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    Predefinito Ma Benedetto XVI considera "papa" Paolo VI? Una riflessione

    Cari amici, forumisti e guests, volevo sottoporre alla vostra attenzione una rilfessione, che da giorni mi passa per la mente. Mi domando, infatti, da tempo se Papa Benedetto XVI consideri come suo legittimo predecessore Giovanni Battista Montini, Paolo VI.
    Forse taluno storcerà il naso a questa mia riflessione. Non vorrei, però, che taluno, assai superficiale, cominci a sostenere che il sottoscritto sia sedevacantista. Tutt'altro. Quello che voglio compiere è una riflessione piana e corretta.
    Spiegherò, ovviamente, le ragioni che mi fanno avanzare qualche dubbio e che mi hanno fatto sorgere l'interrogativo.
    Nel recente M.P. Summorum Pontificum, espressamente, all'art. 1 si attesta, in un inciso, che l'antico rito, promulgato da S. Pio V, più volte rimaneggiato dai Pontefici e da ultimo dal Beato Giovanni XXIII nel 1962, è "numquam abrogatam", cioè "mai abrogato". Fin qui nulla di strano se non fosse che, invece, quel rito era stato effettivamente abrogato e sostituto dal Novus Ordo.
    Paolo VI era stato chiaro in tal senso. Questi, nell'Allocuzione al Concistoro segreto del 24 maggio 1976, dichiarò espressamente: “... È nel nome della Tradizione che noi domandiamo a tutti i nostri figli, a tutte le comunità cattoliche, di celebrare, in dignità e fervore la Liturgia rinnovata. L'adozione del nuovo Ordo Missae non è lasciata certo all'arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli: e l'Istruzione del 14 giugno 1971 ha previsto la celebrazione della Messa nell'antica forma, con l'autorizzazione dell'ordinario, solo per sacerdoti anziani o infermi, che offrono il Divin Sacrificio sine populo. Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all'antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo Predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il Messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio Tridentino.
    La stessa disponibilità noi esigiamo, con la stessa autorità suprema che ci viene da Cristo Gesù, a tutte le altre riforme liturgiche, disciplinari, pastorali, maturate in questi anni in applicazione ai decreti conciliari
    ”.
    Paolo VI, dunque, nel pieno della propria potestà, aveva abolito l'antico rito, così come - diceva Montini - aveva fatto "il nostro santo Predecessore Pio V". Se si legge poi il testo della Costituzione apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969, Paolo VI stabiliva che il nuovo rito, similmente a quanto compiuto da S. Pio V, rappresentasse "fattore di unità liturgica e segno della purezza del culto della Chiesa" e fosse "accolto dai fedeli come mezzo per testimoniare e affermare l'unità di tutti". Per di più egli quanto stabilito ordinava rimanesse "valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere in contrario nelle Costituzioni e negli Ordinamenti Apostolici dei Nostri Predecessori e in altre disposizioni. anche degne di particolare menzione e deroga".
    Dal contesto e dalle espressioni adoperate, sembra evidente che Paolo VI abrogava l'antico rito. Questa del resto era ancora la convinzione dell’artefice della Riforma Liturgica, Mons. Annibale Bugnini, che espressamente manifestò tale convincimento (cf A. Bugnini, La riforma liturgica 1948-1975, CLV Edizioni Liturgiche, Roma, 1983, pp. 297-299). Già 25 anni fa, quando un monaco inglese scriveva al Cardinale Siri di Genova, chiedendogli come si dovesse comportare in campo liturgico nel dubbio tra vecchio e nuovo rito, egli rispondeva: "II potere col quale Pio V ha fissato la sua riforma liturgica è lo stesso potere di Paolo VI. L’aver riformato l’Ordo implica la sua sostituzione all’antico" (lettera del 6 settmbre 1982).
    Taluno, per vero, come Nicola Bux ha sostenuto che Paolo VI, in realtà, non avesse abolito espressamente l'antico rito. E francamente non mancano argomenti a questo riguardo. Nel suo Dossier sostiene che, contro questa tesi, vi sarebbero essenzialmente due argomenti: "Primo, alla Quo Primum possiamo, in ogni caso, applicare il can. 21 CIC: “In dubio revocatio legis praexistentis non praesumitur, sed leges posteriores ad priores trahendae sunt et his, quantum fieri potest, conciliandae”. Praticamente significa che , se la Messa antica ha perduto la sua posizione privilegiata, ciò nonostante continua ad esistere e il fedele ha diritto ad essa
    E qui sorge il problema.
    Secondo, la Costituzione Missale Romanum non ha esplicitamente abolito (come la legge richiedeva) l’uso immemorabile e universale su cui si basava la Messa antica, prima della Quo Primum (e dopo insieme ad essa). Perciò essa continua ad esistere malgrado forse non più protetta da una legge scritta. Questo era stato notato dagli studiosi, ma anche allora non era stata approvata alcuna legge supplementare per abolire quell’uso.
    L’arcivescovo Annibale Bugnini, che Paolo VI aveva incaricato della riforma liturgica post-conciliare, cercò di ottenere una norma esplicita affinché il Novus Ordo Missae del 1970 abrogasse la Messa antica, in modo che in seguito fosse soppressa de jure. Per ottenere tale norma dalla Pontificia Commissione per l’Interpretazione dei Documenti Conciliari, egli aveva bisogno del permesso del Cardinale Segretario di Stato. Il 10 Giugno 1974 il Segretario di Stato rifiutò di concedere il permesso richiesto fondamentalmente perchè ciò sarebbe stato visto come “avversione ingiustificata verso la tradizione liturgica” (A. Bugnini, The Reform of the Liturgy 1948-1975, Collegeville, Minnesota: The Liturgical Press, 1990, p. 300-301).
    ".
    Ma questi argomenti si scontrano con le stesse intenzioni di Paolo VI, che, nel Concistoro segreto del 1976, parlando contro Mons. Lefebvre - il quale sosteneva la non abolizione del rito di S. Pio V e respingeva tout court il messale promulgato dal Montini - espressamente ammetteva che il nuovo rito sostituiva l'antico, precisando come fosse una norma eccezionale quella che consentiva ai sacerdoti anziani e malati celebrare sine populo con l'autorizzazione del proprio Ordinario. Una delle poche eccezioni fu rappresentata da S. Pio da Pietrelcina che poté continuare a celebrare la Santa Messa secondo il rito di san Pio V fino alla morte, soltanto con un indulto personale ricevuto da papa Paolo VI in persona.
    L'interpretazione è avallata dalla Congregazione per il Culto Divino nel 1999. Questa, con lettera inviata all'allora arcivescovo di Siena, Mons. Bonicelli, attestava: "Sebbene nella Costituzione Apostolica Missale Romanum del Papa Paolo VI, non si trovi una formula esplicita di abrogazione del Missale Romanum di S. Pio V, è tuttavia chiara la volontà del supremo Legislatore liturgico di promulgare un testo rinnovato del «Missale Romanum» che prendesse il posto di quello fino ad allora in uso. Se la volontà del Pontefice fosse stata quella di lasciare in vigore le precedenti forme liturgiche come una alternativa di libera scelta, avrebbe dovuto dirlo esplicitamente. Rebus sic stantibus e alla luce della documentazione posteriore, come della prassi, si deve asserire che il «Missale Romanum» anteriore al Concilio Vaticano II non è piú in vigore come una alternativa di libera scelta per l’insieme delle Chiese che appartengono la Rito romano" (Congregazione per il Culto divino a Mons. Gaetano Bonicelli, Arcivescovo di Siena, 11 giugno 1999, prot. n. 947/99/L, Sulla celebrazione della liturgia tradizionale: v. QUI).
    Sempre lo stesso Dicastero, nella Risposta del 3 luglio 1999 (prot. 1411/99), Sulla norma vincolante per cui nessuno può impedire che un prete celebri secondo il rito moderno, anche se appartenente ad un Istituto che celebra solo col rito tradizionale, affermava esplicitamente: "II Messale Romano approvato e promulgato per autorità del Papa Paolo VI … è l’unica forma in vigore di celebrazione del Santo Sacrifìcio secondo il Rito Romano, in virtù dell’unico diritto liturgico generale".
    Gli argomenti, dunque, sostenuti da Mons. Bux vanno a farsi .... benedire .... .
    Alla luce di quanto esposto pare possibile applicare al nostro caso la seconda parte del can. 22 del Codice piano-benedettino, ripreso dal can. 20 del nuovo Codice (e non il 21 come sostiene Mons. Bux!), il quale dice: “una nuova legge àbroga la legge preesistente, quando lo dica espressamente oppure le sia direttamente contraria oppure riordini interamente tutta la materia della legge precedente”. La costituzione “Missale Romanum” di Paolo VI deve, dunque, rientrare necessariamente negli ultimi due casi, per i quali si dà un’abrogazione tacita e di fatto (detta piú esattamente “obrogazione”). Il legislatore, infatti, emanando una legge “direttamente contraria” alla precedente o quanto meno riordinandone “interamente tutta la materia”, mostra “chiaramente” di non volere piú la legge preesistente (cf. Felix M. Cappello, S. J., Summa Iuris Canonici, vol. I, 1961, n. 96).
    Non solo. Ma proprio il fatto che dal 1988 si parlasse di "indulto" lascia pensare che quanto esisteva in precedenza fosse abolito: l'indulto, infatti, da un punto di vista canonico, è un provvedimento grazioso, assimilabile ai c.d. decreti singolari o alle dispense, con il quale era concessa - per quanto ci riguarda - la grazia di celebrare secondo l'antico rito. Si trattava, dunque, di un provvedimento assolutamente particolare e, per sua natura, eccezionale, essendo la regola quella dell'abrogazione dell'antico rito.
    Ciò detto vengo alla questione.
    E' pacifico che Paolo VI avesse abolito il rito di S. Pio V. Ed allora perchè Benedetto XVI si spinge, in un atto legislativo, a sostenere che quel rito antico non è mai stato abrogato? E perchè prima di lui lo hanno sostenuto autorevoli esponenti della Curia Romana come il Card. Castrillón Hoyos?
    Se contro le intenzioni di papa Montini si sostiene che quel rito non è MAI stato abrogato - si è visto che l'argomento letterale sostenuto da Bux non regge - allora ciò vuol dire che quel "papa" non poteva abolire alcunché. E perchè mai? Perchè i suoi predecessori potevano farlo (e l'hanno fatto, modificando quel rito: da ultimo, nel 1962, Giovanni XXIII e qualche anno prima, nel 1951, Pio XII per i riti della Settimana Santa) e Paolo VI no? La risposta, dolorosa, è che si deve argomentare che egli non avesse l'autorità e, quindi, la potestà di abolire quel rito. La conclusione, inevitabilmente, è questa. E perchè mai non l'aveva? Forse che Benedetto XVI consideri Paolo VI come un non-papa? Ma questa conclusione aprirebbe altri fronti. Però la questione, tragica, rimane.

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    In un'intervista concessa alla rivista 30 Giorni nel settembre 2005, il Card. Castrillón Hoyos dichiarava senza mezze misure: "La messa di san Pio V non è mai stata abolita. Riguardo alla liberalizzazione, ricordo che sotto il pontificato di Giovanni Paolo II ci fu una riunione di tutti i capidicastero della Curia romana, in cui l’opinione largamente maggioritaria non era contraria a tale richiesta. Pericoloso sarebbe creare una contrapposizione del vecchio rito con il nuovo. La liturgia non può essere un campo di battaglia. Come sacerdote, come cardinale e come prefetto della Congregazione per il clero, provo un dolore grandissimo nel vedere il linguaggio inaccettabile con cui a volte viene trattata la volontà di Gesù di dare il proprio corpo e sangue, e di affidarli alla sua Chiesa. E questo vale per alcuni esponenti della Fraternità San Pio X, ma non solo".

  3. #3
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    Il cardinale Stickler conferma "La Messa tradizionale non è stata mai proibita".
    Già il termine "proibire" anziché "abolire" o "abrogare" sembra più esatto. Però è indubbio che, nell’ottobre del 1997, mons. Perl segretario dell’Ecclesia Dei, in una lettera ad un cattolico americano, scriveva che “la base legale per la celebrazione odierna della Messa latina tradizionale non consiste nella Bolla Quo Primum, ma nei documenti Quattuor abhinc annos (1984) e Ecclesia Dei (1988), i quali sono stati pubblicati per iniziativa del papa Giovanni Paolo II”.
    Circa la non abrogazione del rito di S. Pio V, si esprimeva anche il Card. Jorge Arturo Médina Estévez, originario del Cile, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino dal 1996 al 2002 e, quindi, all'epoca della lettera del 1999 all'arcivescovo Bonicelli (v. QUI). Forse nel 2005 questi aveva cambiato idea rispetto a quella che aveva nel 1999? Peccato però che, mentre quanto espresso nel 1999 - essendo contenuto in un documento ufficiale - fa esprime la convinzione, la certezza ufficiale di un Dicastero di Curia, quanto detto nel 2005 verosimilmente appare come un convincimento assolutamente personale.

  4. #4
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    Predefinito Un'ulteriore conferma del dubbio

    Manterrà Benedetto XVI le generose apeture del cardinale Ratzinger?

    Dante Pastorelli


    24/10/2005

    CITTA' del VATICANO - In data 22 ottobre 2005, il vaticanista Andrea Tornielli, su «Il Giornale», ha rivelato l'esistenza di un documento, ancora riservato, di sette cartelle, firmato dal cardinale nigeriano Francis Arinze, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e dal suo numero due, l'arcivescovo Domenico Sorrentino, che suggerisce al Papa di «rallentare o persino bloccare» una maggiore generosità nell'applicazione dell'indulto (1984 - 1988) concesso da Giovanni Paolo II, e, a maggior ragione quindi, di non procedere alla tanto attesa liberalizzazione della santa Messa di san Pio V, che sarebbe la misura necessaria per portare armonia e unità perfette nella Chiesa e un passo fondamentale per la soluzione del problema del cosiddetto, per molti alti prelati inesistente, «scisma» di monsignor Lefebvre.
    Ciò perché, a parere di Arinze, il messale di san Pio V è stato abrogato e pertanto il rito romano Antico non è più un rito della Chiesa cattolica.

    Più volte ci siamo occupati di questo argomento nel bollettino «Una Voce dicentes», consultando e discutendo documenti di numerosi alti ecclesiastici, canonisti e cardinali, anche a noi diretti.
    La conclusione di tutti costoro è che il messale preconciliare non è mai stato abrogato e, pertanto, se ne deduce che il suo uso non avrebbe neppure bisogno dell'approvazione dell'«ordinario», come invece impone l'indulto il quale, purtroppo, dalla stragrande maggioranza dei vescovi viene clamorosamente, dispoticamente ed immotivatamente disatteso.
    La gravissima ed inaspettata offensiva di Arinze contraddice clamorosamente, oltre ad alcuni suoi atteggiamenti che facevano ben sperare (ad esempio la presidenza dei Vespri tradizionali a Colonia e la saltuaria celebrazione della santa Messa tridentina), quanto sostenuto più volte dal cardinale Castrillon Hoyos, presidente della Commissione «Ecclesia Dei» per il quale l'antico rito è sempre in vigore ed ha pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa cattolica: in questi termini si espresse solennemente il 23 maggio 2003 nell'omelia in occasione della celebrazione della santa Messa antica in Santa Maria Maggiore a Roma.

    La posizione del cardinal Ratzinger è nota, essendo stata inequivocabilmente esplicitata in varie opere: severo il suo giudizio sul «Novus Ordo», sugli abusi liturgici e soprattutto sulla rottura con la tradizione liturgica perpetrata da Paolo VI, la quale, invece, ai suoi lungimiranti occhi rappresenta un'immensa ricchezza e non un ostacolo nella vita della Chiesa.
    Non per nulla, fra l'altro, dettò una laudativa introduzione ad un bel libro di monsignor Klaus Gamber («Tournés vers le Seigneur», edizione francese 1992), liturgista, da lui assai stimato, estremamente critico verso il rito paolino (si veda il suo «La Réforme liturgique en question», edizione francese 1992, con prefazione del cardinale Oddi).

    Il cardinale Jorge Arturo Medina Estevez, in una lettera del 21 maggio 2004 a noi inviata e pubblicata in «Una Voce dicentes» (luglio - dicembre 2004) dichiarava: «ribadisco il mio personale pensiero nel senso che non è provata l'abrogazione del messale di san Pio V, e posso aggiungere che nel Decreto, da me firmato, con la promulgazione della terza edizione tipica del Messale Romano, non c'è alcuna clausola di abrogazione della forma antica del rito romano. Dico 'della forma antica' perché non ci sono due 'riti romani', bensì due 'forme' di questo rito, il quale ha una sostanziale unità. E poi posso aggiungere che l'assenza di qualsiasi clausola di abrogazione non è casuale, né frutto di dimenticanza, ma voluta».

    Quando il porporato cileno firmò il decreto di cui sopra era prefetto della Congregazione del Culto Divino, predecessore, dunque, di Arinze.
    Come membro dell'«Ecclesia Dei» rimane dello stesso parere e ha manifestato la sua opinione in numerose interviste su fogli internazionali.
    Ma già nel 1986 Giovanni Paolo II aveva incaricato di occuparsi della delicata questione una commissione cardinalizia composta dagli eminentissimi Ratzinger, Mayer, Oddi, Stickler, Casaroli, Gantin, Innocenti, Palazzini, e Tomko.
    Alla Commissione furono sottoposte due precise domande:
    1) il papa Paolo VI ha autorizzato i vescovi a proibire la celebrazione della santa Messa tradizionale?
    2) il prete ha il diritto di celebrare la santa Messa tradizionale in pubblico e in privato senza limitazioni, anche contro la volontà del suo vescovo?

    Alla prima domanda la Commissione rispose, con 8 voti a favore ed 1 contrario, che il Papa Paolo VI non aveva proibito la celebrazione della santa Messa secondo il rito tradizionale; alla seconda, e questa volta all'unanimità, che i preti non potevano essere obbligati a celebrare la santa Messa secondo il nuovo rito; i vescovi non potevano proibire, né porre limitazioni, alla celebrazione della santa Messa secondo il rito tradizionale, sia in pubblico sia in privato.

    Purtroppo bisogna anche riconoscere che nella stessa «Ecclesia Dei» non mancano contraddizioni e tendenze discordanti.
    Fra l'altro essa sembra tendere non tanto ad appoggiare le richieste dei fedeli che amano il rito di san Pio V, quanto piuttosto, aggirando i documenti di Giovanni Paolo II in materia (la lettera «Quattuor abhinc annos» ed il «motu proprio» «Ecclesia Dei adflicta») che, sia pur per via d'indulto, permettono l'utilizzo del messale del 1962, a promuovere un nuovo rito raffazzonato, un indigesto «mix» di messale di san Pio V e di quei messali del 1965 e del 1967, sempre opera di Papa Montini, i quali, sulla base di una falsa ed interessata interpretazione della «Sacrosanctum Concilium», il venerando rito adulterano, stravolgono, offendono con tagli ed introduzione di elementi che quel rito non può assolutamente comportare: sperimentazioni che porteranno al «Novus Ordo».

    Qualcuno, poi, pensa addirittura di limitarsi ad «offrire» ai «tradizionalisti» un rito paolino qua e là rivisto e migliorato nelle sue carenze più evidenti.
    Ora, il cardinale Arinze sembra appartenere a questa corrente se alza barriere di tal fatta, sempre che risponda a verità quanto riferito dal Tornielli, che è giornalista solitamente ben infornato.
    E questo crea tormentosi problemi spirituali ai fedeli che vedono nella santa Messa di sempre lo strumento più valido per la loro santificazione, e si trovano ancora una volta posti davanti a quella dolorosa «necessità di opzione» sottoscritta dai cardinali Ottaviani e Bacci presentando al Papa il «Breve esame del Novus Ordo Missae».
    Cosa farà Benedetto XVI?
    Il cardinale Ratzinger, il 4 ottobre 2003, così ci scriveva:

    «Illustrissimo professore,
    ho ricevuto la Sua stimata lettera del 30 maggio u.s. con gli allegati, e La ringrazio.
    I due numeri della Sua rivista 'Una Voce' contengono articoli molto interessanti sulla situazione dei fedeli cattolici legati al rito romano antico in Italia e specialmente in Toscana. Purtroppo, la Sua constatazione si avvicina molto alla verità, che i fedeli attaccati alla tradizione liturgica latina 'incontrano spesso ostilità e resistenza', e Lei aggiunge non senza amarezza 'anche nell'Episcopato'.
    Desidero, però, assicurarLe che la Santa Sede si è impegnata da tempo a cambiare quella situazione, chiedendo il rispetto delle giuste aspirazioni di questi fedeli. Naturalmente, un tale cambiamento prende forma soltanto lentamente, anche perché suppone un cambiamento di mentalità, che, in tutti i campi - come Lei sa bene - prende molto tempo.
    Il paziente lavoro dei gruppi di UNA VOCE e altri raggruppamenti finirà a far accettare i provvedimenti della Santa Sede in materia, che forse si faranno ancora più pressanti in futuro.
    Mando volentieri la mia benedizione sul Suo gruppo di Firenze, sulla Sua famiglia e la Sua persona della quale mi confermo con distinto ossequio»

    Suo nel Signore
    Joseph card. Ratzinger

    A questa lettera dell'attuale sommo Pontefice, che abbiamo riprodotto due volte in «Una Voce dicentes» (numeri luglio-dicembre 2003 e gennaio-giugno 2005), noi fedeli integralmente cattolici ci attacchiamo, come a tanti suoi saggi pronunciamenti, per nutrire la nostra speranza di vederci accogliere come veri figli e non figliastri (nella Chiesa non esistono cittadini di serie B, ci assicurò in Santa Maria Maggiore il cardinale Castrillon Hoyos), e soprattutto confidiamo nell'assistenza dello Spirito Santo che saprà guidare il Vicario di Cristo sulla via del definitivo paterno abbraccio che, dopo tanti forti segnali precedenti, non ci potrà negare per l'amore che porta alla Sposa di Cristo della cui gloria ed esaltazione - che comportano la perfetta unità interna - è responsabile davanti a Dio ed alla storia.

    Dante Pastorelli

    FONTE

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    Predefinito Posto un interessante articolo, che dimostra come Paolo VI avesse "abrogato"

    Dibattito - Riforma liturgica

    Riflessioni e domande
    Il motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum e la sua recezione


    La lettera apostolica motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970 e l'allegata Lettera ai vescovi, pubblicate il 7 luglio scorso, hanno prodotto un profondo dibattito nella Chiesa cattolica. Le intenzioni del papa appaiono indiscutibili: fare quanto è possibile, senza smentita del concilio Vaticano II, per riconciliare alla Chiesa i «tradizionalisti» e sanare il processo di separazione e di rottura avvenuto nel post-Concilio. Per questo il papa intende offrire la possibilità in via extra-ordinaria, e non più solo per indulto, di celebrare la messa secondo il rito di Pio V, nell'edizione del 1962. Benedetto XVI è fedele alle sue convinzioni di teologo: l'ermeneutica del Vaticano II è di sostanziale continuità e non ammette discontinuità e contraddizioni con la grande tradizione cattolica, che opera non attraverso fasi di rottura, bensì attraverso un processo di crescita organica. Così facendo il papa toglie anche ogni argomento al «tradizionalismo». Infine egli stabilisce, secondo una prospettiva pastorale, una fase di sperimentazione del provvedimento stesso, lasciando spazio per una revisione della decisione. Per questa logica interna al provvedimento è utile dare voce soprattutto a quegli aspetti effettivi che si annunciano come più problematici sia dal lato ecclesiologico, sia da quello pastorale. È quanto cerchiamo di fare attraverso il presente dibattito, le informazioni e i documenti che seguiranno.

    Il lettore che si è accostato al testo del motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum sull'uso della «liturgia romana anteriore alla riforma liturgica del 1970» e alla Lettera ai vescovi che l'accompagna sarà rimasto immediatamente colpito da una sensazione di spaesamento.

    La causa di questa comprensibile reazione si trova nel particolare coraggio - oserei dire nell'audacia - con cui Benedetto XVI ha voluto affrontare la questione spinosa della comunione e dell'unità della Chiesa in contesto liturgico. La sua strategia consiste in una rilettura della storia dell'ultimo secolo che, pur mantenendo uno stile profondamente classico, produce una riflessione caratterizzata da un approccio di tale novità, da condurre appunto il lettore sulla soglia dello stupore.

    Per questa via si ha quasi la sensazione di essere di fronte alla configurazione autorevole di una «realtà virtuale», orientata decisamente al superamento delle contrapposizioni ecclesiali, ma dotata di un impatto complesso e non poco problematico sulla «realtà reale», nella sua concretezza quotidiana e nella sua mondana opacità. E ciò va rilevato, come ha fatto anche il card. C. Ruini (cf. Avvenire 8.7.2007), per evitare «il rischio che un motu proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla».

    Per tentare un'interpretazione complessiva del documento e dei suoi possibili effetti vorrei anzitutto presentarne il contenuto e le intenzioni, per poi valutare, con rispetto critico e in un leale dialogo nella comunione, l'impatto sulla realtà reale che una tale ricostruzione normativa (come «realtà virtuale») potrebbe avere, nel futuro aperto della Chiesa e della liturgia.

    Due usi dello stesso rito

    Il testo del motu proprio esordisce con una lunga premessa di carattere storico, che, muovendo da Gregorio Magno per giungere fino a Giovanni Paolo II, illustra il cammino del rito romano, trovandovi un passaggio decisivo nell'opera di san Pio V, promotore di quel Messale romano che, «col passare dei secoli, a poco a poco prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi più recenti». Si giunge così alla riforma voluta dal concilio Vaticano II e al messale riformato di Paolo VI, che, tradotto in tutte le lingue del mondo, è stato accolto di buon grado da vescovi, sacerdoti e fedeli. E tuttavia si ricorda che già nel 1984 e poi nel 1988 fu necessario, da parte di Giovanni Paolo II, concedere a «non pochi fedeli» l'indulto per poter usare le «antecedenti forme liturgiche, che avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito».

    A partire da questa considerazione storica, il motu proprio Summorum pontificum decide di procedere a un nuovo tipo di regolamento della questione. Nel ribadire che il Messale di Paolo VI rimane «espressione ordinaria della lex orandi» della Chiesa cattolica di rito latino, s'afferma che il Messale tridentino, nell'edizione di Giovanni XXIII del 1962, dev'essere considerato espressione extra-ordinaria della stessa lex orandi (cf. art. 1). Vi sono dunque due usi di un'unica lex orandi, comune a Pio V e Paolo VI. Di qui deriva che «è lecito celebrare il sacrificio della messa secondo il Messale tridentino del 1962», che si ritiene «mai abrogato».

    Le condizioni di tale celebrazione sono definite dai successivi 11 articoli: nelle messe «senza il popolo» vi è pieno parallelismo dei due «usi», salvo nel Triduo pasquale (cf. art. 2); tale possibilità è estesa anche alle messe conventuali, salvo le competenze dei superiori maggiori (cf. art. 3); precisato che alle messe senza il popolo può essere ammesso anche ogni fedele che lo desideri (cf. art. 4), si passa a determinare la disciplina per le messe con il popolo, dove un gruppo di fedeli «aderenti alla precedente tradizione liturgica» può vedere celebrata secondo la forma extra-ordinaria la messa feriale, una sola messa domenicale o festiva, oltre che celebrazioni in caso di matrimonio, di esequie o di pellegrinaggi (cf. art. 5): le letture in questi casi possono essere anche in lingua vernacola (cf. art. 6). Se il parroco non risponde a queste esigenze, il vescovo potrà provvedere o rivolgersi alla Pontificia commissione «Ecclesia Dei» per riferire e ricevere consigli e aiuti (cf. artt. 7-8). In taluni casi al parroco è attribuita anche la facoltà di celebrare secondo l'uso più antico il battesimo, il matrimonio, la penitenza e l'unzione degli infermi, così come agli ordinari di celebrare la confermazione con il precedente Pontificale romano, e ai chierici di usare il Breviario romano del 1962 (cf. art. 9).

    Infine, s'ipotizza il caso di erezione di parrocchie personali per assicurare la celebrazione secondo l'uso più antico (cf. art. 10), e si definiscono le nuove competenze della Pontificia commissione «Ecclesia Dei», che vigila sull'applicazione di tutte queste disposizioni (cf. artt. 11-12).

    La riforma liturgica non viene intaccata

    La lettera che Benedetto XVI ha indirizzato ai vescovi in occasione della pubblicazione del motu proprio ha tre nuclei tematici importanti. I primi due sono timori manifestatisi negli ultimi mesi e che il vescovo di Roma vuole chiarire anzitutto ai confratelli vescovi.

    Anzitutto la lettera esclude che l'autorità del concilio Vaticano II venga intaccata da parte delle disposizioni del motu proprio, visto che si ribadisce che la forma ordinaria e normale del Messale romano rimane quella promulgata da Paolo VI. E si ricostruisce poi la storia della presenza - accanto al Novus ordo - dell'Ordo precedente, fino alla normativa attuale, che rimedia a ciò che «nel 1988 non era prevedibile», per concludere dicendo: «Queste norme intendono anche liberare i vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da rispondere alle diverse situazioni».

    Il secondo timore è quello di chi ipotizza che questo parallelismo di forme rituali possa portare «a disordini o addirittura a spaccature nelle comunità parrocchiali». Ciò viene escluso per il fatto che l'uso del messale antico «presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; sia l'una che l'altra non si trovano tanto frequentemente». Si punta invece sul «reciproco arricchimento» delle due forme rituali.

    Infine, come terzo punto, la lettera espone la «ragione positiva» che ha motivato Benedetto XVI in questa sua nuova regolamentazione: ossia «di giungere a una riconciliazione interna nel seno della Chiesa», facendo tempestivamente ogni sforzo possibile per garantire l'unità. E si formula poi la tesi che il motu proprio ha tradotto in normativa: «Non c'è nessuna contraddizione tra l'una e l'altra edizione del Missale romanum. Nella storia della liturgia c'è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Questo comporta anche una necessaria reciprocità: «Anche i sacerdoti delle comunità aderenti all'uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi». In conclusione, la lettera ai vescovi prevede che, tre anni dopo l'entrata in vigore del motu proprio Summorum pontificum, i vescovi riferiscano alla Santa Sede sulle esperienze e sulle difficoltà venute alla luce.

    Intenzioni ed effetti

    Una volta considerati i contenuti del motu proprio e della Lettera ai vescovi, occorre valutarne appieno le intenzioni e gli effetti, secondo quanto annunciato già all'inizio di questo resoconto. Naturalmente, a questo punto, il teologo sa di dover usare l'intellectus fidei. Sulla base di questa «vocazione ecclesiale del teologo» penso di dover individuare cinque grandi questioni, che meritano una pacata e urgente riflessione ecclesiale.

    La questione giuridica: quale rito è vigente?

    Già san Tommaso d'Aquino sosteneva che «se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota». Questo ammonimento pretridentino vale anche quando con la nostra testa valutiamo accuratamente le affermazioni postridentine contenute nel motu proprio di Benedetto XVI, in cui si sostiene, per due volte, che «il rito di Pio V non è mai stato abrogato».

    L'affermazione suona apodittica, senza alcuna giustificazione se non il fatto - certamete rilevante - che viene pronunciata dal papa stesso. Ma ciò non ci deve impedire di notare che una serie di altre affermazioni che restano non contestate e del tutto valide constata una cosa sostanzialmente diversa: il can. 20 del Codice di diritto canonico, una famosa risposta della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti del 1999 -1 ma anche la sapienza tradizionale del card. Giuseppe Siri -2 ci ricordano come l'approvazione di un nuovo rito romano (dell'eucaristia come di ogni altra liturgia) conduca inevitabilmente il rito precedente a essere sostituito da parte del nuovo.

    Come c'è un elementare bisogno di certezza del diritto, così c'è un primario bisogno di «certezza del rito». Ora, sulla base di tutto ciò, la «doppia forma contemporanea» viene solo affermata, ma non fondata, e dunque si presume il principio generale: ossia che il rito romano più recente sostituisca il rito romano meno recente, e in tal caso il conflitto non si dà perché un solo rito, una sola forma e un solo uso sono vigenti, secondo il principio di diritto comune.

    Questo principio tradizionale, unito al fatto che i due predecessori di Benedetto XVI hanno diversamente valutato il rito postconciliare come l'unico effettivamente in vigore, utilizzando la logica dell'indulto per fare eccezione, costituisce un'obiettiva questione che dovrà essere ulteriormente chiarita, per non lasciare alcuna ambiguità su tutto il resto dell'argomentazione. Per autorità si obbedisce, ma la ragione desidera anche altro. Per citare Agostino: «Ad discendum item necessario dupliciter ducimur, auctoritate atque ratione. Tempore auctoritas, re autem ratio prior».3

    La questione teologica: qual è il ruolo della lex orandi?

    «Lex orandi statuat legem credendi» («la liturgia stabilisca la fede della Chiesa»). Questa famosa espressione di Prospero di Aquitania sta sullo sfondo dell'articolo più importante del motu proprio Summorum pontificum (cf. art. 1) ed è una delle bandiere del movimento liturgico, in quanto stabilisce l'originarietà dell'azione liturgica per l'atto di fede. Di essa, tuttavia, il testo del motu proprio propone una rilettura che introduce una distinzione originale e carica di conseguenze: il rapporto tra lex orandi e lex credendi è preceduto dal rapporto tra due diversi usi (o espressioni, o forme) rituali e una sola lex orandi. Ciò significa che qui l'espressione lex orandi non s'identifica con il rito, ma con il significato del rito stesso.

    Introducendo questa distinzione, il motu proprio assolve, nello stesso momento, a due diversi compiti: apre uno spazio per avvicinare due usi diversi, conciliandoli in un'unica lex orandi ed evitando che due diverse leges orandi possano dar vita a due diverse professioni di fede; ma nello stesso tempo allontana la lex orandi dalla concretezza rituale che la contraddistingue. Se lex orandi non significa più il rito concretamente celebrato, ossia un ordo specifico, ma una sua dimensione essenziale, invisibile e/o concettuale, allora la funzione originaria del rito per la fede tende a passare irrimediabilmente in secondo piano.

    Qualcuno, che non avesse la sensibilità liturgica di Benedetto XVI, potrebbe addirittura leggere questa distinzione come la sostanziale subordinazione della celebrazione a evidenze puramente dogmatiche, di cui i due «usi» costituirebbero traduzioni pratiche meramente conseguenti e per nulla originarie. In altri termini, l'articolazione dell'unica lex orandi in due forme alternative ripristinerebbe il primato della teologia sulla liturgia, perdendo così uno dei guadagni più cospicui del movimento liturgico.

    Ancora, se si dice che vi è un unico rito in due usi diversi, come mai si parla storicamente di due ordines diversi? L'ordo è solo un uso di un rito, o è invece il rito in quanto tale? E una differenza di ordines comporta o no una differenza rituale di lex orandi? Per rispondere a queste domande dovremmo meditare sul rapporto che il motu proprio può avere con alcune affermazioni della recente esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (cf. Regno-doc. 7,2007,193ss): quale teologia dei sacramenti potrà svilupparsi dalla celebrazione - secondo il primato dell'azione liturgica di cui al n. 34 dell'esortazione - se azioni diverse non mutano né lex orandi né lex credendi?4

    In secondo luogo, mi chiedo se la stessa distinzione tra uso ordinario e uso extra ordinario sia una distinzione di fatto o di diritto. Circa questo punto, che come abbiamo già visto appare teoricamente decisivo, restano alcune non irrilevanti perplessità, legate sia alla distinzione in quanto tale, sia all'effettiva equiparabilità tra i due diversi usi.

    Come distinzione de facto sarebbe priva di forza normativa autentica, mentre come distinzione de iure troverebbe confermata tutta la sua autorità. Ma dal tenore del testo potrebbe spesso desumersi - certo con un'interpretazione estensiva, ma possibile - che ciò che di fatto è ordinario dovrebbe diventare extra-ordinario, mentre ciò che di fatto è extra-ordinario dovrebbe de iure intendersi come ordinario. Non sembra esserci una vera pedagogia dell'ordinario rispetto all'extra-ordinario. L'assenza di controllo episcopale in loco circa il rapporto tra i due diversi usi inclina ulteriormente a ritenere che la distinzione non sia sufficientemente chiarificata nella sua natura de iure, rischiando di porre in crisi la pastorale ordinaria, non più controllabile in relazione alla liturgia, quando manca di un primato de iure chiaramente vincolante per tutti.

    Inoltre resta non del tutto chiarita l'effettiva possibilità di trattare in modo paritario le due forme, di cui la più recente non è altro che il frutto della meditata riforma meno recente. In altri termini, è ben difficile che una liberalizzazione del rito più antico non possa suscitare una grave tensione in coloro che seguono il rito più recente, i quali inevitabilmente sentono il rito più antico come superato, riformato, emendato dal proprio. I due usi non sono autonomi: uno è la risposta alla crisi dell'altro e perciò non può non sentire come un grave disagio il riapparire dell'antico accanto a sé, come se nulla fosse stato. Per di più, l'affiancamento di due usi paralleli, che si presenta come un «aggiungere senza nulla togliere», in realtà introduce un elemento di disparità tra un uso «strutturalmente plurale», come quello di Paolo VI - che si presenta nella varietà delle lingue e degli adattamenti a esso costitutivi - e la monolitica univocità del rito tridentino, solo in latino e senza adattamenti di sorta.

    La questione pastorale: garanzia di comunione ecclesiale e/o libertà di rito?

    Nell'anno 2001, in un convegno svoltosi nell'Abbazia di Fontgombault (Francia), il card. J. Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, sosteneva che l'auspicabile estensione del rito tridentino nell'uso ecclesiale doveva essere temperata dalla garanzia episcopale dell'unità liturgica nella diocesi.5 Il motu proprio abolisce le logiche dell'indulto del 1984 e del 1988, che attribuivano all'autorità episcopale locale la possibilità di concedere le autorizzazioni necessarie per fare eccezione a una regola chiara. Tale logica si fondava appunto sull'ammissione che un solo rito è vigente, mentre un altro ha una praticabilità limitata, problematica e condizionata, che fa eccezione alla sua normale condizione di «rito non più in vigore».

    Aver modificato la logica, sostituendola con il parallelismo tra due usi (o forme) del medesimo rito, pone di nuovo la questione: come potranno i vescovi assicurare la comunione ecclesiale sul piano liturgico, discernendo tra uso ordinario e uso extra ordinario? In che modo potranno impedire che si crei un bi-ritualismo conflittuale e che s'introducano così divisioni, dissidi e incomprensioni nel corpo ecclesiale, non solo in ambito liturgico ma anche nella catechesi, nella formazione, nella testimonianza, nella carità? Il dettato del documento rimane sul tema molto vago - per non dire insensibile -, attribuendo per di più una competenza dirimente - che scavalca le competenze ordinarie della Congregazione per il culto divino - alla Pontificia commissione «Ecclesia Dei», che nella sua storia recente non pare affatto accreditarsi come organo sufficientemente super partes.

    La questione liturgica: che ne è della riforma?

    Sia le interviste che hanno anticipato e accompagnato il documento, sia il tenore della stessa Lettera ai vescovi ripetono insistentemente l'assenza di ogni intento critico nei confronti della riforma liturgica realizzata in seguito alle direttive del Vaticano II. E di questo non si può dubitare, almeno per quanto riguarda le intenzioni profonde che animano il documento.

    Circa gli effetti oggettivi, tuttavia, nessuno potrà negare che la riforma liturgica, in seguito alla pubblicazione del motu proprio Summorum pontificum, rischia di vedere potentemente relativizzato il proprio significato e la propria storica portata. Non sarebbe più in grado d'indicare la via maestra della celebrazione, della formazione, della spiritualità, dell'edificazione, ma rappresenterebbe solo un'aggiunta - pur ragguardevole - a una tradizione precedente, che si ristabilirebbe intatta, con tutti i suoi riti e i suoi calendari, come se nulla fosse, aggiornando gli orologi ecclesiali al 1962.

    La Chiesa potrà vivere, contemporaneamente, nel 2007 e nel 1962, subordinando la scelta non alla discrezione del vescovo, ma alla decisione dei fedeli e/o alla scelta libera del singolo presbitero. La riforma liturgica, che aveva la necessità di riformare il rito romano tridentino per garantire la partecipazione attiva, risulterebbe così ridotta a una semplice possibilità eventuale e ulteriore, incapace d'incidere sulla tradizione antica e alta della messa, che risulterebbe così «irreformabile». Una tale ipotesi d'impatto effettuale del motu proprio costituirebbe, a tutti gli effetti, una rilettura riduttiva delle intenzioni e delle profezie conciliari.

    Essa potrebbe correre il rischio di dimenticare che i nn. 47-57 della Sacrosanctum concilium chiedono di riscoprire nell'eucaristia la ricchezza biblica, l'omelia, la preghiera dei fedeli, la lingua volgare, l'unità delle due mense, la comunione sotto le due specie e la concelebrazione. Si deve invece ricordare che neppure uno solo di questi sette elementi si trova nel rito tridentino, e che per renderli nuovamente presenti è stato necessario procedere alla sua riforma, per consentire al rito romano di ritrovare solo così una ricchezza altrimenti perduta.

    Quale Chiesa potrebbe privarsi oggi di queste ricchezze senza perdere molto, moltissimo della sua capacità di testimonianza? E perché mai, in questo caso, la legge dovrebbe essere percepita come «pura regolazione dell'esistente», senza assumerne tutta la potenza pedagogica e formativa che in altri casi è stata tanto invocata e sottolineata?

    La questione «di fatto»: chi sarà in grado di celebrare nel «rito antico»?

    A furia di parlare di un «altro rito» è possibile convincersi che esso sia una cosa direttamente fruibile e gestibile, semper et ubique, da chiunque.

    In realtà non è così. Si può presiedere o assistere al rito «antico» solo se si è stati accuratamente formati a ciò, come ammette lucidamente la Lettera ai vescovi. La difficoltà radicale di quest'ipotesi sta scritta irreversibilmente nella storia effettuale della Chiesa degli ultimi quarant'anni, da quando cioè noi formiamo i cristiani e gli stessi preti - almeno nel 95% delle diocesi - secondo le lingue, le culture, le teologie e le spiritualità scritte nei gesti e nei silenzi, nei testi e negli stili, nei riti e nei canti della nuova liturgia.

    Ciò è tanto vero per le menti e talmente radicato nei corpi, da portarci a credere che se domani qualche cristiano in buona coscienza si recherà dal proprio parroco per chiedere la celebrazione della messa secondo il rito di Pio V, potrà sentirsi rispondere, in totale buona fede: «Mi perdoni, ma non ne sono capace: questa non è né la Chiesa né la liturgia in cui ho imparato a credere, a vivere e a pregare». Noi tutti, che siamo stati formati dopo il concilio Vaticano II - e siamo ormai la stragrande maggioranza nella Chiesa - siamo oltre la messa di Pio V: lo si voglia o no, indietro non si torna. Nella pastorale ordinaria della stragrande maggioranza delle diocesi non si dà più alcun uso antico realisticamente praticabile.

    Un bilancio aperto

    Di recente, in un articolo favorevole al ripristino della messa antica (Repubblica 3.7.2007), René Girard affermava: «L'unità porta conflitto, il pluralismo porta la pace».6

    Se leggiamo il motu proprio Summorum pontificum, non troviamo in fondo un argomento molto simile? Non sarà invece che l'unità possa garantire una certezza di comunione, che invece la pluralità potrà scalfire, insinuando in ognuno la tentazione di essere l'unica e «vera» Chiesa? E non potrebbe essere, forse, che proprio questa svolta tradizionale della liturgia ecclesiale si lasci comprendere come una logica insolitamente liberale e secolarizzata del suo linguaggio e del suo pensiero? La libera scelta, in liturgia, non potrebbe essere letta da qualcuno come indifferenza verso la liturgia e come l'affermarsi di una sorta di gnosi cristiana?

    Non certo sul piano delle intenzioni, ma sul piano di questa obiettiva e indiscutibile potenzialità dissonante del motu proprio rispetto alle prospettive della riforma liturgica, la teologia e la pastorale non possono non sollevare il proprio legittimo e leale rilievo critico, perché la comunione della Chiesa non subisca un grave vulnus liturgico e perché la liturgia possa continuare a essere culmen et fons e non mera esplicazione variabile e negoziabile della lex credendi.

    Per tutti questi motivi, a me pare che la nobile intenzione di riportare la pace e la concordia nella liturgia cattolica abbia impiegato strumenti talmente moderni e arditi, da potersi prestare a letture che minacciano di compromettere la storia di questi ultimi qarant'anni di movimento liturgico. In effetti, se dobbiamo essere d'accordo sull'esigenza che il movimento liturgico non è finito con il concilio Vaticano II e con la riforma, ma che continui anche dopo questi eventi, ciò si giustifica proprio in nome di una tradizione che ha bisogno non solo della difesa di un passato acquisito, ma anche dell'insostituibile ricchezza di un presente complesso e di un futuro aperto: «Il persistere in una forma della liturgia di cui si pretende l'immutabilità può certo soddisfare il forte desiderio psico-religioso di continuità, ma non può realizzare l'esigenza di cogliere "l'ora della grazia"».7

    Lo «sviluppo organico» della tradizione liturgica comporta inevitabili svolte, con una continuità che ha bisogno di alcune vitali discontinuità. Come accade alle generazioni - dove il figlio è pienamente figlio solo quando il padre non c'è più - un rito di Paolo VI, che avesse sempre accanto il rito di Pio V, resterebbe perennemente infantile e fragile; mentre un rito di Pio V che non si rassegnasse a perdersi nel figlio, cadrebbe in un paternalismo invadente e in un moralismo senza vera fiducia.

    Se si volesse negare questo provvidenziale stacco, allora il motu proprio che pure non manifesta mai quest'intenzione, si presterebbe troppo facilmente a essere letto come un avallo a una lettura della tradizione non dinamica ma statica, non vitale ma monumentale e archeologica: dove nulla si perde, tutto si accumula, ma niente è più vivo. E a ragione, per scongiurare letture di questo tipo, bisognerebbe ricorrere a quello che M. Blondel diceva, cent'anni or sono, a difesa della dinamicità costitutiva della tradizione: «Invece di pensare che l'idea di sviluppo, che preoccupa tanti credenti, sia eterodossa, è piuttosto il fissismo (...) a essere un'eresia virtuale».8 Distinguendo tra lex orandi e «usi» della stessa lex, il motu proprio apre alla possibilità di questo rischio: una cosa è ciò che dice e altro sarà l'uso che probabilmente se ne vorrà fare.

    Andrea Grillo

    ----------------------------------------------------------------
    NOTE

    1 Il can. 20 del Codice di diritto canonico recita: «Lex posterior abrogat priorem aut eidem derogat, si id expresse edicat aut illi sit directe contraria, aut totam de integro ordinet legis prioris materiam» (la legge posteriore abroga la precedente o deroga alla medesima, se lo indica espressamente, o è direttamente contraria a quella, oppure riordina integralmente tutta quanta la materia della legge precedente). Coerentemente con questo principio, la risposta della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti del 3 luglio 1999 (prot. 1411/99) dice esplicitamente che il Messale romano approvato e promulgato per autorità del papa Paolo VI è l'unica forma in vigore di celebrazione del santo sacrificio secondo il rito romano, in virtù dell'unico diritto liturgico generale (cf. EV 18/1256).

    2 Già 25 anni fa, quando un monaco inglese scriveva al card. Siri di Genova chiedendogli come si dovesse comportare in campo liturgico nel dubbio tra vecchio e nuovo rito, egli rispondeva: «Il potere col quale Pio V ha fissato la sua riforma liturgica è lo stesso potere di Paolo VI. L'aver riformato l'Ordo implica la sua sostituzione all'antico» (lettera del 6.9.1982).

    3 Aureli Augustini, De ord., II, 26: «Per imparare dobbiamo avere due guide: l'autorità e la ragione. L'autorità ha un primato temporale, la ragione un primato sostanziale».

    4 Si può fare un solo esempio: se iniziare la messa «senza il popolo» oppure «quando il popolo si è radunato» è indifferente per la teologia eucaristica, ciò significa, nella sostanza, che l'azione liturgica non ha nulla da dire alla teologia del sacramento, e che la teologia è sostanzialmente autonoma rispetto alla liturgia.

    5 Cf. Au tour de la question liturgique. Avec le cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault, 22-24.7.2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault 2001.

    6 La paradossale lettura che Girard propone del provvedimento papale giunge al suo culmine quando ne sintetizza così il pensiero: «Se si fanno delle regole assolute si può star certi che si verificherà un conflitto. Se invece non si impone una normativa rigida, non ci saranno scontri perché non ci saranno discussioni: semplicemente non ne parlerà nessuno. La messa è una di quelle materie che non dovrebbero essere oggetto di regolamenti amministrativi!». È evidente che Benedetto XVI si trovi comunque a una certa distanza da queste conclusioni.

    7 A. Angenendt, Liturgia e storia. Lo sviluppo organico in questione, Cittadella, Assisi 2005, 239.

    8 M. Blondel, Storia e dogma. Le lacune filosofiche dell'esegesi moderna, Queriniana, Brescia 1992, 119.

    Fonte: Il Regno-attualità, 2007, n. 14, p. 434 ss.

  6. #6
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    Va premesso che l'articolo pubblicato sulla rivista Il Regno non è completo. Esso appare censurato in alcuni punti. Forse lo stesso autore, allo scopo di veder pubblicate le sue "riflessioni", ha inteso omettere alcune parti "spinte". Nella versione non "adulterata" dell'articolo, l'autore scrive: "... non si può chiedere a nessuno di provare che il Messale di Paolo VI abbia abrogato il messale vigente dal 1962 al 1969, perché questo va da sé secondo il diritto liturgico comune; piuttosto sta a chi sostiene la non abrogazione di accollarsi l’onere di fornirne le prove: finché non si portano argomentazioni o elementi razionali dal punto di vista giuridico e liturgico, finché la "doppia forma contemporanea" viene solo affermata, ma non fondata e provata, si presume il principio generale: ossia che il rito romano più recente sostituisce il rito romano meno recente, e in tal caso il conflitto non si da perché un solo rito, una sola forma e un solo uso è vigente, secondo il principio di diritto comune (oltre che di buon senso). Dal Papa che più intensamente ha rivalutato il ruolo della "ragione" nella riflessione sulla fede cristiana, questo silenzio della ragione sulla sua affermazione centrale - unita al fatto che i due papi suoi predecessori abbiano diversamente valutato il "rito postconciliare" come l’unico effettivamente in vigore, utilizzando la logica dell’Indulto per fare eccezione - costituisce una obiettiva questione che dovrà essere ulteriormente chiarita, per non lasciare una grave ambiguità su tutto il resto della argomentazione" (la versione integrale è nel sito del "prete" comunista "don" Vitaliano: v. QUI).
    Nell'articolo adulterato per i dehoniani, il sig. Grillo si limita a dire, in maniera "elegante", che "la «doppia forma contemporanea» viene solo affermata, ma non fondata, e dunque si presume il principio generale: ossia che il rito romano più recente sostituisca il rito romano meno recente, e in tal caso il conflitto non si dà perché un solo rito, una sola forma e un solo uso sono vigenti, secondo il principio di diritto comune". La sostanza, però, non cambia.
    L'autore mostra chiaramente, in ogni caso, di non aver compreso il nocciolo della questione. Non è un problema di prova che Benedetto XVI deve dare. Il Papa non deve dare alcuna prova. La sua è un'affermazione perentoria. Non si discute. Non è un'opinione di una di un dottore privato qualsiasi, come quella dei cardinali sopra nominati, quand'anche autorevole. Per inciso il sottoscritto condivide l'idea che Paolo VI non avesse abrogato il rito di S. Pio V.
    L'autore che scrive per i dehoniani, però, suppone che l'affermazione di Papa Ratzinger si riduca, benché autorevole, ad una mera considerazione personale di un dottore privato, espressa in chissà quale conversazione privata, tanto che si sente in dovere di pretendere delle prove "contrarie" da parte del Papa. Per giunta è il caso di ricordare che queste affermazioni si trovano in un testo legislativo, avente carattere liturgico-disciplinare ed al contempo anche dottrinale. Le prove, dunque, non servono. La legge è legge. Non va provata.
    Piuttosto l'affermazione, che va presa così com'è, ha delle inevitabili implicazioni sull'autorità di chi volle - senza averne i poteri (è questa la conseguenza) - abrogare la vecchia Messa. E' un problema di autorità, non di prove!

  7. #7
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    Di certo non ho le conoscenze necessarie per dirimere la questione sollevata. Tuttavia, non ho alcun dubbio sul fatto che Benedetto XVI consideri Paolo VI come suo legittimo predecessore. Benedetto XVI - che mai si sognerebbe di togliere valore al Concilio Vaticano II - non negherebbe mai l'autorità di chi approvò quel Concilio. Se lo facesse, ovviamente, priverebbe di autorità anche il Concilio.
    Vero è che, così come esposto, il problema giuridico resta impiedi. Forse, però, a tal proposito, bisogna riflettere su un altro dato, oltre a quelli di cui si è trattato. Infatti, se non sbaglio, Benedetto XVI nel Motu proprio afferma che "non c'è nessuna contraddizione tra l'una e l'altra edizione del Missale Romanum". Egli è dunque convinto che il nuovo rito non sia affatto "direttamente contrario" al rito antico e, per la stessa ragione, è forse convinto anche del fatto che il nuovo rito non "riordini interamente" il rito precedente (Il nuovo messale è la forma ordinaria del rito romano, mentre il messale antico ne è una forma straordinaria (art. 1)). Si tratterebbe dunque dello stesso rito con due forme diverse e quindi non ci sarebbe stata alcuna abrogazione.
    Mah...
    Comunque di fatto Benedetto XVI ha sconfessato Paolo VI, il quale ha effettivamente manifestato la volontà di abrogare la SS. Messa "in seguito alle istanze del Concilio".
    Certo è che questa complessiva mancanza di chiarezza la dice lunga sulla situazione attuale della Chiesa.

  8. #8
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    Citazione Originariamente Scritto da Timoteo Visualizza Messaggio
    Benedetto XVI nel Motu proprio afferma che "non c'è nessuna contraddizione tra l'una e l'altra edizione del Missale Romanum". Egli è dunque convinto che il nuovo rito non sia affatto "direttamente contrario" al rito antico e, per la stessa ragione, è forse convinto anche del fatto che il nuovo rito non "riordini interamente" il rito precedente (Il nuovo messale è la forma ordinaria del rito romano, mentre il messale antico ne è una forma straordinaria (art. 1)). Tra i due riti vi sarebbe piena continuità e quindi non ci sarebbe stata alcuna abrogazione.
    E' proprio questo il punto. Qui non si tratta di affermare che tra i due riti vi sarebbe piena continuità o compatibilità. Si tratta di qualcosa di diverso, di piani differenti, visto che Paolo VI aveva abrogato la Messa antica: il suo rito aveva sostituito quello antico. Dire che, nonostante la legge e l'intenzione del legislatore, quel rito sia sopravvissuto e non sarebbe MAI stato abolito significa dire che Paolo VI, nonostante le parole adoperate e le sue intenzioni (manifestate, ad es., chiaramente nel Concistorio segreto del 1976! E poi nei documenti di Curia), non poteva abolire la Messa di S. Pio V, non ne aveva il potere! La questione è squisitamente giuridica e teologica. E' giuridica perché si tratta di vedere come, nonostante Paolo VI, il rito tridentino poteva sopravvivere; è teologica perché si tratta di vedere, teologicamente, se Paolo VI poteva o meno abolire la Messa di S. Pio V. Con tutto ciò che questo comporta.
    Ecco perché il M.P. ha delle conseguenze dirompenti proprio sul Concilio. Diverso sarebbe stato se il Papa Benedetto XVI avesse affermato che ripristinava l'antico rito a certe condizioni. Ma l'aver affermato che esso non sarebbe mai stato abolito, beh ... questo rimette in discussione un bel po' di cose. Beninteso, io sarei a favore dei necessari chiarimenti sul Concilio, che ha portato più confusione e disordine. Per questo sin da subito mi ero dimostrato a favore del M.P. Ma dopo queste riflessioni sono ancor più a favore.
    Il documento apre strade del tutto nuove ed inaspettate. Magari - anzi senz'altro ciò non era voluto da Benedetto XVI - di fatto si è aperto qualche spiraglio per una chiarificazione. Che vi sia la mano di Dio in tutto ciò?

  9. #9
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    Citazione Originariamente Scritto da Timoteo Visualizza Messaggio
    Comunque di fatto Benedetto XVI ha sconfessato Paolo VI, il quale ha effettivamente manifestato la volontà di abrogare la SS. Messa "in applicazione delle direttive del Concilio".
    Certo è che questa complessiva mancanza di chiarezza la dice lunga sulla situazione attuale della Chiesa.
    E' proprio il caso di dire (mi si perdoni la citazione del proverbio, che potrebbe apparire irriverente): Quem Deus perdere vult, dementat prius

  10. #10
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    Predefinito

    La lettera di accompagnamento del Motu Proprio del Papa è chiarissima:

    Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso. Al momento dell’introduzione del nuovo Messale, non è sembrato necessario di emanare norme proprie per l’uso possibile del Messale anteriore. Probabilmente si è supposto che si sarebbe trattato di pochi casi singoli che si sarebbero risolti, caso per caso, sul posto.
    Non viene mai messa in dubbio né l'autorità, né l'esercizio di essa da parte di Papa Paolo VI. Affermare che un Papa abbia disconosciuto l'autorità del predecessore, oppure indirettamente quella di un Concilio Ecumenico, non ha alcun senso.
    In linea di principio il Messale anteriore non era mai stato giuridicamente abrogato con un atto ufficiale. Nella pratica si è purtroppo agito come se lo fosse stato, anche in mancanza di norme giuridiche chiare che regolamentassero l'uso del V.O:
    Papa Giovanni Paolo II si vide, perciò, obbligato a dare, con il Motu Proprio “Ecclesia Dei” del 2 luglio 1988, un quadro normativo per l’uso del Messale del 1962, che però non conteneva prescrizioni dettagliate, ma faceva appello, in modo più generale, alla generosità dei Vescovi verso le “giuste aspirazioni” di quei fedeli che richiedevano quest’uso del Rito romano
    Difficile è rimasta, invece, la questione dell’uso del Messale del 1962 al di fuori di questi gruppi, per i quali mancavano precise norme giuridiche,
    Il discorso di Papa Paolo VI non è un atto giuridico di abrogazione del Rito V.O. per la stessa volontà del Papa. Se davvero avesse voluto abrogare il Rito avrebbe almeno scritto un documento ufficiale giuridicamente vincolante. In quel discorso si afferma come nessun Sacerdote possa rifiutarsi di celebrare secondo il N.O esattamente come ora. Il N.O. è obbligatorio e resta il Rito ordinario per la stessa autorità del Papa. Inoltre viene messa in evidenza la supposizione del Papa che la richiesta del Messale precedente avrebbe riguardato "pochi casi singoli che si sarebbero risolti, caso per caso, sul posto." in quanto, per come era stato pensato all'inizio, il N.O doveva sostituire via via il V.O, più in via "pratica" che in via giuridica.
    Il Nuovo Messale è stato giustamente reso obbligatorio per tutti i Sacerdoti di Rito latino. Questo è vero anche dopo l'adozione del Motu Proprio, nessun Sacerdote può arbitrariamente rifiutarsi di celebrare secondo il Novus Ordo. Questo è importantissimo:

    Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso.
    CIAO

 

 
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