo è, credo, il vero grande problema politico che oggi dobbiamo affrontare. L'ideale sarebbe naturalmente compiere queste riforme di buon grado [voluntarily] e in poco tempo, senza lottare od odiarsi l'un l'altro. Ma dovremo usare qualsiasi mezzo si renda necessario e ho quindi il presentimento che la carriera di Lenin testimoni di ciò che chiamiamo "l'onda del futuro". Lo penso, in quanto la condizione del pianeta in questo XX secolo è la stessa di quella della Russia nel XIX. L'unico rimedio alla decomposizione e al collasso dello zarismo fu una dittatura ancor più spietata [...] Immagino il mondo tenuto insieme e in pace nel Duemila da una dittatura atrocemente tirannica [atrociously tyrannical] che non esiterebbe ad uccidere o torturare chiunque costituisse ai suoi occhi una minaccia all'accettazione assoluta [unquestioning] del suo assoluto potere [...] Un futuro stato mondiale sarà, letteralmente, a livello mondiale [...] È altamente improbabile, temo, che verrà istituito di buon grado o anche con rassegnazione, dalla maggioranza degli uomini [...] Prevedo che l'umanità dovrà acconsentire ad una qualche forma di rigida dittatura leninista come a un male minore dell'auto-sterminio o di una continua anarchia che esiterebbe solo in un auto-sterminio. Se la riluttante maggioranza accetterà la dittatura su tali basi, penso farà la scelta giusta, perché ciò permetterà la sopravvivenza della razza umana» (lo storico Arnold J. Toynbee, membro Round Table e Royal Institute of International Affairs, in Surviving the Future, 1971).

    5. «Il perseguimento di questi obiettivi richiede un notevole ampliamento dell'uso della costrizione da parte dei governi nei confronti dei cittadini, poiché in null'altro modo, sia all'interno degli stati che nei rapporti internazionali, si potrebbe conseguire una vera omogeneizzazione di nazioni, società, gruppi e individui talmente diversi. Nasceranno da ciò notevoli tensioni sia in campo politico che sociale. Le energie e le risorse dei popoli verranno deviate dalle attività produttive a quelle politiche. Ne potrà certamente derivare un nuovo ordine economico internazionale, ma non sarà un ordine né di libertà né di benessere» (Peter T. Bauer, docente alla London School of Economics, commentando la Declaration on the Establishment of a New International Economic Order, approvata nella VI seduta straordinaria dell'ONU, 1974).

    6. «I governanti del mondo di oggi sono così ossessionati dall'idea di controllarci, di salvarci dalle nostre stesse cattive abitudini e dai nostri istinti primitivi, che non si fermeranno di fronte a nulla. Essi appartengono a una nuova generazione di dittatori ideologici, gli Utopisti del Nuovo Ordine Mondiale. E nessuna utopia è completa senza i suoi gulag» (Vladimir Bukovskij, nella prefazione a Carlo Stagnaro). ***

    *** Suggella il quadro Adolf Hitler, il 21 febbraio 1945: «Gli universalisti, gli idealisti, gli utopisti mirano tutti troppo in alto. Essi promettono un paradiso irrealizzabile e, così facendo, ingannano il genere umano. Qualunque sia la loro etichetta, si autodefiniscano essi cristiani, comunisti, umanitari, o si limitino ad essere sinceri ma stupidi, o intriganti, o cinici, sono tutti dei facitori di schiavi».





    A questo punto, nota il fascista francese Maurice Bardèche – e per apprezzarne fino in fondo l'acume ricordi il lettore che non scrive nei nostri anni felici, ma nel lontanissimo 1949 – «vediamo dispiegarsi davanti ai nostri occhi il panorama del nuovo sistema [...] non si tratta più di servaggio ma di ingerenza, non di controllo ma di pianificazione, non di malthusianesimo ma di esportazioni organizzate; ancor meno di occupazione, soltanto invece di conferenze internazionali, le quali sono una specie di consulti medici sulla nostra temperatura democratica. Intorno al tavolo ci sono tutti, ognuno ha la sua scheda per votare. Non ci sono vinti o vincitori. La libertà regna e ciascuno respira non come si respira con un polmone artificiale, ma come si respira nella cabina di un batiscafo o di un aerostato dove la quantità di ossigeno è regolata da un sapiente meccanismo di immissione. Tutti hanno deposto all'entrata un certo numero di idee false e di pretese superflue, come i maomettani depongono le babbucce prima di entrare nella moschea. Tutti sono liberi, perché ognuno prima di entrare ha giurato di rispettare in eterno i princìpi democratici, ha firmato cioè, prima di ogni altra cosa, un abbonamento perpetuo alla costituzione degli Stati Uniti. Non è forse questa la felicità? Non è un compromesso felice tra i due ostacoli che ci fermavano? Così la quadratura del cerchio viene risolta. La Germania è condannata non solo per avere violato il trattato di Versailles, ma essenzialmente per aver agito contro lo spirito e gli editti della coscienza universale e cioè della democrazia. Può riprendere però il suo rango tra le altre nazioni libere, se giurerà fedeltà alla dea offesa».

    Quali sono le conseguenze pratiche di tale impostazione non tanto politica quanto concettuale? «Il ridurre gli Stati alla condizione di privati cittadini ha come primo risultato il consacramento dell'"attuale" distribuzione della ricchezza nel mondo. L'ineguaglianza sociale si riproduce nella medesima misura negli Stati, e nel medesimo rapporto con gli istituti giuridici. Il cittadino cioè è nominato guardiano dell'ineguaglianza che l'opprime [...] Voi siete liberi, ci si dice, ma liberi a patto di accettare la vostra sorte. Avete diritti uguali a quelli degli altri, ma dovete sapere che gli altri hanno rinunciato al diritto di discutere l'essenziale [...] Democrazia e immobilità: ecco la nostra divisa: tutto va per il meglio nel migliore dei mondi, e perciò s'invitano i diseredati a montare la guardia davanti al patrimonio dei giusti. S'incontrano così e si compenetrano due uomini all'apparenza estranei, il morale e l'economico. Norimberga pretende di garantire la pace. Accade però che la pace e la coscienza universale, benché seggano nell'empireo, sono come i re i quali, diceva Montaigne, sono sì seduti sui loro troni, ma sono pur sempre seduti sul culo».

    Presentendo la molto più tarda approvazione di leggi demorepressive à la Pleven/Mancino, Bardèche traccia, con sbalorditiva precisione per l'epoca in cui fu stilato, il profilo della Quarta Guerra: «Dapprima, abbiamo imparato che non avevamo il diritto di riunirci sulla piazza davanti alla casa del cadì, e di dire: "Questa città fu dei nostri padri ed ora è nostra, questi campi furono dei nostri padri e perciò ci appartengono". E adesso il cadì non ha più il diritto di camminare preceduto dalla spada della giustizia: egli ha abbandonato la sua sovranità, ecco agenti bellissimi con un casco bianco in testa i quali annunciano la pace e la prosperità. Benvenuti, agenti dei nostri padroni! [...] In questo mondo che poco fa sentivamo fluido, sfuggente a ogni definizione e certezza, c'è finalmente qualcosa di stabile, di definitivo, di irrevocabile: le leggi che ci rendono tributari. Da noi, nelle nostre città, più nulla vi è di sicuro, non esistono più limiti certi tra il bene e il male, non vi è più terra su cui poggiare i piedi: ma sopra di noi un'architettura vigorosa comincia a disegnarsi. Il cittadino francese, tedesco, spagnolo, italiano non sa bene quale sorte sia a lui riservata, ma il cittadino del mondo sa che l'impalcatura armoniosa dei patti si innalza per lui. La sua persona è sacra, le sue merci sono sacre, i prezzi di costo sono sacri, i margini di guadagno sono sacri. La repubblica universale è la repubblica dei mercanti. La lotteria della storia è ferma una volta per tutte. Vi è una sola legge, quella che permette la conservazione dei guadagni. Tutto è permesso, salvo il tornare su queste cose. La distribuzione dei lotti è definitiva. Siete in perpetuo venditore o compratore, ricco o povero per sempre, padrone o tributario fino alla fine dei secoli. Là dove le sovranità nazionali si spengono, comincia a risplendere la dittatura economica mondiale. Un popolo non ha più alcun potere contro i mercanti se ha rinunciato al diritto di dire: "Ecco i contratti, ecco gli usi, e voi pagherete questa decima per sedervi". Gli Stati Uniti del Mondo sono una concezione politica soltanto apparentemente: in realtà si tratta di una concezione economica. Questo mondo immobile non sarà più che un'enorme Borsa: Winnipeg dà il corso del grano, New York quello del rame, Pretoria dell'oro, Amsterdam del diamante. Quale rimedio ci rimane se non siamo d'accordo? La discussione tra ricco e povero? Ne conosciamo i risultati».

    «Ci rimane però una consolazione, ed è la coscienza universale che ci governa. Giuristi perfettamente aggiornati ci portano leggi già fatte. Essi sono i guardiani della vestale Democrazia. Simili ai grassi eunuchi che sorvegliano le strade dell'harem, hanno un volto sconosciuto e parlano un linguaggio a noi incomprensibile. Sono gli interpreti delle nuvole. La loro funzione consiste nel metterci a portata di mano i preziosi misteri della libertà, della pace, della verità [...] Oggi la giustizia e la mansuetudine illuminano le vostre fronti! Ingegneri invisibili tracciano con una cordicella il nostro universo. Avevamo una casa, avremo al suo posto la pianta di una casa. Un occhio in mezzo a un triangolo, come sulla copertina di un catechismo, governa la nuova creazione politica. Gli idealisti si sono scatenati. Ogni produttore di mostri ha diritto di parola. Il nostro mondo sarà bianco come una clinica, silenzioso come una camera mortuaria [...] Le nazioni sono evirate. La teoria degli Stati Uniti del Mondo è un'impostura fondata su un postulato politico, e il postulato dell'eccellenza democratica è un postulato esattamente simile a quello dell'eccellenza del marxismo. È inoltre un mezzo di intervento proprio come lo è il marxismo. Noi non siamo più uomini liberi: non lo siamo più da quando il tribunale di Norimberga ha proclamato che sopra le nostre volontà nazionali esiste una volontà universale la quale, sola, può emanare le vere leggi. Non è il piano Marshall a minacciare la nostra indipendenza, sono i princìpi di Norimberga».

    Nel corso sempre più rapido di tale strategia, quarantatré anni dopo, il 31 gennaio 1992, cooptati la Russia eltsiniana e la Cina denghiana nel Consiglio di Sicurezza, viene approvata una dichiarazione, preparata dall'Inghilterra, nella quale si prospetta il diritto dello stesso Consiglio di decidere interventi armati anche a dispetto di qualunque necessità di tutelare la «sicurezza collettiva».

    Del tutto naturalmente, il Direttorio formato dalle tre Superdemocrazie e dai due Supercomunismi riciclati si arroga il diritto di intervenire anche in caso di crisi non-militari, cioè «instabilità in campo economico, sociale, umanitario ed ecologico, quando diventino minacce alla pace e alla sicurezza» (ovviamente, a esclusivo giudizio dei concreti interessi dei Cinque). Il Grande Massacro iracheno, le minacce di bombardare Libia ed Iran, l'occupazione della Somalia per «riportare la speranza» (avallata dal papa polacco), l'invasione di Haiti, le minacce di guerra rivolte alla Corea del Nord (ma egualmente il rifiuto di ogni fattivo intervento contro l'aggressione NATO alla Serbia e il massacro angloamericano rinnovato sull'Afghanistan) sono le prove generali della nuova ONU punitiva.

    Nel frattempo, di fronte alle difficoltà di imporre l'«ordine» al mondo, una strategia altra e alternativa rispetto all'ingerenza «umanitaria», una strategia «conservatrice», «isolazionista» e «tranquillizzante» come quella delle cosmopolite città americane coi quartieri abbandonati al degrado e alla violenza contigui e separati da quelli ricchi e «felici», si fa largo nell'oligarchia internazionale. Progetto alternativo elaborato nei think tanks sistemici, cinico nel riconoscere il fallimento di Utopia, tale strategia, scrivono gli ebrei Max Singer ed Aaron Wildawsky (fondatore dell'Hudson Institute l'uno, docente di Strategia Militare a Berkeley l'altro), contempla, dopo averli sfruttati e sconvolti, l'abbandono a se stessi dei paesi «sottosviluppati»: «C'è un atroce disordine nei sei settimi del mondo né ricco né democratico, e né noi né alcun altro può rendere quella parte del mondo stabile o pacifica nei prossimi decenni. Nel prossimo secolo milioni di persone morranno senza necessità di fame e malattie, di guerra e massacri di Stato e noi non possiamo impedire questi orrori [...] I mezzi di comunicazione moderni ci daranno una poltrona di prima fila al susseguirsi di scene di devastazione e morte». Un sostegno dovrà quindi essere accordato solo agli Stati-cuscinetto lungo la linea che separa gli happy few [i Pochi Felici] dalla Barbarie Antidemocratica. I massacri che infurieranno nella terra incognita dovranno lasciare indifferenti i beati possidentes: ciò che avviene «al di là» è privo di senso. Solo i conflitti a ridosso del Vallo provocheranno la rappresaglia, se porranno in pericolo la prosperità del Regno.

    Ma fermiamoci qui. Una successione di eventi fortuiti può certamente influenzare il corso della storia, ma quando migliaia di eventi «fortuiti» vedono protagonisti gli stessi individui e all'opera le stesse forze spirituali, non può non sorgere qualche più ampio sospetto. O non maturare qualche più approfondita riflessione. Certe «coincidenze», e tanto più certe serie di «coincidenze», non si verificano facilmente. Coincidenza è parola che l'uomo usa quando non sa spiegare perché taluni fatti ed eventi sembrano convergere o davvero convergono. Quella che per taluni è una «coincidenza», non lo è affatto per chi è riuscito a comprendere i legami fra gli eventi. ***

    *** Senza assolutamente volere entrare in una disquisizione sull'esistenza o meno di Grandi o Piccoli Vecchi che tirano i fili dietro le quinte, ci limitiamo a riportare due ammissioni e due commenti. «Siamo riconoscenti al Washington Post, al New York Times, a Time e agli altri grandi giornali, i cui direttori hanno partecipato alle nostre riunioni rispettando per oltre quarant'anni le promesse di discrezione. Di fatto, ci sarebbe stato impossibile portare avanti il nostro progetto se in questi anni fossimo stati sotto i riflettori del pubblico. Ma il mondo è oggi più sofisticato e disposto a marciare verso un governo mondiale [...] La sovranità sovrannazionale di un'élite di intellettuali e di banchieri mondiali è certo preferibile all'autodeterminazione nazionale praticata nei secoli passati» (David Rockefeller, Bilderberg Group a Sand/BRD, il giorno 8 o 19 giugno 1991, riportato sia in Marco Dolcetta che in Eugène Krampon).

    «Qualche tipo di decisioni – quelle a conseguenze globali – dovranno essere prese da assemblee internazionali che rappresentano la popolazione mondiale. L'ordine internazionale dovrà essere organizzato di conseguenza. Ciò comporta l'abbandono volontario della sovranità nazionale così come la si intende oggi» (Club di Roma, Reshaping the International Order, 1977).

    «Quel che si vuole affermare è che, in contraddizione o a complemento delle risoluzioni prese nell'àmbito del governo nazionale, decisioni ufficiose, importantissime ed efficaci vengono prese dall'élite finanziaria senza che venga consultato nessun altro. Sono decisioni che, pragmaticamente, hanno la forza di vere e proprie leggi, perché provocano certi eventi e impediscono il verificarsi di altri [...] Naturalmente non esiste nessun «complotto». Ci sono solo certi atteggiamenti comuni, certi modi paralleli di condurre gli affari, che sono stati adottati da un piccolo gruppo di persone in continuo contatto tra loro» (Ferdinand Lundberg). «Gli scribacchini che ci accusano cercano di affogare nel ridicolo la tesi del complotto. Sarò allora più chiaro: non ci sono complotti della Trilateral, del Bilderberg, del sionismo o della massoneria in riunioni segrete tenute in luoghi segreti. C'è cento volte di peggio: la collusione spontanea di tutti i nemici della libertà contro gli uomini liberi. Cosa vuole il grande capitale? Dei produttori-consumatori intercambiabili e totalmente manipolabili dalla pubblicità. Ciò richiede la dissoluzione delle identità razziali, culturali, professionali e religiose. Cosa vogliono i capi del cristianesimo, dell'islam? Cosa vogliono i partiti? Un gregge che non discute e che non protesta se non quando gli si dice di protestare. Questo è il vero complotto, e non siamo i primi a lanciare l'allarme. In Brave New World l'ha fatto Aldous Huxley» (Robert Dun).

    * * *

    Strategia di morte

    Ed infatti, la strategia della disgregazione dei popoli per facilitare un dominio planetario, quello che sempre più numerosi osservatori indicano col termine mondialismo, non solo appare evidente dai fatti, ma è stato teorizzato e preannunciato con estrema chiarezza dai più diversi Complici di Dio.

    Poiché non è qui il caso di dilungarci su tale aspetto, basti in primo luogo citare il nucleo delle speculazioni compiute dal mistico dotto Yesaiah Tishbi in Torat ha-Rave-ha-Qelippah be-Qabbalat ha-Ari, "La teoria del male e la sfera satanica nella Qabbalah" (1942), riportato da Michael Hoffman II: «La presenza di Israele tra le nazioni redime il mondo, ma non le nazioni del mondo [...] Esso non porta le nazioni più vicine alla santità, ma piuttosto estrae da esse la santità e in tal modo distrugge la loro capacità di esistere [...] Il fine della redenzione totale è distruggere la vitalità di tutti i popoli».

    Egualmente, ma con linguaggio più pacato, con sublime arroganza e sulla scia dell'opuscolo Jewish Survival in the Democracy of the Future, edito nel 1943 dal Research Institute on Peace and Post-War Problems dell'AJC, Rabbi Arthur Hertzberg ricorda le conclusioni dell'insigne Salo Baron, docente di Storia alla Columbia University e presidente della Società Americana di Studi Ebraici (ribadite in particolare il 25 maggio 1940 in un discorso riportato dal Contemporary Jewish Record nel luglio-agosto seguente): «Il giudaismo gode di condizioni migliori quanto più una società è pluralista [leggi meglio: disgregata] in senso culturale e in senso religioso. Per esempio l'impero austro-ungarico, multinazionale e multireligioso, è stato un luogo e un tempo ben più felice per gli ebrei che non la monolitica Germania post-Weimar».

    Concetto, questo del sostanziale anarchismo sociale ebraico – o detto altrimenti: del «progressismo» ebraico, dell'«illuminismo» ebraico, dell'«apertura mentale» ebraica – lumeggiato anche da Charles Silberman: «Gli ebrei americani si dedicano alla tolleranza culturale in virtù della loro convinzione, saldamente radicata nella storia, che gli ebrei sono sicuri solo in una società che accetta un ampio spettro di attitudini e comportamenti, una diversità di religioni e di gruppi etnici. È questa convinzione, ad esempio, e non l'approvazione dell'omosessualità, che porta la stragrande maggioranza degli ebrei americani a sostenere i "diritti degli omosessuali" e ad assumere atteggiamento liberale nella maggior parte delle cosiddette "questioni sociali"».

    Commenta finemente MacDonald III: «Un interesse di gruppo percepito dagli ebrei come concernente il pluralismo culturale trascende le personali posizioni negative nei confronti del comportamento in questione [...] La prescrizione che le società non-ebraiche devono adottare strutture sociali basate sull'individualismo radicale è anzi un'eccellente strategia per la continuità del giudaismo quale coesiva e comunitaria strategia di gruppo [...] Il maggiore pericolo per la strategia di un gruppo minoritario è l'affermazione di un gruppo maggioritario altamente unito e conchiuso, che considera il gruppo minoritario negativamente e come estraneo [outgroup]. Per combattere questa minaccia potenziale, si è scelta la strategia di promuovere attivamente le ideologie universalistiche all'interno della più vasta società non-ebraica, nella quale la categorizzazione sociale ebreo/non-ebreo assume così un'importanza minima. Il giudaismo quale strategia di gruppo coesiva etnicamente fondata continua ad esistere, ma in maniera criptica o semicriptica. Modello esemplare di tale strategia è l'ideologia politica della sinistra: del resto, adottano una simile strategia anche la psicoanalisi e persino forme di giudaismo che minimizzano le diversità fenotipiche fra ebrei e non-ebrei, come il Reform Judaism. Gli interessi ebraici vengono serviti anche agevolando tra i non-ebrei l'individualismo radicale (atomizzazione sociale), mentre gli ebrei continuano a mantenere un potente senso di identificazione di gruppo – il programma della Scuola di Francoforte. Al contrario, l'identificazione di gruppo dei non-ebrei viene considerata un'indice di psicopatologia. Un'importante componente di questa strategia è la decostruzione dei movimenti intellettuali di maggioranza incompatibili con la persistenza del giudaismo. Questi movimenti intellettuali di maggioranza spaziano dall'assimilazionismo radicale (ad esempio, le conversioni forzate al cristianesimo) fino alle strategie esclusiviste basate sull'etnocentrismo del gruppo di maggioranza (ad esempio, il nazionalsocialismo)».

    Niente quindi di più esatto di quanto avanzato nel marzo 1948 su Commentary (articolo Why democracy is better, "Perché la democrazia è meglio") dal sionista Sidney Hook: «La diversità di esperienze [comprese le diversità etniche e culturali], diretta o indiretta, è immediatamente piacevole [...] Ci salva dal provincialismo e dalla tirannia di quanto ci è familiare, che talora può essere talmente forte da renderci incapaci di esprimere le nuove risposte necessarie alla sopravvivenza [...] Crescere nella maturità significa imparare ad apprezzare le differenze».

    «It is the horrible figure of nationalism, political and economic, which grins and mocks at us everywhere, È l'orribile immagine del nazionalismo, politico ed economico, che dovunque ci sogghigna e schernisce», aveva scritto, il 24 settembre 1935, la Chicago Jewish Sentinel.

    «We are on the side of liberalism against nationalism, Siamo dalla parte del liberalismo contro il nazionalismo», ribadisce Rabbi Freehof in Race, Nation or Religion. «Quanto alla politica, gli ebrei sono stati un gruppo fondamentalmente e sostanzialmente liberale [a quintessentially liberal group]. Per almeno duecento anni sono stati strettamente associati coi movimenti riformatori e anche coi gruppi radicali che cercavano di migliorare le condizioni della nostra società, la vita degli svantaggiati e discriminati, e di ottenere la pace», aggiunge Murray Friedman, direttore dell'AJC.

    E «la devozione dell'ebreo americano al liberalismo è più forte perfino della sua devozione al Partito Democratico» – conferma James Yaffe – «Il liberalismo ebraico ha una doppia motivazione. Indubbiamente c'è in esso un forte elemento di idealismo altruista [...] Ma la seconda ragione del liberalismo ebraico è esattamente opposta alla prima. Anche quando è oltremodo altruista, l'ebreo non può fare a meno di farsi questa piccola domanda: "È buono per gli ebrei?" L'esperienza gli ha insegnato che il liberalismo è buono per gli ebrei».

    «L'individualismo tipico delle società occidentali è un ambiente ideale per il giudaismo in quanto strategia coesiva di gruppo» – conferma MacDonald II – «Le società pluralistiche dal punto di vista etnico e religioso sono molto più adatte a soddisfare gli interessi ebraici di quanto lo siano le società caratterizzate da omogeneità etnica e religiosa tra il gruppo [outgroup] non-ebraico. In The Culture of Critique commento i dati che indicano come le organizzazioni ebraiche hanno vigorosamente promosso l'ideologia che l'America dev'essere una società etnicamente e culturalmente pluralistica e che hanno perseguito una politica di immigrazione aperta allo scopo di prevenire l'omogeneità religiosa ed etnica degli Stati Uniti [with the aim of preventing religious and ethnic homogeneity in the United States]. Una società multiculturale in cui gli ebrei sono solo uno dei diversi gruppi tollerati va incontro agli interessi ebraici, poiché in essa c'è una diffusione del potere tra una varietà di gruppi e diviene impossibile sviluppare gruppi [ingroups] non-ebraici omogenei schierati contro gli ebrei quali gruppo [outgroup] altamente visibile».

    In effetti, ponendo l'enfasi sul bene comune di un popolo etno-culturalmente compatto, le società tradizionali sono incompatibili col concetto pluralistico dei diritti dell'individuo – gli elastici Human Rights di ebraico-onusica ascendenza! – perché gli interessi comunitari prevalgono su quelli individuali.

    Ben scrivono quindi i tedeschi Reinhold Oberlercher: «Dove è stata attuata la distruzione totale della Comunità, là fioriscono i Diritti Umani. I Diritti Umani sono il gratuito patrocinio dell'individuo atomizzato [...] Una comunità mondiale di possessori dei Diritti Umani darebbe vita alla Società Totale. Questa specie di Comunità è il grado più alto di distruzione della Comunità che si possa pensare», e Wolfgang Seeger: «Una repubblica mondiale non la si può costruire con popoli liberi, perché questi difendono la loro essenza e non si vogliono piegare al giogo di un governo mondiale che senza riguardi passerà sopra gli interessi dei singoli popoli. Popoli altamente frammischiati, al contrario, si lasciano dominare facilmente».

    Progetto, prassi e privilegio apertamente rivendicati dai Complici di Dio: «Il cosmopolitismo, la cittadinanza mondiale, è l'aspirazione indirizzata al bene dell'intera umanità, collegata all'ideale speranza di un unico popolo mondiale. Alle sue radici questo concetto è genuinamente ebraico e anche oggi trova i sostenitori soprattutto tra gli ebrei» (Zionistisches A-B-C-Buch, Berlino, 1908) e, persino più aperto, il conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, il semi-ebraico ideatore di «Paneuropa», sulla Wiener Freimaurerzeitung "Gazzetta massonica viennese" n.9/10, 1923: «Der kommende Mensch der Zukunft wird ein Mischling sein. Für Paneuropa wünsche ich mir eine eurasisch-negroide Zukunftrasse [...] Die Führer sollen die Juden stellen, denn eine gütige Vorsehung hat Europa mit den Juden eine neue Adelsrasse von Geistesgnaden geschenckt, L'uomo del futuro sarà meticcio. Per l'Europa unita mi auguro una futura razza eurasiatico-negroide [...] Capi ne dovranno essere gli ebrei, perché con gli ebrei una benigna provvidenza, per grazia spirituale, ha concesso all'Europa una nuova nobiltà razziale».

    Commenta vigoroso MacDonald II: «Il pluralismo serve interessi ebraici sia interni (within-group) che esterni (between-group). Il pluralismo serve gli interessi ebraici interni perché legittima l'interesse interno ebraico razionalizzando e patrocinando [nei singoli ebrei] un interesse ad impegnarsi nel gruppo ebraico e a non assimilarsi, funzioni che Howard Morley Sachar definisce "legittimare la difesa di una cultura minoritaria all'interno di una più vasta società ospitante". Il pluralismo etnico e culturale offre una soluzione alla richiesta ebraica di legittimazione nel mondo moderno, perché legittima forme aperte di identificazione ebraica. Il pluralismo etnico e religioso serve anche gli intressi ebraici esterni in quanto gli ebrei divengono uno dei tanti gruppi etnici. Ciò sfocia nella diffusione di influenza politica e culturale tra i vari gruppi etnici e religiosi, divenendo difficile o impossibile sviluppare gruppi coesivi di non-ebrei uniti nella loro opposizione al giudaismo. Abbiamo visto che storicamente i maggiori movimenti antisemiti sono nati in società omogenee dal punto di vista religioso o etnico. Società etnicamente e religiosamente pluralistiche sono dunque più adatte a soddisfare gli interessi ebraici di quanto non lo siano società non-ebraiche caratterizzate da omogeneità etnica e religiosa».

    Ed è proprio per questo che, nonché perorare con le strategie più diverse – dai più beceri discorsi genericamente «antirazzisti» (exempli gratia, per stare all'Italia: il Guido Bolaffi) alle incessanti rampogne contro il «gretto provincialismo» dell'Europa bianca (Tullia Zevi: «Da continente bianco e monoculturale l'Europa sta diventando multirazziale e policulturale. Non è preparata. A noi tocca educare al pluralismo religioso, etnico, politico e culturale», in Corriere della Sera, 13 agosto 1992), dalle aperte istigazioni repressive (il deputato repubblicano Enrico Modigliani, il vero padre della Legge Mancino) *** e dalle alate pressioni pro-«libertà di religione» (Claudio Morpurgo) al sostegno all'erezione di moschee (la Zevi e il caporabbino Elio Toaff) – l'invasionismo anche di gruppi virtualmente o realmente antiebraici-«antisemiti» come quelli islamici... ed è proprio per questo che l'ebraismo ufficiale, ed anzi l'intero ebraismo, tace o minimizza gravi e ripetuti episodi che, come nell'ottobre 2000 per reazione alla spietata repressione della seconda intifada, vedono in pochi giorni gruppi musulmani assalire a colpi di molotov e attentati incendiari le sinagoghe di Trappes, Bondy e Noisy-le-Sec alla periferia di Parigi, di Seyne-sur Mer nei pressi di Tolosa, di Rouen, Lilla, Tolosa, Lione e Strasburgo, più un'altra decina nelle settimane seguenti (all'opposto, bastano una barzelletta antiebraica o uno sfregio a vernice compiuto da una qualche «testa rasata» incosciente o prezzolata, per scatenare contro il «rinascente nazisno» la canea dell'«indignazione democratica»).

    *** Vedi Appendice.

    Nulla di diverso aveva previsto nel lontano 1941 il tedesco Walter Grundmann: «L'ebraismo non vuole uno Stato conchiuso in una visione del mondo, non vuole un popolo unito in un credo [Das Judentum will keinen weltanschaulichen geschlossenen Staat, will kein glaubensmäßig geeintes Volk], poiché solo la frammentazione e la decomposizione gli danno la possibilità di imporsi sfruttando il disaccordo».

    E gli stessi concetti hanno espresso, seppure con altre parole e differenti angolazioni, sia il fascista Bardèche: «La supremazia del mercante scompare quando entra in scena la sovranità nazionale», sia, dibattendo in favore della moralità del «libero» commercio, il filo-ebraico Paul Johnson: «Solo un impegno risoluto impedirà che nel prossimo secolo nascano un mucchio di fortezze mercantilistiche [leggi, recte: aree geopolitiche protezionistiche e autocentrate]».

    Ed ancora Ronald Reagan nel febbraio 1987, conferendo al boss dell'Anti-Defamation League del B'nai B'rith Nathan Perlmutter la Presidential Medal of Freedom: «Voi avete fatto più di molti altri per rafforzare la tradizione americana dei diritti individuali [...] il destino degli ebrei è indissolubilmente legato al destino della democrazia», e come Reagan il sinistro Francesco «Bifo» Berardi: «In questo senso l'ebreo è il rappresentante di un carattere essenziale all'uomo moderno: la deterritorializzazione, la disidentità, lo sradicamento. Perciò la demonizzazione dell'ebreo è tutt'uno con la ripulsa di un carattere profondo della condizione moderna, il carattere della non territoriabilità, del nomadismo e cosmopolitismo che sono segno vitale dell'inquietudine della modernità [...] in quanto figura dell'erranza, l'ebreo rappresenta l'estraneità alle tradizioni culturali stabilite, all'appartenenza territoriale, alle identità nazionali».

    Ed ancora Piero Sella, rilevando con echi dell'analisi psicologica weiningeriana la fisiologica concordanza tra ebrei e posizioni antinazionali/antifasciste: «Condizionato dalla sua mentalità analitica, ipercritica, dal suo soggettivismo che gli preclude ogni costruttività, l'ebreo rifiuta la compattezza del fascismo. Quintessenza del minoritario, l'ebreo rifugge da ogni concezione totalitaria [altrui, beninteso!], comprendendo di trovarsi, in tale visione di vita, del tutto spiazzato. Una linea politica nazionale, unitaria, non gli offre alcun varco. È quindi tipico che egli eserciti la sua influenza in ambienti politici che, per qualche sfumatura tra loro distinti, siano però tutti accomunati da scelte di fondo demo-internazionaliste, compatibili quindi con quelle del sionismo. È un approccio alla politica, questo, che gli consente di raccogliere consensi all'esterno della propria ristretta cerchia e di costruirsi, con forze altrui, quell'esercito che, in modo autonomo, per questione di numero, gli è impossibile mettere in campo. Gli ebrei costituiscono di fatto il telaio intellettuale ed organizzativo di tutti i raggruppamenti antifascisti, da quelli della sinistra a quelli più moderati della destra liberalcapitalista».

    Del resto, prima di Grundmann, Bardèche, Johnson, Reagan, Berardi e Sella la tesi era stata formulata dal sionista radicale Jakob Klatzkin nel 1921 in Krisis und Entscheidung im Judentum, "Crisi e decisione nell'ebraismo" (nato da uno straordinario saggio sull'essenza del giudaismo apparso sul mensile Der Jude n.9, 1916): «L'America si trova ancora nel mezzo del suo farsi nazione, ancora non esiste un americanismo. Quando il suo miscuglio di popoli uscirà dal crogiolo come unità ed assumerà la fisionomia di nazione, non potremo più tenere nelle nostre mani la nostra colonia d'oltreoceano [werden wir auch unsere überseeische Kolonie nicht behaupten können]. Noi possiamo vivere come nazione solo fra quei popoli che non hanno ancora raggiunto la loro maturità nazionale». ***

    *** Dell'articolo su Der Jude ci ragguaglia in primo luogo Ernst Seeger in Der Krieg der unsichtbaren Fronten - Vom Kriegsrecht der Juden, "La guerra dei fronti invisibili - Sul diritto bellico ebraico", edito in proprio a Tübingen nel 1933. In esso Klatzkin riconosce che gli ebrei sono, prima che una comunità religiosa, una comunità giuridico-economica dotata di specifici codici di comportamento, poiché il giudaismo, prima che una religione, è una Costituzione statuale che, pur formalmente accettandoli ed anzi subendoli, rigetta gli ordinamenti e le Costituzioni degli altri Stati: «Il segreto della nostra durata nel galut va cercato nella nostra religione. Essa è la forza che ci separò dai popoli e ci mantenne uniti nella diaspora. Le mura esteriori del ghetto alzate dai nostri nemici non avrebbero potuto adempiere a tale compito. Invece le mura interiori, che abbiamo fondato con la nostra religione, portato con noi nelle peregrinazioni e sempre rafforzato quando ci fermavamo in nuovi centri, queste mobili "tende di Giacobbe" sono ciò che ci hanno ovunque assicurato una patria. Il giudaismo è ricco di recinzioni che delimitano il nostro essere contro il mondo che ci circonda e allontanano ogni cosa straniera. Il giudaismo è ricco di forme che ci uniscono e contrassegnano nella sostanza e nella forma. Diversamente dalle altre religioni, la nostra non è una dottrina concettuale, ma una dottrina giuridica. Nelle nostre leggi opera il diritto all'autodeterminazione. Abbiamo perso il nostro Stato ma non la costituzione del nostro Stato; la salvammo in quanto Stato da portare con noi, ed essa ci rese possibile un'autonomia nazionale anche nella diaspora».

    Ed ancora: «Certo, molte leggi persero valore dopo la perdita del nostro Stato, ma in complesso la nostra Costituzione spirituale restò sempre in vigore; venne ampliata, completata e perfezionata da più puntuali decisioni. Solo il codice giudaico resse e conformò la nostra vita in ogni espressione. Solo la giurisprudenza giudaica fu determinante. Mai ci siamo appellati alla giurisprudenza dei goyim, mai ne abbiamo riconosciuto i codici. Quando ci hanno costretto alle loro leggi, le abbiamo considerate imposizioni gravi e maligne, che sempre ci siamo adoperati a rimuovere o aggirare. Esse hanno mantenuto il carattere di "gserot [sciagura, violenza] di un empio dominio" anche quando siamo stati costretti ad accettarle con la formula "la legge del paese è la legge" [dina de-malkuta dina, cioè: "vale il diritto dello Stato"]. Perciò il delatore (mossar), cioè un ebreo che aveva denunziato al potere un confratello, fu sempre condannato a rifondere il danno o a scontare altra pena ed espulso dalla Comunità. I nostri esilarchi, gaonim e rabbanim non erano sacerdoti e curatori di anime... come piace definirsi, seguendo la spiritualità cristiana, ai moderni rabbini occidentali che riducono il giudaismo a Chiesa; erano invece capi e amministratori della Comunità; erano giudici, dajanim; erano le massime autorità del nostro Stato in esilio [...] Quindi il dominio straniero non ha potuto sottrarci la nostra auto-amministrazione, finché siamo rimasti sotto lo scudo delle nostre leggi e dei nostri giuristi. Non siamo stati una comunità di fede, ma una conchiusa comunità giuridica ed economica. Non tanto una professione di fede, quanto un codice di comportamento fu la struttura portante del nostro popolo. Non la dottrina religiosa ed etica del giudaismo, quanto le concrete forme della Costituzione del nostro Stato ci separarono da tutte le nazioni ove ponemmo le tende. Non riposammo nei giorni di riposo del popolo che ci ospitava, né festeggiammo nei suoi giorni festivi, non partecipammo delle sue gioie e dei suoi dolori, non ci demmo cura del benessere di uno Stato che ci era estraneo. Un possente muro, da noi stessi eretto, ci separò dal popolo che ci ospitava, e dietro il muro visse uno Stato ebraico in miniatura [...] Così abbiamo chiamato "Terra di Israele" la nostra residenza in Babilonia. E rav Huna potè dire: "In Babilonia ci consideriamo come in Terrasanta. Anche in ogni altra terra ove poi ci stabilimmo, il ghetto – che aveva fondamento e ragione nella nostra costituzione giuridica e non nei malvagi propositi dei nostri nemici – fu uno Stato nello Stato"».

    Commenta al proposito l'«antisemita» Ernst Seeger: «Se l'ebraismo non volle dissolversi, se non volle "assimilarsi", dovette, lottando per il proprio essere e la propria sopravvivenza – lotta nata da un particolare rapporto amico-nemico con gli altri popoli – fare esperienze e da tali esperienze formarsi regole di vita. Tale ufficio lo compì il rabbinismo, ponendo nella Bibbia e nel Talmud le esperienze della lotta per l'essere e la sopravvivenza della comunità religiosa giudaica. Ciò che per il contadino sono la tradizione e gli insegnamenti contadini, per l'ebreo è la tradizione della Torah e del Talmud. Come il contadino perderebbe la propria contadinità abbandonando la tradizione contadina, così l'ebreo perderebbe la propria ebraicità abbandonando la tradizione talmudica. Rinnegare la tradizione talmudica, se fosse peraltro possibile, equivarrebbe per l'ebreo a perdere se stesso. Se vogliamo penetrare lo spirito della legislazione ebraica nella Torah e nel Talmud, dobbiamo cercare di penetrare il significato della lotta rabbinica per il popolo ebraico. Il significato di questa lotta è: "Preservazione del popolo ebraico ad ogni costo"».

    Quando essa fosse raggiunta, suggerisce il Supremo Nazihunter Szymon Wizenthal in «Giustizia, non vendetta», nascondendosi dietro il dito della necessità di punire l'«aizzamento all'odio di razza», va comunque distrutta: «La componente più importante di questo incitamento è ancora oggi la xenofobia: dovunque compaiano – in Inghilterra, in Francia, in Austria o negli Stati Uniti – i neofascisti invitano la maggioranza a difendersi dall'"invasione straniera". Dall'invasione degli immigrati di colore dalle colonie britanniche, dall'invasione degli immigrati di colore dalle ex colonie francesi, dall'invasione dei Gastarbeiter jugoslavi o turchi, dall'invasione dei messicani o dei portoricani. Gli ebrei in questi opuscoli non sono menzionati per primi, è vero, ma duemila anni di storia dimostrano che sono sempre loro i primi a essere colpiti».

    Last but not least, a sostenere l'indispensabilità, per le fortune del pesce ebraico, del mare inquinato dell'incoscienza multirazziale, *** è la Calabi Zevi, che invoca nel maggio 1993, al Congresso Mondiale Ebraico in Gerusalemme, l'integrazione europea contro «il risorgere dei nazionalismi fanatici rinfocolati dallo spettro delle guerre di religione» (integrazione beninteso economico-finanziaria e a prescindere dalle radici spirituali-razziali del continente).

    *** Benjamin Ginsberg, docente di Storia alla Georgetown University, nota comunque, ben finemente per chi abbia orecchie, che «il liberalismo ebraico è più un fenomeno istituzionale che attitudinale [...] lo schierarsi politico degli ebrei si basa su una scommessa istituzionale a lungo termine, più che su compiacenti atteggiamenti e opinioni altrui».

    Dopo avere plaudito per settant'anni al criminale assemblamento sudslavo compiuto a Versailles, l'ebraismo, non pago dei milioni di morti provocati dall'utopia modernista, insiste per bocca zeviana a propagare il veleno del multietnicismo: «Ho cercato di mettere in guardia contro le nuove ideologie dello Stato omogeneo. Noi ebrei fungiamo in questo caso da cartina di tornasole, fu così durante gli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale [...] Mi sembra ingiusto che si sia accettato il principio del sezionamento del paese su criteri etnici. Non credo sia difficile capire perché una minoranza come quella ebraica rimpianga lo stato federale. Ecco perché occorre insistere subito sull'unità europea quale unica garanzia per il pluralismo e la difesa delle minoranze».

    A convalidare la nobiltà di tali tesi, nel medesimo giorno gli israeliani innaffiano di piombo le folle palestinesi nei Territori Occupati assassinando cinque persone, tre delle quali durante un funerale, e ferendone decine.

    Appendice - Il vero autore della Legge Mancino

    A dimostrare la centralità del Paradigma Olocaustico nell'immaginario contemporaneo, è anche, intrecciata con la lotta al revisionismo storico, la crociata condotta dal Sistema contro il «razzismo».

    Tra i percorsi legislativi più emblematici quanto alla duplice repressione del pensiero, è quello francese. Invero, se già il Palazzo di Vetro ha imposto agli Stati di recepire, dopo il delirio dei Sacrosanti Human Rights, la repressione mondialista incarnata dalla "Convenzione Internazionale sull'Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale" (aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966 e recepita in Italia dalla legge 13 ottobre 1975 n.654) e se già l'antesignano Israele ha posto il veto ad ogni olodubbio il 16 luglio 1986, il primo tra i paesi del Libero Occidente a introdurre nella propria legislazione il crimine di revisionismo storico è la Francia. ***

    *** Specifiche leggi antirevisioniste varano l'Austria il 26 febbraio e 19 marzo 1992, la Germania il 28 ottobre 1994 ampliando l'art.130 del Codice Penale (complessivamente, gli articoli dello StGB Strafgesetzbuch rivolti a reprimere il «delitto di opinione» sono i nn.84, 85, 86, 86a, 90, 90a, 103, 104, 130, 131, 166, 185, 186, 187, 188 e 189), la Svizzera il 1â gennaio 1995, il Belgio il 23 marzo 1995 (all'obliqua legge del 30 luglio 1981 «tendant à réprimer certains actes inspirés par le racisme et la xènophobie» segue la più specifica legge «tendant à réprimer la négation, la minimisation, la justification ou l'approbation du génocide commi par le regime national-socialiste allemand pendant la seconde guerre mondiale», che per tale «crimine» infligge da otto giorni ad un anno di carcere), la Spagna l'11 luglio 1995, il Lussemburgo il 19 luglio 1997 (rifacimento dell'art.457/3 del Codice Penale, che colpisce col carcere da otto giorni a sei mesi o con ammenda da 10.000 a un milione di franchi «chi contesta, minimizza, giustifica o nega l'esistenza di uno o più crimini contro l'umanità o crimini di guerra, come definiti nell'art.6 dello statuto del Tribunale Militare Internazionale [...] e compiuti da un membro di un'organizzazione dichiarata criminale dall'art.9 del detto statuto o da altro individuo, dichiarato colpevole di un tale delitto da un tribunale lussemburghese, straniero o internazionale») e la Polonia nel gennaio 1999. In Canada e in Australia reprimono il pensiero, più subdole, le Human Rights Commissions, dotate di poteri quasi-tribunalizi. In Inghilterra, Italia (a parte un tentativo, abortito, di varare una legge-museruola da parte del primo governo berlusconico nell'autunno 1994), Cechia, Svezia ed Olanda un residuo pudore vieta, per ora, formule di tale brutalità. Anche se alla bisogna intervengono, disinvoltamente riesumate, norme «antifascio-razziste», «antisobillazione» o «antidiscriminazione»: in Albione il Public Order Act del 1986, nella Penisola la Legge delle Tre M, a Praga gli articoli 198a e 260 del Codice Penale, a Stoccolma l'art.8 del XVI capitolo del Codice Penale, in Tulipania l'art. 429/4 del Codice Penale.

    A chiarirci le cose nel modo più limpido è infatti il presidente socialista François Mitterrand, firmatario della legge 90-615 – alias «Fabius-Gayssot» o anche solo «Gayssot, eponimizzata dai cognomi dell'ebreo socialista Laurent Fabius e del goy comunista Claude Gayssot – il 13 luglio 1990, vigilia della 201a ricorrenza della Gloriosa Bastigliese, coi ministri Rocard, Dumas, Arpaillange, Chevènement, Tasca, Pierre Joxe e Jack Lang (i due ultimi, anch'essi ebrei). La legge liberticida, progettata fin dal 2 giugno 1986 sulla falsariga della legge Pleven del 1° luglio 1972 (a sua volta impostata sul Decreto Marchandeau del 24 giugno 1939), riceve inatteso vigore dalla Isteria Democratica e dalla Mobilitazione Generale scatenate dopo che, nella notte tra il 10 e l'11 maggio, era stato opportunamente profanato da ignoti/immondi «nazisti» il cimitero ebraico di Carpentras, in Provenza.

    Ideata sotto l'egida del Gran Rabbino René-Samuel Sirat da una cricca formata dal mulatto Harlem Désir, dal bianco Jean-Pierre Azéma e dall'ebraico quintetto composto da Hélène Ahrweiler, François Bédarida, Serge Klarsfeld, Pierre Vidal-Naquet e George Wellers, la 90-615, pur respinta due volte dal Senato, viene approvata dall'Assemblea in seduta notturna il 29-30 giugno da 308 socialcomunisti, di cui 305 assenti (ma con delega conferita ai tre presenti), contro 265 oppositori, di cui 263 assenti. I due unici oppositori presenti sono il deputato liberalgollista Louis de Brossia e la rappresentante del Front National Marie-France Stirbois (unico deputato del FN in virtù del sistema elettorale maggioritario, malgrado il partito di Le Pen abbia raccolto il 13% dei suffragi).

    Senza pudore, l'art.9 suona: «Saranno puniti delle pene previste [...] coloro che avranno contestato, attraverso uno dei mezzi enunciati all'art.23, l'esistenza di uno o più crimini contro l'umanità, come sono definiti dall'art.6 dello statuto del Tribunale Militare Internazionale annesso all'Accordo di Londra dell'8 agosto 1945 e che sono stati commessi sia dai membri di una organizzazione dichiarata criminale in applicazione dell'art.9 del detto statuto, sia da una persona riconosciuta colpevole di tali crimini da un tribunale francese o internazionale».

    Ancora non soddisfatti della repressione del pensiero ottenuta con l'Oscenità Fabiusiana, a partire dal dicembre 1992 gli ebrei Charles Korman (avvocato della LICRA) e Patrick Gaubert (incaricato dal ministro dell'Interno Charles Pasqua della «lotta contro il razzismo e l'antisemitismo») *** vanno elaborando dispositivi legali ancora più duri e restrittivi, che per il «crimine» di revisionismo non prevedono più pene da un misero mese ad un anno di carcere, misere multe da 2000 a 300.000 franchi e sanzioni a favore di associazioni «antirazziste», ma le elevano a due anni di carcere e mezzo milione di franchi, oltre a più dure sanzioni suppletive; per il 1995, «anno europeo dell'armonia tra i popoli» – il delirio è del «belga» Arieh Doobov in The Jerusalem Report del 20 maggio 1993 – è previsto il varo di un duplice piano contro l'«intolleranza razziale» e il revisionismo storico da parte dell'Europarlamento.

    *** Patrick Gaubert, dentista, nato nel 1948 a Parigi XVI da Ancial Goldenberg di Craiova/Romania, è marito di Eliane Frenkel, ereditiera, immobiliarista e amministratrice degli Etablissements Frenkel, casa di produzione e vendita di tessuti e indumenti, il cui padre Harry è primario importatore «francese» di jeans. Ispiratore del ministro dell'Interno balladuriano Charles Pasqua in quanto «chargé de mission pour la lutte contre le racisme et l'antisémitisme», l'ex-Goldenberg, è membro d'onore del Mossad e boss della LICRA, della quale nel 1999 diviene presidente subentrando a Pierre Aïdenbaum. Presidente del gruppo DAVID Décider et agir avec vigilance pour Israël et la Diaspora, è tra i più feroci militanti sionisti, antirevisionisti e invasionisti.

    Nella primavera 1993 anche in Italia, prendendo a pretesto l'esistenza dei cosiddetti naziskin – superior stabat lupus, già ammonì Fedro – e le atrocità della lotta interetnica nell'ex Jugoslavia, sulla scia delle leggi anti-revisioniste che imperversano in Europa e sull'onda emotiva di fatti montati quali l'«aggressione neonazista» a suon di benzina e sfregi denunciata il 15 aprile dal cingalese Mohideen Nowfer (tosto precipitata nel dimenticatoio da ogni demo-maître-à-penser dopo la scoperta che lo «squilibrato» le lesioni se le era auto-inferte per attirare commiserazione dai benpensanti), il Regime di Occupazione Democratica approva un decreto-bavaglio. Immerso nella melma della corruzione, timoroso delle crescenti reazioni popolari contro un'immigrazion insensata e criminale, col pretesto di punire il «vilipendio», l'«incitamento all'odio razziale» e la violenza «di stampo razzista» il governo del socialista Amato pone, in extremis prima delle ingloriose dimissioni, le basi per punire col carcere fino a sei anni ogni indagine storica «non conforme», in particolare ogni critica al Popolo Santo.

    Il terroristico decreto n.122 del 26 aprile 1993, convertito il 25 giugno nella terroristica legge n.205 «Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa», formalmente nato nel cocuzzolo del sessantottin-socialista Claudio Martelli, conferisce infatti dal 27 aprile 1993, giorno di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n.97, poteri di repressione discrezionale pressoché illimitati non solo ai magistrati, ma anche direttamente agli organi di polizia. Ciò, in virtù della criminalizzazione del pensiero, dell'evanescenza del vocabolo «discriminazione» (vedi la critica dell'ebreo Pierre-André Taguieff, scettico sulla possibilità di trovare al termine un nucleo semantico che lo definisca inequivocamente in riferimento alle infinite situazioni percepite come «discriminatorie») e dell'assoluta vaghezza precettizia. Con tale pronuncia legislativa il vero problema è rappresentato dall'arbitrio riposto nelle mani di un qualsiasi procuratore della repubblica e di un qualsiasi funzionario di polizia che vogliano perseguire semplici esposizioni di idee contrarie alle loro (compresa, ad esempio, come afferma nel settembre 2001 il già detto ministro leghista Roberto Maroni, la necessità di adottare una corsia immigratoria «preferenziale» per i figli e i nipoti degli italiani un tempo emigrati), affermando che le stesse sarebbero fondate sulla «superiorità», sull'«odio» o sulla «discriminazione» razziale. Criminalizzando, cioè, espressioni di pensiero fondate sul ragionamento, sullo studio e sull'approfondimento storico.

    Le supreme finalità del democratico abominio vengono esplicitate nell'anniversario della Liberazione Antifascista dal ministro democristiano di Polizia Nicola Mancino (guidato nel percorso non tanto dal Martelli, quanto dal caporabbino di Roma Elio Toaff e dal deputato repubblicano Enrico Modigliani, ebreo, il vero artefice della legge). Nessuno osi alzarsi contro il Bene del Mondialismo e le Bellezze del Multirazzialismo: l'Europa e l'Italia devono svolgere il ruolo di province dell'Impero, trangugiare anch'esse, volenti o nolenti giusta il monito di James Paul Warburg, il boccone mortale.

    Il 25 aprile 1993 concorda quindi Mancino (otto mesi dopo inquisito coi tirapiedi del servizio segreto SISDE per una torbida vicenda di sottrazione di fondi statali, poi defilatosi per un triennio, assurto dal maggio 1996 al maggio 2001 a seconda carica dello Stato quale presidente del Senato con il democristosinistro Romano Prodi, il neocomunista Massimo D'Alema e nuovamente il mondialista ex-socialista Giuliano Amato, infine addirittura favorito nella gara a Inquilino del Quirinale nell'aprile 1999): «Siamo ormai una società che deve guardare alla sovrannazionalità e alla multirazzialità». Rimobilitato per rinverdire l'Immaginario Partigiano, ribadirà il concetto, incitando al liberticidio, il 25 aprile 2000: «Al razzismo riaffiorante si unisce un revisionismo che non ha alcun diritto di cittadinanza storica e culturale. Guai se noi italiani esorcizzassimo, in nome di una presunta bonomia, i fantasmi che agitano le nostre città. Guai se tollerassimo come semplici ragazzate lo sventolio di simboli di morte» (corsivo nostro).

    In parallelo Tullia Calabi Zevi, testé fatta decima «donna coraggio» dall'Associazione Nazionale Donne Elettrici di Brescia (il 31 marzo, «nel salone vanvitelliano di Palazzo della Loggia, alla presenza del prefetto Antonio di Giovine, del sindaco Paolo Corsini, di Flavia della Gherardesca, presidente nazionale dell'ANDE e di Beatrice Rangoni Macchiavelli, presidentessa del gruppo attività diverse dell'assemblea economica della Comunità Europea», giubila Shalom n.4/1993) e «Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana», su proposta del presidente del consiglio Amato, dall'Inquilino del Quirinale Oscar Luigi Scalfaro (anch'egli, per inciso, coinvolto nel novembre 1993 nell'ipotesi di sottrazione di fondi compiuta quale titolare del Viminale, indagato per abuso d'ufficio nel giugno 1999 ed infine archiviato dal Tribunale dei Ministri nel luglio 2001), presidentessa dell'Unione delle ventuno Comunità Ebraiche italiane, rilascia benemerenze alla psico-polizia, bacchettando i credenti nel libero pensiero: «La decisione del ministro dell'Interno di chiudere le sedi dei gruppi naziskin è coerente con la determinazione da lui sempre espressa contro tutte le tendenze eversive. In democrazia è necessario vigilare contro tutti coloro che sono contrari ai suoi princìpi» (sic!, «sono» e «princìpi», non: «compiono atti» criminali, a meno certo che per la Zevi siano crimini anche il pensare e discutere).

    Già nella prolusione all'ANDE, del resto, la «donna coraggio» aveva unito al monito antirevisionista l'istigazione repressiva invasionista: «Un premio che cade in un momento particolare. Sono infatti trascorsi cinquant'anni dalla fine della guerra e dai campi di sterminio nazisti, e il passare del tempo comincia a sentirsi: il senso di colpa va attenuandosi, si iniziano a negare gli orrori e vanno profilandosi alcuni precisi segnali di pericolo per la convivenza civile; questi non vanno ingigantiti ma su di essi bisogna attentamente vigilare. È infatti possibile arrivare all'accettazione del diverso solo mediante un lungo lavoro di educazione e conoscenza, per il quale e nel quale le donne possono avere un posto di primo piano».

    Pochi mesi più tardi l'argenteocrinita maestrina – ripetiamo, il 13 agosto 1993 auto-candidata alla direzione pedagogico-pratica dei destini europei spargendo veleno dalle colonne del Corriere della Sera: «Da continente bianco e monoculturale l'Europa sta diventando multirazziale e policulturale. Non è preparata. A noi tocca educare al pluralismo religioso, etnico, politico e culturale» – ri-infierisce contro la ricerca revisionista del vero, trincerandosi dietro la formula «se il mondo potesse essere convinto che Auschwitz non è esistita, una seconda Auschwitz sarebbe più facile» (fantasie certo, anche se nel 1938 il cassandrico padre antifascista «intuì che dietro l'adozione delle leggi razziali c'era il progetto di sterminio. Via dall'Italia, dunque, prima a Parigi, poi a New York. Tullia Zevi studiò, lavorò. Si guadagnò da vivere suonando l'arpa nelle orchestre di Frank Sinatra e Leonard Bernstein»).

    Si risaldano quindi, e nel modo più chiaro, questione democratica, questione ebraica e questione mondialista.

    Ma tornando alla repressione mondialista della Mancino, è obbligo rilevare che, come sempre, l'illuminazione viene da God's Own Country. Prototipo di ogni liberticidio «antirazzista» – dalle leggi francesi Marchandeau 1939 e Pleven 1972 all'italiana Mancino 1993 – è infatti l'americano Rafferty Act.

    Varato l'8 aprile 1935 dal governatore Hoffmann del New Jersey, esso, rileva l'«antisemita» Robert Edward Edmondson, da un lato aveva praticamente abrogato l'art.1 della Costituzione di quello stato, che garantisce ad ogni cittadino la libertà di espressione, e dall'altro, nonostante le enormi pressioni esercitate in sua difesa, era stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema del New Jersey il 5 dicembre 1941: «Qualunque persona o gruppo che diffonderà un discorso o dichiarazione, o deterrà allo scopo o con l'intento di distribuire, cedere, far circolare esponendo, o per radio, alla vista di un'altra persona, una dichiarazione, discorso, pronunciamento o cosa stampata o ciclostilata, o emblema, fotografia, vessillo o bandiera che, in qualunque modo, o in qualche sua parte, sia indirizzato a promuovere o promuova o inciti all'ostilità, all'odio o alla violenza contro un gruppo o contro persone residenti in questo stato – a cagione di razza, colore, religione o modalità di culto, sarà condannato per crimine e punito con una ammenda da 200 a 5000 dollari, o col carcere da 90 giorni a tre anni». Sull'onda dell'euforia nata dall'effimero varo del Rafferty Act, il 9 gennaio 1936 il senatore ebreo Jacob J. Schwartzwald di Brooklyn tenterà di introdurre nella legislazione dello stato di New York, col Bill n.163, un duplicato ancora più liberticida.

    Il 24 giugno 1939 segue in Francia il Decreto Marchandeau. «La legge che vietava gli scritti e le iniziative razziste fu opera del Fratello Marchandeau», esulta il massone André Combes, ricordando che già nel 1870, all'epoca del contestato Decreto Crémieux che dava automatica cittadinanza agli ebrei d'Algeria, «la Massoneria francese era sempre stata un ambiente accogliente per gli ebrei [...] le logge reagirono positivamente, rinunziarono a chiedere l'abrogazione del decreto, espulsero i pochi massoni antisemiti e fecero arretrare, così dissero, l'"idra antiebraica"». Felice di rivendicare ai confratelli la genesi della Marchandeau è anche Herbert Lottman: «[Già nel dicembre 1939] il Consistoire [l'organizzazione centrale degli ebrei francesi] si affrettò a creare un Gruppo israelita di coordinamento di aiuti e protezione. Furono lasciate cadere le precedenti remore contro le manifestazioni pubbliche e il Consistoire si dedicò a iniziative più incisive, oltre a esercitare pressioni sul governo (che furono una delle cause del veto, introdotto nell'aprile 1939, all'incitazione all'odio razziale)».

    Quanto alla Pleven, basata su: la Carta onusica del 1945, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 10 dicembre 1948, la Dichiarazione onusica del 20 novembre 1963 sulla «eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale» e la Convenzione internazionale del 21 dicembre 1965 concernente lo stesso soggetto, essa, scrive Christian Lagrave, «ha segnato un grande progresso nell'asservimento del popolo francese ai suoi padroni occulti», ponendosi a simbolo, aggiunge Pierre Lassieur, della «fine della libertà di espressione».

    All'epoca la Pleven, varata dal destrorso governo Pompidou, passa praticamente inosservata, anche in virtù della sapiente scelta di un momento in cui la mente dei francesi è occupata nelle ferie estive (altro artifizio, come quello che approverà la Fabius-Gayssot, è quello di votare in seduta notturna, ove centinaia di deputati assenti delegano il voto a un pugno di colleghi presenti), non provocando dibattiti né proteste: «Coloro che avranno incitato alla discriminazione, all'odio o alla violenza nei confronti di una persona o di un gruppo di persone a motivo della loro origine o della loro appartenenza a una etnia, a una nazione, a una razza, a una religione determinata, saranno puniti con la reclusione da un mese a un anno e con un'ammenda da 2000 a 300.000 franchi. Saranno del pari puniti come correi in un'azione criminosa o delittuosa coloro che con discorsi, scritti o minacce profferite in luoghi o riunioni pubbliche, ovvero con pubblicazioni, disegni, incisioni, dipinti, emblemi, immagini o qualsiasi altro supporto della parola o dell'immagine messo in vendita, distribuito o esposto in luoghi o riunioni pubbliche, ovvere con insegne o manifesti esposti al pubblico, avranno incitato direttamente l'autore o gli autori a compiere le suddette azioni, se tale incitamento ha prodotto effetti» (art.1; corsivo nostro). Chiarissimi gli intenti, non solo «antirazzista» e pro-invasionista, ma anche antirevisionisti: ad esempio, avendo commentato che l'Olocausto si basa su un'odiosa menzogna e una gigantesca truffa perpetrata anche a fini di estorsione finanziaria, il 3 luglio 1981 il professor Robert Faurisson viene condannato, a norma di Pleven, per «diffamazione e incitamento all'odio e alla violenza razziale».

    Ancor più, proponendosi di sradicare quanto più completamente i «crimini» razzisti, il legislatore stima opportuno che la ricerca, la segnalazione-denuncia e la traduzione dei «criminali» davanti ai tribunali venga affidata a gruppi di delatori altamente «motivati»: «Tutte le associazioni regolarmente registrate da almeno cinque anni alla data dei fatti, che si propongono per statuto di combattere il razzismo "o di assistere le vittime di una discriminazione basata sulla loro origine nazionale, etnica, razziale o religiosa", possono esercitare i diritti riconosciuti alla parte civile per quanto concerne le violazioni previste dagli articoli 24 (ultimo comma), 32 (comma 2) e 33 (comma 3) della presente legge» (art.48/1; è per tale ragione che infurieranno gruppi quali LDH, LICRA, MRAP e SOS-Racisme). Rilevi il lettore che le sole «scappatoie» leguleiche concesse dalla Pleven, peraltro acutamente eliminate dalle Tre M, sono costituite dall'aggettivo «determinata» (che nell'ottobre 1996 il progetto di riforma del gollista Jacques Toubon, ministro della Giustizia di Alain Juppé, cercherà di eliminare... tale aggravio della repressione sarà impedito solo dalla mancata rielezione di Toubon nel giugno 1997) e dall'inciso «se tale incitamento ha prodotto effetti».

    Quanto ai veri autori dell'Infamia italica, stupenda l'impudenza del Modigliani, presidente dell'apposito intergruppo parlamentare, in un colloquio inter-ebraico riferito da Shalom n.2/1994: «Ho partecipato attivamente in Parlamento alla stesura della nuova legge sulle discriminazioni etniche, razziali o religiose. Posso anzi dire che la commissione che se ne è occupata ha recepito in gran parte le mie proposte [in particolare, per l'estensione della repressione alle «discriminazioni» compiute per «motivi religiosi», prima giuridicamente meno incriminabili in quanto basate, ancor più delle altre, sull'adesione a motivazioni di pensiero]. Io mi sono sentito particolarmente impegnato su questo tema in quanto ebreo, ma i parlamentari della commissione dal canto loro mi hanno riconosciuto una certa maggiore competenza, se non proprio diritto, a trattare l'argomento perché riconoscevano che in quanto ebreo, con alle spalle tutta la storia ebraica, avevo il dovere di testimoniare e di prevenire e perché dobbiamo vaccinare la società contro ogni discriminazione nei confronti di qualsiasi diverso. Questo dovere non può essere confuso con una autodifesa ebraica, in quanto oggi gli ebrei non corrono nel nostro paese proprio alcun rischio, ma riguarda il nostro rapporto con gli immigrati del terzo e quarto mondo» (corsivo nostro).

    Singolarmente, come l'opera del Modigliani diviene universalmente nota come «la Mancino» – dal cognome del democristiano ministro dell'Interno, poi assurto a presidente del Senato, cioè a seconda carica dello Stato (il terzo autore dell'infamia è il socialista Claudio Martelli, ministro di Grazia e Giustizia, che porta in dote alla legge la terza M) – così la legge francese antirevisionista Fabius-Gayssot, varata dall'Assemblea Nazionale il 13 luglio 1990, vigilia della ricorrenza della Gloriosa, ed opera dell'ebreo Laurent Fabius e del goy comunista Claude Gayssot, diviene «la Gayssot», concedendo i due classici piccioni con una fava: sollucchero per i goyim, passati all'eponima Storia e all'eletta Riconoscenza, soddisfazione per gli ebrei, defilatisi, a risultato comunque ottenuto, dalla responsabilità degli osceni provvedimenti.

    Il 23 marzo 1995 il combattivo sacerdote tradizionalista don Curzio Nitoglia diffonde da Verrua Savoia un comunicato, non ripreso da nessun organo della Libera Stampa Democratica: «L'Istituto Mater Boni Consilii e la sua rivista Sodalitium, assieme a vari avvocati, magistrati e cattedratici, sta formando un comitato per chiedere l'incostituzionalità della "Legge Mancino", in base anche alla lettera dell'allora Ministro degli Interni, che alleghiamo, e ad una intervista dello stesso onorevole Mancino al quotidiano l'Unità (25 novembre 1992), nella quale affermava: "Siamo in Italia, la situazione non è esplosiva, e dunque preferirei un disegno di legge. Sono però sollecitato a scegliere il Decreto Legge". "Sollecitato"! Da chi? È anche questo che occorrerà appurare, mettendo in relazione l'intervista del 25 novembre 1992 con la lettera del 20 giugno 1993». Poiché il lettore già sa da Chi il Nostro fu «sollecitato» (e di quali «Paesi» egli parli), ci limitiamo a riportare la lettera di don Nitoglia a Mancino del 1â giugno 1993 e la risposta del Nostro del 20 giugno successivo:

    A – «Onorevole Ministro, sono un sacerdote cattolico ed ho letto sul mensile ebraico Shalom (30 aprile 1993) un articolo sull'intervista che Lei ha rilasciato a Paolo Guzzanti de La Stampa (14 aprile 1993). In tale articolo Shalom scrive: "Anche se Mancino non ha pronunciato la parola ebrei né Israele, la descrizione della congiura giudaico-massonica non poteva essere più chiara e palese" (pag.3). Nella lettera che Lei ha inviato alla signora Zevi il 22 aprile 1993 (e riportata da Shalom) Lei scrive: "Mi sono limitato a parlare di reazioni della Massoneria [...] alla politica filo-araba [...] dell'onorevole Andreotti. Personalmente [...] non trovo alcuna identità tra Massoneria e finanza internazionale e mondo ebraico; non vedo perciò la ragione della sua reazione" (Shalom, pag.3). Mi perdono se oso scriverLe per suggerirLe che mi sembra lecito rispondere alla signora Zevi – con pacatezza ed obiettività – che grandi autorità israelitiche e massoniche hanno scritto esplicitamente del rapporto che esiste tra Massoneria e mondo israelitico. Per esempio l'ex rabbino di Livorno Elia Benamozegh ha scritto: "La teologia massonica corrisponde abbastanza bene a quella della Càbala" (Israele e l'umanità, Marietti, Torino, 1990, pag.49). Bernard Lazare, noto scrittore israelita, ha scritto: "È certo che [...] vi furono degli ebrei alla culla della Massoneria [...] degli ebrei cabalisti" (L'antisémitisme, Documents et témoignages, Vienne, 1969, pag.167). L'ebreo convertito al cattolicesimo Joseph Lémann ha scritto: "È incontestabile che vi sia nel giudaismo predisposizione alla Massoneria" (L'entrée des Israelites dans la société française, Avalon, Paris, 1886 [1987], pag. 234). Potrei continuare a lungo con tali citazioni, ma non voglio rubare il Suo tempo prezioso. Forse Lei ha messo il dito nella piaga, ecco la "ragione della reazione" della signora Zevi e della rivista Shalom, che si esprime in tali termini riguardo alla Sua persona: "Uomini politici in preda ad una sindrome dissociativa, visto che lo stesso ministro Mancino varava con procedura d'urgenza la legge contro i Naziskin" (Shalom, pag.1). Tale modo di esprimersi non mi sembra corretto, specialmente nei confronti di un Ministro. Prego per Lei che il Signore le dia luce e forza per vedere chiaro in queste vicende che tanto danno stanno arrecando alla nostra cara Italia, culla del Papato e della Fede Cattolica, sorgenti di ogni bene per il mondo intero. In Jesu et Maria».

    B – «Gentile don Curzio, trovo molto coerenti con il mio pensiero le opinioni da Lei manifestatemi con lettera dell'1 giugno a proposito della polemica Shalom-Zevi ed anche altri nei miei confronti. Le buone relazioni tra Paesi suggeriscono prudenza anche a un ministro che nel merito aveva ragione. Grazie per le belle parole di solidarietà che ha voluto indirizzarmi. Con molti cordiali saluti».

    Quattro anni dopo, a fine novembre 1999, il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche italiane Amos Luzzatto, mosso dall'affaire romano che vede una bomba-carta esplodere accanto al Museo della Liberazione e un secondo ordigno «antisionista» rinvenuto presso il cinema Nuovo Olimpia a «protesta» contro Un spécialiste - Portrait d'un criminel moderne («Uno specialista - Ritratto di un criminale moderno» dell'israeliano Eyal Siven, olodocumentario selezionato dalle 350 ore di riprese al kidnappingato Adolf Eichmann), incita, tra una istintiva canea politica-giornalistica e ovviamente per contrastare il «razzismo», a «intensificare gli interventi nelle scuole, organizzare incontri, assemblee, sviluppare gli scambi culturali e rivedere la legge Mancino [in senso più repressivo]. Ma quest'ultimo è mestiere dei nostri parlamentari» (corsivo nostro). In parallelo, ineffabile nell'improntitudine, quanto a «Uno specialista», all'olo-«memorialistica» orale spielberghiana The Last Days, «Gli ultimi giorni», 1999 e alla fiction antineonazi American History X, id., di Tony Kaye, 1999, il commento di Ciak gennaio 2000: «Questo proliferare di film legati direttamente o indirettamente all'Olocausto non è casuale, ma nasce da un identico senso di malessere e da un cinema sano e socialmente utile: la necessità di salvaguardare la memoria storica, di opporsi a un pericoloso revisionismo, l'urgenza di fare i conti con i fantasmi dell'intolleranza e del nazismo che tornano a manifestarsi nel nostro mondo».

    SECONDO

    Le radici ideologiche dell'invasione

    Acceleratori della Fine

    «Regresso delle nascite, morte dei popoli»: mai come oggi risuona veridico il monito lanciato settant'anni or sono dal demografo tedesco Richard Korherr e sottoscritto dal capo del fascismo. Mai come oggi ricevono conferma le analisi di Guglielmo Danzi, Karl Astel e H. Keisermann. Mai come in questi frangenti riprende valore la massima di Vacher de Lapouge: «La vera legge della lotta per l'esistenza è quella della lotta per la discendenza».

    Se l'aumento numerico sia poi sopportabile dall'ecologia del pianeta, tale problema, in questo momento, non deve riguardare i popoli europei.

    La concezione del razzismo morfologico – della quale abbiamo trattato sul n.37 de l'Uomo libero – evitando di accampare diritti e/o superiorità al di fuori del Vecchio Continente, rispetta di fatto la sovranità culturale e territoriale delle altre compagini razziali (cosa che, lo si esamini bene, comporta l'eversione dell'immorale modello finanziario-economico esistente, peraltro sulla via dell'insostenibilità da parte del cosmo terracqueo). Da ciò le deriva la legittimazione a teorizzare i necessari provvedimenti per salvaguardare lo Spazio Vitale europeo (troppo cruda è l'antica espressione?) da indebite intrusioni.

    Del resto, va tenuto presente, e non lo si ribadirà mai a sufficienza, che l'immigrazione dal Terzomondo di cosiddetti «disperati» verso un'Europa in crisi economica/sociale strutturale, dovuta da un lato all'ingravescente difficoltà di assorbire l'iperproduttività industriale e dall'altro all'ingravescente espulsione della forza-lavoro umana dai processi produttivi in virtù di una loro sempre maggiore tecnologizzazione, non è l'intrusione di qualche migliaio di persone, ma una vera e propria, strisciante e del tutto insensata (come detto: se non nella strategia del Piccolo Popolo) invasione di decine di milioni di individui (nei soli paesi della Comunità già oggi campeggiano venti milioni di alieni!) che mai potranno essere integrati, occupati e neppure soccorsi, stanti i gravissimi problemi economici/sociali, attuali e più ancora a venire, che comporta per tutto il mondo l'applicazione dei postulati del Sistema.

    Altro quindi che il criminale «buonismo» del giornalista Gianni Riotta, intriso di tutta la vuotezza parolaia peculiare di ogni sinistro: «Dobbiamo tornare ad essere un paese multietnico e multirazziale, come tante volte nella nostra storia millenaria [ma quando mai lo si è stati?]. Dovremmo discutere di quanti stranieri riusciremo ad integrare, per non alimentare il racket dei disperati. Dovremmo approntare le scuole e l'assistenza, senza le quali non c'è convivenza»!

    Sintomaticamente, i Complici di Dio – Corifei dello Sradicamento delle genti europee attraverso una riedizione nel Vecchio Continente del multirazzialismo che flagella il Paese di Dio – vedono in prima fila sempre i Primogeniti, non tanto giustificantisi per la loro mortifera angoscia mondialista, quanto auto-esaltati e vantati.

    Ciò, giusta le rivendicazioni «moderne» del «moderno» M. Hirsh Goldberg: «Le relazioni internazionali degli ebrei facilitarono il commercio mondiale e diedero vita a istituti bancari multinazionali. L'ebreo è stato, in un certo senso, l'ape della civiltà, che ha impollinato una cultura con le idee dell'altra – e portato al miscuglio il proprio peculiare contributo. Che gli ebrei avrebbero avuto il ruolo di messaggeri è profetizzato in due passi biblici. In Deuteronomio IV 27-29: "il Signore vi disperderà fra i popoli, e rimarrete in pochi tra le nazioni [...] e di là ricercherete il Signore, tuo Dio, e lo troverai, se lo chiederai con tutto il tuo cuore e con tutto te stesso". In Amos IX 9: "Io scuoterò la Casa d'Israele fra le nazioni, come si scuote un setaccio, e non ne cadrà un sol grano a terra". La dispersione degli ebrei come parte di un disegno divino è stata a lungo accettata da pensatori sia ebrei che cristiani. Invero, tale teoria fu uno dei primi motivi per cui gli ebrei vennero riammessi in Inghilterra nel Seicento, dopo esserne stati espulsi da secoli. L'argomentazione di Rabbi Manasseh ben Israel agli inglesi fu che l'Inghilterra avrebbe dovuto permettere agli ebrei di vivere sul suo suolo o il Giorno del Giudizio per cristiani ed ebrei non sarebbe mai giunto. Nel 1655, in "Una dichiarazione al Commonwealth di Inghilterra", egli disse: "Prima che tutto sia compiuto, il Popolo di Dio ha dovuto essere disperso in ogni angolo e paese del mondo"».

    Ciò, giusta l'interpretazione del Destino Manifesto data da Max Dimont, secondo cui «la storia ebraica consiste in una serie unica di eventi, casuali o finalistici che siano stati, i quali hanno avuto il pratico effetto di preservare gli ebrei in quanto ebrei in un "esilio" che permise loro di compiere la dichiarata missione di annunciare la fraternità di tutti gli esseri umani. Se tale missione sia stata istituita da Dio o retroattivamente attribuita a Dio dagli stessi ebrei, ciò non cambia in alcun modo la nostra tesi di un destino manifesto degli ebrei. Ancor più, noi sosteniamo che lungi dall'essere una maledizione, l'esilio degli ebrei è una benedizione. Non è una punizione per i peccati, ma un fattore chiave per la sopravvivenza dell'ebraismo. Lungi dal condannare gli ebrei all'estinzione, li portò alla libertà».

    Non v'è poi contraddizione tra l'«universalismo etico» di un Isaia, che inflaziona i suoi scritti del termine kadosh «santo», e il «nazionalismo umanistico» di un Osea, che predilige invece kovod «gloria»: «Il nostro dramma vuole che se gli ebrei devono adempiere il loro destino manifesto, devono sopravvivere in esilio tra i non-ebrei per tutto il tempo necessario. La storia, quindi, deve prevedere un centro nazionalista ebraico in Palestina per conservare l'identità del messaggero, e centri universalistici ebraici sparsi nel mondo per diffondere il messaggio. Fortunatamente, coi profeti assistiamo al sorgere di due di tali centri del giudaismo, uno universalista in prospettiva, creato per gli ebrei che vogliono vivere in esilio volontario, l'altro nazionalista in prospettiva, creato per gli ebrei che vogliono ritornare a Gerusalemme per riaffermare i loro legami con Sion [...] Allora i profeti seminarono i semi per due idealità del giudaismo. Una è un giudaismo ideologico, universalista for export nella Diaspora, per il mondo in generale. L'altra è un giudaismo umanistico, nazionalista for domestic consumption a Sion, per gli ebrei. Consonanti col tema lurianico-cabbalistico che la redenzione d'Israele annuncerà la redenzione dell'uomo, queste due correnti profetiche del giudaismo confluiranno un giorno in una sintesi di storia ebraica e di storia mondiale. Nei secoli, il pendolo della storia ebraica è destinato ad oscillare tra questi due concetti profetici di nazionalismo umanistico e universalismo ideologico [...] La Scrittura esige la creazione di due giudaismi: l'uno, governo tra i popoli stranieri, l'altro, fortezza patria [one a government in exile, the other a homeland citadel]. Se infatti tutti gli ebrei esiliati tornassero a Gerusalemme, l'intelaiatura diasporica costruita nell'esilio babilonese crollerebbe e l'elezione del Popolo Eletto perderebbe il suo senso. Se, d'altra parte, gli ebrei non tornassero a Gerusalemme, perderebbe senso il nostro dramma, perché non ci sarebbe più Sion a trattenere gli ebrei nell'orbita del giudaismo».

    Ciò, giusta l'asserto di W. Gunther Plaut sul «burden of choice, peso della scelta» che grava da sempre, per quel comando di cui è stato il più alto cantore Isaia, sul Popolo Santo: «È obiettivo messianico di Israele fare della pura conoscenza di Dio e della pura legge morale giudaica il possesso e la benedizione comune a tutti i popoli della Terra. Non ci aspettiamo dalle nazioni che, accettando tali insegnamenti, rinuncino alle proprie peculiarità storiche per accettare quelle del nostro popolo; e similmente non permetteremo che il popolo ebraico rinunci ai propri santi innati poteri e sentimenti [and similarly we shall not permit the Jewish people to give up its innate holy powers and sentiments] per venire assorbito dalle nazioni. "Questo è allora il nostro obiettivo: mantenere il giudaismo all'interno del popolo ebraico e al contempo diffondere il giudaismo tra le nazioni; proteggere il senso dell'unità ebraica di vita e di fede senza diminuire il senso dell'unità con tutti gli uomini; nutrire l'amore per il giudaismo senza diminuire l'amore per tutti gli esseri umani"».

    Ciò, giusta la tesi di André Neher, avallata da W.D. Davies, il quale rileva come la resa dei termini golah/galuth operata dai Settanta con aichmalosia "cattività", apoikesia "emigrazione", metoikesia "deportazione" e paroikia "soggiorno", non rendano l'intonazione positiva, il vero senso dell'«esilio»: «La shekinah dimora in ogni frammento esiliato del popolo ebraico. In ogni particella di terra calpestata da un ebreo si rivela la presenza di Dio. Lungi dal costituire una strada che porta il Popolo Eletto sempre più lontano dalla elezione, l'esilio è per Israele una missione, ed ogni stadio rafforza i legami tra l'ebreo e Dio che lo accompagna [...] L'universo perderebbe la forma se Israele non fosse onnipresente, facendo pulsare nell'organismo del cosmo la linfa divina così come il sangue nel corpo [...] In ogni campo del suo esilio l'ebreo pianta i semi che un giorno porteranno al raccolto divino».

    Ciò, giusta le riflessioni del sionista Leon I. Feuer, per il quale «the dispersion of the Jews was a blessing in disguise, la dispersione degli ebrei fu una benedizione mascherata [sotto le spoglie della sofferenza]. Fu un atto della Provvidenza. Mise in grado gli ebrei di perseguire con maggiore efficacia la propria missione».

    Ciò, giusta la millenaria auto-esaltazione, riaffermata da Moritz Güdemann, caporabbi a Vienna nel 1895: «Ho sempre creduto che noi non siamo una nazione, o meglio, che siamo qualcosa di più di una nazione: credo che noi abbiamo avuto la missione storica di diffondere l'universalismo».

    Ciò, giusta Paul Breines: «La Diaspora diviene, per così dire, la base sociale dell'idea degli ebrei come redentori dell'umanità [...] La dispersione, infatti, libera gli ebrei: essa permette loro di rimanere una nazione e, nello stesso tempo, di trascendere tale nazione e tutte le nazioni, e di percepire l'unità futura dell'umanità in una diversità di vere nazioni» (dopo Deuteronomio XXVIII 64: «Il Signore ti disperderà fra tutte le nazioni, da una estremità della terra all'altra», vedi Daniele XII 7: «Tutte queste cose si adempiranno quando sarà del tutto dissolta la forza del Popolo Santo»).

    Ciò, giusta il vanto di Jacob Bernays sul newyorkese Israels Herold, 1849: «Gli ebrei hanno emancipato gli uomini dalla concezione meschina di una patria esclusiva, dal patriottismo [...] l'ebreo non è soltanto ateo, ma cosmopolita, e ha trasformato gli uomini in atei e cosmopoliti; ha fatto dell'uomo un libero cittadino del mondo».

    Ciò, giusta l'Istigatrice – mai abbastanza citata! – Calabi Zevi: «Da continente bianco e monoculturale l'Europa sta diventando multirazziale e policulturale. Non è preparata. A noi tocca educare al pluralismo religioso, etnico, politico e culturale» (Corriere della Sera, 13 agosto 1992; vedi anche il maestrino Guido Bolaffi, stigmatizzante «il grave ritardo culturale e istituzionale dell'Europa» nell'accogliere gli invasori terzomondiali, Corriere della Sera, 23 maggio 2000; vedi l'Enrico Modigliani padre della Tre M; e non scordiamo il già detto richiamo, settant'anni innanzi, di Rabbi Louis Israel Newman: «La missione moderna dell'ebreo è di assumere la guida morale del mondo»).

    Concetti reiterati dalla stessa Maestrina in un misto di delirio invasionista, democachinno e repressiva libidine antirevisionista: «Nel giro di due o tre generazioni il nostro continente sta perdendo la sua relativa omogeneità per diventare multietnico. È ineluttabile che, come nei vasi comunicanti, avvengano grandi spostamenti di popolazione fra paesi poveri ad alta natalità e paesi ricchi a bassa natalità. Questo afflusso di persone diverse genera angoscia; crea il meccanismo del capro espiatorio e un rigetto di chi è percepito come diverso. L'Europa deve saper controllare le proprie paure istintive e gestire con intelligenza questa trasformazione, così che diventi un fattore di crescita [...] Non bisogna lasciarsi spaventare dai demagoghi, da personaggi che parlano molto, facendo leva sulle angosce della perdita di identità [sic!] [...] Esiste una tendenza al revisionismo della storia della guerra mondiale che si spinge fino alla negazione dei campi di sterminio. Quanti amano la democrazia hanno il compito, e il dovere, di difendere la memoria, per salvare le future generazioni dagli orrori che la mia generazione ha dovuto vivere» (Il Gazzettino, 22 aprile 1997).

    Ed ancora furbesca e patetica, intrisa delle favole più becere, la bava alla bocca contro le pur prevedibili ed ovvie reazioni anti-invasori dei cittadini più esasperati: «Rimbalza sempre più frequente la domanda: gli italiani sono o non sono antisemiti, sono o non sono razzisti? I due fenomeni hanno radici storiche, religiose, sociali e culturali diverse, ma rappresentano entrambi, nell'immaginario collettivo, la "diversità" recepita come una minaccia alla propria identità. In un'Europa percorsa da grandi flussi di immigrazione e che sta diventando sempre più multietnica e multiculturale [nonché "multicriminale"... ci si consenta il termine, giudicato dalla Bundesverfassungsschutz, la polizia spionistica demotedesca, «spregiativo della dignità umana» e quindi da bandire in quanto «verfassungsfeindlich, anticostituzionale», perseguendo con carcere e multe milionarie chi osasse pronunciarlo], la paura di "perdere il controllo" del proprio territorio può scatenare meccanismi difensivi-offensivi che tendono a proiettare sui "diversi" le proprie paure, le proprie difficoltà, la propria aggressività. È un fenomeno latente in tutti noi, non ci sono da una parte i razzisti e dall'altra gli antirazzisti. Liberarsene è una conquista quotidiana che si raggiunge approfondendo la conoscenza dell'altro e scoprendo quanto ci somigli. Le nostre differenze sono solo epidermiche, a fior di pelle. Il sangue, ovunque, è rosso, e identiche sono le lacrime di ogni madre che pianga il proprio figlio ucciso. Poiché la società multiculturale, con le sue differenti lingue, etnie, religioni, usanze appare come l'unico futuro immaginabile per l'Europa, non ci resta che rimboccarci le maniche e lavorare insieme perché ciò avvenga con razionalità e spirito di giustizia. La scuola è, e deve essere, il grande laboratorio da dove usciranno i cittadini "dalle molte origini" dell'Europa che sta nascendo» (io donna n.45, 7 novembre 1998).

    Tra tali Acceleratori della Fine è, tra mille «a sinistra», il se-possibile-ancora-più-massimo «bastardo cosmopolita» (autovanto in un convegno a Manhattan organizzato nel maggio 1997 dal Goethe-Institut e dalle università di New York e Washington) Daniel Cohn-Bendit, l'ex boss sessantottino Danny-Le-Rouge, promosso, a difesa del democapitalismo multirazziale e per meriti di elezione, assessore per gli Affari Multiculturali, vice-sindaco di Francoforte ed europarlamentare Verde. Dopo avere co-redatto un libello in favore dell'invasione allogena del Vecchio Continente dall'inequivoco titolo Heimat Babylon, «Patria Babilonia» (come sia andata a finire la biblica Babele però non ci viene ricordato), il Nostro ammonisce ad «accettare la realtà di un certo tipo di mobilità internazionale», e ciò non solo per astratti valori umanitari, ma per contrastare quel «rifiuto dell'altro» e quel «rilancio di antisemitismo parallelo alla xenofobia» che può essere emblematizzato dallo «slogan rabbioso» Deutschland den Deutschen, "La Germania ai tedeschi", «caro agli squadristi bruni e ai loro camerati in doppiopetto in cerca di voti e seggi», parola d'ordine che oggi risuona «quasi altrettanto assurda» del grido «l'America agli indiani».

    Tale «verità», continua l'ebreo – che rifiuta peraltro, in piena coerenza talmudica, il melting pot inteso come frammischiamento generalizzato – deve «essere posta davanti agli occhi anche degli spiriti più semplici», poiché non esiste alcun «problema degli stranieri», ma solo una «questione tedesca». Contro il crogiuolo – modello non solo fallito e irrealizzabile, ma anche teoricamente inaccettabile e praticamente nefasto per chi si ponga a Luce delle genti, c'è un'unica strada: la sfida della «democrazia multiculturale», per realizzare la quale, a prescindere «dai luoghi comuni dei multiculturalisti ingenui e schematici», il primo passo dev'essere spalancare le braccia ai rifugiati politici dell'intero pianeta, rifiutandone al contempo sia l'emarginazione che l'assimilazione: «Lo jus soli rispetto allo jus sanguinis ha il grande vantaggio civile di non misurare le persone in base alla loro provenienza [...] ma in base a ciò che sono diventate, o meglio, che sono riuscite a diventare».

    Come per il marxista goy, epigono della Frankfurter Schule, Jürgen Habermas, concepire, programmare e volere la Germania quale «Einwanderungsland, terra d'immigrazione» è la miglior prova di democrazia, è accettare e volere la Definitiva Rieducazione (uguali le tesi di Bubis, di Friedman e dell'ex-sessantottino Joseph «Joschka» Fischer, già traduttore di libri pornografici, superinvasionista, «simbolo dei verdi tedeschi, cattolico ma non credente», nell'ottobre 1998 ministro degli Esteri del governo rossoverde del socialista ex-sessantottino Gerhard Schröder): «La sinistra deve stare molto attenta [a impedire che si riparli] di Grande Germania, di potenza mondiale. Noi dobbiamo invece lavorare, dal basso e dall'alto, affinché la nostra sia una società multiculturale, lontana da ogni volontà di potenza»). L'arrivo di milioni di stranieri comporterà infatti non per la sola Germania ma per tutta l'Europa un'eccezionale miglioramento, e non solo in campo culinario: «L'evoluzione del gusto porta anche a un cambiamento dell'identità nazionale. È un esempio che l'apertura di una società può realizzarsi anche attraverso lo stomaco».

    Tra tali Accelatori della Fine, massimo è, tra mille «a destra», il co-fondatore Trilateral Arrigo Levi, che si scaglia contro la decisione presa dal parlamento tedesco il 26 maggio 1993 onde porre un limite all'invasione (nel 1992 hanno varcato quelle frontiere mezzo milione di sedicenti profughi «in cerca di asilo» – nel 1985 erano stati 62.000, nel 1991 256.000 – e tenga il lettore presente che tali statistiche sono correntemente truccate al ribasso o perfino tenute completamente celate dall'establishment in ogni paese d'Europa... ed invero, assevera l'invasionista francese Hervé Le Bras, incitando in Le Démon des origines a riservare i veri dati ai ricercatori «indipendenti», negandoli ai malintenzionati, e considerando «xenofobo» chiunque consideri l'immigrazione un «problema», «la demografia sta diventando in Francia un mezzo di espressione del razzismo»). Dopo avere lasciato incancrenire le cose per anni, il Bundestag ha infatti approvato una modifica in senso restrittivo dell'articolo 16 del Grundgesetz, la Legge Fondamentale nata nelle salmerie delle truppe di invasione ed imposta – ribadiamo – a eradicazione dell'anima tedesca.

    Dall'alto del suo moralismo il Levi, pur dicendo legittime le motivazioni che hanno portato a «rifiutare una immigrazione incontrollata, fonte di forti tensioni fra comunità diverse, all'interno di paesi già densamente popolati *** e non abituati al pluralismo etnico», sermoneggia contro «questo continente privo di generosità»: «È proprio vero che questi nostri paesi, a differenza dell'America, non possono accogliere al loro interno quegli apporti di nuove etnie che pure arricchiscono robustamente (e lo dimostra il caso americano) una società libera? È stato fatto abbastanza per cercare di educare i popoli europei alla nuova realtà di un mondo fatto di disuguaglianze intollerabili, che richiedono, per essere superate, gesti di generosità e non chiusure? Preoccupa il fatto che la "fortezza Europa" si dimostri unita più nel difendersi dai mali del mondo [...] che non nell'assunzione di responsabilità più larghe».

    *** Ad esempio: Germania 223 abitanti per kmq, contro i 26,6 degli USA, i 12,6 della Nuova Zelanda, i 2,6 del Canada e i 2,3 dell'Australia.

    Ed ancora tre anni più tardi, nel febbraio 1996, identificando il Regno col Grande Mercato e inveendo perché «nel mondo si aggirano spettri che sembravano esorcizzati, e non lo erano», «valori totalizzanti» di nazionalismi reazionari, incapaci di quegli «ideali di solidarismo e tolleranza che dovrebbero dare al mondo intero un nuovo ordine di pace e di progresso»: «Ma il fondamentalismo non dà voce soltanto a rimpianti del passato. È anche la reazione a paure nuove, diffuse in tutto l'Occidente e legate alla globalizzazione dell'economia, che ha assunto per alcuni le sembianze di un mostro che divora posti di lavoro e che annuncia ondate immigratorie destinate a distruggere antiche nazioni [come se il tutto non rispondesse a verità e non fosse stato anzi autorevolmente auspicato!]. La globalizzazione, che pure crea occasioni di progresso senza precedenti per tutti i popoli, e che fa nascere forti interdipendenze che giovano alla pace, fa purtroppo le sue vittime, lungo il percorso: la riforma di antiche economie nei tempi medi e lunghi positiva per tutti ha, a breve termine, i suoi costi. Migliaia o milioni di disoccupati (anche se la colpa è in piccola parte del mercato globale) offrono una base di massa ai fondamentalisti dell'Occidente». Ed ancora un anno dopo, sempre invasato di messianismo, non tralascia di bacchettare solo i goyim, ma anche i confrère di più dura cervice: «E se qualcosa si può rimproverare a Israele, o all'ebraismo israeliano, è di tendere a dimenticare quell'insieme di valori prettamente ebraici (anche se di questi valori gli ebrei non hanno l'esclusiva) che va sotto il nome di cosmopolitismo [...] In materia, penso che sia soprattutto l'ebreo cosmopolita, col suo impasto di tolleranza, curiosità e arroganza, che abbia qualche lezione da dare a tutti: non esclusi, forse, alcuni ebrei israeliani».

    E come il Levi è il caporabbi Toaff, giubilante col demopresidente Oscar Luigi Scalfaro, Susanna sorella di Gianni Agnelli e ministro degli Esteri, Francesco Rutelli sindaco di Roma e la Calabi Zevi il 21 giugno 1995, all'inaugurazione a Roma della più grande moschea d'Europa: «Sono stato tra i primi a difendere il diritto dei musulmani ad avere un luogo di culto a Roma. Tanto che andai, parecchi anni fa, in Campidoglio per sollecitare la costruzione di questa moschea [coprogettata dall'architetto PSI Paolo Portoghesi ad un costo di 50 milioni di dollari pagati da 23 paesi musulmani, Siria e Iran esclusi, la prima pietra era stata posata l'11 dicembre 1984 alla presenza del ministro degli Esteri Giulio Andreotti]. Mi sono messo nei loro panni: anche noi tanti secoli fa arrivammo qui. E ricavammo in questa città un luogo per pregare. Ora sono giunti loro, a migliaia [invero: a milioni]: devono avere un punto di riferimento ufficiale» *** (lapidario, aveva sentenziato Eustace Mullins: «the parasite introduces other types of parasites into the host, il parassita apre la via nell'ospite ad altri tipi di parassiti»). ***

    *** Nulla di grave, ci dicono, neppure sulle 200 moschee presenti nel 2000 in Italia, o sul primo «tempio» sikh, eretto a Pessina Cremonese – cento giunti dall'India su ottocento abitanti – col plauso ecumenico del sindaco centrosinistro e del detto parroco don Luigi Calonghi... facendo giungere i libri sacri e le statue delle divinità da Londra e non dall'India «perché il viaggio sarebbe troppo costoso». Cosa dovrebbe poi dire la Francia la quale, oltre che da 500-600 enclave off-limits, ghetti di colore black-beurs nei quali non è consigliabile avventurarsi, nel novembre 2000 ne è costellata da 1536... anche se il ministro dell'Interno ne dà «solo» 1200, delle quali 400 nella regione parigina, o la Germania, che ne vede 80 nella sola Berlino!

    *** Riconferma d'autore, questa toaffiana, dei giudizi di Hanna Zakarias: «Maometto, il Corano arabo e l'Islam rappresentano per noi l'ultimo tentativo degli ebrei di assicurare il trionfo di Israele nel bacino mediterraneo», «Il vocabolo Allah designa essenzialmente nel Corano arabo il Dio degli ebrei, lo Jahweh di Mosè. Tale conclusione capitale apparirà in tutta la sua evidenza al termine della nostra opera. Ci convinceremo allora che l'islam è un'affaire puramente ebraico: l'islam è la più potente intrapresa per giudaizzare l'Arabia; e il Dio che il rabbino della Mecca [...] annuncia a Maometto e ai meccani idolatri altri non è che lo Jahweh del Sinai, lo Jahweh del Pentateuco. Vedremo più oltre che l'Allah del rabbino, di questo rabbino maestro di Maometto e predicatore alla Mecca, ha tutte le qualità e gli attributi del Dio degli ebrei e dei giudei e non ha che questi attributi. È sostanzialmente Unico, Creatore, Onnipotente e datore di tutti i beni concessi all'uomo», ed ancora: «L'islam non fu che una brutale sostituzione del giudaismo all'idolatria attraverso l'efficace opera della comunità ebraica meccana, coadiuvata in tale apostolato dalla coppia Khadidja-Maometto» (Khadidja è la moglie, ebrea, del semi-ebreo Maometto).

    E il caporabbi Toaff era stato preceduto, nel gennaio sull'ufficiale Shalom, papale papale, dal vicecaporabbino a Milano Elia Richetti: «Certamente abbiamo ancora qualcosa da dare al mondo. Intanto, il messaggio universale della Bibbia non è stato completamente recepito nel mondo non ebraico [...] Potrei anche dire che in realtà il motivo dell'opposizione che suscitiamo è proprio perché in qualche maniera noi siamo, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, la coscienza del mondo».

    Nel giugno segue a ruota, sempre sull'ufficiale Shalom, il great boss Furio Colombo: «La componente e il ruolo che l'ebraismo ha avuto, avrà e deve avere nella struttura del mondo è insostituibile. È un terminale di tutto ciò che chiamiamo cultura, dal punto di vista del metodo, dei valori, di ciò che sappiamo di noi stessi, della storia dell'umanità. Dal punto di vista dell'evoluzione di questa storia e di ciò che potrà accadere nel futuro».

    E come il Levi, la Zevi e il Toaff, e sulla falsariga ideologica di Richetti e Colombo, è l'ex-lottacontinuo Paolo Mieli, dispensatore di saggezza su quel Corrierone che ha diretto per anni. All'insegna della «necessità» di accettare le «sfide» lanciate dall'invasione terzomondiale, in risposta ad una lettrice perplessa sull'erogazione da parte della neocomunista Regione Campania, in particolare dopo l'11 settembre delle Twin Towers, di due miliardi di lire per la costruzione di una moschea a Ponticelli nei pressi di Napoli (il provvedimento viene bloccato alla Camera per il deciso intervento della «razzistica» Lega Nord), l'Anima Pia sparge ulteriore veleno: «Destinare i nostri soldi a una moschea può renderci più forti, più sicuri delle nostre buone ragioni, quando chiederemo agli immigrati islamici non solo di rispettare le nostre norme ma di aiutarci a farle rispettare. Ogni giorno ricevo lettere che denunciano come un'ingiustizia la concessione di questo o quello ai musulmani. A mio avviso non si deve concedere alcunché in ciò che può provocar danno a un qualsiasi altro cittadino o possa creare delle disuguaglianze. Ma si deve fare l'impossibile perché questi nostri nuovi concittadini non sentano di vivere in un regime di discriminazione. L'impossibile. So bene che sono giunti in Italia volontariamente (e spesso illegalmente). So altrettanto bene che nei Paesi da cui provengono quasi sempre è impensabile non solo che vengano stanziati soldi ma anche che sia concesso di costruire luoghi di culto per religioni diverse dalla loro. Questo, però, non ci deve far smuovere dai nostri princìpi».

    Al «tedesco» e ai sei «italiani» si accodano gli «inglesi» Jay M. Winter e Michael Teitelbaum, il politologo superamericano Andrei S. Markovits, il «belga» Elie Ringer e i «francesi» Alain Minc, grand commis d'Etat e consigliere mitterrandiano, ed il ràbido ex nouveau philosophe Bernard-Henry Lévy.

    Se i due primi da un lato irridono «l'ossessione del declino demografico» che investe i più consapevoli tra gli europei, dall'altro essi si scagliano, coperti dall'eterno ricatto, contro i moti anti-invasori tedeschi, «manifestazione moderna di un'antica malattia. Il rifiuto su basi nazionalistiche di stranieri che appaiono diversi dalla massa della popolazione tedesca per aspetto, abbigliamento o abitudini religiose è un fenomeno dolorosamente familiare. Rispetto al passato, cambia solo la religione delle vittime». Ancora più deciso il terzo, che in una lettera aperta denuncia l'«estremismo di destra» del tedesco Bernd Rabehl, ottenendone l'immediato licenziamento: docente di Sociologia alla Hans-Böckler-Stiftung, in un discorso tenuto nell'autunno 1998 all'associazione studentesca Danubia, l'ex-sessantottino convertito a tesi nazionali si era infatti permesso di sottolineare che «l'eccesso politico di stranieri» in Germania avrebbe necessariamente portato alla «distruzione dell'identità nazionale» tedesca.

    Similmente fa Ringer, presidente del Forum delle Organizzazioni Ebraiche del Belgio; di fronte alla strepitosa avanzata elettorale che il Blocco Fiammingo, registra nell'ottobre 1994 (il 28%, con punte del 40 e del 50% nei quartieri più poveri, di consensi ad Anversa, città dalla quale 18.000 ebrei controllano l'85% del traffico di diamanti mondiali; nell'ottobre 2000 il Vlaams Blok, guidato dal trentottenne Filip Dewinter all'insegna «Eigen Volk eerst, Prima il nostro popolo», dal 28% sale al 33%), mentre l'intero establishment si scaglia compatto contro il partito nazionalista, che richiede l'espulsione dei clandestini e l'adozione di severe misure contro l'invasione, l'ineffabile ebreo non riesce che salmodiare à la Hertzberg: «La storia ci insegna che il razzismo nasce proprio colpendo prima le comunità più deboli. Si parte dal nazionalismo e si finisce coi genocidi. Il programma del Vlaams Blok incita alla deportazione di alcune categorie di immigrati, in contrasto con le leggi dell'Unione Europea» (dopo altri interventi in proposito, il 19 settembre 1996 l'Europarlamento condanna solennemente l'espulsione dei cosiddetti «immigrati clandestini» – più correttamente nominabili, a parer nostro, «invasori plateali» – riaffermando l'obbligo di rispettare i Sacrosanti Diritti).

    Quanto a Minc, a fronte della rinascita ubiquitaria dello spirito nazionale, invita, con eguale virulenta chutzpah – l'ormai stranota arroganza, prima ancora del vittimismo vera stimmata della psiche giudaica – a «ricostruire» un'idea di nazione, ad «elaborare» nuovi princìpi democratici, a «ripensare» lo Stato (come se il demoliberalismo non avesse avuto a disposizione già mezzo secolo). Il tutto, «ridando spazio all'immaginazione», ovviamente «all'interno di un codice etico». Quale debba essere il principio fondante di tale codice è presto detto: non scendere a patti col mondo reale. O, per dirla minchianamente: «Proscrivere la resa intellettuale, vale a dire rifiutarsi di cedere davanti alle forze dominanti che si annunciano [...] Ogni concessione di terminologia è un atto di sottomissione, ogni prestito ideologico un atto di resa. Ora, la visione che l'estrema destra offre oggi dell'immigrazione e, attraverso questa, della nazione, si sta diffondendo a tutto il corpo sociale... chiaramente con delle sfumature a seconda della posizione originaria degli uni e degli altri [...] Il nazional-populismo sta diventando un riferimento, il focolaio a partire dal quale si definiscono certi concetti chiave, come l'identità nazionale [...] In poche parole, che le classi dirigenti non lascino al nazional-populismo il monopolio dell'idea nazionale!».

    Quanto al Sogno Americano, caratterizzato dagli Eterni Valori: «Uno Stato integrazionista; una società aperta; una cittadinanza flessibile; una nazione che si definisca come una comunità d'adesione e non come frutto della Storia [neanche il divenire storico gli va più bene!] o dell'eugenetica [non parliamo poi dell'«immutabile» biologia!]: non esiste un modello da copiare». Tale allucinazione è ri-conferma del più sfrenato utopismo, poiché il tecnocrate mondialista nulla vuole imparare dalla Storia, teso com'è ad un Regno sempre tutto da definire: «Non esiste nessuna ricetta: sarebbe contraria alla visione di uno Stato-nazione in perpetuo divenire. Ma dobbiamo renderci conto che noi partiamo da una tabula rasa piuttosto che da un'esperienza acquisita. A ciò una sola risposta: immaginazione, ancora immaginazione, sempre immaginazione».

    E con eguale follia – sbavante contro la polizia che sgombra 300 negri illegali asserragliati nella parigina chiesa di Saint-Bernard, complici il parroco e ogni sinistro – il corvino Bernard-Henri Lévy intima nell'agosto 1996 l'ennesima immonda sanatoria: «Sono scandalizzato, soprattutto per la bestialità dell'intervento [...] Non siamo ancora a Vichy, ma... Mi vergogno della brutalità di questi cinici politicanti. Sono dei miserabili. Vogliono pescare voti nelle acque di Jean-Marie Le Pen [...] Sarà difficile, per il primo ministro Alain Juppé e per il suo governo, uscirne. Avrebbe dovuto mettere in regola, senza perdere tempo, non dico tutti, ma quasi tutti quegli africani: erano dei fuorilegge creati dalla legge Pasqua, l'ex ministro dell'Interno neogollista [riprova della connaturata irresponsabilità democratica, nell'agosto 1998 Charles Pasqua si muterà in invasionista, invitando alla resa e pretendendo, per mero buonismo elettorale, la regolarizzazione di 70.000 clandestini (pudicamente definiti sans-papiers, cioè «senza documenti»), negata dal pur sinistro governo Jospin: «Si possono approvare tutte le leggi che si vuole: nessuna sarà mai sufficiente. La spinta demografica è troppo forte»!]. Tutti sapevano che si trattava di norme pessime. Norme che provocano il disordine, che fabbricano illegalità [...] In una democrazia le leggi si migliorano. E tutti i movimenti sociali hanno lo scopo di provare l'insufficienza delle leggi, le loro carenze. Le leggi non sono immutabili, non possono essere di bronzo». ***

    *** Mentre il goy direttore Jean-Marie Colombani lo affianca da le Monde tuonando contro «una Francia che volta le spalle a ciò che ha costituito la sua identità: l'aspirazione all'universale [...] l'immigrazione è senza dubbio il nostro affare Dreyfus, il momento della verità dove si svela un'epoca e le generazioni si dividono radicalmente [...] Quando si comincia a escludere lo straniero si finisce sempre, prima o poi, per escludere il povero, il misero, il dissidente e l'oppositore», ben più razionale è l'«ungaro-francese» François Fejtö: «[Jacques Chirac] ha agito in modo sensato. Sarà pure il presidente di tutti i francesi, sarà anche animato da simpatia per i diseredati, ma non può essere il presidente di tutti gli Stati africani in preda alla miseria».

    Nello stesso giorno, nell'assenza più completa di polemiche interne, Israele vara un piano per espellere oltre la metà dei 200.000 lavoratori stranieri – filippini, thailandesi, rumeni, turchi, etc. – giunti in Terra Promessa dal dicembre 1987, data dello scoppio dell'Intifada, per rimpiazzare i palestinesi di Cisgiordania e di Gaza. Del tutto indifferente alle (più che improbabili: quod licet Iovi non licet bovi!) reazioni degli «antirazzisti» esteri, il capo del governo Benjamin Netanyahu illustra: «Faremo di tutto per ridurre in modo drastico la presenza di lavoratori stranieri privi di visto regolare e allo stesso tempo limiteremo gli arrivi della mano d'opera in cerca d'impiego nel nostro paese con un normale permesso». Le ragioni di tanto zelo? Presto detto: «A Tel Aviv ormai un abitante su sette è uno straniero», denunciano i media. «Come faremo a garantire l'ebraicità dello Stato?», accusano i rabbini. Quello che è certo, informa Lorenzo Cremonesi, è che «i quartieri della vecchia stazione degli autobus e nel sud della città hanno cambiato popolazione, con l'inevitabile dilagare di prostituzione, droga e criminalità».

    Ed eguale follia devasta la mente dell'insigne «algerino» (o a piacere, «francese»), Jacques Derrida, docente di Scienze Sociali all'Ecole des Hautes Etudes e all'Università di California ad Irvine. Richiamando il «diritto cosmopolitico all'ospitalità universale» cantato dal Kant di "Per la pace perpetua", il Nostro invita «a sperimentare un nuovo cosmopolitismo» ben al di là delle frontiere dello Stato-Nazione, coltivando indiscriminatamente – vale a dire, abolendo il «marchio» di «immigrato clandestino» e legittimando gli invasori illegali, già di fatto legittimati dall'inerzia del demopoteri – «l'unica etica possibile: quella dell'ospitalità». E ciò sulla scia del cristianesimo, che «rilancia, radicalizza e letteralmente "politicizza" le prime ingiunzioni di ogni religione abramica, a partire, per esempio, dall'"Aprite le porte" di Isaia [Isaia XXVI 2]». Le più lineari, anarchicizzanti conseguenze sul vivere societario le tira il sinistro «Collettivo 33»: «L'effetto più rilevante di questa nuova clandestinità inerente al fenomeno dell'immigrazione è la destituzione del potere della norma non solo e non tanto sotto il profilo della sua efficacia, quanto soprattutto sotto quello della sua legittimità. Questa clandestinità pubblica e visibile è una linea di fuga che pone in bilico il diritto della norma sia di costituire il fondamento su cui si reggono gli ordinamenti giuridici vigenti, sia di decidere chi si pone, e in quali casi, contro o fuori di essi. Di decidere insomma chi costituisce l'eccezione alla regola».

    Ed eguale follia devasta la mente di Danny il Rosso, per il quale, «non essendoci per [la democrazia multiculturale], come per quasi tutte le società aperte, alcuna garanzia, la definiamo una sfida». Ed eguale sfida/azzardo/scommessa invoca il sinistro «francese» Pierre-André Taguieff, uno dei rari antirazzisti dotati di una qualche onestà intellettuale al punto di criticare i «bassifondi affettivi» dell'antirazzismo!, sospinto dal mai soddisfatto psichismo giudaico: «Dobbiamo scommettere sull'universale, dare alla nostra inquietudine il suo soggetto metafisico e la sua norma prima: l'esigenza di universalità».

    Ed egualmente, intriso del più infantile psicologismo, il Comitato Nazionale Campagna Giovani Contro il Razzismo, la Xenofobia, l'Antisemitismo e l'Intolleranza nel gennaio 1995, sul bollettino propagandistico emesso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri italiano: «Razzismo e xenofobia sono espressione di paura e di ignoranza. Il rifiuto dell'altro è un modo per mascherare la propria debolezza e la propria invidia, la propria incapacità a rischiare nell'incontro. Il pluralismo è una sfida da vincere per chi non vuole un'esistenza povera e rinsecchita: la gioia si costruisce nell'incontro, la felicità ha il volto della novità e della sorpresa».

    Il «nemico minaccioso» – ideologico, politico ed etico – quel «razzista» caricato di tutte le colpe al fine di sfuggire alla responsabilità di aver propiziato lo sfacelo invasionista, va dunque stroncato. Bisogna togliere al mostro, esorta Minc, ogni stimmata umana, confinarlo al silenzio, scostarsene quale lebbroso: «La sua frequentazione, anche se avversa, è deleteria. Ci abitua all'idea di una soglia di tolleranza: è una sciocchezza. Ci fa credere che gli immigrati sono una schiera: è una idiozia. Ci convince dell'esistenza stessa di una questione immigrati: è un'alibi [...] È la nazione che deve inserirsi nella filosofia democratica e liberale, e non la democrazia che deve sottomettersi al volere della nazione. I compromessi sono impossibili».

    E quanto siano impossibili i compromessi tra lo Stato-Nazione e il trinomio ebraismo/democrazia/mondialismo sottolinea nel luglio 1994, incurante dell'irrazionalità assoluta dell'invasionismo (ma non certo, dal suo punto di vista, dell'insensatezza) la presidente UCEI e «italica» candidata 1992 al Premio Femme d'Europe Calabi Zevi, poi vicepresidente Congresso Ebraico Europeo e supermembro d'onore del Comitato creato dalla neocomunista ministra per la Solidarietà Sociale Livia Turco nel 1997, «anno europeo contro il razzismo», per «promuovere iniziative a favore della tolleranza» (ne fanno parte, tra i tanti sinistri, il superinvasionista cristiano Di Liegro, il sinistro supermassonico miliardario Lenin dei Parioli nonché anchorman Maurizio Costanzo e la supergiornalista giudeo-bolscevica Miriam Mafai): «Noi, come Unione, non facciamo politica, perché rappresentiamo semplicemente l'ebraismo. Ma di fronte al razzismo e all'antisemitismo dobbiamo prendere una ferma posizione. Siamo pronti a segnalare, ovunque si presentino, anche le più piccole smagliature del tessuto democratico. E continueremo a parlare chiaramente. Ad esempio io sono contraria alla chiusura delle frontiere: il flusso dell'immigrazione dal Sud del mondo è inarrestabile. Comunque, non c'è da preoccuparsi. Certo occorrerà del tempo, ma come ci siamo riusciti noi ce la faranno anche gli extracomunitari ad integrarsi» (perché la nostra Tullia non pérori tanta eguale bellezza per Israele, Stato con densità demografica e problemi solo di poco maggiori a quelli italiani, tedeschi ed europei, non riusciamo però a capire; in ogni caso, c'informa Bianca Romano Segre, anche l'Entità Ebraica ha i suoi 90.000 «extracomunitari» legali, negri del Ghana e di altri paesi africani, filippini, romeni e sudamericani, cui se ne aggiungono altrettanti clandestini).

    Ed è certo per tale motivo che nel 1992 François Mitterrand inaugura al Louvre una nuova Académie Universelle des Cultures, pensata e voluta dai confratelli Elie Wiesel, il nobelizzato per la Pace, e Jack Lang. Animata da 64 membri (l'Italia è rappresentata dal sinistro Umberto Eco, dal compositore comunista Luciano Berio e dalla consorella nobelizzata Rita Levi Montalcini), l'Istituzione si propone di «studiare il ventunesimo secolo e in particolare la mescolanza delle civiltà creata dalla spinta migratoria in tutto il pianeta», di «animare la ricerca scientifica» e di «sostenere le iniziative che possano contribuire alla lotta contro la xenofobia, il razzismo, la miseria, il disprezzo per ogni forma di vita sul pianeta».

    In tale ottica, annunciando nel maggio 1995 l'uscita di un «Manuale contro l'intolleranza» da distribuire agli alunni «di tutte le scuole del mondo», Eco conciona: «L'idea del Manuale è nata proprio per intervenire sulle nuove generazioni ed educarle alla tolleranza. Oggi il razzismo ha raggiunto punte estreme [...] Abbiamo qualche esempio di cambiamento tra le nuove generazioni: venti anni di battage dei media sui temi dell'ecologia hanno prodotto dei bambini che soffrono per la distruzione di un bosco. Anche per il razzismo è così: prima che si diffonda bisogna tagliarne le radici».

    Forcaiolo egualmente l'ex ministro della Cultura Jack Lang, già direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano (come se vi fosse carenza di intellighenzia italiana!), per il quale l'Europa deve agire, essere cioè intolleranti, per prima contro l'«intolleranza»: «Penso che i governi europei mostrino di assumere sempre più la loro responsabilità su questo problema. Non solo sul piano dell'educazione, ma anche su quello della repressione penale delle manifestazioni di razzismo», concludendo con l'inno ormai trito alla salad bowl: «Ogni paese deve essere in grado di risolvere il problema in casa propria. Il Manuale contro l'intolleranza deve tener conto dell'originalità delle culture e diventare uno strumento non di uniformizzazione ma di rispetto delle diversità».

    Intanto, nell'ottobre 1994, sempre a Parigi, il Congresso Ebraico Europeo (poi ECJC European Council of Jewish Communities, presieduto nel 1999 dall'ex-presidente della Comunità di Milano Jacob «Cobi» Benatoff), rampollo del WJC, presenta un Libro Bianco (curato da tal «Centro Europeo di Ricerca e di Azione sul Razzismo e sull'Antisemitismo») nel quale tra gli «antisemiti» italiani vengono schedati la presidente della Camera Irene Pivetti e il politologo e senatore Gianfranco Miglio. La prima in quanto «ha chiesto ufficialmente di essere protetta dalla massoneria ebraica e dagli intenti intimidatori da lei attribuiti alla "lista" delle attività antisemite pubblicata nell'Antisemitism World Report 1993» ed ha «portato avanti un progetto che prevedeva il rimpatrio degli immigrati senza lavoro e senza alloggio» (in realtà, il rimpatrio dei clandestini!). Il secondo in quanto, pur avendo «condannato la violenza razzista e neonazista in Germania», «ha giustificato le violenze razziste», asserendo «che poteva comprendere bene la frustrazione (di quei giovani) posti di fronte alle ondate di immigrazione provenienti dall'Est, in particolare quella degli zingari. Per la stessa ragione Miglio poteva comprendere il turbamento e la frustrazione dei giovani italiani che reagiscono contro gli immigrati africani».

    Ed ancora cinque anni più tardi, il 20 novembre 1998, in piena aggressione terzomondiale, ecco il neocomunista presidente della Camera, l'ebreo halachico Luciano Violante, legittimare e invocare l'invasione, istigando la platea al convegno «1938: La legislazione antiebraica, 1998: Milano ricorda», organizzato dai confratelli del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea: «Il razzismo è proprio l'aspetto del fascismo e del nazismo che può ritornare e diventare lo scoglio più duro, perché il futuro sarà sempre più della multietnicità», primolevizzando che il «lager» nasce dalla convinzione che «ogni straniero è nemico» e che quindi occorre vigilare perché, «finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano»... e del resto «i paesi più forti nell'economia, nella scienza e nella cultura saranno e sono già oggi i paesi multietnici. Ma non tutti comprendono che questo è il futuro. Un futuro che va governato e non respinto. E chi ha paura e non capisce può diventare razzista».

    Ancora più impressionanti per democratica ipocrisia e aristocratica protervia, le risposte che nel 1995, in un teledibattito alla PBS sull'invasionismo nel Paese di Dio, due confratelli di vaglia avevano dato all'obiezione che segnali di chiusura giungono ormai da trent'anni, ampiamente maggioritari e inascoltati, da tutti i sondaggi popolari: «Il governo non deve necessariamente seguire i desideri del popolo» (Mrs. Ira Glaser) e «Le autorità elette devono votare secondo la propria coscienza, non piegarsi al volere delle masse» (l'ex-sindaco di New York Edward Koch).

    Quanto al motto del filosofo israeliano Leiboviz, citato dal compiaciuto pensatore «franco-italo-greco» Edgar Morin nato Nahoum («si passa facilmente dall'umanesimo al nazionalismo e dal nazionalismo al bestialismo», invero coniato dal conte Windisch-Graetz: «dall'umanità alla bestialità attraverso le nazionalità»), non possiamo che opporre che si passa ancora più facilmente dal giudaismo al cosmopolitismo e dal cosmopolitismo alla morte.

    Cosa comunque rispondere, se pure sia il caso, a tali sermoni, basati, quando non sulla più bieca malafede, sul più venefico utopismo mondialista? In primo luogo, questo: il Piccolo Popolo – la «universalizing elite» di Steven Katz, i «creative wanderers» di George Steiner – come altre volte in passato, sta troppo tirando la corda, invasato dai suoi interessi finanziari/politici, dai suoi valori, dal suo dio.

    Ed ancora: nessuno dei membri del Piccolo Popolo ha mai preso nella giusta considerazione, per quell'esame di coscienza cui sono incessantemente chiamati i goyim, l'analisi del primo Bernard Lazare o le note stese da Henry Mencken nel 1939, nell'imminente vigilia del conflitto. Tali giudizi di Mencken, spirito ribelle per eccellenza (segretario, ad esempio, gli è l'ebreo Charles Angoff), rendiamo al lettore: «La loro infelice condizione in vari paesi del mondo è quindi dovuta in primo luogo alla loro assoluta mancanza di tatto [...] Con tutta evidenza possono essere definiti i costanti nemici dei governi sotto i quali vivono [...] Nessun non ebreo crede davvero che gli ebrei siano superiori, tranne che nei comportamenti antisociali. Egli crede che il loro successo – se così si può chiamare – non sia dovuto che alla loro operosità nell'escogitare progetti dai quali l'ariano rifugge, nel ricorrere ad espedienti cui tutti riluttano, tranne la parte peggiore degli ariani [...] Non usano giudiziosamente del potere, quando ne sono in possesso. Sono dispotici in modo eccezionale. Ne abbiamo avuto innumeri prove in America».

    L'anno precedente era stato il saggista conservatore Anthony Mario Ludovici a scrivere, in Jews and the Jews of England, edito in Inghilterra col nom de plume di Cobbett: «La loro influenza [...] porta a impoverire e indebolire ogni tradizione locale, ogni carattere nazionale e ogni identità nazionale, quando non oppongano resistenza all'invasione straniera [to alien invasion]. E poiché questi fattori sono forze integrative per la società, ne segue che un incontrastato liberalismo ebraico atomizza i popoli, fa di ogni uomo un individuo assoluto e culmina in uno Stato che sconfina nell'anarchia, in uno Stato nel quale, in un batter d'occhio, l'anarchia diviene realtà».

    In parallelo, nel 1934, a formulare tale concezione della storia era stato, in Azbuka fašizma ("L'ABC del fascismo"), ai punti 18 "Che cos'è la democrazia e in che cosa consiste la sua menzogna?" e 24 "Perché i fascisti hanno un atteggiamento negativo nei confronti dell'ebraismo?", il fascista russo Konstantin Rodzaevskij: «La democrazia, come l'esperienza dimostra nei fatti (l'Italia prima del fascismo, la Repubblica tedesca prima di Hitler, la Francia, gli USA), risulta una sovranità popolare soltanto formalmente, di qui la sua definizione di "formale", ma in realtà non è che una sovranità popolare falsa: una particolare forma di "dittatura della plutocrazia senza patria". Per mezzo dei parlamentari gli Stati democratici vengono asserviti dal capitale finanziario internazionale, dall'Internazionale finanziaria (Finintern). La democrazia facilita la conquista del mondo ad opera dell'ebraismo, il quale si appropria della forza motrice della "sovranità popolare": il denaro [...] Gli ebrei sono nemici organici di ogni Stato nazionale. Da tempi remoti gli ebrei non hanno un loro Stato e vivono in mezzo ad altre nazioni. Benché siano disseminati per tutto il mondo, cionondimeno, grazie alle loro peculiarità razziali e culturali, sono uniti da uno stretto vincolo e rappresentano un'unica inter-nazione. In ogni nazione, nel cui àmbito essi vivono, gli ebrei tendono ad occupare la posizione dominante, a conquistare i vertici sociali e, in ultima analisi, ad assoggettare tutte le nazioni al loro influsso, a stabilire un dominio ebraico mondiale. La strada intrapresa dall'ebraismo per la conquista del potere nel mondo passa attraverso la disgregazione delle altre nazioni, la disseminazione al loro interno di discordie facendo leva sui propri capitali e sulla propria potenza economica. Perciò tutti i movimenti fascisti (ad eccezione di quello italiano, dal momento che in Italia non ci sono quasi ebrei) conducono una strenua lotta contro l'ebraismo che ostacola sempre la rinascita nazionale dei diversi paesi».

    Eguali i concetti di Guido von List fin dal 1911 nel schönereriano Unverfälschte Deutsche Worte, "Parole tedesche veritiere": «Lasciate che un popolo consenta al nomadismo parassitario di insediarsi in mezzo a lui e fate di un nomade un giudice, un insegnante, un capo militare e quello trasformerà in deserto il suolo edificato del suo ospite. Per cui via il nomadismo! [...] Ovviamente non vengono a dirlo a te che sono nomadi; per ingannarti si travestono con gli abiti della tua foggia, ma tentano di espropriarti dei beni da te acquisiti. Per cui allontana da te i nomadi»; il nomade è un guastatore e un nemico, che trasforma «in deserto la terra su cui tu hai costruito e te stesso in un nullatenente girovago».

    E contro un tale nomade von List aveva ammonito nel 1898 in Der Unbesiegbare - Ein Grundzug germanischer Weltanschauung, "L'invincibile - Lineamenti della visione del mondo germanica": «Per secoli, i potenti che guidavano l'educazione degli esseri umani mirarono ad ottundere e cancellare le caratteristiche nazionali basilari dei singoli popoli per inseguire l'irraggiungibile chimera di un totale appianamento di tutte le differenze razziali, guidati dall'insano proposito di dare inizio a una specie umana unica [...] abbagliati da un malinteso amore per l'umanità, ai popoli del mondo (cosmopolitismo) con la falsa conclusione, gravida di rovina, di un solo gregge e di un solo pastore».

    Ed ancora, il 2 ottobre 1939 e il 9 maggio 1940 sarebbe stato lo scrittore fascista francese Pierre Drieu la Rochelle a ricordare nel diario la strategia della più nuova aggressione nomadica: «E prima di tutto non si rendono conto che sono degli intrusi e che nessun popolo (a parte gli zingari) si è mai permesso di andare a insediarsi in quel modo a casa di un altro», e: «La posizione degli ebrei in una nazione mi fa sempre pensare a una parabola. Una famiglia è riunita in casa. Qualcuno bussa alla porta. Entra uno sconosciuto che chiede ospitalità. La sua aria da straniero è insolita, pure viene accolto. Si ferma. Dopo il posto a tavola pretende un letto, poi molte altre cose. Dapprima fa pena o diverte, poi diventa irritante, importuno e in seguito invadente; alla fine mette paura. Rimproverato, reagisce e vi accusa di essere inumano. Nessuno ha il coraggio di scacciarlo, tanto meno di fargli un rabbuffo. Poco a poco gli cediamo il denaro, i pensieri, la direzione della nostra casa. Oggi ci dà lezioni di patriottismo e di senso della famiglia» (sciocchi peraltro i goyim a non vederlo, oltretutto pluriavvertiti già da due millenni, e non solo dal verace giudeo Giuseppe Flavio ex Josef ben Mattityahu, ma anche, e più apertamente, da Ecclesiastico XI 34: «Metti in casa un estraneo: ti travolgerà nello scompiglio e ti renderà alieno ai tuoi familiari»).

    Sulla stessa lunghezza d'onda Harold Cecil Robertson: «Questa è, e resta, la singolarità degli ebrei: col loro spirito penetrano in tutti i popoli, ma non lasciano che nessuno penetri in loro. Protervi, gli ebrei combattono tutti i tentativi fatti dai popoli per mantenersi puri, ma loro stessi si mantengono puri [...] Il disprezzo del diritto dei popoli sedentari ad avere una patria e la sostituzione di tale diritto col diritto nomadico – cosmopolita e geneticamente fondato – di stabilirsi dovunque, questo è il nocciolo della questione ebraica».

    Similmente e all'opposto, l'analista junghiano Silvio Cusin chutzpahizzerà su Shalom che «l'ebraismo [può] dare ancora qualcosa, o meglio che l'umanità [può] apprendere qualcosa di estremamente importante dagli ebrei: la fedeltà alle proprie radici, la fedeltà alla propria identità e unicità»! Ovvio dunque, in tale ottica, il rimbrotto dell'Arruolato Michael Brumlik: «Se oggi esiste ancora un impiego razionale del termine "peccato", questo è per l'ostilità antiebraica».

    Ben scrive invero, del giudaismo «religione-fattasi-popolo», ancora Robinson: «Non l'antisemitismo è all'origine della crisi che minaccia oggi il mondo, bensì l'odio degli ebrei contro tutti i popoli che non mettono a loro disposizione il proprio territorio per un'uso libero e indiscriminato [...] L'antigiudaismo non è il fatto primario, ma un fatto secondario, una conseguenza, la reazione a una fede che pone gli ebrei al di fuori e al di sopra dei popoli non ebrei, col pretesto ideologico che questi popoli devono essere guidati e sfruttati dagli ebrei in quanto popolo eletto». Decisamente franco, intervistato su Shalom nel gennaio 1995 sul possibile ruolo e destino degli ebrei, Harry Weinstok, alto ufficiale israeliano: «Gli ebrei al mondo che cosa possono fare? Una cosa possono fare: non rompere più le palle!».

    Se da una parte esistono quindi figure virili quali Gedalja Ben Elieser, o di tragica dirittura quali Otto Weininger, Arthur Trebitsch, Albert Ballin, Walter Rathenau (del quale, tuttavia, non dimentichiamo il «consiglio» ai goyim, parafrasatoci da Robert Dun: «Sapete qual è la nostra missione sulla terra? Condurre ogni uomo ai piedi dei Sinai. Se non ascolterete Mosè, vi ci condurrà Gesù; se non ascolterete Gesù, sarà Karl Marx») e Max Naumann, altre di chiaro acume quali Max Nordau, Karl Kraus, Israel Shahak, Moshe Carmilly-Weingarten, Edward Luttwak, Benjamin Ginsberg, Robert Friedman e Chaim Bermant, di condivisibili tesi quali Joseph Rothschild, Hans Jürgen Eysenck, Richard Herrnstein, Charles Murray, Ralph Nader, Lori Wallach, Jeremy Rifkin ed Edward Goldsmith (sul cui fratello James manterremmo però una qualche riserva), di aperto coraggio quale Salcia Landmann, di una pur sfrontata schiettezza quali Martin Buber, Marcus Ravage e Nahum Goldmann, o di un qualche equilibrio quali Bernard Lazare, Anne Kriegel, Norman Cantor e Giorgio Israel, altre ancora ispiranti aperta adesione come i sublimi Qohelet ed Elisha ben Abuya, i grandi Acosta e Spinoza, istintiva simpatia quali Harry Weinstok, struggente ammirazione quali Dov Eitan e Yoram Sheftel, sincera pena quali David Cole o deciso rispetto quali J.G. Burg, Joseph Benamou, Gabriel Cohn-Bendit e Abraham Gurewitsch

    – e se Moses Hess ha potuto scrivere che «gli ebrei devono essere presenti come uno stimolo nel corpo dell'umanità occidentale, come una specie di lievito» (in "Triarchia europea", 1841: il lievito à la Magris!), se Emil Ludwig né Cohn ha confermato: «Ich halte die Juden zwar nicht für das Salz der Erde; der Pfeffer Europas aber sind sie bestimmt, Non considero certo gli ebrei il sale della terra, ma il pepe dell'Europa sì» (attirandosi il più-che-ovvio commento di Wolf Meyer-Christian: «Senza volerlo, con tale motto egli conferma il diritto dell'odierna Europa a difendersi dall'ebraismo: dove il pepe non viene usato a giuste dosi, se viene offerto come cibo o gettato negli occhi agli ignari da mano criminale, provoca drastiche reazioni. Perché in un caso corrompe il sangue, nell'altro rovina la vista»), e Sonja Margolina ribadito che i confratelli hanno svolto, nella minestra delle culture europee, il ruolo delle «spezie», ammettendo però che in Russia hanno esagerato la dose al punto che quella minestra si è fatta immangiabile –

    dall'altra avanguardie invasate della multietnicità come i boss del Congresso Ebraico Europeo, Acceleratori della Fine come i Börne, i Georg Hermann, i Coudenhove-Kalergi, i Richetti, Polish, Sirat e Toaff, le Calabi Zevi e consorti, le Chivassi Colombo, i Joseph Roth, i Daniel Cohn-Bendit, i Bernard-Henry Lévy, i Taguieff, i Derrida, i Pierre Vidal-Naquet, i Klarsfeld, i Gourévitch, i Wieviorka, gli Arrigo Levi, i Furio Colombo, i Bolaffi, i Morpurgo, i Grinblat, i Jean Kahn, i Patrick Weil, i Magris, i Violante, gli Ovadia, i Winter, i Teitelbaum, i Ringer, i Minc, i Modigliani, i Morin, i Markovits, i Konrád, i Peck, i Broder, i Wiesel, gli Steven Katz, i Gaubert, i Bubis, i Siegel, i Friedman, i Soros e quant'altri Supremi Docenti, non solo contravvengono ai più elementari princìpi di onestà intellettuale, ma rendono indigeribile anche a noi – cosa invero talora seccante – la nostra minestra nel nostro piatto.

    * * *

    Diritto di resistenza

    «Al presente l'Europa si è arresa con assoluta voluttà ad una americanizzazione cosciente e ne chiede anzi di più» – ha scritto nel 1970 il WASP John Ney, esponente tra i più radicati dell'establishment statunitense, nell'illuminante The European Surrender, "La resa europea" – «ma il subconscio degli europei è dominato dal passato e non è americanizzato».

    «Il pericolo non riguarda tanto il destino dell'America» – ribadisce il sociologo Thomas Molnar – «quanto piuttosto quello degli europei, nel caso in cui essi si riducano ad accettare definitivamente le formule preconfezionate che gli americani fanno di tutto per propinare loro, spacciandole per vere e proprie panacee. Le nazioni e le culture europee potrebbero sopravvivere in queste condizioni? [...] Se il mondo preferisce la diversità e la varietà all'uniformità e alla "robotizzazione", se i popoli e gli individui desiderano difendere la propria identità spirituale, culturale e nazionale contro il melting pot in cui li si vorrebbe dissolvere, allora dovranno sforzarsi di comprendere la natura intima di questa vera e propria aggressione di tipo nuovo e inusitato, con la quale si tenta di imporre loro il più ignobile, il più squallido e il più triste dei destini».

    «È la genetica ad insegnare che la società multirazziale è irreversibile; la freccia del tempo ha una sola direzione» – scrive a fine 2000 Piero Sella – «Se dobbiamo batterci occorre dunque farlo subito. Pentirsi domani di quanto oggi non si è fatto non servirebbe a nulla. Nessuna razza inquinata può tornare quel che era; nessun popolo che abbia perso la sua identità etnica potrà mai più recuperarla. Quel che è certo anzi è che in esso scompare l'interesse all'indipendenza politica e la voglia di difendere l'avvenire dei figli. Un popolo privo di identità diventa un gregge che si muove docile nella direzione voluta dalla Grande Finanza».

    La lotta degli europei per riappropriarsi – contro ogni suggestione giudaica e giudaico-discesa, cristiana o musulmana che sia, illuminista o misticizzante, di destra o di sinistra, demoliberale o socialcomunista – del proprio passato, del proprio Sistema di Valori, della propria anima, è il discrimine di questo scorcio di secolo, epoca nella quale l'essere umano si ritrova disorientato, isolato e sperduto come non mai. Se un uomo privo di passato può non essere un uomo privo di difese, un popolo privo di passato è sempre un popolo privo di difese. La lotta per il passato è allora la lotta capitale, la pre-condizione, il passaggio obbligato per definire il futuro non solo della Germania e dell'Europa, ma dell'umanità. È una lotta non solo contro un bimillenario, radicale nemico, ma contro l'urgenza del tempo, contro tutte le premesse psicologiche, sociali, economiche e politiche del Mondo Nuovo quotidianamente create dai proconsoli del Sistema onde foggiare situazioni sempre meno reversibili.

    È una lotta che va condotta a tutto campo, freddamente e senza illusioni, con serena intelligenza e intelligente crudezza. È una lotta che va condotta non certo «con ogni mezzo necessario» come voluto a suo tempo da Malcolm X, o con sterili controproducenti attentati alla Unabomber, bensì, consci dell'assoluto squilibrio di forze tra il Sistema e i suoi critici – e per quanto sia assurdo «giocare il gioco della vita con avversari che hanno da tempo abbandonato le regole» (Wilmot Robertson) – nei limiti legali imposti dal Sistema.

    E ciò anche se, come ben scrive Gerd Schmalbrock: «Resistere significa rinunciare al successo personale, alla considerazione della gente, ad una vita armonica. La cosiddetta protezione giuridica che la democrazia garantisce ai dissenzienti rassicura solo finché non la si chieda».

    Sia però di estrema chiarezza, a noi e ad ogni lettore, che sarebbe lo stesso Sistema, Barbaro Dominio e specchio dell'Alto Tradimento quanti mai ce ne furono, ad autorizzare i suoi nemici («diritto di resistenza»: art.20/IV del Grundgesetz!) non solo all'uso di samizdat e alla messa in opera di ogni attività culturale clandestina, cosa peraltro già oggi inderogabile, ma proprio anche all'uso di ogni altro mezzo necessario – quae medicamenta non sanant, ferrum sanat; quae ferrum non sanat, ignis sanat – qualora seguitasse ad auto-delegittimarsi lacerando i suoi stessi chiffons de papier costituzionali. In particolare, annullando quel minimo ancora esistente di libertà di ricerca e parola. Cosa del resto che, data la strutturale ipocrisia, elasticità e incertezza del diritto proprie di ogni demoliberalismo, non ci stupirebbe poi più di tanto, e alla quale si è comunque di fatto ormai giunti – impedendo non solo la formazione di movimenti nonconformi o la proposizione di teorie politiche alternative, ma persino la rivisitazione critica degli immaginarii storici imposti dal Sistema, in primis dell'Immaginario Olocaustico – in Francia, Svizzera, Austria e Germania.

    Se il valore portante, strutturale dell'Allucinazione è l'universalismo democratico o egualitarismo universale (cosmopolitismo, mondialismo), la sostanza politica del Sistema, estrinsecato primariamente attraverso il Modello Americano, l'archetipo e il fine della sua identità è il melting pot, l'utopico «crogiuolo» nel quale però, lungi dal fondersi in un'armonica umanità monorazziale, le etnie si ricompattano su sé stesse, l'una contro l'altra armata.

    La salad bowl, l'«insalatiera» che raccoglie gli ingredienti più disparati senza amalgamarli, la walzeriana «nazione di nazioni», mito altrettanto incapacitante, utopia più perniciosa, non è allora che un modello transitorio, per quanto di durata indefinita, funzionale all'immediata affermazione della società multirazziale. In ogni caso, gli unici possibili collanti della società americana, a prescindere dalla sua qualità e dopo i miti del successo, della ricerca della felicità e della libera estrinsecazione del proprio essere, sono da un lato la precarietà esistenziale dei ceti medi e l'emarginazione dei ceti più bassi e delle etnie più deboli, dall'altro la vampirizzazione del resto dell'umanità, vale a dire di «solo» il 95% del genere umano.

    Pur con tutta la potenza delle sue illusioni, il Sogno Americano non avrebbe tuttavia avuto forza bastante a scardinare le strutture politiche delle nazioni e forgiare nei popoli le premesse psico-esistenziali per l'affermazione del Sistema Mondialista attraverso i Regimi di Occupazione Democratica imposti mezzo secolo fa, se non fosse stato affiancato, guidato e sorretto dall'Immaginario Olocaustico. Nato come Diceria di guerra, cresciuto come Propaganda, fattosi martellante Suggestione, gonfiatosi a Mito, tale Immaginario si configura oggi come il quadri-simbiotico frutto della più proterva Menzogna, della più spregevole Pigrizia mentale, della più ottusa Inintelligenza e della più feroce Repressione.

    Nessuno degli avversari del Sistema si illuda di combattere il Sistema ignorando il pilastro che lo regge. Nessuno si permetta di pensare tale Immaginario – chiave di volta del Novecento, componente centrale della Modernità,*** Kernpunkt/Wendepunkt della Storia – come argomento storicizzato, non più operante. Senza un mutamento radicale di mentalità, senza un salto di Paradigma, nessuna costruzione culturale, e cioè politica, alternativa sarà mai possibile. Solo sottratta la storia alla psico-teologia, abbattuta la criminale metanarrazione che imprigiona dati ed elabora incessanti falsità e suggestioni in una sorta di perenne castrazione psichica, solo allora sarà possibile indagare e fare la storia secondo verità, ridare vita al pensiero.

    Per ogni buon europeo, per chiunque rifiuti di abdicare alla dignità della ragione, la demolizione del Paradigma Olocaustico è la più coraggiosa avventura intellettuale, il più importante momento di lotta per la Libertà, il più alto dovere nei confronti della Verità. La demolizione del Dogma Olocaustico è non solo il più alto atto morale, ma la più urgente premessa per ogni atto che si voglia politico.

    *** Vedi Appendice II.

    Perenne insegnamento deve quindi restare, per chi si proponga di affrontare con serietà e senza alibi (quante lucciole, quante farfalle sono state finora cercate, sotto i carducciani Archi di Tito?) gli immani problemi che la criminalità del Sistema ha creato all'intero pianeta, l'impossibilità di applicarsi ad una vera azione politica senza aver prima sciolto i veri nodi culturali, operato una radicale demistificazione, abbattuto il Paradigma Olocaustico. Senza avere compiuto, in una parola, una rivoluzione di pensiero.

    Rivoluzione certo aspra, lunga, pericolosa ed anche mortale. Ma condizione imprescindibile per ogni agire. Finché un'illusione non viene riconosciuta delirio ed errore – o, se vogliamo più radicalmente, artifizio e menzogna – il suo valore è, infatti, equivalente a quello della realtà. In tal modo, scrive Max Nordau – esempio tra mille – «durante due generazioni i chimici furono talmente pervasi dall'idea del flogistico di Stahl che non videro mai i fatti che la contraddicevano e parve loro anzi di veder dappertutto dei fatti che la confermavano. Dopo le esperienze di Lavoisier tutti videro all'evidenza che il flogistico era una semplice grulleria e i chimici poterono a stento capacitarsi di non essersene accorti prima».

    Inoltre, come già in campo scientifico, ancor più in campo storico i «fatti» non parlano da soli, ma assumono significato e valenza in base non solo all'onestà e all'apertura mentale, ma anche all'impostazione teorica e ideologica dell'esaminatore. I comportamenti e le convinzioni dello storico sono infatti, ancor più che i comportamenti e le convinzioni dello scienziato, radicati in un più ampio contesto sociale di azioni, retroazioni e condizionamenti, sia pratici che ideali. Per la mente umana è molto più naturale, più facile e comodo assimilare i fatti da esaminare alle strutture cognitive esistenti, piuttosto che riadattare tali strutture ai risultati anomali. Se lo scienziato tende istintivamente a scartare i risultati anomali – quelli che faticano a inquadrarsi o non s'inquadrano o sconvolgono o demoliscono il quadro teorico di partenza – cosa pensare dell'ancor più condizionato agire dello storico?

    Solo l'incessante accumulo di risultati anomali, stridenti con quei presupposti teorici che possiamo comprendere nell'abusata espressione para-hegeliana «la Storia ha ormai parlato, per sempre giudicato, definito il Bene e il Male in saecula saeculorum, etc.», potrà, se incontrerà nello storico onestà e apertura mentale, incrinare, smuovere, svellere, capovolgere e demolire quei presupposti.

    La «struttura delle rivoluzioni scientifiche» e la nascita di nuovi paradigmi di cui ha trattato l'epistemologo Thomas Kuhn non è infatti un processo automatico né naturale, per quanto di «crisi» o di lungo periodo, ma è discesa e sempre discenderà dall'azione di singole personalità non allineate, non-conformi per temperamento, inclini a mettere in crisi le verità stabilite, i dogmi imposti e gli Immaginarii accettati. Personalità agevolate certo dalle opportunità ambientali ma, soprattutto, dotate di un intangibile nocciolo di istintiva dignità morale e indipendenza intellettuale.

    Inoltre, come abbiamo sempre presente l'immensa devastante disperazione del grido di Ernst von Salomon («Ciò che mi opprime non è la nostra sconfitta, ma il fatto che i vincitori la rendano assurda!»), i moniti di Ian J. Kagedan direttore del B'nai B'rith per i rapporti col governo canadese («Il ricordo dell'Olocausto è il principale elemento del Nuovo Ordine Mondiale [...] Il nostro obiettivo di un Nuovo Ordine Mondiale sarà raggiunto se avremo imparato le lezioni dell'Olocausto», Toronto Star, 26 novembre 1991) e di Yehuda Bauer («L'Olocausto è stato uno spartiacque nella storia umana»), nonché le speculari conclusioni del revisionista Pierre Guillaume («Il genocidio e le camere a gas sono la chiave di volta di un'ideologia che assicura un dominio spirituale e materiale»), così abbiamo assolutamente chiaro il senso della «libertà» concessa dalla democrazia agli storici, compendiato da Heinz Galinski, caporabbino in Terra Rieducata: «Wir denken nicht daran, die Forschung über das Dritte Reich freizugeben», «Non ci pensiamo affatto, a permettere una ricerca scientifica sul Terzo Reich» (in H.-D. Sander, Staatsbriefe 11/1993)... dato che essa, concorda il demi-juif Broszat, deve restare «l'arsenale per lo sfruttamento politico-pedagogico e la legittimazione nel presente».

    Ma il fluire del tempo e l'accumulo di dati, documenti e interpretazioni non potrà, pur nella repressione di ogni spirito libero, che portare a riconsiderare il passato secondo ragione e giustizia. Se i singoli studiosi revisionisti (anche ebrei: vedi J.G. Burg, R.G. Dommergue Polacco de Menasce, Joseph Benamou, Jean-Gabriel Cohn Bendit, David Cole, l'amico di Vincent Reynouard Henri Lewkowicz, Alexander Baron, Mark Taha... e perfino Arno Mayer e Norman Finkelstein) vengono intimiditi e perseguitati, se la loro vita viene spesso fiaccata e talora spezzata, il Revisionismo – intelligenza ed ansia del Vero – si imporrà in ogni caso col tempo, spazzando il cumulo di criminale ottusità che soffoca ogni essere umano, in primo luogo gli attossicati giovani del Popolo Eletto.

    La lotta contro il frammischiamento dei popoli è la lotta contro la più potente arma socio-politica usata dal Sistema per dissolvere ogni comunità nazionale e riadattarla con nuove cazzuole in una nuova struttura mediante l'antica malta. La lotta contro il Dogma Olocaustico è la lotta contro la più potente arma psico-ideologica forgiata per togliere dignità e credibilità ad ogni altra metanarrazione, per colpevolizzare, paralizzare, additare al ludibrio ogni avversario. Per quanto possa apparire vano combattere la prima, per quanto sembri astratto opporsi alla seconda, chi non intende l'interconnessione di tale duplice lotta – come chi non intende l'inscindibile legame tra demoplutocrazia, sionismo, ebraismo e giudaismo – si rende complice obiettivo del Sistema.

    Aspirazione del Sogno Mondialista è il Mondo Nuovo, meta imposta dalla divinità jahwistica. Mezzo per tale realizzazione, la secolarizzazione del retaggio giudaico. Che poi gruppi particolari ne abbiano tratto e traggano benefici in termini di pratica rendita economico-politica, ciò non contrasta col metafisico obiettivo finale, ciò è solo la riprova della plurifattorialità dell'agire umano.

    La Fantasmatica del Regno e la Realtà del Sistema sono merito primo dell'ebraismo, trovano in esso il motore propulsore, il più agguerrito difensore, il più sicuro emblema, il più acre aggressore. La Fantasmatica del Regno e la Realtà del Sistema hanno trovato da un secolo la più potente arma psicologica nelle pellicole ideate, prodotte ed imposte al mondo da gruppi che hanno impresso, dal Paese di Dio, una svolta radicale a quel modo di sentire le cose e vivere il reale che da sempre ha caratterizzato i popoli tradizionali. La perdita del senso del reale nell'uomo contemporaneo – nell'uomo europeo che più ci sta a cuore – è il diretto prodotto del dispiegarsi di quei postulati dagli States nel mondo.

    «Le sole rivoluzioni durevoli sono quelle del pensiero», scrisse a inizio secolo Gustave Le Bon, aggiungendo che le rivoluzioni, come le guerre, sono solo l'esteriorizzazione di conflitti tra forze psicologiche. E ancor prima, in «Psicologia delle folle»: «I veri sconvolgimenti storici non sono quelli che ci empiono di stupore per la loro vastità o violenza. I soli cambiamenti importanti, quelli che consentono il rinnovarsi delle civiltà, avvengono nelle opinioni, nei concetti e nelle credenze [...] Anche quando ha subito quelle modificazioni che la rendono accessibile alle folle, l'idea può agire soltanto se [...] riesce a penetrare nell'inconscio e a diventare un sentimento». Ed egualmente F. Roderich-Stoltheim: «La lotta delle nazioni e delle razze per l'esistenza sarà decisa in ultima istanza non da spade e cannoni, ma dallo spirito».

    Ed ancora, oggi, Hans Fritz Gross: «L'indispensabile rinnovamento della società si potrà conseguire soltanto in un lungo periodo attraverso un processo spirituale e morale» e Piero Buscaroli: «Non è più tempo di scorciatoie. Non se ne vedono per noi, dacché le grandi strade dell'espansione e della potenza, che tante volte hanno redento i popoli dai loro mali domestici, sono precluse a noi e saldamente tenute da altre forze immense, non solo a noi estranee e nemiche, ma all'Europa tutta. Resta per noi il lento, il paziente, non clamoroso né glorioso lavoro di preparazione e di ricostruzione. Il cui principio, tuttavia, ancora non si scorge».

    Poiché non esiste ormai più – ammesso che in qualche tempo e luogo sia esistito – un Palazzo d'Inverno da assaltare e far proprio, la conquista delle intelligenze e degli animi, con la duttilità di tempi e modi che un'azione globale comporta, è quindi, per chi si proponga di opporsi al Sistema, il primo e il più urgente degli obiettivi. Dato che solo il pensiero trasgressivo, quello che oggi fa scandalo e turba le menti, può aprire le vie al pensiero di domani approntando una piattaforma intellettuale e morale dalla quale scaturiranno altri pensieri, dato che alla base di ogni vera, non effimera affermazione politica troviamo sempre un patrimonio ideale e dato che l'affermazione di tale patrimonio richiede, all'infuori dei momenti di catastrofe, un diuturno, incessante, sfibrante lavoro sul piano della ricerca culturale e della demistificazione storico-politica, sarebbe segno di immaturità consumare un preziosissimo tempo e gli ancora più scarsi mezzi finanziari/operativi per indirizzarsi verso un attivismo presunto «politico» i cui risultati sarebbero solo 1) una gratificazione episodica e personale, 2) un defatigante risucchio nei pratici compromessi e nelle norme operative del Sistema, 3) il conferimento al Sistema di una patente di legittimità morale quando non, più brutalmente, 4) di più numerose occasioni per interventi repressivi.

    E questo, oltre tutto, senza ottenere da coloro che si vuole difendere e in nome dei quali si pretende parlare – rintronati, plasmati ed ottusi da tutti i massmedia – null'altro che, quand'anche ci fosse, qualche vago moto di simpatia.

    « Francamente» – scrive Filippo Jacobelli, già milite della RSI – «non concordiamo troppo con quelli [...] che sparano a zero sui cosiddetti "democratici" nostrani. Ci sembra che qualcosa di buono abbiano pur fatto e che a un minimo di gratitudine abbiano diritto da parte nostra. Hanno avuto a disposizione cinquant'anni per dimostrare coi fatti alla gente che avevamo completamente torto. E per cinquant'anni al contrario hanno fatto del loro meglio per far capire a tutti che avevamo pienamente ragione. Anno dopo anno, giorno dopo giorno hanno fatto toccare con mano anche ai più sprovveduti che il sistema democratico-parlamentare è un sistema che crea e vive di corruzione, che è il paradiso dei vuoti parolai, degli inefficienti azzeccagarbugli; un sistema che educa al culto ossessivo dell'oro e al concreto disprezzo di ogni altro valore, che invoglia ad utilizzare il bene pubblico ai fini del bene privato, che spinge la gente a chiudersi sempre più nel "suo particulare", che usa le parole solo come strumento d'inganno, che è la calda culla della mafia, della camorra etc. a tutti i livelli e che infine, come il pifferaio della favola, cammina e guida verso la dissoluzione ed il caos che chiama, con sfrontata o cieca improntitudine, progresso».

    Ed invero, si chiede e risponde Sergio Gozzoli, «droga, AIDS, pornografia, violenza sessuale, omosessualità rampante, aborto dilagante; nevrosi di massa, criminalità giovanile, violenze negli stadi; mafie e camorre di ogni colore, delinquenza organizzata, corruzione privata e pubblica; sconsacrazione della famiglia e dello Stato, banalizzazione dell'esistenza, morte della religiosità; caduta del senso poetico della vita, del senso del dovere, dell'amore per il bello, il nobile, il sublime; scomparsa dello spirito di "appartenenza" alla comunità, della "capacità di sacrificio" per la comunità: ve n'è forse uno, uno solo di questi guasti, che possa trovare rimedio nell'àmbito di una cultura, di un regime, di un sistema di tipo democratico? Neppure uno. Poiché ogni ipotesi di seria misura – anche le minime, come il coprifuoco invocato contro la criminalità giovanile, o come la schedatura delle sieropositività invocata contro il diffondersi dell'AIDS – incontrerebbe immediatamente il muro delle proteste settoriali, del contenzioso sociale o filosofico, della negoziazione estenuante, dell'incapacità decisionale dei poteri politici».

    Occorre allora gridare a pieni polmoni che, quando pure non lo fosse stato in passato, il re è oggi nudo. Additare le contraddizioni tra le mielate parole del Sistema e la mortifera applicazione dei suoi postulati. Chiarire che il Libero Occidente – e, in prospettiva, la Cosmopoli Umana – non è la big happy family sognata dall'ideologia americana. Indicare che la liberté senza un fine è solo espressione di una neolingua orwelliana, che non ha alcun senso all'interno di un'ideologia cosmopolita. Spiegare che l'égalité dell'ideologia cristiana comporta unicamente abiezione individualistica. Mostrare che la Famiglia Universale è un'informe accozzaglia ove il vicino scanna il vicino, il parente il parente; che la fraternité inizia sì con Abele, ma finisce con Caino.

    Occorre, da Buoni Europei eredi di un plurimillenario Sistema di Valori, non lasciarsi sedurre da alcuno che sia stato comunque permeato dal veleno dell'americanismo. Fosse anche stato, questo qualcuno, per una sua qualche ragione, aspro critico nei confronti di un qualche settoriale aspetto del Paese di Dio. Se infatti individui come il leader repubblicano Newt Gingrich possono lasciarsi andare ad affermazioni condivisibili («È impossibile conservare la civiltà in un mondo di diciottenni diplomati e analfabeti, di diciassettenni che muoiono di AIDS, di quindicenni che si ammazzano a vicenda, di tredicenni che partoriscono bambini», 1994), dobbiamo sempre avere presente che essi non intendono assolutamente intaccare i pilastri portanti dell'Allucinazione Mondialista. È ancora infatti lo stesso Gingrich a ribadire di avere «un immenso rispetto per lo Stato americano, perché è la più grande istituzione di libertà di tutta la storia della razza umana» (Newsweek, aprile 1995) e che «solo l'America può guidare il mondo», un'America che si «sforza di risolvere i problemi per il bene dei popoli come nessun'altra civiltà ha mai fatto»; certo, le truppe americane sono ubiquitarie nel mondo, ma per pura filantropia, «richieste dai governi ospitanti, non per sottometterli, ma per rispondere al desiderio di libertà, di democrazia e di libera impresa di questi governi e dei loro popoli» (le Monde, 2 marzo 1995).

    Occorre mostrare a chiunque che un progetto mondialista come quello imposto da Jahweh agli Arruolati non può che esigere repressione, e che una società come quella americana, dis-integrata in isole etniche, deve necessariamente diventare uno Stato di polizia, con metodi di controllo sociale sempre più oppressivi, con riduzione delle libertà e della sicurezza di ognuno, con la scomparsa progressiva della fiducia nell'imparzialità del diritto, con l'aumento esponenziale delle attività leguleiche, col proliferare parassitario della più varia fauna psicosocioassistenziale e con la decuplicazione, come già negli States rispetto ai paesi europei, della popolazione carceraria.

    E questo perché in una società, e tanto più in una comunità, il rispetto reciproco non si regge tanto sulle leggi – indispensabili per quel 10% di infingardi, di devianti e di criminali presente in ogni aggregato sociale – quanto sulla consapevolezza di un'eredità comune, sulla condivisione di un Sistema di Valori comune e sul sentimento di un destino comune: «Una società multietnica è dunque necessariamente antidemocratica [aggettivo da intendere con tutta evidenza in senso etimologico, non nel senso della sua concretizzazione storica] e caotica» – concorda Faye in Pourquoi... – «perché le manca questa philia, questa fraternità carnale profonda tra i cittadini. I despoti e i tiranni hanno interesse a dividere per regnare, vogliono dunque profittare di una Città divisa in etnie rivali. Perciò affermiamo che la condizione della sovranità del popolo è l'unità del popolo. Il caos etnico impedisce la nascita di ogni philia. La cittadinanza si fonda sulla prossimità e non, come sogna la dottrina integrazionista e astratta della Repubblica francese, sul fatto di essere un "uomo", un residente e un consumatore. Il civismo come sicurezza pubblica, l'armonia sociale, la solidarietà non possono riposare solo sull'educazione e la persuasione, ma in primo luogo sulla unanimità culturale e la condivisione degli stessi valori, costumi di vita e comportamenti innati».

    Occorre mostrare a chiunque che gli investimenti finanziari americani in ogni paese possiedono una valenza non tanto economica, quanto soprattutto culturale e spirituale, ribadire che la propaganda americana è un incessante lavaggio di cervelli che, oltre a «meri» prodotti cine-televisivi, impone modelli di pensiero e di vita. La guerra classica mira al cuore per uccidere e conquistare, la guerra economica al ventre per sfruttare e arricchirsi, la guerra culturale mira alla testa per paralizzare senza uccidere, conquistare decomponendo, arricchirsi disfacendo ogni popolo. «La globalizzazione è una fase del conclusivo consolidarsi di un impero universale anglofono» – nota Geminello Alvi II – «Persino i canzonettisti che moralizzano dai palchi sono emanati dall'identica cultura. Internet completa un processo d'omologazione anglofona di lingua, cinema, canzoni, moda. L'impero degli anglofoni è universale, nel senso che annienta ogni diversità, plasma i vari popoli in consumatrice plebe indistinta. Nel gran parlare di Internet s'è dimenticato che il più potente stimolo, dopo le guerre, alla crescita americana è venuto dagli immigrati. Sono la plebe cosmopolita che veste in blue jeans come una volta vestivano i contadini americani. e come oggi vestono tutti. Ascoltando lo stesso rumore finto musica. Anche perciò la società multiculturale è una idiozia. Il collante tra l'immigrato e le nazioni che l'ospitano anche in Europa non è la cultura dell'immigrato, né quella di chi lo ospita: è la sciatta cultura delle plebi americanizzate da abiti, TV, dischi, computer. Scriveva Miller che la vita è ormai un incubo ad aria condizionata; aggiungerei che parla l'inglese».

    Occorre convincersi che non esistono scorciatoie e che solo una diuturna semina può portare ad un nuovo raccolto. Riscoprire con fredda intelligenza, rivalutare con equilibrio il patrimonio ideo-storico delle tradizioni indoeuropee, ignorato, minimizzato, mistificato e stravolto dai gazzettieri del Sistema. Riscoprire con fredda intelligenza, rivalutare con equilibrio il patrimonio ideo-storico dei fascismi, soprattutto del più lucido e determinato di essi, quel nazionalsocialismo tedesco infamato da caricaturizzazioni, decontestualizzazioni e menzogne.

    Occorre, prima che agire politicamente, ricercare e testimoniare, affinché l'energia della parola e la moralità dell'esempio suscitino campi di resistenza che si espandano nella società, ramificandosi – a svellerlo – in un mondo che ha inscritto in se stesso un destino di morte: «Non è forse tempo di rifarci liberi, senza timori o complessi?» – incita Eric Delcroix – «Dobbiamo essere allora i nuovi liberi pensatori! Dobbiamo riprendere la loro lotta, trasposta contro la nuova religione dell'anti-natura, contro il dogma della dissoluzione etnica!».

    La guerra culturale, da due millenni promossa da un Sistema di Valori non europeo, ha usato delle libertà concessegli dalla buona fede europea per insinuarsi dappertutto, minare all'interno ogni Stato, annientare la spiritualità dei popoli che hanno accolto i suoi porta-parola. Le guerre, la lotta politica, il saccheggio e gli accordi – eterni da che mondo è mondo – sono sempre avvenuti tra popoli che vivevano dei propri Valori come pesci nell'acqua. Ma oggi il mare è sporco e domani sarà morto. Dobbiamo forse attendere, senza nulla dire né fare, che vengano annientate tutte le comunità naturali, le etnie, le culture, i popoli, le nazioni, al fine di trasformare questi infiniti mondi spirituali in mefitiche zone commerciali cosmopolitiche, nelle quali l'individuo vaghi ottuso in una vita sempre più assurda e più breve?

    L'uomo solo e disincarnato, contrariamente all'insegnamento cristiano, marxista e liberale, non vale alcunché, è nulla. I Diritti Umani sono la più atroce impostura, inventata a profitto di coloro che ne parlano per dissolvere ogni comunità non sintonizzata sulle loro frequenze. Sono l'«arma intellettuale per distruggere le razze, le nazioni, l'umanità, forse anche la vita sulla Terra» (Gaston-Armand Amaudruz). Una cultura è un insieme coerente di Memorie che garantisce la coesione di un popolo, impedendogli di scomparire in una massa indifferenziata di esseri umani.

    Il cosmo-capitalismo finanziario ebraico-anglosassone, del quale gli States sono l'espressione più compiuta, è il male assoluto, un disastro come il mondo non ha mai conosciuto. Perché comporta l'annientamento di ogni cosa. Se qualche sistema del passato ha distrutto gli individui, fin dalla sua infanzia cristiana il Sistema ha decomposto tutte le culture, attaccato i valori che fanno la specificità delle civiltà, privato l'uomo delle sue appartenenze naturali, ridotto le nazioni a folklore. Quando pure, nella sua giovinezza e maturità, non ha distrutto, fisicamente, interi popoli.

    Falso è l'obiettivo dell'«autoritarismo patriarcale» del Sistema, falsa la tesi che vuole, alla base della sua frenesia distruttrice, un prometeismo, un Sistema di Valori maschile. Semplicistiche sono le tesi del pur ottimo David Noble e di Carolyn Merchant, quando, con registri diversi, addebitano la decadenza della natura (e il «progresso» dell'uomo) all'espressione di un Sistema di Valori patriarcale. Fuorviante quella del buon Marcuse padre del sessantottismo, finto nemico dell'«uomo a una dimensione»: «Il movimento [femminista] nasce e agisce all'interno di una civiltà patriarcale: ne segue che esso deve primariamente essere considerato nei termini dell'attuale condizione della donna in questa cultura dominata dal maschio».

    In realtà, rileva Henri Gobard, in una cultura patriarcale non può aversi un movimento di liberazione della donna, perché se un tale movimento esistesse non esisterebbe una cultura patriarcale. Ciò che invece è vero è che oggi la cultura patriarcale non esiste, essendo stata distrutta, e non dalla donna, ma dal Sistema. Ciò che è vero è che i movimenti di liberazione femminili non sono la causa (per quanto ci si senta fortemente inclini ad assegnare una qualche responsabilità a femministe come l'ebrea Gloria Steinem, quando afferma che il padre è utile per i figli «quanto una bicicletta lo è per un pesce»), ma la conseguenza di tale distruzione: «La società della putrefazione nella quale viviamo non è dominata dal maschio, ma è decomposta dal capitalismo. Dire [come fa l'ebreo-marxista Marcuse] che sono i valori patriarcali a spadroneggiare e dominare, quando è il capitalismo a corrompere ogni cosa, vuol dire, obiettivamente, fare il gioco dei capitalisti ed essere, consci od inconsci, un falso diavolo, un burattino intellettuale che sputa sull'uomo e tace dei veri padroni».

    La grande azienda, presentata a torto come espressione della psicologia maschile, è infatti, rileva lo psicoanalista junghiano Claudio Risé, «una traduzione produttiva e commerciale della figura della Grande Madre: appagatrice di bisogno, dotata di grande potere, non tende a creare solidarietà tra i suoi uomini (come invece faceva l'esercito, la compagnia militare o la corporazione di arti e mestieri), ma li mette in concorrenza fra di loro, rompe insomma l'unità del campo maschile suscitando la competizione per ottenere i favori della Madre-azienda [...] Sotto l'imperativo della "soddisfazione dei bisogni", funzionale all'espansione dei consumi e quindi alla crescita della società industriale, l'intera società (e non solo le sue Grandi Aziende) è diventata una Grande Madre, che ha come prima funzione quella di mantenere in vita l'individuo per stimolarne e soddisfarne le richieste, e alimentare quindi il circuito della produzione e del consumo. Siamo tutti animali "da compera", cresciuti per acquistare prodotti fabbricati artificialmente, ed è soprattutto in questa veste di compratori che il sistema informatico-mediatico, ma anche politico, della società occidentale si occupa di noi. È tuttavia un sistema che tende a incepparsi. Il fatto è che il maschio consumatore, proprio perché dotato di identità debole, tende a spegnersi, sia biologicamente (aumento della sterilità), sia produttivamente. Quest'uomo consumatore tende insomma a rappresentare sempre più un costo sociale (si pensi al fenomeno della tossicodipendenza, per la grande maggioranza maschile), mentre come produttore (anche di reddito, quindi poi come consumatore) diventa sempre più debole. Anche la sua debolezza è utilizzata per vendere [...] Presentando un uomo degradato, ridotto a oggetto di derisione, dicono le ricerche, si vende di tutto: automobili, pneumatici, scarpe, mutande. Segno che il punto è dolente, e che l'immagine dell'uomo degradato, debole, in ginocchio è ancora calda e significativa. All'interno di questa debolezza maschile aumentano, dettagli importanti, gli uomini che non prendono la patente, non si recano negli uffici pubblici, non sono in grado di tenere la propria amministrazione, delegando tutto ciò (oltre naturalmente l'educazione dei figli) alla donna, moglie e madre».

    «Noi europei» – scrive il francese Pascal Bruckner – «siamo stati allevati nell'odio di noi stessi, nella certezza che vi fosse, in seno al nostro mondo, un male congenito che reclamava vendetta senza speranza di remissione [...] Schiacciati sotto il peso di questi ricordi infamanti, siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore, mentre i nostri padri si sono creduti i migliori. Nascere dopo la seconda guerra mondiale significava acquisire la certezza di appartenere alla feccia dell'umanità [...] Così la svalutazione del messaggio europeo è diventata un codice comune a tutta l'intellighenzia di sinistra dopo la guerra, proprio come l'odio del borghese è stato in Europa, dopo il 1917, un autentico passaporto intellettuale, quando nessun articolo poteva giustificarsi senza un'invocazione rituale al proletariato messianico [...] L'interessante, in effetti, è sapere in che modo il gergo o il delirio di un piccolo gruppo di uomini siano potuti diventare la verità di una moltitudine. La diffusione e il successo dell'enunciato terzomondista sono rivelatori. Quando un'intera epoca condivide a tal punto le stesse illusioni, non si può più parlare soltanto di accecamento o di turbamento, si tratta di un fatto culturale».

    È ben vero che le società patriarcali hanno spesso dato prova di aggressività, di culto della forza, agonismo, efficienza e volontà di potenza, ed è altrettanto vero che sono state capaci di opprimere altri popoli. Questo tipo di oppressione non solo è però da tempo scomparso, ma non è per nulla paragonabile alla putrefazione di un Sistema che, pretendendo di non attaccare nessuno in particolare, trasforma ogni popolo in massa indistinta e ogni persona in «essere umano» indifferente, privo di valore intrinseco, indifferenziato e intercambiabile.

    Tutte le civiltà del passato hanno sempre distinto un «fuori» e un «dentro», un «noi» ed un «loro», un in-group e un out-group, un nosotros e un vosotros, condizione necessaria per ogni vita culturale (spirituale), riconoscendo, quando non infette da un Verbo, agli estranei (avversari) il diritto-dovere di comportarsi nell'identico modo nei loro stessi confronti. Una etnia nella quale si entra come in un mulino non è più un'etnia, ma proprio un mulino, ove tutto viene macinato, ove è indifferente chi sia a portare il grano e non importa chi sia a comprare la farina purché abbia la sola cosa che non ha valore ma misura ogni prezzo: il denaro. Nulla come i soldi rende ogni uomo eguale ad un altro, nulla cancella ogni differenza di sesso, razza e religione meglio del denaro. È quindi del tutto logico e consequenziale che in una società impostata sui valori del consumo le differenze storiche, nazionali e culturali non siano altro che ostacoli (da rimuovere) sulla via di un mercato eguale per tutti.

    «Per il Sistema» – prosegue Guillaume Faye – «la coscienza storica è realmente sovversiva. L'uomo legato alle sue radici non è un buon cliente; non mangia, non canta e non ascolta qualsiasi cosa. Ogni mira di grandezza nazionale, ogni rinascita culturale costituisce una minaccia per il cosmopolitismo occidentale. Ogni destino che sfugge all'umanitarismo, alla crescita del prodotto interno lordo o al collasso della storia nel buco nero della felicità egualitaria costituisce un intoppo al progetto di destoricizzazione del mondo nutrito dal Sistema. Il Sistema non può volere che la fine della storia, in conformità con le ideologie egualitarie e paradisiache che l'hanno generato e che lo animano, poiché la specificità della storia sta nella metamorfosi del senso delle cose e del mondo».

    «La plutocrazia cosmopolita (o, se si preferisce, la finanza vagabonda)» – continua altrettanto chiaramente Eric Delcroix – «persegue l'indebolimento delle nazioni europee, poiché i legami organici tra gli uomini non possono essere che freni sulla strada dorata della finanza, della speculazione e del consumismo divinizzato. A tale proposito l'antirazzismo è un'arma senza frontiere, indispensabile alla disgregazione delle nazionalità e di altri particolarismi non prostituibili. L'opera viene tessuta in silenzio, ogni opposizione essendo "razzista" e quindi ricacciata al di là dei confini dell'umanità. La polizia del pensiero è composta dai massmedia guidati dal denaro sonante e coadiuvati da una giustizia che sempre più allegramente si è adattata al concetto di delitto di opinione».

    Vampiro freddo che non ama nessuno, il Sistema non può permettersi differenze tra gli uomini, deve tutti ridurli a individui, poiché un commerciante che facesse differenze tra i clienti – tranne quelle dovute al denaro – sarebbe presto fallito. La borghesia non è più «razzista» perché non v'è più interesse ad esserlo, il denaro non avendo colore. È il liberale Danton a compendiare, lapidario: «Alla suola delle scarpe è indifferente la patria». È il suo erede Philippe Séguin, presidente gollista dell'Assemblée nationale e fondatore di Objectif Tolérance con la «francese» Simone Veil, a predicare che «siamo tutti immigrati, cambia solo la data d'arrivo».

    È la ministra verde dell'Ambiente Dominique Voynet ad esaltarsi nel 1995, su Les Inrockuptibles: «Non sono mai stata quello che si chiama patriota. Non provo alcun orgoglio nazionale. Gli sciovinismi mi infastidiscono, esaltino essi le virtù della nazione, della religione o del paese. Non mi sono mai sentita parte di una comunità quale che sia». È l'ebrea Martha Nussbaum, docente di filosofia alla Brown University, a sostenere che occorre educare gli uomini a diventare «cittadini del mondo», poiché ammettendo «un confine moralmente arbitrario, come è quello della nazione, [...] ci priviamo di qualsiasi valida motivazione per indurre i cittadini a ignorare anche le altre barriere».

    Sono il goy John Browning e l'ebreo Spencer Reiss a tirare le logiche conclusioni applicative: «Un'economia senza vincoli ha varie implicazioni: i consumatori sono in grado di incidere sui processi produttivi [come se non fossero eterodiretti dall'onnipervadente macchina pubblicitaria!]; lo sviluppo dei mercati è accelerato; i prodotti e gli impieghi hanno vita breve. Nessuno è più legato a niente» (corsivo nostro).

    Il tedesco Christian Vogel, direttore dell'Istituto di Antropologia dell'Università di Gottinga, afferma al contrario che «noi siamo stati e siamo tuttora legati al guinzaglio elastico degli "imperativi genetici di fitness" [norme etico-comportamentali per massimizzare la capacità di sopravvivenza della stirpe nel succedersi delle generazioni]. Di conseguenza sono state inserite in noi [...] una serie di tendenze "pre-morali" che rimandano alla storia preumana della nostra specie: prima fra tutte la regola fondamentale, che sovrasta ogni altra, dell'accurata distribuzione discriminante — secondo prossimità parentale genetica e convergenza di interessi — delle nostre attività di aiuto ovvero di danno; una propensione innata che fa apparire come un postulato estraneo alla natura ogni etica egalitariamente impegnata, in modo indifferenziato, a favore dell'umanità nel suo complesso [...] Ed è appunto da questa antichissima eredità [...] che scaturiscono le nostre tendenze di comportamento inegalitarie ed ambigue: da un lato la diffidenza, il rigetto se non l'ostilità nei confronti dei non parenti, degli estranei e degli stranieri; dall'altro l'altruismo, la disponibilità ad aiutare e a sacrificarci per i parenti e per gli esseri umani che ci sono "vicini" e con cui abbiamo confidenza».

    Rettore dell'Istituto di Etologia Umana Max Planck, Irenäus Eibl-Eibesfeldt applica tali conclusioni al maggiore dei problemi che travagliano l'uomo, non tacendo la sua propensione per una chiusura delle frontiere europee alle migrazioni allogene: «Se gli immigrati desiderano integrarsi in una cultura affine [...] la conflittualità potenziale è minima. Esempi in questo senso sono forniti dalle migrazioni interne europee [...] Ciò che contribuisce a legare è, in Europa, la comune eredità occidentale [...] Greci, Romani, Celti, Germani, Slavi e molti altri popoli hanno dato il loro contributo nel creare l'Occidente, i cui abitanti sono strettamente affini anche da un punto di vista fisico-antropologico e dunque genetico». Quando invece l'affinità di sangue non esista, «l'integrazione può diventare difficile, soprattutto se gli immigrati arrivano a ondate in un periodo relativamente breve e hanno dunque la possibilità di formare comunità sempre più vaste unendosi ai connazionali già presenti [...] L'immigrazione, in casi del genere, potrà essere causa di tensioni e di conflitti, poiché sarà vista come una vera e propria invasione. Una etnia che conceda l'immigrazione ad un'altra non disponibile a integrarsi e presente con un gran numero di individui cede la propria terra e in più limita le proprie possibilità di successo riproduttivo, perché il carico umano che un territorio può sostenere non è illimitato [...] Se gli uomini non devono temere i rappresentanti di altre culture come concorrenti, ne apprezzano le conquiste culturali e considerano la loro diversità come una variante molto attraente. Soltanto il timore di perdere la propria identità incrina la simpatia reciproca e ingenera odii collettivi capaci di spingersi fino alla follia del genocidio».

    Terzo ad avvertire il peso dello snaturamento dei popoli da parte del Sistema, lo storico Ernst Nolte, pur con tutte le inconseguenze del buon liberale sterminazionista, non si lascia paralizzare dal Grande Ricatto, ma ricorda, all'intervistatore che gli rammenta le «tragiche esperienze naziste» per indurlo a trangugiare il Multirazzialismo Migratorio, come tale «valvola di sfogo» serva solo a distruggere altre società senza recare il minimo sollievo alle popolazioni di partenza, aggravandone anzi la condizione: «Aiutare il prossimo e soprattutto lenire il dolore e il bisogno altrui è certamente virtù cristiana, ma questo non impedisce che l'aiuto possa venire prestato là dove sorge il bisogno. Nel nostro caso, vuol dire che questo migrare verso l'Europa e l'America non sempre ha ragione d'essere e non è qualcosa di ineluttabile, cui contrapporre solo le ragioni del nostro egoismo o semplicemente la preservazione della nostra individualità culturale, per quanto preziosa possa essere. Questo è un fenomeno che non danneggia solo gli europei o gli americani, ma è una privazione in primo luogo per le popolazioni che migrano, le quali si vedono esposte a subire i condizionamenti di un modo di vita loro estraneo, il che li depaupera dal punto di vista della ricchezza spirituale, anche se può offrire loro sollievo materiale [...] Per correttezza si dovrebbe dire che chi emigra da questi paesi non è la popolazione nel suo complesso, ma tre componenti di essa: i più capaci, i più attivi, i più discutibili, questi ultimi con più spiccata tendenza ad attività illecite [...] Queste migrazioni gigantesche da aree geografiche disomogenee e scarsamente sviluppate, quando non contenute in limiti sopportabili e controllabili, finiscono per essere dannose non solo per i paesi ospitanti, ma per le stesse regioni di provenienza. In questi casi è necessaria la chiarezza. Bisogna avere il coraggio di dire, talvolta anche con una certa energia: noi siamo intenzionati ad aiutarvi, ma cercate di aiutarvi voi per primi, là dove sono le vostre terre d'origine, esattamente come abbiamo fatto noi con lo sviluppo della civiltà occidentale. Il nostro intento è d'esservi utili, ma non al prezzo di sconvolgere il nostro sistema di vita, al punto di compromettere gli equilibri su cui poggia. Da questi equilibri dipende la sopravvivenza di chi ormai lavora qui e, conseguentemente, anche di coloro che sono rimasti nei loro paesi di appartenenza» (per inciso, nel 1994 l'Europa occidentale conta 35 milioni di disoccupati, mentre milioni d'altri si affacciano a causa non solo dell'automatizzazione/robottizzazione delle aziende, ma della globalizzazione/dislocazione in paesi a più basso costo del lavoro).

    Ed ancora, un anno più tardi, rilevando la minaccia mortale: «Temo che adesso il contrasto coi princìpi etici si faccia più duro, che tali princìpi perdano forza e resti solo il pursuit of happiness, il mero edonismo. Il vago umanitarismo che sembra dominare in Occidente è in effetti utile alle minoranze, ma copre l'individualismo radicale della società liberista. E questo è il grande pericolo [...] Il pericolo principale, quello che riguarda la realtà originaria dell'uomo, è il rapporto con le generazioni future, la volontà di continuarsi. Il crollo demografico della società occidentale è il sintomo più evidente e terribile di questa incapacità di superare il mero individualismo dei singoli. Già solo questo fattore demografico è in grado di affondare l'Europa in alcuni decenni. È un segno dello sfinimento morale di una nazione».

    «Una nazione» – conclude lo storico, chiamando a ribellione nel 1995 – «nella quale questa tendenza è diventata regola generale si estingue progressivamente e ha davanti agli occhi la propria scomparsa definitiva. Ma per poco che una grande parte degli individui possa essere preoccupata da questo, certo è che tutti terranno fermi quei vantaggi che sono loro pervenuti dal lavoro dei loro antenati, mentre un'altra parte potrà decidere per una resistenza disperata. Non meno forti saranno le richieste e gli attacchi di coloro nei quali l'individualismo non è, o non è ancora, diventato l'unica forza determinante e che contestano i privilegi di coloro che sono più forti in ragione calcolatrice e più deboli in energia vitale tradizionalmente morale».

    A riassumere un altro aspetto della questione, ma senza avvertire appieno il disegno della Repressione Multirazzialista – la distruzione cioè di ogni popolo e di ogni cultura – è l'ottantunenne scrittrice ebrea Salcia Landmann: «Sotto il pretesto del pentimento e dell'espiazione per lo sterminio degli ebrei sotto Hitler si è istituito in Germania un diritto d'asilo di ingenuità incomparabile. Non si era mai visto finora che degli immigranti venuti dagli antipodi avessero soltanto a pronunciare la parola "asilo" per acquistare automaticamente il diritto di venire sfamati dal contribuente tedesco che, lui sì, ha dovuto lavorare duramente per tutta la vita per un simile risultato. Che i tedeschi di oggi pensino di dover elargire un tributo di miliardi agli Asylanten, che terrorizzano spesso interi quartieri cittadini col loro comportamento criminale, e questo in memoria degli ebrei assassinati, è un'atroce beffa».

    Ma a tale ovvio buon senso si oppongono le frustrazioni mondialiste di un Danny il Rosso, che si chiede: «a chi appartiene la Germania?», rispondendosi: «all'umanità». E del medesimo sentire è la bulgara Julia Kristeva, psicoanalista migrata in Francia, che si vanta: «Gli stranieri siamo noi!». Ed egualmente la coppia Gunnar Heinsohn (docente di Storia, Economia e Sociologia all'Università di Brema e direttore del Raphael-Lemkin-Institut für Xenophobie- und Genozidforschung) e Schalom Ben Chorin, nato a Monaco Fritz Rosenthal). Mentre l'ex Rosenthal si fa entusiasta promotore del libello Warum Auschwitz (Perché Auschwitz), benedicendo l'autore, «appassionato avvocato di Israele, la cui fondazione nel 1948 egli annovera a miracolo della storia», il rieducato diffonde, coautore il collega Otto Steiger, un secondo contributo mortifero dal titolo Vielvölkerstaat Bundesrepublik, "Germania Federale, Stato multirazziale". Auspicando «il viraggio da una politica che considera lavoratori-ospiti gli stranieri ad una mirata politica d'immigrazione», Heinsohn si frega le mani: «Un variopinto miscuglio che possa generare più impulsi e cambiamenti che non lo squallore di un mucchio massificato di teutoni sarebbe la conseguenza nata da un calcolo economico ma ingenuo».

    All'opposto il «tedesco» Günther Ginzel, in un articolo titolato "Stranieri nella propria terra?", prende le distanze da tanto cosmopolitismo e lamenta la «schizofrenia della vita ebraica in Germania», affiancandosi alla Landmann e rivendicando la necessità della patria tedesca: «Può darsi che sia solo questione di tempo. Per il momento, però, io vedo che la maggioranza degli ebrei sono "solo" cittadini fedeli alle leggi. La parola "patriottismo della Costituzione" può tutt'al più dar conto dell'atteggiamento mentale. Quanti ebrei direbbero oggi di sé "sì, sono un tedesco, una tedesca?" Non parliamo forse noi stessi ebrei, talora in modo quanto più stupido, di "noi" e dei "tedeschi"? Perché, dobbiamo chiedercelo, un tizio di Vilna o di Riga, di Budapest o di Varsavia, di Mosca o di Kiev dovrebbe usurpare un'identità tedesca? All'opposto e in parallelo io mi ribello quando, conosciuti dei non-ebrei, vengo considerato straniero, uno che, in quanto ebreo, non sa, o cui è vietato, essere tedesco. Non voglio farmi emarginare, essere straniero in questa terra, benché spesso mi senta straniero».

    Egualmente col plauso è corretto rispondere al superamericano Edward Luttwak, che, con una franchezza brutale che è solo conferma «d'autore» per le nostre tesi, inserisce la questione «immigrazione» nella più vasta dimensione della Quarta Guerra: «Ogni società può sopportare solo un certo grado di trasformazioni rapide, e questo limite è sempre più basso quando i cambiamenti sono imposti da stranieri [...] Soprattutto, l'attuale mercato globale semiaperto (con l'eccezione delle esportazioni agricole) appare molto naturale. Eppure non si è realizzato in modo naturale, e nemmeno perché la teoria del libero scambio abbia persuaso tutte le parti in causa in base ai soli propri meriti intellettuali. Si tratta invece di un oggetto costruito dall'uomo, anzi di una creazione americana, conseguenza di più di quarant'anni di diplomazia americana, di pressioni americane, di disponibilità americana ad aprire per primi e al massimo il mercato [...] Gli Stati Uniti e la maggior parte degli altri paesi avevano buone ragioni economiche per desiderare l'espansione commerciale che il GATT permetteva e che ha continuato a produrre. Ma non è stata una coincidenza che l'originario trattato del GATT [entrato in vigore il 1° gennaio 1948] sia stato sponsorizzato con successo dagli Stati Uniti proprio all'inizio della guerra fredda [...] Perché il movente più forte a favore della liberalizzazione commerciale – più forte perfino dei vantaggi economici a fronte dei quali bisognava sempre tenere conto anche dell'esistenza di svantaggi – è stato sempre politico e strategico».

    Al contrario di Luttwak – il cui più neutro termine «geoeconomia» lascia trasparire l'ineluttabilità della rinascita, contro il Millennio Meticcio dell'Amore Fraterno, dei concetti fascisti di «geopolitica», «grande spazio autocentrato» e Lebensraum – la strategia (di cui si sono avute avvisaglie con l'accordo NAFTA North American Free Trade Agreement, sottoscritto a metà 1992 tra Canada, USA e Messico ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994) non tanto di inseguire l'obiettivo di un mercato mondiale integrato, quanto di inglobare l'intero bis-continente americano nel proprio sistema economico, è per gli USA, secondo Valladão, l'unico mezzo per non perdere il controllo sul mondo e per sopravvivere essi stessi come grande insalatiera in lotta contro ogni «identità freddamente ripiegata su se stessa». È quindi auspicabile («in questa battaglia per il consolidamento dell'impero democratico, la libertà di commercio svolge un ruolo determinante») la complementare applicazione di una seconda strategia: 1) opposizione al sorgere di una Fortezza Europa, da minare con l'Immaginario Olocaustico, l'incubo di un risorgente nazi-razzismo e l'invasionismo terzomondiale, 2) incessante guerra economica al Giappone, gigante dai politici piedi d'argilla, anche per impedirgli di coadiuvare Pechino nello sviluppo della Cina e di inverare i princìpi della dottrina kaifu, proclamata nel 1991, una visione dell'area economica asiatica ove spetta a Tokio il ruolo di superpotenza.

    Istruttive sono anche le considerazioni di un altro Arruolato, il sociologo Joseph Rothschild, che rileva a chiare lettere non solo la perversità, ma la vera e propria irrealtà dell'ideologia mondialista: «La globalizzazione di scienza, tecnologia e interdipendenza economico-organica rappresenta un processo irregolare e disordinato che conferisce vantaggi ad alcuni gruppi e regioni, facilitandovi il consolidamento strutturale di benefici e punti di partenza, mentre relega altri gruppi o regioni ai margini e alla subordinazione». Rivoluzionaria nei confronti sia dell'esistente sistema di rapporti economici, sia dell'attuale paradigma di pensiero sarà la riscoperta, da parte di ogni nazione, delle proprie radici (per la qual cosa non ci stupisce affatto la repressione mondialista che investe ferocemente, in forme ovviamente diverse, ogni paese del globo): «Ogni etnicità politicizzata è il fattore più incisivo della conflittualità infrastatale e interstatale; è una forza che, al di sopra delle diatribe ideologiche e di classe, s'impone dialetticamente come fattore primario di legittimazione o delegittimazione dell'autorità politica. Il riconoscimento di questa forza, non obsoleta, non reazionaria per definizione, indurrà gli studiosi a riconsiderare anche i concetti accademici convenzionali di integrazione politica, sviluppo e modernità».

    Ebreo ancora più anomalo – o quanto più tipico – è infine sir James Goldsmith, socio/cugino di Lord Jacob Rothschild (comproprietario dell'Economist) e compagnone di George Soros (tra l'altro, proprio nel Quantum Fund), morto, sessantaquattrenne, di cancro nel luglio 1997. Divenuto uno degli uomini più ricchi del mondo quale raider negli USA carterian-reaganiani, speculatore «inglese» tra i maggiori e magnate massmediale, proprietario in prima persona del Daily Express e fondatore nel 1968 del bimestrale The Ecologist, nonché undicesimo uomo più ricco di Gran Bretagna per il Sunday Times, Goldsmith è anche tra i più potenti consiglieri di amministrazione della Hollinger Corporation, proprietaria del Jerusalem Post, del Daily Telegraph, di una mezza dozzina di giornali australiani e di una miriade di periodici e quotidiani americani, tra i quali l'ex bertrandrusselliano Encounter, ribattezzato National Interest, e l'anticlintoniano The American Spectator. Del board della Hollinger, che ha le sedi centrali nella floridiana Palm Spring e nel paradiso fiscale, covo di pirati in doppiopetto, delle Cayman (nel 1998 sede legale di qualcosa come 25.000 società), fanno inoltre parte anche vari Rothschild, tra cui il super-liberal sir Evelyn, Peter Bronfman della Seagram/DuPont, il banchiere Rupert Hambro, l'immancabile Henry Kissinger, il generale Shlomo Gazit ex capo di Aman (il servizio di spionaggio militare israeliano) e i due goyim Lord Carrington e Margaret Thatcher, ex ministro degli Esteri ed ex Primo Ministro inglesi.

    Nell'estate 1993 Goldsmith si vede rifiutare dal Wall Street Journal un articolo, poi pubblicato da Le Figaro, nel quale confuta il liberismo globale, il mercato-mondo, il cosmopolitismo statunitense e la tecnocrazia, distruttiva delle nazioni. Gli USA credono che «per creare una nazione basti radunare genti venute da culture ed etnie diverse a popolare uno spazio geografico. In realtà, la nazione è qualcosa di totalmente diverso: sono la comunità di cultura, l'identità e le tradizioni, il suo retaggio, a farne il pilastro vitale della sua stabilità. Di quale più grande prova si ha bisogno, oltre allo spettacolo della violenta resurrezione, dopo decenni di repressione, di nazioni reali che erano state sommerse in stati artificiali come l'Unione Sovietica e la Jugoslavia? Non comprendere la differenza fra uno spazio popolato, una nazione e uno Stato porta ad attuare politiche che creeranno la disfatta sociale, la miseria e i conflitti etnici. Qualunque sia la crescita del Prodotto Nazionale Lordo».

    Giudicando inapplicabile al resto del mondo la singolarità dell'esperienza storico-politica americana e rigettandola con sprezzo, il Nostro denuncia il modello sociale-esistenziale degli States come il più disgregante della psiche del cittadino, della compattezza famiglia e dell'etica sociale. Quell'Europa che pochi anni prima egli, con le sinistre speranze suscitate dalla perestrojka gorbacioviana negli ambienti della finanza mondiale, ha considerato come un appetibile villaggio-mercato di ottocento milioni di individui (Wall Street Journal, 15 aprile 1988), viene ora riconsiderata in una visione irriducibile non solo al cosmopolitismo finanziario, ma anche al paradigma, giudaico-disceso, della Modernità.

    Pur mantenendo ovviamente un atteggiamento di aperta diffidenza nei confronti del suo populismo «di destra» (non dimentichiamo, poi, non bastasse il po' po' di interessi di cui detto, l'intimità coi boss dell'Intelligence Service), ne diamo la tesi: «Proteggiamo la nazione e non lasciamola trasformare in un mero "spazio abitato". Crescono le pressioni all'apertura delle frontiere. Il Trattato di Maastricht, articolo 123, istituisce un "Fondo Sociale Europeo per promuovere all'interno della Comunità la mobilità geografica dei lavoratori". Sottolineo: non si tratta qui solamente di consentire la mobilità geografica, ma di promuoverla, e persino di sovvenzionarla. Questa non è la via da seguire per costruire l'Europa, ma per distruggerla [...] Quelli che confondono l'Europa con gli Stati Uniti dimenticano che questo stato si è formato con l'immigrazione, che sono partiti da zero, loro. Noi siamo l'opposto. I nostri popoli hanno profonde radici nazionali che costituiscono una forza meravigliosa. Non distruggiamola mescolando i popoli come un mazzo di carte. I grandi miscugli multinazionali governati da una burocrazia centrale non sono stabili, come prova la crisi dell'Unione Sovietica e in un certo senso anche dell'America». ***

    *** È certo per avvalorare tale «nazionalismo» che la figlia Jemine, per impalmare il pakistan lover Imran Khan campione di cricket, si fa islamica, imitata dalla madre lady Annabel Birley. Quanto al Nostro, oltre a to business per l'intero pianeta, vanta un carnet cosmopolita: la prima moglie è la boliviana Isabel Patino, erede del magnate dell'alluminio, segue la francese Ginette Lery, terza l'inglese Annabel nata Vane-Tempest-Stewart dall'ottavo marchese di Londonderry, infine la convivente Laura Bouley de la Meurthe, nipote del Conte di Parigi. Rispettivi figli: uno, due, tre, due.

    Tra i mille che in questo secolo hanno perorato in favore di un Governo Mondiale, uno dei discorsi più chiari è stato quello, riportato dal londinese Times il 16 marzo 1942, in pieno conflitto mondiale, del puro WASP John Foster Dulles. Nato nel 1888, affiliato Pilgrims Society, consigliere di Wilson a Versailles, amministratore della Fondazione Rockefeller e presidente del Federal Council of Churches, nel dopoguerra è delegato USA all'ONU fino al 1950 e ministro degli Esteri dal 1953 al 1959, data della morte (il fratello Allen è presidente del CFR nel 1926, capo dei servizi segreti USA in Europa nel 1942-45 e capo della CIA dal 1953 al 1961).

    Al pari di Walter Lippmann e dei progettisti della Carta Atlantica, di Bretton Woods, Dunbarton-Oaks e San Francisco, anche Dulles indica il vero obiettivo del conflitto: «Un governo mondiale, la limitazione immediata e severa delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e le marine, un sistema monetario universale, la libertà di immigrazione nel mondo intero [corsivi nostri], l'eliminazione progressiva di tutte le restrizioni doganali (diritti e tributi) al commercio mondiale e una Banca Mondiale sotto controllo democratico» (il quartier generale della World Bank non può essere posto, ovviamente, che nel Paese di Dio, sito oggi al numero 1118 di H Street, Washington DC).

    Esattamente mezzo secolo dopo, il 22 settembre 1992, è Franz-Olivier Giesbert, caporedattore de Le Figaro, a sottolineare il senso dell'operazione di omogeneizzazione economico-politica sottoscritta in Olanda dai paesi europei: «Maastricht, è la stessa cosa del Trattato di Versailles – senza guerra». «Maastricht è più immigrati, più disoccupati, più insicurezza, più tasse, più burocrazia, e meno democrazia», aveva commentato Jean-Marie Le Pen il 1° maggio precedente.

    L'incessante operazione di ammortizzatore economico mondialista costituita dalla migrazione dei popoli e dallo sconvolgimento delle nazioni non sarebbe stata possibile senza una propaganda incessante alla radio, alla televisione, al cinema, sui giornali e nei libri, propaganda talmente capillare ed onnipervadente da non essere rilevata dall'uomo comune, che, quand'anche la notasse, la troverebbe naturale. Anche l'ecumenismo cristiano – e non poteva essere diversamente, considerati la sua origine e il dissolversi delle contraddizioni nate dalla bimillenaria convivenza forzata con l'ethos europeo – è oggi messo, volente o nolente, al servizio del denaro.

    Al contrario, chiunque difenda il diritto per ogni nazione di essere se stessa, di adorare i suoi Dei, di coltivare e trasmettere il suo Sistema di Valori, chiunque aborra il meticciato e rifiuti il multirazzialismo all'interno di uno Stato, chiunque si riallacci alla storia e al mondo reale, chiunque protesti contro la degenerazione scaturita da una civilizzazione senza patria e si levi contro la devastazione della Memoria imposta al mondo, attraverso gli States, da quel Piccolo Popolo inneggiato dal trilateralista Sergio Romano quale «aristocrazia metanazionale», quella persona si pone fuori dalle coordinate del Sistema. Quella persona è nemico del Sistema.

    * * *

    Guerra di civiltà

    «L'immeschinirsi e il livellarsi dell'uomo europeo nasconde il nostro massimo pericolo, data la stanchezza che ci infonde questo spettacolo... Oggi nulla vediamo che voglia divenire più grande, abbiamo il presentimento che tutto continui a sprofondare, a sprofondare, divenendo più sottile, più buono, più prudente, più agevole, più mediocre, più indifferente, più cinese, più cristiano» (Genealogia della morale, I 12).

    Queste parole di Nietzsche, stilate cent'anni or sono, non devono – come non lo deve l'apparentemente inarrestabile decadenza dell'uomo europeo – costituire un alibi per accantonare, disillusi delle nostre genti, l'antica Visione del Mondo nell'illusione di inesistenti scorciatoie al cambiamento, nell'ansia di stipulare «alleanze», per loro natura sempre precarie, con schegge di quelle formazioni politiche sé-dicenti anti-Sistema, che ancora portano, nei propri cromosomi, nel proprio bagaglio culturale e, più ancora, nella propria psiche, spezzoni ideologici del Mondo Nuovo Orientale.

    Perché, ci chiediamo, tra tutti i popoli, proprio quelli europei reagiscono così debolmente ai sempre più pressanti segni di corruzione dell'Identità, allo scardinamento della Memoria, all'annientamento dell'Anima? Perché non si accorgono che il marasma che li investe da mezzo secolo non è una «naturale evoluzione della società», ma l'opera di un progetto sempre più chiaro? Perché stanno perdendo, senza averne quasi consapevolezza, la quarta delle guerre scagliate in questo secolo contro di loro? Perché non sanno collegare in un'unica sequenza la Grande Guerra, il Secondo Conflitto, la Rieducazione e l'Invasionismo che sommerge, implacabile, le loro nazioni?

    Perché, pur con tutta l'intelligenza mostrata nel corso dei secoli, si affrettano – con incoscienza e con gaudio, gregge sfibrato ed ottuso – verso la catastrofe dell'Unico Mondo? Perché accettano ed anzi difendono come naturale tendenza umana quella che altro non è se non una rovina nel precipizio? Perché non avvertono di essere gli unici a soffrire, tra i popoli, di quell'abominio che è il masochismo etnico, l'indifferenza conscia verso i propri padri, l'odio inconscio verso i propri figli? Perché fanno propria la forma mentale, le parole d'ordine, i progetti, le contraddizioni perfino, di chi tira i fili nella penombra, primi fra tutti i Fratelli Maggiori?

    Saturata l'esistenza di beni materiali resi possibili dalla Scienza e dalla Tecnologia, l'uomo europeo si è in primo luogo adagiato, giustificandolo, nel Sistema che tali beni gli ha concesso celandogli il terribile prezzo pagato sia da lui stesso che dalla Natura («Se non producessimo più rifiuti non avremmo più bisogno di camion per smaltirli. Teniamo l'economia in movimento», incita sulle strade svizzere, nell'aprile 1996, un criminale cartello pubblicitario!), dando con ciò completa ragione al detto di Shakespeare: «By an instinct divine, men's minds mistrust ensuing danger, Per istinto divino la mente dell'uomo non vede il pericolo incombente».

    Ma altre risposte e ragioni vi sono, altrettanto importanti ed anzi più veritiere – se non altro a cagione della loro precedenza temporale – che non l'obnubilamento in un accidioso «benessere».

    Prima tra tutte: l'immane massacro del secondo bellum germanicum, con l'eliminazione fisica e l'emarginazione sociale di decine di milioni dei nemici più determinati del Mondialismo.

    Seconda: l'incredibile, nella storia mai vista campagna di Rieducazione che ha investito ogni aspetto della vita, personale e associata, attraverso il martellare diuturno della propaganda olocaustica, l'implacabile criminalizzazione dei padri, la criminalizzazione e l'oblio del Passato (ed è per questo che ci pare ingeneroso, oltre che assolutamente impressionistico, il commento espresso nell'autunno 1950 dallo svizzero François Genoud, simpatizzante nazionalsocialista: «I tedeschi mi sorprendono sempre! Fanno tutto dietro comando. Quando gli si ordina di essere leoni, sono leoni. Quando gli si ordina d'essere montoni, sono montoni. Ci sono ancora decine di migliaia di prigionieri tedeschi: non se ne salva uno!»).

    Abbiamo quindi valutato davvero (ci rivolgiamo ai più impazienti Antagonisti, disperati per l'abiezione in cui è immerso l'uomo europeo), prima di esprimere, come nel 1937 Céline, quell'implacabile giudizio negativo con una durezza che non si è soliti usare nei confronti di altre etnie – «in natura esistono solo poche rare specie di uccelli che si dimostrino così poco istintive, così coglione, così facili da minchionare come questi invertiti di ariani... Alcune specie, le più stupide del regno volatile, covano le uova del cuculo, i pulcini "rivendicatori" del cuculo che si affrettano, appena fuori, a buttar giù dal nido tutte le uova, tutta la nidiata dei loro genitori adottivi!» – la tremenda forza propagandistica del Sistema, l'impatto mortifero dei suoi allettamenti? Che dire poi dei veri e propri, dichiarati odiatori della propria gente, della gente della propria razza, di tutti quegli odiatori non solo di se stessi, ma perfino, al profondo, degli alieni oggetti del loro «amore»?

    Identico problema, morale e politico insieme, si pose a suo tempo ai nascenti fascismi, come testimoniano le parole del Capo del nazionalsocialismo: «Ciò che prima mi era apparso come un abisso incolmabile, era diventato adesso la spinta ad un più grande amore. Solo un pazzo, difatti, venuto a conoscere questa gigantesca attività avvelenatrice, potrebbe ancora maledirne la vittima infelice [...] Tale esperienza io la devo massimamente a quel mio doloroso periodo di allora, che solo riuscì a riportarmi in contatto col mio popolo; talché imparai a distinguere le vittime dai seduttori. Non si possono chiamare che vittime, infatti, gli avvelenati da quella subdola seduzione di massa [...] Chi difatti, posto di fronte alla diabolica abilità di questi corruttori, avrebbe potuto maledire le loro infelici vittime?» (Mein Kampf, I 2).

    E se la comprensione per la propria gente traviata è stata possibile allora, come non ritenere che lo debba essere ancor più oggi, epoca in cui il Sistema imperversa con mezzi di condizionamento e di repressione mai visti?

    «Il peggio» – allarma Amaudruz – «non è l'ampiezza del pericolo, ma l'assenza di reazione dei popoli bianchi o la loro reazione troppo debole, dovuta al lavaggio del cervello operato dai media controllati dalla lobby mondialista [...] Una popolazione normale – e non pensiamo qui ai popoli europei, colpiti da pesante degenerazione biologica – è costituita da una minoranza di persone (un dieci per cento?) capaci di pensiero indipendente e da una maggioranza di montoni, cioè di brave persone incapaci a pensare quanto non sia stato pensato già prima di loro, e soprattutto impotenti ad immaginare quanto non hanno già sotto gli occhi [...] Chi credesse la partita perduta a causa della potenza dei nostri avversari dovrebbe considerare quanto segue: almeno il sessanta per cento dei nostri popoli è formato da persone oneste e laboriose. Se si lasciano portare dove li indirizzano una quantità di governanti indegni, è solo perché le forze del Sistema controllano i media. Tali media costruiscono attorno ad ogni brava persona un mondo totalmente fittizio. La storia viene falsificata fino ai tempi più antichi; l'attualità, deformata, come vediamo ogni giorno. Inoltre, stampa, televisione e radio si attivano per inoculare sentimenti di colpa nei popoli bianchi, per far loro accettare l'arrivo di milioni di allogeni. E ciò, tanto più facilmente in quanto gran parte delle Chiese sostengono tale politica suicida».

    «Il pericolo» – avverte Thomas Molnar – «un pericolo di dimensioni epocali, ci sovrasta, e potremmo dire che è l'atto secondo di un'intrapresa che fu all'inizio marxista, tendente ad annientare le forze che si oppongono al rullo compressore del materialismo livellatore. In ultima analisi, questo è stato lo spirito del secolo, quando non della modernità: mutare la condizione umana e la storia con l'aiuto di due potenze ideologiche, straniere all'Europa, che si sono date il compito di alienare l'Europa da se stessa. Il grande metodo consiste in una dissoluzione del doppio quadro di pensiero e di sensibilità formate dallo Stato-nazione e dalla religione-Chiesa».

    «Uno dei due mostri partoriti dai Lumi agonizza: il socialcomunismo» – aggiunge l'antimondialista Louis Saint Martin, fondatore del movimento FRANCE Fédération Royalyste pour une Action Nationale et Chrétienne en Europe – «e i suoi scarti riciclati alimentano i Sacrosanti Diritti [droit-de-l'hommisme], l'egualitarismo, il cosmopolitismo e l'immigrazionismo sfrenato (confuso con l'autentico antirazzismo), infezioni mortali per la nostra patria. Il suo gemello, accecato dalla sua illusoria vittoria, crede che tutto gli sia permesso: è il liberomercantilismo, altrettanto inumano del suo compare socialista. Il GATT è il suo strumento. Il liberoscambismo mondiale non è un destino. È una "religione" altrettanto terribile di quella di Baal. Ha i suoi fanatici, i suoi boia, i suoi servi e il controllo di mezzi di asservimento prodigiosi. Soprattutto, ha un'osceno obiettivo: "il" governo mondiale, portatore di un messianismo da bazar, dominato da pochi potentati finanziarî, accaniti a fare del mondo un immenso parco-bestiame dove il soldo, la crapula, il sesso, la droga e la Coca schiavizzeranno miliardi di sottouomini abbrutiti di "serie deboli" (finanziate dagli inserzionisti massmediali di New York o di Tokio), dove la pornografia, il sadismo e la profanazione saranno divenute le tre più alte manifestazioni del genio umano. Col rock pesante, ovviamente».

    «Non ci si deve oggi stupire» – incalza Yvan Benedetti in Jeune Nation n.34, 1999 – «che la filosofia dei diritti dell'uomo sia divenuta l'arma principale del mondialismo, sintesi tra l'ideologia massonica e gli interessi della finanza internazionale [...] Essi rendono sensibile l'individuo alle sole soddisfazioni materiali e ai soli piaceri fisici, mettendolo alle loro dipendenze. Lungi dall'apportare al singolo una pretesa libertà, i diritti dell'uomo generano solo miseria morale e disastro sociale». E questo perché, aggiunge Michel de Preux, «alla fin fine i Diritti dell'Uomo non sono mai stati concepiti se non come un'arma per la distruzione generale di tutte le forme tradizionali e naturali di società e di tutte quelle forme naturali ed umane di lealismo politico o patriottico che non siano, al contempo, una dichiarazione di fedeltà all'ideologia democratica».

    «Da una parte» – scrive Maurizio Murelli nel 1995 – «quelli che sognano una società non condizionata da valori identitari forti che passano, per esempio, dal riferimento al clan, alla stirpe, alla famiglia, alla nazione e quindi ai sedimenti culturali specifici. Una società omologata da valori mondiali che vanno bene per tutti a tutte le longitudini e latitudini. Valori fondanti che diventano diritti internazionali e per cui "tolleranza", "mescolanza", "uguaglianza", "indifferenziato", "società", "cittadini" (non importa se legali o clandestini, purché siano lì, "abitino" la città adesso) sono le parole d'ordine imprescindibili. È la conseguenza del riflesso di una cultura illuminista che va imponendosi in politica (cioè nel modo di ordinare gli Stati) attraverso l'egemonia culturale e morale. Questa cultura parla di "tolleranza", "mescolanza", "multietnismo" da contrapporre a "xenofobismo", "egoismo", "razzismo". Ma, al di là dei torti e delle ragioni dei suoi antagonisti, appare del tutto evidente che questa cultura che si compiace di definirsi "progressista-demoliberale-di sinistra", non valuta affatto né i conti che la storia gli ha fin qui presentato palesando l'assoluta infondatezza dei suoi postulati culturali, né quelli che saranno i risultati ultimi dei processi che va innescando [...] L'antagonista di questo fronte "progressista" è il fronte "conservatore". È un fronte che va componendosi un po' in tutta Europa [...] Questo fronte contrappone all'omologazione mondialista la difesa dell'identità nazionale che, ovviamente, passa attraverso la difesa del privilegio di appartenere a quella specifica nazione piuttosto che a un'altra. E questo privilegio viene prima della solidarietà verso gli stranieri, che non viene intesa come un dogma o come un obbligo, ma, al limite, come un dono, una concessione [...] O si è nel fronte che, consapevolmente o inconsapevolmente, lavora per la disgregazione della specificità etnica, culturale, politica e per affermare l'indifferenziato, l'uniforme, l'omologato, oppure si pratica la propria quotidianità nella difesa delle specificità, con orgoglio e fierezza».

    Ed ancora, cinque anni dopo: «Una nazione è fatta di miti fondanti, riferendosi ai quali si intraprendono le opere più colossali. Il territorio di una nazione è bonificato, arricchito di strutture e sovrastrutture, come le strade, gli argini di un fiume, i ponti, le fortificazioni, le industrie, le opere d'arte. Tutto questo è patrimonio comune. Un patrimonio comune per costruire e difendere il quale le generazioni che hanno preceduto quelle in vita si sono sacrificate fino al punto di versare il proprio sangue o donare la vita. È un patrimonio che ha un proprietario che oggi si chiama popolo. La famiglia che abita una casa è proprietaria, se non anche dei muri, quanto meno di quello che i muri custodiscono. E dentro una casa vi sono beni materiali e beni immateriali quali la memoria e la sedimentazione degli affetti che spesso sono rappresentati da oggetti. I componenti di quella famiglia usufruiscono comunitariamente dei beni materiali e non materiali della loro casa. Ci saranno delle regole non scritte che stabiliscono le priorità del nonno e del nipote sull'usufrutto dei beni; in ogni caso chi non fa parte della famiglia non può accampare su quei beni gli stessi diritti. Quando qualcuno viene ospitato all'interno della famiglia deve essere sicuramente trattato con riguardo, ma lo sportello della credenza lo apre quando vuole solo se dallo stato di ospite passa a quello di adottato. Comunque si componga la famiglia, chi è il diretto intestatario dei beni ha il diritto di determinare l'eredità come meglio crede. Ciò è accettato e riconosciuto dalla legislazione vigente. Per estensione, ciò che è valore fondante in una famiglia lo è anche dello Stato. Possiamo dunque pensare che sia possibile che la maggioranza dei moderni cittadini naturali di una data nazione, al momento della loro dipartita, intendano veramente suddividere il patrimonio comune tra chiunque si catapulti dentro i labili e non più sacri confini della patria: di certo tale intenzione non può essere ascritta alle generazioni appena scomparse (quelle che hanno fatto la prima guerra mondiale, per intenderci).

    «Mi si dovrebbe comunque dire in base a cosa il bene avuto in lascito debba essere obbligatoriamente con-diviso con chi io reputo ospite, e per quale ragione io devo trattare da subito e obbligatoriamente un "ospite" nello stesso modo in cui tratto un "adottato". Chiunque rivendica il diritto politico di imporre l'obbligo della spartizione coatta del patrimonio comune e l'adozione obbligatoria è un criminale e un degenerato, e non rappresenta che se stesso. E dovrebbe a questo punto spiegare cosa intende per nazione. Ernesto Galli della Loggia, in uno dei suoi più frequenti deliri, si domanda e ci domanda se noi vogliamo essere una nazione multietnica ove le varie entità non comunicano tra di loro, o se invece «vogliamo restare una sola nazione, offrendo la possibilità agli immigrati e specie ai loro figli (si badi: offrendogli la possibilità, non già imponendogli l'obbligo) di diventare italiani?" (Corriere della Sera, 17 luglio 2000). E già, contro i figli degli immigrati mica si può compiere lo sgarro di imporgli l'obbligo di essere italiani, mentre ai nostri figli si deve, secondo questa concezione, imporre l'obbligo di non essere italiani, dal momento che l'essere italiani è il risultato di una incorrotta specificità la quale può benissimo integrare e assimilare individualità di ogni tipo e di ogni razza, ma non può assolutamente restare se stessa se deve subire cicliche invasioni».

    Noi non siamo all'interno di una disputa scolastica, ma di una guerra di civiltà. È una guerra politica, una guerra intellettuale, una guerra morale, una guerra spirituale, è una guerra totale quella che ci coinvolge. La posta in gioco, nel suo senso più profondo, non è il Potere, ma la Memoria e l'Ordinamento, la sopravvivenza dell'Anima stessa dell'uomo. Il culturale e l'economico sono antitetici. Il politico e il gestionale sono antitetici. Il senso del reale e il progresso sono antitetici. L'amore per i propri simili e l'amore per il «prossimo» sono antitetici. Il rispetto del diverso e l'indifferenza per i propri simili sono antitetici. L'amore per il Cosmo e lo sfruttamento del «creato» sono antitetici. Il sacro e il troppo-umano sono antitetici. La ragione e la Ragione sono antitetiche. La Memoria e l'utopia sono antitetiche. Sangue e Suolo sono antitetici all'Unico Mondo.

    Eredi di un plurimillenario Sistema di Valori fondato su una concezione realista e volontarista della vita, non conserviamo nelle bisacce santini unti di agiografia né giudichiamo possibile proseguire le esperienze concluse dei movimenti fascisti, anche se rappresentiamo un segmento sulla medesima retta ideale, punti che subentrano a quelli con lo stesso significato, provvisori quanto quelli negli atti e nelle opere, provvidenziali quanto quelli nei compiti e nelle funzioni. Portatori di aspirazioni ideali non tanto vinte ed emarginate, quanto soprattutto straziate e gravate d'«inespiabile» colpa, non possiamo oggi che vivere, tra la nostra gente, da «stranieri interni».

    «Esuli in patria», il primo dovere da osservare nei confronti del ricordo dei padri e del futuro dei figli non può essere per noi, generazione sull'estremo crinale di quella Devastazione intravista da Nietzsche, che la raccolta e la testimonianza. Perché la Storia non giunga alla fine. Perché la Storia non giungerà alla fine.

    In questo mezzo secolo è accaduto che alla falsificazione del discorso sul fenomeno fascista impostata dai suoi nemici hanno fortemente contribuito anche coloro che, per tradizione o istinto, sarebbero stati e sarebbero disposti a riconoscersi «fascisti». Ciò, scrive Giorgio Locchi, «è perfettamente comprensibile, del resto, giacché a partire dal 1945 il "fascista" che intende condurre un'azione politica è costretto a condurla sotto falsa bandiera e deve pubblicamente rinnegare gli aspetti fondamentali del "discorso" fascista, verbalmente sacrificato ai "princìpi" dell'ideologia democratica [...] inevitabilmente questo atteggiamento "obbligato" del fascista politico ha avuto riflessi sull'atteggiamento del fascista studioso di storia, sempre a causa della deplorata incapacità di separare studio storico e attività politica. Per di più la catastrofe della "guerra perduta" ha esasperato la polemica tra le espressioni del fascismo legate a un diverso carattere nazionale e, all'interno dei fascismi nazionali, tra le varie correnti, ciascuno rivendicando per sé ed il proprio campo un fascismo "buono", prudentemente ribattezzato con un altro nome, e rigettando sugli altri la responsabilità di un "male", all'occorrenza identificato in toto o in parte con quelle "forme" del fascismo che avevano detenuto il potere ed attirato l'universale condanna».

    «La validità storica dei movimenti e dei regimi fascisti» – aggiunge Enzo Erra – «non è in ciò che dissero né in quel che fecero, nelle idee che lanciarono e nelle ideologie che non scrissero, negli istituti che crearono e non completarono e nemmeno in quelli che si rivelarono tanto forti da sopravvivere. L'orientamento che possono fornire a chi vuol superare la crisi è nel fatto stesso che sono esistiti, come forme rivoluzionarie proiettate oltre gli schemi della società moderna. Quelle forme non sono l'essenziale, e la soluzione della crisi non è legata al loro ritorno. Essenziale è l'impulso che le creò in uno slancio di rottura, di indipendenza e di novità: un impulso che non è contenuto in nessuna necessità storica, che sorse liberamente e solo liberamente potrà tornare a manifestarsi [...] Il diritto del fascismo a lottare per sostenere le proprie ragioni non viene meno solo perché la liberaldemocrazia vittoriosa ha sostenuto e sostiene ragioni diverse. Il fascismo non è un fuorilegge della storia ma una delle sue forze costitutive [...] La forma liberaldemocratica di governo, e il modello economico-politico occidentale, dopo la fine della guerra fredda prevalgono nel mondo. Essi hanno certamente vinto, ma questo non giustifica la convinzione che siano l'ultima e definitiva parola dell'umanità, il solo modo in cui gli uomini e i popoli potranno reggersi per oggi e per i millenni a venire».

    Similmente Mario Consoli: «Parlando del Fascismo occorre distinguere ciò che appartiene al periodo storico ed alla contingenza del regime da quel patrimonio di concezione di vita e di valori dei quali i fascisti sono stati incarnazione e nei quali si sono riconosciuti sia prima che dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il regime fascista non può essere né vivo né morto: esso rappresenta una somma di avvenimenti politici, sociali, economici e militari che si sono manifestati in Italia dal 1922 al 1945. Tutto ciò appartiene alla storia e non potranno mai certo riproporsi, né in Italia né altrove, né oggi né in futuro, sistemi politici, uniformi, gagliardetti, legislazioni e quant'altro ha contribuito a fare del Fascismo anche un regime [...] Ma tutt'altro è il discorso se ci si vuole riferire alla concezione di vita, alle tradizioni, ai valori dei quali il regime fascista fu una particolare espressione storica. Allora bisogna parlare di un patrimonio spirituale che esisteva già molto prima del 1922, che non è certo morto nel 1945 e che continuerà a vivere nel futuro, finché vivrà un certo tipo di uomo. Che lo si chiami Fascismo, per pura comodità di sintesi dialettica, non è certo sostanziale. Potremmo chiamarlo in altro modo e domani troverà certamente altri nomi, altre bandiere, altri simboli. Ma si tratta di un mondo di valori, di una concezione di vita talmente vivi da rappresentare, ad un'attenta analisi, la probabile, forse l'unica, reale alternativa al mondo che ci è di fronte, al Sistema, alla cultura del Dio-denaro, alla società multirazziale, alla decadenza morale, allo sradicamento dell'uomo, alla distruzione delle tradizioni, del senso del sacro e della civiltà. Che lo si chiami come lo si voglia chiamare, esiste un patrimonio di incredibile potenza che ha segnato millenni di storia e ci dà oggi la certezza che i nostri figli non saranno destinati a sparire in un mondo informe e appiattito, in un'atmosfera irrimediabilmente inquinata, in una vita priva di spiritualità e significato».

    Ed egualmente Giuseppe Santoro ne Il mito del «libero» mercato, sulla scia di Roger Eatwell, per il quale le ideologie politiche sono essenzialmente un prodotto del pensiero collettivo e non il parto solitario di questo o quel pensatore, «tipi ideali» che storicamente si esprimono certo in specifici movimenti e regimi, ma che mantengono comunque una loro autonomia e quindi la capacità di durare nel tempo: «Il Sistema di valori che il fascismo – pur con tutti i limiti e le approssimazioni che proprio per uno stile mentale fascista sarebbe inconcepibile negare – attualizzò, in senso stretto non gli appartiene, in quanto patrimonio originario e costitutivo della sostanza e della storia italiana ed europea. È proprio questo Sistema di valori, al di là della sua forma storica, il vero bersaglio di quanti nella storia italiana [ed europea] vogliono aprire una voragine».

    Concetto ribadito in Dominio globale: «L'Europa per sfuggire alla trappola del mondialismo dovrà riconoscere come antitetico e distruttivo il modello sociale e culturale rappresentato dagli Stati Uniti e respingere il loro principale prodotto d'esportazione: l'utopia della cosiddetta società multiculturale o multietnica, vero e proprio grimaldello del mondialismo capitalista per scardinare le Nazioni [...] Presupposto per restituire all'Europa – patria delle patrie europee – il suo destino è, pertanto, che gli europei sappiano immaginare e volere un'alternativa alla globalizzazione, spacciata per ineluttabile dalla propaganda mondialista. Questa alternativa per essere autentica sul piano politico, economico e sociale deve esserlo innanzitutto su quello spirituale e culturale».

    Al contrario, la stessa criminale utopia giudaico-discesa propalano i goyim Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, epistemologi e biologi, e Antimo Negri, filosofo. Se però i primi due, allievi e seguaci del sefardita Edgar Morin, circoscrivono ai paesi europei l'alternativa «solidarietà o barbarie» (l'universalisme ou barbarie di Taguieff), il terzo – blaterando di un'Europa aperta ai «viandanti» planetari, ai «senza patria nel mondo del lavoro» contro la pratica di un «feroce odio razzistico» operata da una «piccola politica» demoliberale che, pur avversa ai nazionalismi, si trincera dietro lo slogan «pervicace» l'Europa agli Europei – propone una soluzione alla GdL, aggiungendovi uno spruzzo di sensi di colpa e la doverosità del multiculturalismo: «I grandi paesi europei, ad alto sviluppo industriale o anche in una fase post-industriale piuttosto matura, non possono più pretendere di restare raccolti in una ormai indifendibile Res publica, in cui i nuovi abitanti, quale che sia la loro provenienza, siano considerati unicamente come ospiti più o meno temporanei e non come coloro che aspirano e di fatto rivendicano [a che titolo, tale diritto? solo perché avrebbero «fame» o sarebbero «troppi» nei loro paesi?] una stanzialità duratura. Solo una politica miope può rimanere sorda al ritmo incalzante e "rumoroso" di un fenomeno migratorio inarrestabile, dal quale, man mano che esso si verifica con i tratti di un destino storico, il meno che ci si possa aspettare è ben questo: che l'Europa capta possa capere quanti la "occupano" senza disporsi assolutamente a subire l'onta più mortificante e anzi mortale per le loro culture».

    Addirittura, per Negri, Nietzsche avrebbe auspicato una «razza mista europea» (è ben vero, ma solo laddove «mista» significa amalgama tra i popoli europei, senza apporto di sangui estranei!) e una cultura o una religione miste «contro l'ideologia di una razza europea pura, incontaminata». Poiché lo scopo dell'esistenza sarebbe rappresentato da Dioniso, è consigliabile per l'Europa perdere la sua «apollineità» lasciandosi invadere da turbe di disgraziati (i quali, stando i limiti intrinseci economico-produttivi del Sistema, evidenti per tutti tranne che per gli ottenebrati, non solo aggraverebbero la loro disgrazia, ma fomenterebbero la rovina sociale degli ospitanti) e tralasciando «di apprestare delle difese contro ogni differenza etnica, culturale, religiosa, che possa metterne in questione la più salda "unità"». Queste differenze, conclude l'Anima Pia, «costituiscono sempre una potenziale energia per conflitti terribili che mettono in questione qualsiasi tentativo di istituire un ordine politico».

    Ma anche il «franco-italo-greco» Morin né Nahoum cachinna il multirazzialismo salad bowl, invocando «una società universale fondata sul genio della diversità», una «cittadinanza planetaria, che darebbe e garantirebbe a tutti dei diritti terrestri», poiché «è tramutandoci veramente in cittadini del mondo, cioè cosmopoliti, che diventeremo rispettosi delle eredità culturali e del bisogno di ritorno alle origini [...] l'internazionalismo voleva fare della specie un popolo. Il mondialismo vuole fare del mondo uno Stato».

    Come per il grande storico inglese Arnold Toynbee, tuttavia, il «compiere l'unità umana e salvaguardare la sua diversità», il «civilizzare la Terra» all'interno di un unico «tessuto comunicazionale, di civiltà, culturale, economico, tecnologico, intellettuale, ideologico», esige, en attendant le Royaume, sempre una qualche violenza: «L'ONU dovrebbe essere il centro di tutto questo, e al tempo stesso un potere di polizia planetaria che intervenisse ogniqualvolta uno stato aggredisse un altro stato, un popolo, un'etnia, in attesa di poter disporre di forze democratiche mondiali e forze d'azione atte a ristabilire la democrazia ovunque fosse rovesciata [...] Ci vorrebbe, per concretizzare queste possibilità [...] una "opinione pubblica planetaria". Ci vorrebbe una cittadinanza planetaria, una coscienza civica planetaria, una opinione politica planetaria. Non siamo neppure agli inizi. E tuttavia sono questi i preliminari di una politica planetaria, che è nello stesso tempo una condizione per la formazione di queste opinioni e prese di coscienza [...] Da qui il seguente paradosso: bisogna al tempo stesso preservare e aprire le culture».

    Come si pretenda di creare un'opinione pubblica mondiale (di «cloache della cosiddetta opinione pubblica» già scrisse il Völkischer Beobachter il 26 maggio 1921... e d'altra parte ben sappiamo che non esistono opinioni pubbliche, ma solo opinioni pubblicate) e perciò, se le parole hanno un senso, omogenea ed unica, e al contempo difendere la varietà dei popoli e la specificità delle culture, può comunque pensarlo soltanto un cervello informato dal più contorto talmudismo.

    Non occorrendo invero altri commenti alla duplice strategia – Olo-Colpevolizzazione e Invasionismo – con cui il Mondialismo spiega contro l'Europa la Quarta Guerra, chiudiamo, quanto agli invasionisti Galli della Loggia, Tullia Zevi, Morin né Nahoum e ad ogni loro sodale, con tre citazioni.

    Nostra, la prima: «Uguale la cura del pazzo: per guarire il male di testa, il rimedio è tagliare la testa». Di Schuon, la seconda: «Spesso si considera "coraggio" o "realismo" ciò che è esattamente il suo contrario, vale a dire: poiché nulla può impedire una determinata calamità, la si definisce un "bene" e si glorifica l'incapacità di eluderla». Di Nietzsche, la terza: «La democrazia europea è solo in piccolissima parte uno scatenamento di forze: essa è soprattutto uno scatenamento di pigrizie, di stanchezze, di debolezze» (Frammenti postumi 1884-85, XXXIV 164).

    * * *

    La superstizione monoteista

    In questo ventennio lo svolgersi delle vicende non solo europee ma globalmente umane ha subìto un'accelerazione imprevedibile, sconosciuta a ogni altra generazione. Essa ha comportato un duplice assalto: alle società umane da un lato, al globo terracqueo dall'altro. La distruzione dell'ambiente naturale e il degrado di quello sociale sono infatti le conseguenze applicate di un'unica impostazione concettuale, di una stessa visione del mondo, il logico prodotto dell'Allucinazione che ha preteso di fare l'uomo a somiglianza di Dio, con ciò svincolandolo/opponendolo a tutti gli antichi ed eterni legami naturali, al medesimo modo che Dio è, in quanto creatore, opposto e in sostanza nemico al mondo creato: «God created nature ad is in no way part of it [...] The greatest single purpose of Torah teaching is to separate God from nature, Dio ha creato la natura e non ne fa parte in alcun modo [...] Il massimo, l'unico obiettivo dell'insegnamento della Torah è: separare Dio dalla natura», ci ricorda modernamente l'Arruolato opinion-maker e talkshowista Dennis Prager.

    E altrettanto Meyer Jais: «Questo modo di valorizzare la storia trae forza da una dialettica propria dell'ebraismo, che consiste nell'orientare la natura agendo su di essa. In conseguenza della colpa di Adamo l'uomo e il mondo sono in stato di ostilità [...] Il Messianismo non è altro che un programma d'azione. Si tratta di trovare un significato alla storia. Questo significato consisterà nella progressiva eliminazione di tutte le cause di divisione. La storia vissuta si confonde allora con la trasformazione del mondo. Questo carattere rivoluzionario dell'ebraismo è profondamente religioso. Israele infatti sa che il trionfo sulla natura ha come condizione preliminare la messa in pratica dell'amore di Dio e del prossimo. Caso forse unico, questo, di una religione che vuol essere tanto più mistica quanto più essa sposa la causa della storia, che è quanto dire l'installazione dell'uomo nel mondo».

    Visione antica di tre millenni, Paranoia Salvifica identica sempre nella sostanza ma variamente incarnata nei secoli e trasfigurata nelle forme: cristianesimo, marxismo, capitalismo e democrazia, i quattro maggiori, mortiferi, seduttori dell'umanità.

    Le idee di razza, etnia e nazione non si levano infatti solo contro i princìpi di marxismo, capitalismo e democrazia, ma, ancor prima, contro il principio di universalità del giudaismo e di tutte le sue varianti cristiane – ed islamiche: «la wataniya fil islam, non c'è nazionalità nell'islam», suona l'antico detto – dal più esiguo gruppo settario alla Grande Chiesa, il Verus Israel. Nei suoi due millenni di vita, in nome di questo principio il Messianismo ha distrutto centinaia di milioni di individui, annientato intere culture, devastato le più diverse nazioni spingendo gli europei direttamente a crociata o, indirettamente, dando loro un'ulteriore giustificazione per le azioni di espansionismo compiute: liberazione dalle Tenebre dell'Ignoranza, offerta delle Conquiste della Scienza, apporto della Vera Luce – i Sacrosanti Diritti dell'individualismo occidentale – agli Ottenebrati e agli Infanti.

    Cosa riconosciuta, perfino con qualche critica, da Ernesto Galli della Loggia: «L'idea cristiana che tutti i popoli e quindi tutte le culture disseminate sui cinque Continenti possano e debbano riconoscersi in un solo Dio, nel Dio della tradizione monoteistica ebraica, incarna sicuramente uno dei progetti di riunificazione-omologazione del pianeta più ambiziosi che si possano concepire. E inevitabilmente, ahimè, anche uno dei più distruttivi. Non discuto il bilancio positivo in termini spirituali e civili che le varie popolazioni possono sul medio e lungo periodo aver tratto dall'evangelizzazione, ma è indubbio che questa ha innanzitutto significato la virtuale cancellazione di ogni sfondo religioso, di ogni struttura di pensiero e di costumi, di ogni universo antropologico incompatibile con il modello cristiano. Di fronte alla portata distruttiva nei confronti delle diversità culturali che storicamente ha rappresentato il cristianesimo, quella costituita dal cinema americano fa solo sorridere [...] Alla quale omologazione è ben assimilabile quella all'insegna del marxismo, del quale dovrebbe apparire evidente l'effetto globalizzante. Il marxismo ha pienamente condiviso con il liberismo l'idea che la tecnica e il mercato capitalistico potessero-dovessero unificare il mondo, e come il liberalismo esso ha creduto nel carattere storicamente progressivo di tale unificazione. Al capitalismo mondiale ha contrapposto, nella sua versione leninista, la rivoluzione mondiale con il suo sogno ultra-omologante di un unico Stato dei lavoratori, anch'esso mondiale, che la facesse finita con quegli Stati nazionali e quei confini che anche la tradizione socialdemocratica aveva sempre visto con profonda diffidenza».

    Concetti peraltro già espressi, dodici anni prima e con maggiore coerenza, da Guillaume Faye: «Il Sistema, che non garantisce neppure la giustizia sociale al proprio interno più di quanto all'esterno garantisca l'integrità politica e culturale» – scrive Faye – «legittima l'assassinio dei popoli e la lobotomizzazione degli individui tramite l'ideologia dei diritti dell'uomo, vulgata riassuntiva ed ecumenica degli umanitarismi liberali, cristiani, socialdemocratici e marxisti che ricalca un'interpretazione secolarizzata del vangelo giudeocristiano. Processo classico di compensazione: un'ideologia o una metafisica amena, idealista e benevola maschera sempre una pratica oppressiva e dispotica. Così procedette Nostra Santa Madre Chiesa dietro il paravento dell'amore evangelico. Così fece pure il marxismo-leninismo conciliando un programma accattivante di felicità universale scientificamente organizzata e il Gulag, che ne è la prassi».

    «Le promesse escatologiche del cristianesimo» – aggiunge Salvatore Natoli – «hanno inoculato nella cultura e nella storia dell'Occidente un bisogno di salvezza talmente incoercibile da mantenersi vivo oltre la dissoluzione della stessa cristianità. Ma nella dissoluzione del cristianesimo viene meno il garante della promessa senza che per questo cessi il desiderio che quel che veniva promesso attinga compimento [...] Nella dissoluzione del cristianesimo non viene meno la seduzione delle promesse escatologiche, ma al contrario essa è ragione di una profonda inquietudine che da un lato spinge alla disperazione e dall'altro sollecita a rinvenire altre vie per ottenere quel che da Dio non può più venire, dal momento in cui non vi è più alcun Dio che salva. Il moderno nasce nel momento in cui l'uomo si fa garante della propria salvezza e proprio per questo tale epoca si caratterizza come un trapasso in cui da un lato Dio è perduto, dall'altro viene reintrodotto attraverso l'autodeificazione dell'uomo [...] L'utopismo della prima modernità si svolge come filosofia del progresso che integra a sé i temi cristiani ormai secolarizzati. Le filosofie del progresso non possono non dirsi cristiane per il semplice fatto che in esse il cristianesimo si decanta e insieme si realizza. Tali filosofie includono dentro di sé come loro momento l'utopia quale progetto di perfezione a partire dalla perfettibilità del mondo».

    Ed invero l'antirazzismo cosmopolita del Sistema, obiettivo strategico dell'ideologia giudaica/cristiana – il melting pot xenolatrico – non è che la forma più potente di razzismo assimilazionista. Per passi spesso inavvertiti, nei secoli l'umanità si è ad esso avvicinata, non scorgendo o celandone l'insostenibile prezzo, attraverso l'«ingenua» e criminale apertura dell'antirazzismo differenzialista – la salad bowl xenofila, il cultural pluralism, il multirazzialismo intrastatuale – o con l'espansionismo di un razzismo gerarchico cristianeggiamente gravato del vecchio white man's burden, il kiplingo-faustiano «fardello dell'uomo bianco».

    Contro la criminale irresponsabilità praticata dal Sistema contro il Presente di ogni popolo, contro la criminale devastazione del Passato di ogni nazione, contro il criminale assalto al Futuro dell'intera umanità – contro questo inscindibile complesso di memoria e di vita – l'unica posizione alternativa, l'unica opposizione possibile è quella fondata sulla riattualizzazione, dopo il tentativo storico dei fascismi, della Weltanschauung elleno-romano-germanica. Cardine di tale visione è la posizione culturale del razzismo morfologico, basato 1. sul riconoscimento intellettuale della Singolarità psichico-spirituale di ogni Nazione, 2. sul rispetto morale di ogni Altro-da-Sé che non pretenda di prevaricare l'altrui identità, 3. sull'accettazione teoretica dei concetti di aree di civiltà e di Blut und Boden. La non interferenza e l'etnocentrismo difensivo sono gli aspetti operativi correlati a tale Visione del Mondo.

    «Il nostro Paese è rimasto per quasi un millennio sostanzialmente monoetnico e monoculturale. La presenza di tanti dialetti e usanze e l'esistenza di forti pregiudizi territoriali testimoniano solo le molte varianti di una comune cultura» – aizza Giampaolo Fabris su Capital, patinato monthly della haute couture mondialista – «Ma questo quadro è destinato a cambiare profondamente. Lasciando il campo a una società in cui sono destinate a convivere etnie e culture diverse [...] Quello che è cominciato come fenomeno temporaneo si sta trasformando in immigrazione di lungo periodo».

    Accanto ad aspetti negativi – «vucumprà, prostitute, spacciatori, fastidiosi lavavetro [...] la comparsa di inquilini di colore, spesso poveri, deprime il tono del quartiere e lo stesso valore delle proprietà immobiliari. I disoccupati autoctoni si trovano di fronte concorrenti disposti ad accettare condizioni più svantaggiose» – il Fabris vede però nell'invasionismo aspetti sostanzialmente positivi. Tra quelli in atto, «il lavoro delle migliaia di operai nelle piccole e medie industrie. Così come la massiccia partecipazione di braccianti immigrati permette in molti casi alla nostra agricoltura di sopravvivere»; tra quelli futuri, «un arricchimento culturale e l'arresto di quel declino demografico che aveva indotto a prevedere sin la scomparsa della nostra gente».

    E tuttavia quelli del Fabris sono solo astratti teoremi. Pur pervasi di apparente buon senso, essi riposano sul più becero mondialismo: 1. ineluttabilità della Storia, talché sarebbe impossibile opporsi a tali fenomeni, 2. irrimediabilità del progresso, in particolare economico-produttivo (ma a fronte di milioni di criminali e nullafacenti che scardinano l'intero vivere sociale, cosa valgono le migliaia di onesti lavoratori che occupano temporaneamente qualche vuota nicchia minore del vivere economico?), 3. insipienza (arricchimento culturale in un paese/continente di per sé altamente già variegati?) e 4. disonestà/imbecillità intellettuale (come è possibile arrestare il declino demografico della nostra gente importando genti aliene, non-europee ed anti-europee che fatalmente ne accelereranno il declino?!), 5. puro delirio («non è da visionari immaginare che, da noi, la moschea sia destinata a sorgere a fianco della cattedrale cattolica. O forse anche, ipotesi ancora più suggestiva, che divinità diverse possano essere, nel futuro del nostro Paese, adorate negli stessi edifici»... e d'altronde, cosa dire quando contro quegli antiveggenti che si oppongono all'erezione di moschee intervengono – riconfermandoci l'essenza nichilista del cristianesimo, soffocata per due millenni – autorità come il vescovo di Lodi Giacomo Capuzzi: «Che i musulmani vengano in Italia e abbiano anche intenzione di diffondere l'islam è un loro diritto, così come noi abbiamo il diritto come cristiani di annunciare Cristo in tutto il mondo [...] C'è la libertà religiosa e da parte ecclesiastica non vi sono difficoltà che i musulmani abbiano la loro moschea», Corriere della Sera, 15 ottobre 2000; in ogni caso, se pure una moschea può essere imposta «a fianco», la storia c'insegna che prima o poi giunge sempre, inevitabilmente, il momento in cui un Sistema di Valori cancella l'altro).

    «Si dà per scontato» – afferma con noi Sergio Gozzoli – «che la difesa della propria identità abbia in sé un'intrinseca potenzialità di violenza. Non è affatto vero. Trovo al contrario carica di un'intollerabile violenza l'arroganza con cui esponenti del mondialismo culturale affermano l'ineluttabilità di un'omologazione "come unico sbocco per gli uomini moderni". Un'omologazione che non può passare se non sulla distruzione delle singole e specifiche culture». E, quindi, sulla distruzione di ogni popolo, sulla distruzione di ogni nazione, sulla distruzione di ogni uomo.

    «La storia dell'umanità» – scrisse Gustave Le Bon nel 1894, presagendo al pari di Nietzsche l'avvicinarsi di uno scontro epocale – «è stata sempre parallela a quella dei suoi dei. Questi figli dei nostri sogni hanno una tale potenza che perfino il loro nome non può mutare senza che il mondo intero venga sconvolto. La nascita di nuovi dei ha sempre segnato l'aurora di una nuova civiltà, la loro scomparsa il suo declino. Noi siamo in uno di questi momenti della storia in cui, per un attimo, i cieli restano vuoti. Anche solo per questo, l'aspetto del mondo cambierà».

    L'incompatibilità, radicale e assoluta, tra gli Dei dell'Europa e il Démone Geloso venuto dal deserto – «adonai elohenu, adonai echad, il Signore è nostro Dio, il Signore è Uno!», pari all'islamico alWahidu, l'Unico: «inna là allah ilà Allah, inna Muhammad rasùl Allah, non c'è altro dio che Dio, Maometto è il profeta di Dio» – al pari dell'incompatibilità radicale e assoluta tra Fascismo e Cristianesimo («Cos'hanno in comune Atene e Gerusalemme, l'Accademia e la Chiesa? [...] Tanto peggio per coloro che han tirato fuori un cristianesimo stoico, platonico, dialettico! Quanto a noi, non abbiamo bisogno di curiosità, dopo Gesù Cristo, né di ricerca, dopo il Vangelo», si chiede, giustamente, in De praescriptione haereticorum, VII, Tertulliano, seguito due millenni dopo dal BHL, mentre l'altro ebreo Jean Izoulet ben aveva scritto: «Cos'è in realtà il cristianesimo? È un mosaismo che, messo a disposizione del mondo pagano, si è esteso come nebbia, conquistando in tal modo a Israele 650 milioni di anime»), ancor più di due millenni fa exitiabilis superstitio e massimo strumento di decadenza dell'Europa e dell'uomo, è cosa non solo assodata ma, tranne che per taluni e per qualche verso pregevoli cattolici tradizionalisti, riconosciuta dai più coerenti militi dell'una e dell'altra parte. Tale contrapposizione può venire accantonata solo temporaneamente e sul piano tattico, per fronteggiare cioè la necessità imposta da questa o quella contingenza politica. Infatti, pur se qualche cristiano si opponga al Sistema Mondialista – snaturante anche di certe sue credenze specifiche ma non del nocciolo laico della sua fede – affiancando nell'azione i radicali oppositori di quello, il contrasto riaffiorerà successivamente. E in tutta la sua interezza.

    Perché il cristianesimo, al pari del giudaismo di cui è stato «il passaporto per la civiltà occidentale» (Wilmot Robertson) e di cui è somma metamorfosi – ma tu credi davvero, lettore, credi davvero che il mondo, il mondo a te noto e l'infinito universo sconosciuto, sia stato creato da un ebreo? – non rinuncerà mai alla comune matrice normativa giudaica – il principio di universalità (gli evangelici ut unum sint [...] unum ovile et unus pastor!, Giovanni XVII 21 e X 16, concetti ripresi dall'enciclica del papa polacco il 25 maggio 1995, Ascensione del Signore, e nel 2001 dal superinvasionista Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano: «Nessun uomo è a noi straniero, nessun uomo è un nemico da vincere o da sopraffare, nessun uomo è persona soltanto da tollerare») – né al suo più vero sigillo, il compimento del Regno.

    Ben scrive infatti l'ebreo Max Dimont: «In senso metastorico, il cristianesimo servì al giudaismo come un trampolino di lancio verso il suo obiettivo finale, la fraternità dell'uomo. Quindi, la questione si auto-evidenzia col quesito se il cristianesimo sia un aspetto particolare oppure universalistico del destino manifesto degli ebrei [...] Sebbene i teologi cristiani abbiano rappresentato il giudaismo come il tronco secco del rigoglioso ramo cristiano, non dobbiamo permettere che il successo del cristianesimo celi il ruolo involontario che esso ebbe nella diffusione delle idealità giudaiche. In senso metastorico, il cristianesimo fu il braccio armato [the fighting arm] del giudaismo. Furono i cristiani, spada in pugno, a convertire i pagani d'Europa, portando loro per la prima volta il Vecchio Testamento e la sua idea di un destino manifesto. Mentre le bardature mitologiche del cristianesimo trovarono immediata ricezione presso i pagani, furono i valori morali ed etici del giudaismo a conferire al cristianesimo la sua capacità di attrazione a lungo termine. In senso metastorico, il cristianesimo fu una pietra da guado che immerse i pagani nelle idealità giudaiche».

    Ben scrive infatti l'ebreo Joseph Klausner, pur rilevando che se l'ebraismo può concepire la Redenzione senza un Messia individuale, ciò è assolutamente impossibile per il cristianesimo: «Il Messia cristiano è sostanzialmente uno sviluppo del Messia ebraico. Perché dal giudaismo il cristianesimo ricevette le idee di 1. redenzione, 2. Messia-redentore, 3. Giorno del Giudizio e 4. regno dei cieli. E molto di quanto fu comune al giudaismo e al cristianesimo del pensiero messianico restò tale anche dopo l'allontanamento e la separazione tra le due fedi» (derivata dall'ebraismo è anche la successione, psicologica come storica, individuale come collettiva, dei quattro momenti evolutivi: peccato-punizione-pentimento-redenzione).

    Ben scrive infatti l'ebreo Waldo Frank: «Malgrado i suoi elementi ideologici greci e i suoi elementi romani di organizzazione sociale e giuridica, la volontà dinamica del cristianesimo e il suo senso della natura e del destino umani sono ebraici. Certo, le Chiese cristiane non sono ebraiche, ma ebraiche sono l'anima del cristianesimo e le sue radici, affondate nella realtà dell'uomo. Sappiamo tutti che i princìpi democratici di giustizia, fratellanza umana, libertà e dignità di ogni uomo (perché Dio è in ogni uomo) vengono direttamente dai profeti ebraici (tra i quali si annovera Gesù)».

    Ben scrive infatti il cristiano Romeo Cavedo: «Al centro fra i profeti d'Israele e i profeti dell'età apostolica sta la persona di colui che è più che un profeta [...] Il popolo cristiano, nel quale non c'è più bisogno di altri profeti in senso proprio, è però un popolo profetico, così come è un popolo regale, anche se nessuno pretende di essere re. Lo è perché ascolta la parola dei profeti e le ubbidisce [...] Ubbidendo ai profeti e riflettendo sul loro messaggio, il popolo di Dio diviene popolo nel quale risuona di nuovo, tradotto in fatti ed esperienze rapportate alla contemporaneità, l'annuncio dei profeti [...] Essi, infatti, hanno preannunciato la venuta di Gesù, non solo in qualche dettaglio mirabilmente coincidente, ma in quanto hanno preparato chi li legge a conoscere quanto è grave la nostra colpa se rapportata all'immensa santità di Dio. Per questo noi saremo un popolo profetico, quando sapremo ascoltarli fino a divenire un popolo penitente e convertito».

    E questo senza considerare, da un lato, le conclusioni nel 1844 di Benjamin Disraeli: «Il cristianesimo è il giudaismo dei non-ebrei», né dall'altro il «Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti: non sono venuto ad abolire ma a completare» di Matteo V 17, "Discorso della montagna"; o l'equivalenza, con quelle negativa di Tobia IV 15 e positiva di Matteo VII 12 e Luca VI 31, della «regola aurea» del giudaismo: «In un'altra occasione accadde che un pagano venne a Shammai e gli disse: "Mi farò proselita, se mi insegnerai l'intera Torah mentre mi reggo su un piede". Ma quello lo scacciò col bastone che aveva in mano. Quando andò ad Hillel, questi rispose: "'Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te', questa è l'intera Torah [«questa infatti è la legge e i profeti», recita il suddetto Matteo], il resto è commento: vai e studia"», Shabbat 31a (vedi anche Levitico XIX 18).

    «Né ci si venga [...] a dire» – concorda e ribatte Guillaume Faye – «che le correnti cristiane, papiste, ecumeniste, vagamente contestatrici della Chiesa o decisamente di sinistra combattono il Sistema, col pretesto che esse rifiutano verbosamente il suo "materialismo" e la sua "violenza". Sono invece nella posizione peggiore, eredi come sono dell'Inquisizione e della Notte di San Bartolomeo, distruttrici in pieno XX secolo dei culti africani, melanesiani o indiani, per ergersi quali apostoli dell'antirazzismo e del rispetto dei popoli. Nessuno più dei cristiani è abitato dal progetto etnocida di imporre al di sopra delle culture un'ideologia unica. Fornitori del modello, non vengano oggi a criticare l'applicazione fattane dai loro epigoni laici. D'altra parte, chi ha dichiarato, se non un ecclesiastico, che la distinzione tra la gente per bene e gli "altri" non andrebbe più fatta secondo il criterio della fede, ma in base all'adesione o meno alla filosofia dei diritti dell'uomo che nasconde la secolarizzazione della dottrina evangelica? Aderendo ad un ideale mondialista, avallando l'individualismo dei diritti dell'uomo, legittimando i bisogni edonisti dei "figli di Dio", entità tanto indifferenziate ed astratte quanto i consumatori, preparando gli spiriti al prestigio del paradigma della fusione dei popoli, i cristiani costruiscono obiettivamente strutture mentali e riflessi che vanno nel senso di una società egualitaria mondiale».

    Concezione, invero, già pienamente descritta, in particolare nel folgorante L'Anticristo 24, da Nietzsche: «Il cristianesimo può essere compreso unicamente tenendo presente il terreno su cui è allignato – esso non è un movimento opposto all'istinto ebraico, ne è invece il suo stesso corollario, un'illazione ulteriore nella spaventosa logica di quello [...] ancora oggi il cristiano può sentire in maniera antisemita, senza comprendere se stesso come l'ultima conseguenza dell'ebraismo».

    Nulla di diverso, del resto, assicura il Senior Rabbi W. Gunther Plaut: «L'ebreo resta al centro, a guardia dell'Eterna Fiamma, come fu, mentre il cristiano va per il mondo a predicare, nella sua lingua, la speranza ebraica». Nulla di diverso asseriscono, scegliendo tra mille, Gabriele Boccaccini, docente di Giudaismo e Origini Cristiane alla University of Michigan e collaboratore dell'American Interfaith Institution di Filadelfia e dell'Amicizia Ebraico-Cristiana di Firenze (il cristianesimo, «che per origine è e nella sua essenza rimane una "variante" ebraica», è il fratello gemello del rabbinismo/talmudismo, nato dal medesimo dinamico grembo del medio giudaismo, un «messianismo a breve scadenza» peculiare del I secolo, «un particolare giudaismo multinazionale», poiché «per uno storico, rabbinismo e cristianesimo sono semplicemente due forme diverse di giudaismo»), il «neofrancese» François Fejtö («il cristianesimo, agli inizi, appare come il teismo giudaico spinto fino alle estreme conseguenze anticlericali, antinazionaliste, universaliste»), Reinhard Neudecker, docente di Letteratura Rabbinica al Pontificio Istituto Biblico di Roma, e Ugo Bonanate, docente di Storia della Filosofia all'Università di Torino.

    * * *

    Sui lidi estremi

    Lo spregio incessante della ragione e la repressione dell'ansia di verità, l'invasionismo migratorio e il multirazzialismo statale vanno di pari passo con lo sviluppo canceroso delle metropoli/megalopoli/necropoli, lo sconvolgimento dei territori e la forsennata industrializzazione; con la decadenza dell'artigianato, la morte dell'agricoltura e la proletarizzazione dell'uomo; col degrado e l'atrofia delle relazioni interpersonali, la moltiplicazione dei casi di instabilità mentale e l'avvento di morbi sempre più gravi; coi radionuclidi sulle nevi dei monti, la morte dei fiumi, la scomparsa delle specie animali. In una parola: con la rottura dell'equilibrio naturale globale.

    «Sappiamo» – ha scritto nel 1941 il tedesco Heinrich Weichelt chiudendo lo studio sul massacro dei 4500 sassoni a Verden per mano cristiana – «che una nazione può compiere cose grandi e potenti solo se crede in se stessa e nella forza che in essa riposa, e non in divinità straniere di razze straniere. Sappiamo che esistono forze oscure le quali, pervase da inquieta paura, temono questa forza che dorme nell'anima germanica. Sappiamo che la volontà di un popolo unito su basi razziali può rovesciare un intero mondo. Sappiamo che per duemila anni siamo stati ostacolati e fermati nel nostro sviluppo globale dal delirio e dall'eresia di missionari alieni. Sappiamo che dobbiamo scuoterci di dosso questi legacci psicologici e queste catene spirituali».

    Similmente, mezzo secolo dopo, Eduard Peter Koch: «Dopo la destrutturazione psichico-spirituale sperimentiamo oggi, con la contro-colonizzazione invasionista di genti extraeuropee, la destrutturazione biologico-genetica dell'Europa di Mezzo. Il processo va alle radici e diverrebbe irreversibile, se lo permettessimo. L'odio contro l'Europa ha ragione: solo quando fosse annientato il genoma dei suoi popoli, sarebbe annientato lo spirito europeo. Tutto il resto, anche un millennio di cristianesimo, è niente, non colpisce le radici».

    «Poiché ogni questione è connessa con tutte le altre e il non risolverne una comporta la rovina di tutte» – aggiunge Amaudruz – «il complotto mondiale del frammischiamento delle razze non potrà che esitare nella soppressione della vita sulla terra. Criminalità, droga, decadenza culturale e morale, egoismo individuale o di gruppo, disgregazione di strutture vitali quali la famiglia e la patria, ecco i molteplici volti di uno stesso nemico che, se lo si lascerà fare, annienterà l'uomo, la natura, la vita». Identici presagi in Mein Kampf, I 2, rapportati all'Allucinazione bolscevica, allora il nemico più urgente: «Vinca l'ebreo sui popoli della Terra con l'aiuto della sua fede marxista, la sua corona sarà la fine dell'umanità; e questo pianeta, come già milioni di anni fa, percorrerà deserto di uomini le vie del cosmo. L'eterna natura si vendica spietatamente di ogni trasgressione alle sue leggi». Similari prospettive in Joachim Fernau: «Vinca l'americanismo, in un secolo e mezzo esso annienterà l'umanità, e la Terra vagherà nello spazio come un Marte estinto».

    La Terra – incredibile, azzurra molecola vagante nel silenzio del cosmo, grano di sabbia miracolosamente pervaso di vita – non è un cumulo inerte di rocce, acque e atmosfera, abitato dalla vita. In tre miliardi di anni essa è divenuta un Sistema sempre più complesso, un Ordinamento che comprende in sé gli innumeri processi della vita e del suo ambiente «esterno», processi talmente interconnessi da farla vita in se stessa, formando quell'inscindibile Unità autopoietica di cui l'uomo non è che una parte.

    Con l'antica sapienza di Celso, «il mondo non è stato concesso all'uomo, ma ogni cosa nasce e muore per la conservazione del tutto [...] l'universo non è stato generato per l'uomo più che per gli animali privi di ragione [...] l'universo non è stato fatto per l'uomo, e d'altronde nemmeno per il leone o per l'aquila o per il delfino [gli animali considerati i più nobili dei tre ambienti: terrestre, aereo ed acqueo], ma perché questo mondo, in quanto opera di Dio, risultasse compiuto e perfetto in tutte le sue parti: a questo fine tutto è commisurato, non in vista dei rapporti reciproci, se non incidentalmente, ma del complesso dell'universo».

    Al contrario, scrive nel 1967 la storica Lynn White jr su Science in The Historical Roots of Our Ecological Crisis, «il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo non solo la concezione di un tempo lineare che non si ripete, ma anche un impressionante racconto della creazione del mondo [...] Dio ha concepito tutto ciò esplicitamente a vantaggio dell'uomo e per consentirgli di far regnare la propria legge: nel mondo fisico risultante dalla creazione non vi è nulla che abbia una ragione di esistenza diversa dal servire gli obiettivi umani [...] Il cristianesimo, soprattutto nella sua forma occidentale, è la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai conosciuto [...] Non solo il cristianesimo, assolutamente all'opposto sia dell'antico paganesimo sia delle religioni dell'Asia (eccettuato forse lo zoroastrismo), instaura un dualismo tra l'uomo e la natura, ma insiste inoltre sul fatto che lo sfruttamento della natura da parte dell'uomo, per soddisfare i propri scopi, è il risultato della volontà di Dio».

    Più sarcastico, in The Damned Human Race Mark Twain liquida con mirabile levità ogni forma di Principio Antropico: «L'uomo esiste da trentaduemila anni. Il fatto che siano occorse centinaia di milioni di anni per preparare il mondo per lui è una prova del fatto che esso fu creato per l'uomo. Almeno suppongo che sia così. Non lo so di sicuro. Se l'altezza della Torre Eiffel qual è ora rappresentasse l'età del mondo, lo strato di vernice sulla punta del pinnacolo rappresenterebbe la partecipazione dell'uomo a tale età; e tutti si renderebbero conto che quello strato di vernice è il fine per il quale la torre è stata costruita. Credo. Non lo so di sicuro».

    «In Amazzonia» – s'aggiunge in un soprassalto di contraddizione ideologica l'ex-lottacontinuo ultra-invasionista Adriano Sofri (in attesa di assurgere a fama gramsciana, l'ex-ispiratore-di-assassinii lancia sul berlusconico Panorama, avallato dall'ebreo rossopelo Giuliano Ferrara, i propri «quaderni dal carcere»: «l'unica soluzione all'immondo traffico [dei clandestini praticato dalla criminalità organizzata] è la legalizzazione dell'immigrazione», e cioè: spalancare le porte a chiunque dei sei miliardi di uomini) – «la fine della foresta viene chiamata fine del mondo. Si valuta che le due ultime generazioni umane abbiano distrutto più risorse naturali che le ottocento generazioni precedenti, gli ultimi cinquant'anni più dei precedenti cinquantamila. D'altra parte Ilja Prigogine può dire che, se si considerino i trecento autori delle più importanti scoperte scientifiche nell'intera storia dell'umanità, lui ne ha conosciuti di persona più della metà. Deve esserci un nesso».

    Su posizioni egualmente critiche nei confronti dello scientismo/antropocentrismo contemporaneo – pur non rilevandone, per ignoranza o pour cause?, l'ascendenza giudaica – si pone, fondato su concetti di epistemologia evoluzionista e su echi celsiano-vichiani, anche Enzo Tiezzi, docente di Chimica a Siena e deputato «indipendente» neocomunista. Dopo avere ricordato che «nei prossimi decenni l'uomo sarà responsabile della scomparsa di una specie vivente ogni quarto d'ora», l'abnorme sinistro ricorda: «La nuova scienza ecologica porta nel suo bagaglio, con piena dignità scientifica, i concetti di limite e di incertezza e sa che il tempo è parte integrante della storia della materia-energia che qui, sul pianeta Terra, ha dato luogo a forme tanto complesse quanto meravigliose. Sa anche che nel suo divenire evolutivo la vita è caratterizzata dalla biosfera nel suo insieme e delle infinite relazioni che legano i sistemi viventi, più che delle singole specie o dei singoli individui. Sa anche che l'irreversibilità è la regola: non si può tornare indietro, non c'è un fine a cui tendere, "le orme sono la via" [...] Il primo concetto è l'abbandono del punto di vista antropocentrico. L'uomo non è il fine dell'evoluzione biologica, ma è parte integrante del sistema biofisico globale, anzi è parte di molti sistemi che interagiscono ed evolvono assieme [...] L'arroganza di Prometeo *** diventa ridicola di fronte alla complessità dei sistemi viventi in coevoluzione, ridicola sia dal punto di vista del fallimento delle tecnologie, figlie di una scienza meccanica che pretendeva di dominare il mondo (e invece lo sta distruggendo), sia dal punto di vista della conoscenza, che denuncia la povertà del proprio potere e riconosce la giusta umiltà dei vincoli, dei limiti, delle indeterminazioni di fronte alla complessità in divenire della biosfera».

    *** In realtà, come abbiamo mostrato in Lo specchio infranto, non del pagano Prometeo né del pagano Ulisse, e neppure dei filosofi «razionalisti» ellenici, ma dell'iperattivo giudaico-disceso Faust e dei variopinti Ammaestrati jahwistico-golemici. Il percorso mentale che dal biblico golem conduce alla manipolazione genetica dei giorni nostri è mediato dalla gematria, la «scienza» ebraica che attribuisce ad ogni lettera un valore numerico. È infatti con la parola, attesta il cabbalistico Sefer Yetsirah, il "Libro della formazione", che l'uomo pio, cioè giusto, comprova la propria perfezione religiosa, creando attraverso la corretta pronuncia dei nomi di Dio – l'alfabeto non è solo uno strumento di denominazione, ma anche il mezzo per controllare e manipolare la realtà come con l'opera alchemica, della quale gli ebrei sono stati gli iniziatori e i maestri (vedi Raphael Patai) – un essere artificiale-vivente, per quanto non dotato di parola: appunto, il golem, l'homunculus della più generale tradizione ermetica. Tema classico dell'immaginario ebraico (la radice glm, che fa da radice al termine, destinato a progressiva polisemia, vale «avvolgere»/«piegare assieme», come per i tessuti, che alterano i contorni delle forme, annunciandole senza dichiararle; il termine già compare in Salmi CXXXIX 16 e con Rabbi Rava in Sanhedrin 65b), la leggenda è soprattutto legata al rabbino praghese Judah Löw «Maharal» ben Bestalel (1525-1609)... del quale, significativamente, si dichiarano discendenti carnali diretti tre fra i maggiori pionieri dell'Intelligenza Artificiale, l'«ungherese» John von Neumann e i superamericani Norbert Wiener e Marvin Minsky. Commenta Giulio Busi: «I racconti rabbinici sulla creazione di Adamo ribadirono il collegamento tra l'idea di golem e un momento intermedio della genesi dell'uomo, caratterizzato da una dimensione passiva e amorfa ma pure necessaria allo sviluppo dell'essere animato e pensante [...] Sebbene nella letteratura ebraica di epoca tardoantica la parola golem non venga dunque ancora direttamente associata al concetto di individuo creato per magia, come avverrà a partire dall'Alto Medioevo, furono queste premesse culturali a sostenere l'idea che fosse possibile, all'uomo esperto nelle arti occulte, far muovere un corpo inerte, o mantenere in vita, almeno provvisoriamente, un defunto. I dottori ebrei si ritenevano infatti in grado di affrontare la creazione di un umanoide [...] La complessa dottrina d[el mistico sefardita Mosheh] Cordovero concorse in modo decisivo a creare, nei confronti del golem, una nuova attitudine mentale, che cominciò ad apparire tra la fine del Cinque e gli inizi del Seicento. Sottratta alle leggi dell'etica religiosa, la creatura fittizia divenne un docile strumento nelle mani dei suoi artefici, che erano liberi di suscitarla o di sopprimerla a seconda delle proprie necessità [...] Il fantoccio femminile d[el poeta medioevale Shelomoh] ibn Gabirol, fabbricato col legno e animato da un congegno occulto, o la donna remissiva immaginata da[llo scrittore secentesco praghese Yeshayah] Horowitz sono ormai invenzioni puramente umane, assai prossime agli automi dell'età moderna, e impersonano soltanto il desiderio di un dominio concreto sulla realtà. I golem dei racconti secenteschi non rappresentano più un elemento di contemplazione mistica o il segno della presenza di Dio, ma sono semplici simulacri delle passioni terrene».

    «[L']interrelazione fra tutti gli esseri del pianeta, passati presenti e futuri, è la memoria storica, il collante che rende solidale la biosfera» – completano Aldo e Lamberto Sacchetti – «Se non che l'uomo, dotandosi di strumenti esosomatici e memorizzando tecniche ed effetti pratici, ha progressivamente attinto capacità di astrazione. Capacità sviluppatasi in parallelo a quella di modificare il mondo naturale, al punto di illuderlo dell'analogia fra libertà di pensare e di manipolare la natura; di essere, perciò, il signore della terra. Illusione tanto più pericolosa quanto più l'uomo modifica la realtà naturale in termini microscopici non percettibili dal livello sovracellulare. Egli non può avvedersi, se non a distanza di tempo e per il manifestarsi di patologie organiche e ambientali, delle conseguenze del non fisiologico incidere sugli equilibri cellulari. Le attuali tecniche, interferendo nella biosfera anche a livello microscopico, lacerano, sconvolgono, falsificano in profondità il continuum informativo tessuto dalla vita nel tempo e nello spazio».

    Ed ancora, salendo a considerazioni di più generale ordine socio-storico: «L'homo sapiens giunge di fatto a coinvolgersi nei processi fisici volgenti al caos. Negli ultimi cento anni [quelli dello scatenarsi dell'Insonnia della Ragione in cerca del Regno, della Protesta Metafisica contro la condizione umana, del Rifiuto del Principio di Realtà tentando di annientare la struttura ontologica del mondo, dello scatenarsi, con più storica espressione, dell'emancipazione ebraica e della Modernità] ha agito nel senso d'una generalizzata dissoluzione degli ordini biologici, conoscitivi e sociali. La sofferenza della terra ha causa nel sovvertimento delle coerenze dinamiche sincrodiacroniche su cui, in miliardi di anni, si è costruita l'armonia della biosfera, differenziandosi dai nudi equilibri fisici dei corpi celesti abiotici. E tutto avviene perché il sempre più potente sistema dissipativo industriale, conformandosi a leggi fisiche antinomiche a quelle biologiche, diffonde disordine, oltre che negli scambi chemioenergetici impercettibili, nelle macrointegrazioni ecosistemiche e psicosociali. La mente della natura rivela disturbi disgregativi in ogni sua espressione: dalla memoria cellulare agli istinti, ai rapporti affettivi e comunitari, ai cicli biogeofisiologici [...] Il riduzionismo pragmatico, mediato dall'attività tecnico-industriale, non può non incidere sulle interazioni biologiche e ridurre il grado di coerenza vitale dell'aria, dell'acqua, dell'humus, degli alimenti; cioè ridurre l'unitività dell'ecosfera. Il metodo galileiano, legittimo nelle concezioni della fisica classica, è stato e resta incautamente applicato alla comprensione e manipolazione della biosfera, che è sintesi di storia e fisicità, coerenza globale non gestibile da una mente epigenetica tendente a staccarsi dal radicamento biologico [...] Parlare in modo generico solo di "ambiente" e "ambientalismo" è, in realtà, conforme alla cultura di un sistema confusivo e refrattario al rispetto degli irriducibili vincoli della vita».

    In verità, se gli ecosistemi sono «macchine non banali», strutture che, elaborando impulsi esterni, sono capaci di mutare il loro stato autoregolarizzandosi e riorganizzandosi, l'ecosistema Terra è ben più di una macchina non banale, mantenendo in sé una valenza sacra. Quanto più perde diversità ecologica, tanto più accresce il proprio degrado, aumenta l'entropia e procede verso il collasso. Se la biodiversità è il patrimonio che le consente di opporsi ai fattori degradativi e tenersi lontana dall'appiattimento delle forme di vita, occorre abbandonare l'idea, culla di ogni politica illuminista, secondo cui «in qualche misura» l'ecosistema può sottostare ad alterazioni.

    Se tale atteggiamento è stato possibile in passato pagando i cambiamenti in misura ancora sostenibile, ciò non è più possibile oggi, dopo lo scatenamento – per stare ad un unico esempio – di forze quali il plutonio, devastante elemento la cui emivita tocca i venticinquemila anni. Se, inoltre, la Terra è un'Unità Sistemica, il mondo dell'azione umana – quello della storia, della politica, dell'infinità varietà culturale e razziale – non potrà essere mai, in virtù dell'infinita varietà che lo segna, né un Sistema, né un Sistema di Sistemi, ma solo un sotto-sistema. Per la qual cosa l'Umanità resterà sempre, pur in presenza del Sistema Mondialista, un'astrazione.

    Solo la follia dell'Allucinazione, la Suprema Psicosi, solo la Paranoia Salvifica, il Delirio che si propone di aprire il Regno – il Tempo Ultimo, il Sabato di Tutti i Sabati, la Nuova Sion, il Millennio Egualitario, il Mondo Emendato, la Cosmopoli Monorazziale e quant'altro – ne pretende l'uni(formi)tà; solo gli interessi finanziari e politici del Paese di Dio, del Sistema demoliberale e dei suoi Mediatori. Per giudicare rettamente, la scala non può comunque essere quella misera degli anni, ma quella dei secoli, dei cicli di civiltà, delle razze e delle nazioni, unità intermedie tra la nullità concreta dell'individuo e la nullità astratta dell'Umanità.

    Dopo avere plurisecolarmente promosso la follia del Progresso, portato a sterminio innumeri popoli e falsificato la storia ponendo le premesse dell'odierno sfacelo, gli Arruolati e i loro manutengoli, perseguendo un rimedio peggiore dei mali che hanno creato e pretendono oggi di curare, si danno alla fuga verso l'Unico Mondo del Démone Sanguinario.

    Così predica Churchill, quarant'anni avanti Morin: «A meno che non si riesca presto a realizzare un efficace supergoverno mondiale, le prospettive per la pace e il progresso umano restano oscure e dubbie». Così auspica Teller, padre della bomba all'idrogeno: «Dobbiamo adoperarci per la creazione di una autorità mondiale basata sulla forza morale, oltre che materiale, cioè di un governo mondiale che sia in grado di imporre un'unica legge in tutto il mondo». Così sogghigna Thomas Friedman, giornalista del New York Times: «Nessuna guerra è mai scoppiata fra due paesi, se hanno una catena McDonald's».

    Così incitano, in piena «buona coscienza», tre altri Arruolati. Tale l'intellettuale «ungherese» György Konrád il 13 ottobre 1991, addirittura poi fatto presidente della Akademie der Künste, ringraziando per il testé ricevuto Friedenspreis des Deutschen Buchhandels, Premio della Pace dei Librai Tedeschi: «Der Nationalismus, aggressiv von Grund auf, ist eine Ideologie des Hasses und eine Europäische Krankheit. Der Nationalismus hindert die Menschen Europas, Europäer zu werden. Das Zusammenwachsen zu einer europäischen Nation, unter einem Weltrecht, muß das Ziel der gegenwärtigen Nationen sein. Das Europa von morgen ist nur als eine multinationale, multikulturelle Einheitskonstruktion vorstellbar, Il nazionalismo, aggressivo dal suo fondo, è un'ideologia dell'odio e una malattia europea. Il nazionalismo impedisce agli abitanti dell'Europa di diventare europei. La crescita comune verso un'unica nazione europea, tutelata da un unico diritto planetario, dev'essere il vero obiettivo delle attuali nazioni. L'Europa di domani dev'essere concepita unicamente come una costruzione unitaria multinazionale e multiculturale».

    E altrettanto Jeffrey M. Peck, migrato negli USA coi familiari dopo il 1933, in una prolusione tenuta nel 1993 a Washington al German Historical Institute, organismo culturale finanziato dal Regime di Occupazione Democratica tedesco: «With time, I would hope that the image of the German body politic might be changed from exclusively white, German and Christian, to brown, yellow and black, Muslim and Jewish, Voglio sperare che col tempo il volto della nazione tedesca cambierà politicamente da esclusivamente bianco, tedesco e cristiano, a marrone, giallo e nero, islamico ed ebraico».

    Ancora più lucido, pratico e odioso, Henryk Broder porta la tesi alle logiche conseguenze: «Die Ausländer sollten ihrerseits die Forderung stellen, zum Beispiel: "Deutsche raus aus Deutschland, damit's hier endlich Ruhe gibt!", Da parte loro gli stranieri dovrebbero avanzare le loro richieste, ad esempio: "Via i tedeschi dalla Germania, affinché ci si possa restare finalmente tranquilli!"» (Allgemeine Jüdische Wochenzeitung, 14 gennaio 1993; per inciso, a differenza che per le opinioni anti-invasioniste, peraltro espresse con accenti ben più moderati, nessun procedimento per «incitamento all'odio razziale» viene aperto dalla Procura di Francoforte né contro il Broder, né contro l'ebraico settimanale).

    Già settant'anni prima dei tre criminali, del resto, il grande critico letterario superamericano Ludwig Lewisohn aveva riconosciuto, con accento forse più critico che compiaciuto: «Siamo sempre ribelli, distruttori, alla ricerca di una giustizia astratta, nemici della sacralità dello Stato, combattenti appassionati per la realizzazione di un impero messianico sulla Terra. Questo non ci rende però stranieri [agli altri popoli]. Con questo nostro carattere, con queste costanti qualità dominiamo le culture dell'Occidente [...] Sì, vogliamo restare ebrei. Perché in quanto ebrei dominiamo e possediamo le culture occidentali».

    Le migrazioni di massa, con suprema incoscienza subite e allucinante stoltezza difese da quegli stessi che ne sono vittime, sono parte centrale di tale strategia, non incomprensibili convulsioni di un mondo impazzito. Non sono un problema, seppur tra i maggiori, del nostro tempo ma, semplicemente, il problema. Sono il Quarto Tempo – vertiginosamente accelerato a partire dalla caduta del Muro e dallo sfacelo sovietico – dell'Aggressione, armi brandite dai Fedeli dell'Allucinazione, primogeniti o meno che siano, atti di guerra compiuti dal Sistema contro tutti i popoli.

    In primo luogo contro quelli europei, gli unici a mantenere nel loro patrimonio genetico, a dispetto di ogni Rieducazione, la capacità scientifica, la volontà organizzativa e l'equilibrio etico per offrire all'umanità nuove-antiche soluzioni agli immani problemi imposti dall'applicazione di aberranti modelli di pensiero.

    L'Europa – l'unica Europa possibile, estesa oltre Mosca e aggregata intorno ad una Nuova Germania, suo cuore pulsante per geografia, peso demografico e potenza produttiva, per la paziente genialità delle sue genti e per gli inalienabili diritti che le vengono dalla lucidità interpretativa dimostrata e dal terribile prezzo pagato nei conflitti mondiali, *** Nuova Terra di Mezzo liberata dall'immensa abiezione di questo interminabile dopoguerra, di questa guerra tuttora combattuta in ogni paese dai governi di occupazione democratica contro i «propri» popoli – l'Europa è la nostra sola possibilità, la nostra matrice, il nostro destino. È solo nel rispetto delle sue frontiere, delle sue tradizioni, della sua integrità territoriale e della sua compattezza etnica che si colloca lo sviluppo delle nostre persone, la crescita dei nostri figli.

    *** Ben abbiamo presente quanto affermato al proposito sia da Lenin che dal Padre dei Popoli, 19 agosto 1939: «Chi tiene Berlino, tiene la Germania; chi tiene la Germania, tiene l'Europa; chi tiene l'Europa, tiene il mondo». «Urvolk Europas, popolo capostipite dell'Europa», erano stati detti da Fichte i tedeschi, il «popolo incompiuto» di Möller van den Bruck, «il popolo più obiettivo e corretto della terra, sempre persino preoccupato di non far torto allo straniero» di Klagges. Infine, ben abbiamo presente il richiamo di Heidegger (Introduzione alla metafisica, 1935) sul centro «di nuove forze storiche spirituali»: «Questa Europa, in preda a un inguaribile accecamento, sempre sul punto di pugnalarsi da se stessa, si trova oggi nella morsa della Russia da un lato e dell'America dall'altro. Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell'organizzazione senza radici dell'uomo massificato. In un'epoca in cui anche l'ultimo angolo del globo terrestre è stato conquistato dalla tecnica ed è diventato economicamente sfruttabile, in cui qualunque evento in qualsiasi luogo e momento è diventato rapidamente accessibile, in cui si può "vivere" nel medesimo luogo un attentato in Francia contro un monarca e un concerto sinfonico a Tokio, in cui il tempo non è più che velocità, istantaneità e simultaneità mentre il tempo come storicità autentica è del tutto scomparso dalla realtà di qualsiasi popolo, in un'epoca in cui un pugile è considerato un eroe nazionale, in cui i milioni di uomini delle adunate di massa costituiscono un trionfo; allora, proprio allora, l'interrogativo: a che scopo? dove? e poi? continuamente ci si ripresenta come uno spettro, al di sopra di tutta questa stregoneria. La decadenza spirituale della terra è così avanzata che i popoli rischiano di perdere l'estrema forza dello spirito, quella che permetterebbe almeno di scorgere e di valutare come tale questa decadenza [...] Siamo presi nella morsa. Il nostro popolo, il popolo tedesco, in quanto collocato nel mezzo, subisce la pressione più forte della morsa; esso, che è il popolo più ricco di vicini e per conseguenza il più esposto, è insieme il popolo metafisico per eccellenza. Da questa sua caratteristica, di cui siamo certi, discende d'altronde che questo popolo potrà forgiarsi un destino solo se sarà prima capace di provocare in se stesso una risonanza, una possibilità di risonanza nei confronti di questa caratteristica, e se saprà comprendere la sua tradizione in maniera creatrice. Tutto ciò implica che questo popolo, in quanto popolo "storico", si avventuri ad esporre se stesso e insieme la storia stessa dell'Occidente, colta a partire dal centro del suo avvenire, nell'originario dominio della potenza dell'essere. E se la grande decisione concernente l'Europa non deve verificarsi nel senso dell'annientamento, potrà solo verificarsi per via del dispiegarsi, a partire da questo centro, di nuove forze storiche spirituali [...] Abbiamo detto che un oscuramento del mondo si verifica sulla terra e intorno ad essa. Gli avvenimenti essenziali che concernono questo oscuramento sono: la fuga degli dei, la distruzione della terra, la massificazione dell'uomo, il prevalere della mediocrità [...] Tutto questo si è andato ulteriormente aggravando, sia in America che in Russia, fino all'illimitato pressapochismo di ciò che risulta sempre uguale e indifferente, al punto che questo puro quantitativo si è trasformato in una sorta di qualità. In questi paesi la mediocrità, l'indifferentismo, non sono più qualcosa privo d'importanza o miserabilmente vuoto, ma rappresentano il predominio e l'invadenza di cose che attaccando ogni valore, ogni spiritualità capace di misurarsi col mondo, la distruggono e la fanno passare per menzogna [...] Ed è per questo che l'interrogarsi sull'essente come tale nella sua totalità, il proporre la domanda sull'essere, costituisce una delle condizioni fondamentali, essenziali, per un risveglio dello spirito, per il porsi di un mondo originario dell'esserci storico, per arrestare il pericolo di un oscuramento del mondo, e per una assunzione della missione storica del nostro popolo considerato come centro dell'Occidente. Possiamo mostrare qui solo a grandi linee come e fino a che punto il proporsi della domanda metafisica sull'essere costituisca in sé qualcosa di integralmente storico».

    Pre-condizione irrinunciabile per la fuoriuscita dal Paradigma Mondialista, per il recupero del Senso del Reale e il riscatto della Memoria – pre-condizione per ogni riscatto politico – è il mantenimento della singolarità biologica delle sue genti.

    Assediati da miliardi di allogeni, psicologicamente e concretamente ricattati da un osceno Immaginario, snervati da una bimillenaria superstizione orientale che sta portando alle estreme conseguenze socio-storiche i propri postulati religiosi, i popoli europei, se non vorranno scomparire come detriti etnici a vantaggio dei facitori di morte, dovranno in primo luogo rivendicare la continuità delle generazioni, trasmettendo ai figli non solo gli ideali, ma l'eredità concretamente fisica dei Padri.

    Appendice II - All'origine della Modernità

    Lo spirito della Modernità è filosoficamente identificabile in tre punti

    A. nel rifiuto del limite, di qualsiasi limite e quindi di ogni strutturazione: spaziale, territoriale, temporale, psicologico, esistenziale, giuridico, sessuale, scientifico, razziale, sociale, architetturale (vedi, in particolare, le concezioni schizoidi dell'ideatore del Guggenheim Museum di Bilbao e della praghese Nationale-Nederlanden, il post-moderno «canadese» Frank O. Gehry né Goldberg), artistico in genere e quant'altri,

    B. nell'assolutizzazione dell'individuo e

    C. nella frenesia paranoica del nuovo e del diverso con l'induzione di «bisogni» artificiali di ogni tipo. Che tale spirito sia ebraico e che il mondo si stia «ebreizzando» (stupendo il Leroy-Beaulieu: l'ebreo «instigateur du monde moderne»!), oltre ad innumeri dichiarazioni delle parti in causa, lo attestano:

    1. Adolf Wahrmund: «in primo luogo è importante considerare in quanta misura i nuovi mezzi di trasporto e comunicazione siano tornati utili alla mobilità nomadica dell'ebreo. Ferrovie, telegrafo e telefono sembrano essere stati inventati proprio per lui, benché egli stesso non li abbia inventati, come in genere non inventa niente – anch'essi sono inventati solo "per portarti le ricchezze delle genti" (Isaia LX 11). "Le ferrovie hanno messo gli ebrei nella condizione di cambiare rapidamente le zone del loro attivismo. Per nessun popolo è stata di tale importanza l'invenzione delle ferrovie come per il più mobile dei popoli. Essa è venuta ad essere di tale vantaggio per l'irrequietezza degli ebrei come l'aria giunge a vantaggio dell'uccello: di notte dorme nella carrozza ferroviaria e di giorno fa ovunque i suoi affari" (Ernst Freiherr van der Brüggen, Rußland und die Juden, edito a Lipsia nel 1882) [...] Ma il periodo della fondazione delle ferrovie ha dato al talento ebraico l'opportunità e il mezzo di impadronirsi di gran parte dei nuovi mezzi di comunicazione. In particolare, ciò è avvenuto in Francia, ove le grandi linee si trovano pressoché tutte nelle mani dell'Haute finance ebraica, soprattutto dei Rothschild. Naturalmente il capitale ebraico vi era impiegato solo in apparenza [...] Al periodo della fondazione delle ferrovie seguì quello delle truffe borsistiche e bancarie, nelle quali gli ebrei sono i protagonisti per il 90%. Qui regna la cruda rapina, della quale l'ebreo di Borsa o di banca si gloria, come il beduino del deserto»,

    2. Werner Sombart: «gli ebrei hanno svolto nell'economia moderna un ruolo infinitamente maggiore di quello che si è soliti riconoscere loro [...] l'influenza esercitata dagli ebrei sulla formazione e lo sviluppo del capitalismo moderno è stata al contempo esteriore e interiore, o spirituale. Sotto il profilo esteriore, gli ebrei hanno contribuito in maniera essenziale ad imprimere alle relazioni economiche internazionali il loro marchio e ad accelerare l'avvento dello Stato moderno quale "copertura" del capitalismo. Hanno in seguito dato all'organizzazione capitalista una forma tipica, creando numerose istituzioni, la maggior parte delle quali reggono ancor oggi il mondo degli affari, e svolgendo un ruolo preponderante nella fondazione di un certo numero di altre», con la spersonalizzazione/internazionalizzazione dei rapporti finanziari, l'invenzione della Borsa, l'indifferenza tecnica dell'imprenditore e la commercializzazione/finanziarizzazione dell'industria,

    3. F. Roderich-Stoltheim, sottolineando la centralità degli ebrei nel commercio, «quel settore nel quale hanno posto la base per la loro potenza e che tendono a formare sempre più a loro dominio, anzi a monopolio ebraico», nella manipolazione del denaro, «non solo mezzo per una vita agiata, ma al contempo mezzo per il potere: attraverso il denaro [l'ebreo] vuole dominare e assoggettare [...] Il denaro è una merce del tutto particolare, e chi traffica col denaro controlla l'economia più saldamente del commerciante [...] Il sedentario deve desiderare intorno a sé rapporti bene ordinati e continuità, per potersi dedicare tranquillo alla propria attività creativa e costruttiva. Il nomade, pervaso dall'impulso di tenere con sé tutte le proprie sostanze e di poterle trasferire facilmente deve nutrire il desiderio di rendere mobili le cose e i valori, di "mobilizzarli" [...] Dai suddetti motivi di fondo deriva la brama dell'ebreo di preferire merci straniere. Egli vuole sempre essere il primo a importare il nuovo da terre straniere, ed è l'instancabile esaltatore di tutto ciò che è straniero. Sempre attesterà che le merci straniere sono migliori delle nazionali, sostiene anzi, perfino, che il grano estero è più nutriente di quello del contadino tedesco. Sa bene che la produzione nazionale trova con estrema facilità la via per passare direttamente dal produttore al consumatore, senza abbisognare di lui quale mediatore; e ciò non gli va a genio. Vorrebbe rendere dipendenti da sé sia la produzione che il consumo, tenerli in pugno; cerca perciò di tenerli disgiunti, e di inserirsi e trafficare tra loro», e nell'opposizione all'ambiente naturale: «Il giudaismo è un tentativo di staccare la vita umana dalla natura e formarla a puro problema di razionalità matematica. Qui risiede il tanto decantato "intellettualismo" ebraico [...] Nella repulsione di tutto quanto c'è di naturale, l'ebreo non prova, nei confronti della natura, alcuna gioia spontanea. Un fiore che splende, un uccello che canta gli sono niente; se ne accorge appena», e

    4. Piero Melograni: «distacco dalla terra, mobilità territoriale, tendenza all'urbanesimo, adattabilità alle trasformazioni, spirito competitivo, atteggiamento spregiudicato verso il denaro, internazionalizzazione delle relazioni economiche e commerciali» nonché, aggiungiamo, sfruttamento e distruzione dell'odiata Natura: «Nel giudaismo la trasformazione della società è collocata nella medesima categoria della trasformazione della stessa natura», approva l'autorevole Rabbi David Polish, e ce lo riconferma

    5. l'illustre arruolato Norman Cantor, docente di Storia, Sociologia e Letteratura Comparata a New York: «Nel ventesimo secolo gli ebrei hanno dato al mondo occidentale un gruppo di pensatori che hanno creato la cultura moderna e postmoderna nelle scienze, nella psico-sociologia [in the behavioral disciplines] e nelle arti», per cui dopo la pittura di Chaim Soutine, Marc Chagall e Amedeo Modigliani, dopo la musica di Gustav Mahler, Arnold Schönberg e George Gershwin, dopo la narrativa del demi-juif Marcel Proust e di Franz Kafka, dopo la storiografia di Lewis Namier e di Marc Bloch, dopo la sociologia neomarxista della Frankfurter Schule: Walter Benjamin, Max Horkheimer e Theodor Adorno, e soprattutto dopo i Big Five Emile Durkheim sociologo, Sigmund Freud psicoanalista («la figura più sopravvalutata dell'intera storia della scienza e della medicina, un individuo che produsse immemsi danni propagando false eziologie, diagnosi sbagliate e infruttuosi schemi di studio. La leggenda è ancora dura a morire, e quelli che la sfidano continuano ad essere trattati da cani rabbiosi», concorda MacDonald III, che ne pone in rilievo le caratteristiche di intollerante «religione secolare», essendo «meno un'impresa scientifico-medica che un politburo risoluto a spegnere ogni deviazionismo [...] Mentre la vera scienza è al suo nocciolo individualistica, in tutte le sue manifestazioni la psicoanalisi è fondamentalmente un insieme di gruppi coesi e autoritari, incentrati intorno a un capo carismatico»), Albert Einstein fisico, Franz Boas antropologo, Ludwig Wittgenstein filosofo – e tralasciando i linguisti strutturalisti Roman Jakobson, Leo Spitzer ed Erich Auerbach – il Nostro elenca i «four Jewish thinkers of a younger generation» Noam Chomsky, Harold Bloom, Claude Lévi-Strauss e Jacques Derrida (per inciso, ràbido invasionista invocante la negrizzazione della Francia).

    Per l'ultimo, il decostruttivismo da lui sostenuto non è altro che «freudianismo applicato alla letteratura [...] Il retroterra ebraico della filosofia di Derrida è evidente. Nella sostanza, egli propone una teoria ermeneutica del testo piena di tradizioni talmudiche, cabalistiche e chassidiche. Ebreo algerino, Derrida fu il rampollo di una minoranza maltrattata e sfavorita, e perciò incline ad assumere un'attitudine radicale e contestatrice verso la cultura letteraria canonica» (si noti il piatto behaviorismo dell'interpretazione cantoriana!). Quanto a Schönberg, severo è il conductor Ernest Ansermet: «In una parola, la teoria dodecafonica (non diciamo la sua applicazione) ha distrutto tutto ciò che fa della musica un linguaggio chiaro. Il linguaggio che ne deriva tornerebbe chiaro solo se il musicista, d'istinto, reintroducesse ciò che la teoria ne ha eliminato: il sentimento tonale [...] Perciò Schönberg fa la stessa rivoluzione di Marx: il "loro" mondo è retto dalla totalità delle unità che lo compongono, messe sullo stesso piano. Non c'è più tonica, non c'è più gerarchia fra i suoni, non c'è più "forma" generata da dentro, ma un'esistenza condizionata da fuori dal partito comunista del momento e della "serie" del momento. In ambo i casi la soggettività è condannata a una vita vegetativa [...] Aspirava all'impossibile; voleva condurre il linguaggio musicale e significare delle cose che non erano chiare in lui o, essendo movimenti di pensiero o di sentimento, che non avevano preso forma di sentimento musicale, sfuggivano al potere di significazione del linguaggio musicale; e per farlo spingeva il linguaggio fuori dalle vie comunicabili». Stranoto è del resto l'ethos psico-esistenziale dei Catalizzatori della Modernità, elementi necessari e determinanti della Nuova Era.

    Con tale interpretazione del giudaismo quale «catalyst» e «ultimate expression of religious universalism in an age of progress» si accordano anche

    6. Arthur Hertzberg e Aron HirtManheimer – e si rammenti che in chimica il catalizzatore, pur perno della reazione, non vi viene coinvolto e resta sempre se stesso – i plurimillenari «distruttori dei confini», gli eterni «infrangitori dei limiti», gli «eterni stranieri», gli «ostinati dissenzienti in tutte le società ove hanno vissuto», impostato sul «passar oltre» nomadico/teologico, per la qual cosa ci è del tutto naturale assentire con quanto di Vittorio Castiglioni, caporabbino della Comunità romana nel 1903-11, commenta

    7. Stefano Caviglia: «la modernità come passo in direzione dell'era messianica...».

    Altrettali le anticipazioni di 8. Moses Hess («Mediante l'ebraismo la storia dell'umanità è diventata una storia sacra, vale a dire un processo ed uno sviluppo unitario ed organico che, iniziato con l'amore familiare, non sarà completato fin quando tutta l'umanità non sarà un'unica famiglia, fin quando i suoi membri non saranno solidamente uniti dallo Spirito Santo, dal genio creativo della storia, così come lo sono i diversi organi di un corpo vivo da una forza naturale altrettanto sana e creativa»), l'auspicio di

    9. Leo Baeck, per il quale nell'ebraismo l'umanità ha trovato la sua più compiuta espressione, essendo l'ebraismo «un indice per misurare il livello di civiltà sulla Terra» («Chi è schierato per il progresso della civiltà, si è schierato, consapevolmente o inconsapevolmente, per noi. Quando noi desideriamo sicurezza e libera esistenza per l'ebraismo, non abbiamo bisogno di esigere altro se non la verità e la rettitudine del paese. Non esiste migliore giustificazione»), l'analisi

    10. del nostro Lo specchio infranto - Mito, storia, psicologia della visione del mondo ellenica, e le conclusioni

    11. di Salvatore Natoli I: «La tradizione ebraico-cristiana conosce la disperazione, mai la tragedia. In questa tradizione la tragedia è costitutivamente impossibile. Ci sarà pure un confronto-opposizione con il fondo tragico dell'esistenza, ma la tragedia non può avere spazio alcuno laddove vige l'esperienza di YHWH. L'indole dell'ebraismo è assolutamente incompatibile con il tragico. Il cristianesimo, che è poi una grande eresia ebraica, uccide definitivamente ed irreversibilmente il tragico. Se si bada bene alla differenza che corre tra la possibilità umana di sperare e la speranza dell'impossibile ci si rende anche conto della ragione per la quale i nuclei originari della "metafisica del tragico" e della "tradizione ebraico-cristiana" siano costitutivamente incompatibili [...] Quel che comunque è certo è il fatto che la capacità incondizionata di sperare è stata veicolata nel mondo dall'esperienza di un popolo e dall'avvento di una civiltà: la tradizione ebraico-cristiana [...] Ad Abramo Dio promette la terra e la stirpe, numerosa quanto le stelle del cielo e la rena del mare. Nel tempo questa promessa si specifica ed è adattata al contesto in cui nuovamente si enuncia: la promessa della terra si tramuta nell'attesa del regno; dopo la distruzione del regno la promessa si tramuta nell'attesa della Nuova Gerusalemme dove converranno tutti i popoli; infine nella teologia cristiana la Gerusalemme ventura si muta nella Gerusalemme celeste. Infine questo mondo nel "retro mondo". È da notare però che quest'ultima mutazione ha una natura propriamente sincretistica e non specificamente ebraico-cristiana. È peraltro vero che l'ebraismo ed il cristianesimo forniscono elementi essenziali di mediazione per l'elaborazione del "retro mondo" e per il tradimento della terra», e di

    12. Sergio Quinzio: «Con la rivelazione biblica si realizza certamente una secolarizzazione intesa come "disincantamento del mondo" [...] La secolarizzazione non è che la razionalizzazione del messianismo, l'escatologia immanentizzata. Il concetto di progresso che la anima è ormai un concetto naturalistico, l'idea di qualche cosa che sarebbe intrinseca alla natura delle cose, come loro capacità e necessità di crescere, di evolvere [...] Non mi pare si possa cogliere la novità del moderno con il suo formidabile impulso al cambiamento – come pure, e molto autorevolmente, si è voluto fare – senza riconoscere al centro di questa novità la rivelazione biblica, l'influsso determinante della promessa, e dell'attesa messianica».

    Similmente 13. Albert Lindemann: «La civiltà occidentale, in particolare negli ultimi 250 anni, è stata influenzata in ogni sua fibra [pervasively] e profondamente arricchita, se pure talora turbata, dalle attività e dai contributi degli ebrei, al punto che è a malapena possibile concepire cosa avrebbe potuto essere, nel bene e nel male, senza quell'apporto. Un'ancora più ampia generalizzazione in tal senso possiamo fare quanto al contributo ebraico alla cultura americana nel XX secolo. La civiltà occidentale è indubbiamente una civiltà "giudaizzata", per quanto offensivo il termine possa suonare alle nostre orecchie a cagione del turpe uso [because of the ugly use] fattone dagli antisemiti; la parola dovrebbe invece essere usata con orgoglio». «Due razze guidano il movimento [della modernità]» – aveva scritto nel 1939 l'ebreo convertito anglicano e sionista sir Louis Namier, In the Margin of History – «per quanto in condizioni ben differenti: i britannici e gli ebrei; entrambi furono i pionieri del capitalismo e i suoi primi, e forse massimi, beneficiari».

    Sulla strategia che ha portato alla Modernità, e cioè alla distruzione dei fondamenti morali, politici, culturali ed economici dell'Europa per instaurare il Regno dell'Occidente, conclude 14. MacDonald III: «Possiamo rilevare che un tema comune di tutti questi movimenti di cultural criticism è che le strutture sociali generate dai non-ebrei sono patogene. Dal punto di vista della psicoanalisi, Scuola di Francoforte compresa, le società umane non sanno soddisfare i bisogni radicati nella natura umana, sicché gli esseri umani sviluppano una quantità di turbe psichiche quale risposta alla perdita dei loro rapporti di naturalezza e armonia con la natura. O gli esseri umani sono visti come una lavagna sulla quale la cultura capitalistica occidentale ha inciso avidità, etnocentrismo goyish e altri presunti disordini psichici (marxismo, antropologia boasiana)»; «questa retorica di condanna morale del gruppo non-ebraico rappresenta una versione secolare della posizione degli intellettuali ebrei post-illuministi: il giudaismo rappresenta un faro morale per la restante umanità».

    Chiude l'appendice 15. il personaggio di Carentan in Gilles, di Pierre Drieu La Rochelle: «Non posso sopportare gli ebrei perché sono il mondo moderno per eccellenza, e io lo odio».

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    Se dovessi definire rapidamente il paganesimo in quanto coerente visione del mondo, direi che esso è fedeltà alla stirpe (considerata nel quadro di una memoria millenaria, quella che ci re-ligat, che ci unisce ai nostri antenati lontani), radicamento in un territorio (termine da prendere lato sensu) e apertura all'infinito.

    Christopher Gérard, Trovare un cielo sulla terra, 1997

    Sì, eccomi davvero pagano, lo confesso, politeista, contadino figlio di contadini [...] Io credo, credo soprattutto, credo essenzialmente che il mondo è Dio, che la natura è Dio, cascata bianca e riso dei mari, che il cielo variabile è Dio stesso.

    Michel Serres, Le Tiers-instruit, 1991

    e tu agisci in modo che la tua azione e il tuo pensiero

    siano volti interamente ad un agire onesto

    e non al premio che potrebbe derivare dall'agire

    compi ogni azione indipendentemente

    da ciò che potrebbe risultare dall'azione

    che il tuo agire non dipenda dalla tua speranza

    ma d'altro canto non scegliere il non agire

    si crede di potersi astenere dall'azione ma ci si inganna

    il restare inoperosi non comporta alcuna felicità

    nel mondo non esiste possibilità di astenersi dall'azione

    dal momento che niente e nessuno

    nemmeno per un istante può rimanere inattivo

    Bhagavad Gita II 47-48 e III 4-5

    Citazioni da lasciare in quadro qua e là

    Ciò che chiamiamo «la nostra moderna civiltà» è poco meno di un gigantesco meccanismo planetario di produzione e marketing, con l'Alta Finanza come centro di controllo, dapprima solo per le transazioni commerciali e poi per tutto, anche per la politica. La massima parte dei cittadini dell'Occidente è talmente presa a rendere efficiente il Sistema e ad occuparsi, in tale competizione, dei propri affari personali, che non è in grado di riflettere sui fatti della politica né di sentirli nell'intimo. È questo, inoltre, un Sistema nel quale le opinioni difformi e il dissenso possono venire puniti nei modi più diversi.

    Peter Blackwood, Das ABC der Insider, 1992

    Questa aberrante ed inquinante ideologia, che sogna di sostituire ovunque alle realtà naturali dei popoli altrettante società sempre più multirazziali, è solo l'espressione di un'esigenza pratica della Grande Finanza mondialista che ha bisogno – nelle aree più industrializzate – della immigrazione di mano d'opera a basso costo, e che è fortemente disturbata e infastidita – nel progressivo espandersi del proprio impero – dalla ingombrante presenza delle differenze nazionali, razziali e religiose offerte dai popoli che intendono mantenere la propria identità nell'indipendenza politica.

    Sergio Gozzoli, La perestrojka di Gorbaciov, 1989

    Nell'ultimo conflitto mondiale era in gioco molto più di quanto gli storici del Sistema oggi non lascino supporre, e forse anche più di quanto non apparisse allora ai primattori stessi della storia. Due antitetiche concezioni del mondo si scontravano: l'una fondata sulla stirpe e sul possesso territoriale, l'altra fondata sul libero scambio internazionale come strumento di dominio economico/politico. È assolutamente logico che il mercante internazionalista sia anche fautore dell'«eguaglianza tra gli individui» (salvo ignorarla poi nei fatti) e del principio di «libera autodeterminazione» del popolo (salvo imporre di fatto una patteggiata spartizione del mondo). Il primo principio serve a poter commerciare con chiunque, il secondo ad attaccare qualunque regime estraneo in crisi, giustificando agli occhi del mondo interventi miranti ad instaurare regimi sostitutivi (democratici) atti a favorire la penetrazione economica sullo specifico mercato.

    Enzo Caprioli, L'ideologia inquinante, 1989

    Il mondialismo è l'utopia che vede la felicità dell'uomo nell'abolizione di tutte le differenze e di tutte le identità. Esso cerca di creare il governo mondiale attraverso la distruzione delle nazioni, il meticciato delle razze, l'abolizione delle frontiere e il rimescolamento delle culture. Dall'utopia marxista che voleva abolire le classi, ridurre le ineguaglianze e costruire il paradiso rosso si è passati all'utopia mondialista che vuole abolire le differenze e creare il paradiso multicolore.

    Bruno Mégret, dirigente e poi segretario del Front National, 1992

    Mi chiedo come facciano taluni uomini politici a mettere in pericolo di morte, attraverso la droga e l'immigrazione, le collettività di cui sono i rappresentanti. C'è una ideologia che li rende folli. Un'ideologia internazionalista e mondialista che rimpiazza il grande sogno criminale dell'internazionalismo comunista. Siamo passati dall'internazionalismo comunista all'internazionalismo capitalista.

    Jean-Marie Le Pen, presidente del Front National, in il Giornale, 1â aprile 1995

    Il progetto mondialista non auspica la creazione di un ordine internazionale fondato sulla cooperazione tra liberi Stati sovrani. Al contrario, vuole imporre un unico governo mondiale che amministri grandi collettività multirazziali secondo un sistema di decentramento applicato per ampi spazi continentali. In questa prospettiva il ruolo del modello statunitense è di primaria importanza perché, se funziona, dimostra che è possibile organizzare grandi collettività su basi multirazziali. Al contrario, in caso di evidente insuccesso, la consapevolezza dei mali endemici che affliggono la società americana può condurre i popoli liberi a rifiutare il modello consumista e multirazziale [...] L'identità culturale dei popoli europei ha cominciato ad affievolirsi nel secondo dopoguerra con la diffusione dell'american way of life, ma finora siamo rimasti immuni dai mali del modello multirazziale. Ora il nemico vuole completare la sua opera. Ha banalizzato la nostra vita e ha imbastardito i nostri valori. Ora vuole attentare anche alla nostra eredità biologica. Il meticciato culturale è inquinamento mentale. Il meticciato biologico è inquinamento razziale.

    Lello Ragni, Il mondialismo capitalista, 1992

    Oggi, per la prima volta nella storia, il mondo si muove anteponendo a tutto i parametri economici e monetari. Ciò a scapito delle altre categorie dell'agire umano, e di quel patrimonio di valori che per millenni ha determinato il destino dei popoli. "Ogni discorso sul modello di società sembra ridursi all'àmbito economico e sempre in un'ottica a breve termine, senza prendere in considerazione cicli di più ampio respiro". Non si tratta, come molti superficialmente sono portati a credere, dell'ineludibile conseguenza del progresso e dello sviluppo tecnologico, ma di una situazione perseguita con pervicacia da precise forze e da quegli Stati che per primi sono stati condizionati da queste forze. Si tratta del cosciente operare di entità private internazionali che hanno fatto dell'economia il loro cavallo di Troia per infiltrarsi in tutte le società del mondo con evidenti scopi di speculazione, di prevaricazione e di potere, sconvolgendo la vita degli uomini e riducendola, nonostante le fantasmagoriche luci del palcoscenico contemporaneo, al suo minimo storico qualitativo. Droga, corruzione, perdita di identità, superficialità, angosce d'ogni tipo hanno preso violentemente il posto del senso di appartenenza, dei valori, delle tensioni ideali, della spinta ad elevarsi. Il dio denaro è l'immagine che meglio di tutte è adatta a rappresentare l'epoca che stiamo vivendo: un dio vuoto di contenuti, ma capace di asservire tutto e tutti. Un dio espressione di un potere globale che, invece di conquistarsi ciò che vuole, è avvezzo a comprarlo con moneta che esso stesso fabbrica dal nulla a suo uso e consumo. Questo potere, che noi definiamo Mondialismo e che si sta consolidando ovunque, è il vero nemico dei popoli e rappresenta ciò che impedisce ad ogni Nazione di affrontare e risolvere i propri problemi in maniera libera ed originale.

    Mario Consoli, Contro il dio denaro - Metamorfosi degli strumenti economici dalle origini alla tirannide mondialista, 1999

    Primaria finalità del mondialismo è il trasformare l'intero pianeta in un immenso supermarket dove tutte le popolazioni, tutte le etnie – massificate tramite la «società multirazziale» – verranno schiavisticamente sfruttate dal capitalismo internazionale: in altri termini, un'immensa mandria umana che i pastori mondialisti indirizzeranno, a proprio vantaggio, imponendo in tutti i continenti unificate direttive economiche e politiche. Una tirannide che degraderebbe irreversibilmente l'intera umanità e l'intero pianeta tra catastrofi ecologiche e demografiche. A ragione il mondialismo è stato definito «il più grave pericolo che incombe sulle generazioni presenti e future». Ma questo pericolo planetario non appare inevitabile, poiché il mondialismo è vulnerabile. Molto più vulnerabile di quanto credano i presuntuosi pastori mondialisti, i corrotti politici al loro servizio, gli ottusi ottimisti tecnologici di varie provenienze, le masse degradate dal consumismo e inebetite dalla propaganda mondialista. Le sempre più vicine catastrofi ecologiche di origine chimica e nucleare, i crescenti dissesti originati dalla sovrappopolazione e dalla società multirazziale, la divorante distruzione delle risorse alimentari e minerarie del pianeta, la progressiva distruzione delle civiltà e culture tradizionali: ecco le cause – causate da quel materialismo consumistico ovunque imposto – dell'imminente crollo del mondialismo stesso i cui santoni, servitori e seguaci sono insensati come coloro che abbattono gli alberi per raccoglierne più comodamente i frutti.

    Giuseppe Mosca, Konrad Lorenz, una voce antimondialista, «Rinascita», 10 gennaio 2001

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    Chi ha voluto questa invasione

    Gli italiani sono assediati. Assediati nel corpo, nella mente, negli affetti. Imperversa su di loro, contro di loro, una forza di fuoco libera da qualsiasi contrasto, dalla pur minima eventualità di reazione. Come in quei film gialli in cui l'assassino ha nascosto un disco che ripete "Ammàzzati, sei pazzo, devi sparire", gli italiani sono bombardati da voci autorevoli e autoritarie che li esortano, con il massimo dell'irrisione, ad ammazzarsi per il proprio bene, nel proprio interesse. No, non è uno scherzo. In questi giorni i due più importanti quotidiani italiani [Corriere della Sera e la Repubblica] hanno affermato proprio questo: bisogna far posto agli stranieri per sopravvivere, bisogna annientare la propria storia e la propria identità per salvarla, bisogna cospargere l'Italia di moschee e di minareti per ottenere un Islam italiano (!).

    Dire fino a che punto le buone voci e le buone penne si sprechino per far apparire agli italiani bella e suadente la propria morte, è impossibile. L'assedio è talmente vasto, assillante, totale, che tentare di smascherarne la fraudolenta astuzia appare un'impresa impossibile. Tuttavia, va fatto. Se non altro per dire agli italiani che ne sentono l'oppressione e l'ingiustizia senza saperselo spiegare, che hanno ragione, che l'oppressione e l'ingiustizia esistono. Tutti i motivi che vengono addotti per consegnare il territorio italiano ai musulmani, non rivestono nessuna validità purché si parta dal principio di voler salvare gli italiani, non di ucciderli. La denatalità, per esempio, è indotta in massima parte proprio dall'immigrazione e dal messaggio di morte che l'accompagna. La densità di abitanti per km quadrato è dieci volte superiore a quella degli Stati Uniti: è una legge della natura fermare la crescita demografica quando la popolazione è in eccesso. Inoltre, come si può aver voglia di fare figli quando si prospetta la perdita del proprio futuro?

    Si afferma che esistono lavori che gli italiani non vogliono fare; ma anche qui non si fa il minimo sforzo per favorire gli italiani. Basterebbe, infatti, investire tutto il denaro che viene a costare l'immigrazione (scuole, case, servizi sanitari, consumo dell'ambiente per l'eccesso della popolazione) per rendere meno pesanti alcuni lavori in modo da attirare i disoccupati. E comunque, sarebbe meno dannoso trasferire all'estero alcune aziende piuttosto che importare mano d'opera. Tutte cose cui il governo non pensa affatto perché vuole – questo è il punto – vuole l'immigrazione. L'assedio è stato preparato da molti anni, ma non si era dispiegato del tutto a viso aperto fino a quando c'è stato il pericolo della Russia. La caduta del Muro ha consegnato a questo disegno l'Europa occidentale con la realizzazione dell'Unione Europea, e l'Italia ne è l'avamposto. Disegno di economisti, banchieri, operatori finanziari a livello mondiale (il termine "globalizzazione" nasconde quello di mondiale): dominare i popoli per permettere il dominio dell'economia (così si è espresso Prodi in un'intervista a la Repubblica: "La principale sfida del nuovo millennio è adeguare la politica alla globalizzazione economica").

    Per dominare il mondo c'è una parte dell'Oriente da conquistare, quella islamica. Salvo che in Cina, l'Islam ha punti di forza dappertutto, ed è guidato in maniera univoca, con collegamenti sicuri tramite l'obbedienza religiosa. Di qui il processo di continuo indebolimento dell'identità eurocristiana promosso dalla Chiesa wojtyliana, la quale non a caso è osannata dai potenti di tutto il mondo. Con le categorie della tolleranza e della solidarietà è stata fatta un'opera assillante di imbonimento sugli italiani credenti e non credenti, costretti a trasformarsi in pochi anni in pecore imbelli e cretine. Contemporaneamente all'opera di una parte della gerarchia ecclesiastica (della quale è davvero difficile capire gli scopi), i politici e governanti italiani hanno portato a termine un analogo tradimento, consegnando il territorio, i valori, le ricchezze, la storia, la cultura, la religione degli italiani agli immigrati, senza neanche nascondere la volontà di favorirne l'ingresso. La mafia albanese si è congiunta a quella italiana, alla n'drangheta, alla camorra, alle mafie greche, russe, cinesi, piazzandosi in Italia per dirigere i propri affari (questo afferma un rapporto della DIA); così come la centrale di potere islamica si è piazzata in Italia per dirigere la conquista dell'Europa. Gli italiani, sudditi anche se formalmente cittadini, debbono convincersi che in questo enorme progetto nessun politico, nessun amministratore, nessuno di coloro che detengono il potere, vuole, può o osa stare dalla loro parte. Gli italiani sono soli. Come sempre, abbandonati dai loro governanti al nemico».

    Ida Magli, il Giorno, 9 gennaio 2000

    Non si condanna un popolo per scopi elettorali

    Il governo prospetta un'ennesima sanatoria per gli immigrati clandestini, proprio mentre unisce il proprio compianto a quello che si alza da tutte le parti per i morti di Dover. Ma l'immigrazione è un problema talmente grave, così determinante per gli italiani e per la loro sopravvivenza come popolo, che non è più possibile tacere di fronte alla voluta sottovalutazione che ne fanno i governanti. L'immigrazione è il problema dell'Italia e gli italiani lo sanno, lo sentono, lo capiscono con sempre maggiore ansia proprio perché, come usano fare i parenti vicino al malato grave, i governanti fingono che non sia così.

    Bisogna smettere di fingere. Se gli italiani si sentono assediati e in pericolo, non sono né matti, né isterici, né nazisti: semplicemente è vero. I furti, gli scippi, le rapine, gli omicidi, il degrado, la prostituzione, la droga, il commercio abusivo appaiono tanto più violenti in quanto immagine dell'immediato futuro di sopraffazione e di resa. Ci sono immigrati che lavorano, che pregano, che diventano imprenditori come nel Veneto. Ma questo rende ancora più evidente che il radicamento è avvenuto, e che da qualsiasi parte si guardi non c'è speranza: la cultura che cresce è quella immigrata, straniera, occupando il territorio con la sua aggressività; mentre si vieta agli italiani di riconoscere la realtà come realtà. Prima di tutto l'iperpopolazione. La densità per chilometro quadrato è in Italia di 190 abitanti. Tanto per avere un riferimento, e per far fuori i soliti lamentevoli ricordi sull'immigrazione italiana, la densità per chilometro quadrato negli Stati Uniti è, oggi, 27,3 abitanti e in Australia di 2,3 (dico: due virgola tre). Erano paesi che avevano assoluto bisogno di essere popolati e l'Australia lo è ancora.

    Gli italiani non fanno figli perché è norma della Natura cercare di mantenere l'equilibrio fra popolazione e habitat: ma purtroppo la Natura non sa che i solerti governanti italiani fanno aumentare la popolazione con gli stranieri, inducendo così ancora di più gli italiani all'estinzione. Gli stranieri, infatti, non soltanto prendono il posto dei figli italiani, ma portano con loro un ulteriore messaggio di morte, perché gli uomini vivono di biocultura e senza di questa muoiono. La popolazione italiana dovrebbe diminuire di almeno quindici milioni; tutti potrebbero lavorare, inserendo nella normalità del ciclo produttivo l'allungamento della durata della vita, e ricominciando a fare figli con una speranza di futuro. È questo che manca: la speranza di futuro. Il territorio è al limite dello sfruttamento; uno sfruttamento che si aggrava, come ben sanno gli ambientalisti, in base a ogni singola presenza umana, la quale consuma acqua, energia, spazio, inquina e cementa. Possibile che i governanti con si rendano conto di quale senso di morte comporti la degradazione dell'ambiente?

    L'eccesso di consumo è già degradazione. Ma il fatto che gli stranieri invadano senza armi, e quindi obblighino alla resa senza combattimento, rende ancora più forte il senso della fine, impedisce l'impulso alla difesa, il soprassalto di vitalità e di giustizia che ogni gesto di difesa richiede. Questo processo è già molto evidente in Italia dove i governanti, assecondati dai gravi equivoci della leadership wojtyliana sul concetto di tolleranza, si adoperano a fare gli interessi del mondo islamico africano e orientale. I governanti lavorano contro gli italiani, dunque, ed essi ne sono acutamente consapevoli senza riuscire a trovare una qualsiasi giustificazione. Perché, perché i politici favoriscono l'immigrazione? Per favore, non lo neghino: il loro modo di comportarsi sembrerebbe altrimenti del tutto insensato. Spesso si allude al fatto che la sinistra si avvantaggerebbe così di voti a suo favore. Possibile? Possibile che si metta a rischio la sopravvivenza del popolo che si è affidato alle loro cure per un tale miserevole scopo? Non può essere. Il tradimento è troppo grave perché non ci siano dei motivi che i cittadini non conoscono.

    E poi, come mai i sacerdoti, i vescovi tacciono? Non sono anch'essi italiani e pastori di territori-diocesi italiani? A tutto questo gli italiani non trovano risposta. Se si vuol fare del bene a coloro che stanno male nel proprio Paese, sicuramente non è questo il modo: il rischio dei viaggi clandestini, l'incremento della prostituzione (si parla soltanto di quella femminile, ma anche quella maschile è molto forte e pericolosissima), la droga e tutti i reati che vi sono legati, non si eliminano con le belle parole. Due cose si possono e si debbono fare subito: decretare "reato" l'ingresso clandestino in Italia sospendendo anche il trattato di Schengen; pubblicizzare con ogni mezzo (spot televisivi e radiofonici, per esempio), presso i paesi dai quali proviene l'immigrazione, il divieto assoluto di entrare in Italia. Non spetta ai governi essere caritatevoli, né obbligare i cittadini a esserlo. Ma qui è in gioco qualcosa di diverso e, per quanto riguarda la specie umana, di più importante: la sopravvivenza di una cultura, e di un popolo che di quella cultura è esponente. Salvare una cultura è un'opera di bene infinitamente grande.

    Ida Magli, il Giornale, 25 giugno 2000

  4. #4
    email non funzionante
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    ancor piu' su!

  5. #5
    SIEMPRE COSTANTE PLVS OVTRE!
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    Romæ Urbis ResPublica - Descendit ex Patribus Romanorum - Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile.
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    Ma perché c'avete tutti sto vizio de incollare interi volumi? Non sarebbe meglio fare un riassunto personale sui punti più significativi?

  6. #6
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    Citazione Originariamente Scritto da Fiorillus Magno Visualizza Messaggio
    Ma perché c'avete tutti sto vizio de incollare interi volumi? Non sarebbe meglio fare un riassunto personale sui punti più significativi?
    Ma lo sai che hai ragione?! Senti questa: lui e lei si amano, poi arriva uno che rompe i coglioni, uno fugge di qua l'altra di la alla fine quello muore e loro si sposano. I Promessi Sposi
    Daca!

  7. #7
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    Ma perché c'avete tutti sto vizio de incollare interi volumi? Non sarebbe meglio fare un riassunto personale sui punti più significativi?
    Ma lo sai che hai ragione?! Senti questa: lui e lei si amano, poi arriva uno che rompe i coglioni, uno fugge di qua l'altra di là alla fine quello muore e loro si sposano. I Promessi Sposi
    Daca!

 

 

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