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  1. #1
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    Predefinito Destra radicale e (paleo)libertarismo

    Sono sempre stato di destra anzi un militante della destra radicale. Tradizionalista, conservatore, reazionario: di Destra.
    In questi ultimi anni mi sono sempre più avvicinato alle correnti anarco-capitaliste convinto della mostruosità dell stato moderno e della bontà delle idee di Rothbard, Block e Hoppe e di molti altri, per cui resto un tradizionalista, un conservatore vero ma le idee paleo-libertarie mi convincono sempre di più. So che farò inorridire parecchia gente (destra sociale, comunitaristi, nazional-boscevichi ecc)...
    Scrivo per aprire un dibattito: cosa ne pensate?

  2. #2
    legio_taurinensis
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    paleo che? cromagnon?

  3. #3
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    appunto

  4. #4
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    Predefinito Intervista Sul Paleolibertarismo

    INTERVISTA SUL PALEOLIBERTARISMO
    A GUGLIELMO PIOMBINI
    di Marco Massignan



    Tra i pionieri del libertarismo in Italia ed esponente dell'ala anarco-capitalista, Guglielmo Piombini è autore di numerosi saggi e contributi su tale filone di pensiero. Come e quale è stata la ricezione nel Belpaese del pensiero libertario?

    Il libertarismo è ancora un pensiero non molto conosciuto nel nostro paese, ma rispetto a dieci anni fa sono stati fatti enormi passi in avanti. Il primo a far circolare le idee libertarie in Italia è stato Riccardo La Conca, che alla fine degli anni Settanta pubblicò cinque numeri della rivista Claustrofobia e poi un originale libro, con la Sugarco, intitolato Democrazia, mercato e concorrenza. Quella di La Conca è stata purtroppo una breve meteora, e per più di dieci anni le idee libertarie sono scomparse dalla scena culturale italiana. Alla metà degli anni Novanta i libertari in Italia si contavano letteralmente sulle dita di una mano: erano cinque giovani entusiasti (Luigi Marco Bassani, Nicola Iannello, Carlo Lottieri, Alessandro Vitale e il sottoscritto, ai quali poco tempo dopo si aggiunse anche Fabio Massimo Nicosia) che iniziarono a riunirsi, a Milano o a Brescia, per studiare i modi di riportare nel dibattito le idee che li appassionavano. Il risultato di questa attività, favorita anche dal clima ideologico generale (erano gli anni di un diffuso sentimento antistatalista, che partiti come la Lega Nord di allora e quotidiani come L’Indipendente di Feltri avevano canalizzato in maniera efficace) è stata la traduzione e la pubblicazione delle opere di un buon numero di autori libertari: Murray N. Rothbard, David Friedman, Ayn Rand, Walter Block, Bruno Leoni, Albert Jay Nock, Lysander Spooner, Gustave de Molinari, Fréderic Bastiat, Hans-Hermann Hoppe, da parte di piccoli ma intraprendenti editori come Aldo Canovari della Liberilibri di Macerata e Leonardo Facco di Treviglio. Particolarmente importante nell’attività editoriale promossa da Leonardo Facco, che è anche un attivo giornalista, è la rivista trimestrale Enclave, che è già giunta al 24° numero e ha progressivamente ampliato il numero di pagine e degli abbonati. Dopo questa “prima ondata”, negli anni successivi si sono avvicinati al libertarismo altri validi studiosi, per la maggior parte giovani, come Alberto Mingardi, Carlo Stagnaro, Giorgio Bianco, Paolo Pamini, Fabio Lazzarin, Paolo Zanotto, Fabio Gallazzi, Novello Papafava, Massimiliano Neri, Carlo Zucchi, Alberto Masala, Mauro Tosco, Piero Vernaglione. Nel frattempo anche la Scuola Austriaca d’economia di Carl Menger, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, alla quale la maggior parte dei libertari si rifà sul piano scientifico, conosceva una grande riscoperta a livello accademico grazie agli studi di Sergio Ricossa, Dario Antiseri, Lorenzo Infantino, Raimondo Cubeddu, Enrico Colombatto, Roberta Modugno. Una grande quantità di testi della biblioteca austriaca sono stati così resi disponibili al pubblico italiano dall’editore Rubbettino di Soveria Mannelli. Oggi i libertari sono spesso presenti con la loro firma su importanti quotidiani e riviste nazionali, mentre le numerose presenze nelle mailing-list e nei forum libertari su internet dimostrano che vi è una nuova generazione molto interessata a queste idee. L’attivissimo Istituto Bruno Leoni di Torino (www.brunoleoni.it) è solo l’ultima delle iniziative nate per diffondere le idee libertarie. Tutta questa vitalità solo dieci anni fa sarebbe stata considerata un sogno impensabile.

    Il principale teorico del libertarianism è stato Murray N. Rothbard. In che cosa consiste la sintesi da lui operata è quale è stato il suo background ideologico?

    Durante gli anni della guerra fredda l’Old Right, la vecchia Destra antirooseveltiana e antinterventista, si era sfaldata, e la Destra americana (dalla New Right di William Buckley ai neoconservatori) per paura della minaccia sovietica aveva finito per accettare la presenza di uno “Stato forte”. Il mortale pericolo comunista non sembrava porre altre alternative. All’interno della Destra gli unici a sfidare questa convinzione furono Murray N. Rothbard e pochi altri intellettuali, i quali negli anni Sessanta e Settanta diedero vita al movimento libertario. Rispetto ai conservatori i libertari erano decisamente più antistatalisti sul piano economico e fortemente isolazionisti nei rapporti internazionali. Grazie soprattutto all’elaborazione teorica di Murray N. Rothbard, la dottrina libertaria venne sviluppata in maniera sistematica, fondandosi sulla rigorosa difesa dei diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà degli individui; sulla celebrazione del libero mercato; e sulla radicale critica dello Stato. Venne così delineato un modello ideale di società libertaria, definito talora anarco-capitalista, che condannava ogni monopolio legale anche nei campi della sicurezza e della giustizia, e prevedeva al suo posto la libera concorrenza tra agenzie di protezione, arbitrali o assicurative. In definitiva, realizzando una sofisticata sintesi di realismo filosofico tomista, giusnaturalismo liberale alla Locke, anarchismo politico alla Tucker o alla Spooner e soggettivismo della Scuola Austriaca dell’economia, Rothbard rinnovò in una veste più coerente e radicale la lezione dei liberali classici dell’Ottocento.

    Oggi, anche tu, non esiti a definirti “paleolibertario”. Secondo te, si tratta di una svolta necessaria per uscire dalla marginalizzazione e far breccia nella cultura mainstream, o, come molti lamentano, è solamente una involuzione verso la destra cattolica, conservatrice e financo reazionaria?

    Negli Stati Uniti il “paleolibertarismo” nasce nei primi anni Novanta, quando Rothbard si decide a rompere definitivamente con il Partito Libertario, che aveva contribuito a fondare e per il quale aveva profuso notevoli energie, a causa della forte insofferenza che gli procurava l’atteggiamento “alternativo” e “controculturale” esibito da molti attivisti libertari. Il termine “paleolibertario”, o libertario all’antica, venne coniato da Lew Rockwell, il principale collaboratore di Rothbard negli ultimi anni della sua vita, per evidenziare la continuità con la Old Right di un tempo e per differenziare le proprie posizioni da quelle, giudicate decadenti, edoniste, relativiste e libertine dei left-libertarians (che in Italia potrebbero essere assimilati, per alcuni versi, ai radicali), in uno sforzo di combinare un radicale liberalismo nel campo politico ed economico con un altrettanto deciso tradizionalismo nel campo culturale. Rothbard si era infatti convinto che le libertà americane fossero germogliate non dal relativismo e dal nichilismo degli anni Sessanta, ma dai tradizionali valori giudaico-cristiani, considerati come dei veri e propri prerequisiti sociologici del libertarismo. Non direi quindi che il tradizionalismo culturale dei paleolibertari sia stato un espediente per far breccia nella cultura mainstream: forse si possono attrarre alcune parti del mondo cattolico e conservatore, ma la cultura dominante rimane largamente secolarizzata, relativista e materialista, per cui la battaglia risulta ancora più difficile. Però è assolutamente necessaria: come ha osservato Rothbard, questa guerra culturale ha un’importanza ben maggiore di quella per ridurre le tasse sui guadagni di borsa, perché da essa dipende l’anima e il futuro dell’America (e dell’Occidente).

    La sfida che i paleolibertari si pongono - mi pare di capire - è sul terreno della cultura. E' possibile, a tuo avviso, una seria collaborazione con il mondo cattolico senza cadere in compromessi dannosi per entrambi? Insomma, quali sono i punti in comune e quelli che ancora vi dividono?

    È significativo che Rothbard, libertario ebreo e agnostico, pur senza convertirsi e senza cambiare nessuna delle sue idee politiche sia arrivato al termine del suo percorso intellettuale a considerarsi “un ardente sostenitore del Cristianesimo” e ad aderire ad una visione culturale in senso lato cattolica. Su gran parte delle questioni morali e culturali, soprattutto negli ultimi tempi, egli si trovava molto più vicino ai cattolici che a certe frange libertarie, ad esempio a proposito dell’eutanasia o della presenza dei segni religiosi negli spazi pubblici (anche sull’aborto attenuò la sua posizione pro-choice, pur non abbandonandola). Io credo che il Cattolicesimo possa rinforzare la teoria libertaria fornendogli un sostegno culturale e anche metafisico, dato che l’uomo è per natura un animale religioso che non rinuncerà mai alle domande ultime sul senso della vita. Da parte sua, il libertarismo di scuola austriaca può dare un contributo alla dottrina sociale della Chiesa, rendendola meno vaga e più cosciente del rapporto indissolubile tra libertà economica e dignità umana. Il sistema prasseologico misesiano, che parte da alcuni assiomi empirici autoevidenti e si sviluppa per deduzioni, è molto più compatibile dell’economia neoclassica o positivista con la forma mentis cattolica, presentando forti analogie metodologiche con il sistema della Scolastica di San Tommaso. Non è un caso che qualcuno ha definito il sistema di Rothbard come una “filosofia tomista senza teologia”.

    L'erede intellettuale di Rothbard, Hans-Hermann Hoppe, viene spesso accusato dai left-libertarians di essere razzista e xenofobo; nonché nella sua rivalutazione dei sistemi politici tipici dell'ancien régime viene additato di atteggiamento antimoderno. Che ne pensi?

    Hans-Hermann Hoppe ha sviluppato la teoria libertaria in un libro pieno di idee intelligenti e provocatorie, che possono risultare scandalose per l’opinione comune: Democracy: The God That Failed (in corso di traduzione in Italia da parte della Liberilibri di Macerata, a cura di Alberto Mingardi). Con un taglio revisionista, Hoppe rivaluta alcuni aspetti di moderazione delle monarchie tradizionali rispetto alle democrazie moderne, e indica nello statalismo welfarista il vero distruttore dei legami comunitari e dei valori tradizionali. Un altro aspetto delle tesi di Hoppe, decisamente irritante per il pensiero politicamente corretto, è il suo giudizio favorevole ad ogni forma di secessione che porti a decomposizione gli attuali Stati nazionali. L’utopia sarebbe quella di tornare ad un sistema pluralistico come quello medievale, del quale oggi rimane qualche traccia solo in quelle autentiche reliquie che sono il Principato di Monaco, Andorra, San Marino, il Liechtenstein, i cantoni svizzeri. Dalla moltiplicazioni dei governi deriverebbe una pressione concorrenziale tale da renderli meno esosi e più favorevoli alla libertà individuale, come nel modello “anarco-capitalista”. Invece di usare questa espressione, Hoppe preferisce però definire “ordine naturale” il tipo di società nella quale gli uomini tendono spontaneamente a convivere, quando per qualsiasi motivo è assente un potere politico centralizzatore: in questo modo egli si ricollega idealmente alla filosofia scolastica del Medioevo. Hoppe ha inoltre messo in chiaro che non vi è un collegamento necessario tra l’ideologia libertaria e la libertà d’immigrazione. Anzi, poiché un “ordine naturale” libertario si fonda sulla proprietà privata, l’immigrazione sarebbe possibile solo quando vi è il consenso dei proprietari riceventi (da qui l’assurdità delle accuse di razzismo).

    Se non ho capito male la distanza tra taluni libertari (mi riferisco agli anarchici "paleo") e i vari teorici del liberalismo (in particolar modo di quel liberalismo sceso a patti con la democrazia, così come la intendiamo oggi in Occidente) è più marcata di quanto si pensi: vi è quasi una rottura radicale. In tal senso, come si deve valutare la riscoperta dei pensatori controrivoluzionari ottocenteschi, dei quali anche tu ti stai occupando?

    Sono giunto alla convinzione, leggendo le opere degli autori controrivoluzionari e soprattutto di Carl Ludwig von Haller, che la distanza tra il pensiero libertario e quello liberaldemocratico è forse più ampia di quanto si pensi. Infatti, mentre gli anarco-capitalisti ammirano il pluralismo competitivo medievale e concordano con il realismo della filosofia controrivoluzionaria, i liberaldemocratici sono gli eredi di quel “liberalismo” illuminista e rivoluzionario che, dopo aver contribuito a demolire i retaggi medievali e ad edificare il monopolio legislativo del Leviatano, si sono poi cullati nell’illusione che fosse possibile limitarne il potere mediante artifizi e congegni interni (lo “Stato di diritto”, il costituzionalismo, la divisione dei poteri, le elezioni, la generalità e astrattezza della legge e così via) rivelatisi poi in buona misura inefficaci. Al pari di un grande anarco-individualista come Lysander Spooner, il reazionario von Haller giudicava del tutto assurda l’idea di contratto sociale che tanto piace ai liberaldemocratici: in realtà nessuno l’ha mai firmato, per la semplice ragione che nessuno sarebbe mai così pazzo da firmare, a favore di un gruppo ristretto di uomini, una procura che contempli un “mandato non imperativo” a disporre della propria vita, libertà e proprietà. Le società non sono sorte in un colpo solo con un contratto sociale unico e uguale per tutti, ma gradualmente grazie ad una miriade di contratti tra persona e persona: così si è sviluppata l’Europa durante l’età feudale e comunale, fino ad assumere le fattezze che aveva nell’ancien régime, malgrado il nefasto processo di centralizzazione assolutistica iniziato in età moderna. Anche coloro che non accettano questa visione della storia non possono negare che, secondo ogni standard libertario, le società prerivoluzionarie fossero infinitamente meno statalizzate di quelle venute dopo.

    Parafrasando Albert J. Nock, il nemico "classico" dei libertari è lo Stato: qui varie istanze molto diverse tra loro combattono una battaglia comune. E i Paleo, come te, oltre ai sempiterni Leviatani - a chi lanciano il guanto di sfida?

    I paleolibertari riconoscono che, malgrado la sconfitta finale del comunismo, le società occidentali stanno vivendo un periodo di profonda crisi culturale, che si riflette nel trionfo del nichilismo, cioè nell’abbandono di ogni idea di Verità e di ogni prospettiva trascendente. In base alle filosofie scettiche e relativiste oggi imperanti (diffuse anche all’interno del mondo libertario) non esisterebbe alcun criterio per stabilire se una determinata idea o istituzione sociale sia migliore di un'altra. Di fatto, questa prospettiva finisce per celebrare ogni tipo di “diversità”, anche la più ripugnante, e per respingere come autoritaria, eurocentrica o razzista, la tradizione culturale e religiosa dell’Occidente cristiano: tutte le culture andrebbero protette e preservate (anche quelle degli antropofagi o dei tagliatori di teste…) salvo quella occidentale che merita di estinguersi per le sue supposte colpe passate. Gli intellettuali e gli opinionisti progressisti hanno iniziato da almeno vent’anni a prepararci psicologicamente alla nostra estinzione, convincendoci che la società multietnica e multiculturale rappresenta il nostro radioso futuro. Questo vero e proprio odio di sé che caratterizza l’attuale Occidente si manifesta anche nell’epocale crisi demografica che ha colpito i paesi occidentali negli ultimi decenni, rivelatrice del fatto che gli europei non hanno più alcun desiderio di futuro e di trasmettere ai discendenti la propria cultura. A ciò si aggiunga che l’espansione indiscriminata del welfare state (diritto al consumo per tutti: il tipico frutto della mentalità materialista, edonista e relativista dominante!) ha esautorato completamente le famiglie e i figli dalle tradizionali funzioni previdenziali e assistenziali, rendendoli inutili. Se le cose non cambiano il destino inevitabile è quello segnalato da Patrick Buchanan nel suo libro The Death of the West, le cui proiezioni statistiche nessuno finora ha contestato: l’estinzione demografica dell’Occidente entro la fine del XXI secolo, sommerso da popolazioni più vitali, credenti, motivate e con un’alta stima della propria cultura come quelle islamiche. Non mi pare che gli europei, nella loro intera storia (salvo forse durante la peste nera del Trecento), si siano ritrovati così vicini a fare i conti con la propria scomparsa. Sorprende soprattutto l’indifferenza, la rassegnazione e la stanchezza con cui si accetta di veder scomparire tutta la propria gloriosa eredità culturale e religiosa. Per rispondere quindi alla tua domanda, direi che i paleo lanciano la sfida al nichilismo, al relativismo e al pensiero “debole”, con l’obiettivo (per dirla con Hoppe) di “ridare vita all’Occidente”.

    Un'ultima domanda: vorrei che pensassi ad un aforisma che condensi i tuoi più profondi convincimenti. Grazie.

    “La libertà non è figlia, ma madre dell’ordine”. Sembrerà strano, ma è un aforisma coniato da quell’anarchico socialista famoso per aver definito la proprietà un furto (anche se successivamente cambiò completamente opinione): Pierre-Joseph Proudhon. Contro i pianificatori sociali d’ogni risma, che vogliono convincerci che solo grazie all’ordine da essi instaurato possiamo godere un po’ di libertà, i libertari oppongono il convincimento che l’ordine sociale nasca spontaneamente dalle libere interrelazioni tra gli uomini, e che ogni tentativo di imporre l’ordine dall’alto porta al caos, alla guerra di tutti contro tutti e alla distruzione delle istituzioni della società civile, come le famiglie e le comunità.

  5. #5
    legio_taurinensis
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    Non è molto attinente a questo forum, il pensiero libertario ...giusto per informarti.

  6. #6
    Il Gran Camposanto
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    Benvenuto!

    Beh, sei stato tanto perspicace da pronosticare l'inorridimento daparte di alcuni: il mondo di "Destra Radicale" è bello perchè è vario!!!
    A parte gli scherzi... A quanto ho avuto modo di capire, accanto a quei valori (imprescindibilmente comuni a tutti) che ti hanno permesso la militanza in quest' area politica, senti di avere una visione personale su taluni temi che, ahimè, oggi degenerano in divisioni fraticide.

  7. #7
    Nobiltà Spirituale
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    Citazione Originariamente Scritto da Emiliano Visualizza Messaggio
    Non è molto attinente a questo forum, il pensiero libertario ...giusto per informarti.

    Non e' proprio corrispondente al vero quanto sostieni.
    Non ti daro' nessuna indicazione per capirlo,ma posso dirti che delle evoluzioni libertarie esistono e si manifestano.

  8. #8
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    Grazie per il benvenuto! per me lo stato moderno è il Moloch, l'EU la prefigurazione dello stato mondiale che va combattuta fino all'ultimo sangue.
    Nella scuola austriaca d'economia e negli anarco-capitalisti ho trovato due punti fermi che sono i fondamenti del diritto naturale: difesa della persona (in quanto di natura teo-morfa quindi sacra) e della proprietà. Sono per la legittima difesa contro ogni aggressione individuale e collettiva (stato compreso). Nulla a che vedere con gli anarco-comunisti...
    L'Anarca di Jünger non è poi così lontano da questa visione...
    saluti

  9. #9
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    Predefinito Democrazia, il dio che è fallito

    Democrazia, il dio che è fallito

    Il grande mito della Modernità politica, fondato sull’egualitarismo e sul livellamento verso il basso, non funziona. Né ha mai funzionato. Le monarchie, per quanto imperfette, erano modelli politici molto migliori. Nuova Storia Contemporanea, diretto da Francesco Perfetti, pubblica un saggio di uno dei più autorevoli pensatori libertarian. Che ammicca alle “piccole patrie” e addirittura all’idea di secessione dai Leviatani. Noi lo anticipiamo

    di Hans-Hermann Hoppe

    Vorrei chiarire anzitutto, come la teoria sia indispensabile per interpretare correttamente la storia. La storia – il semplice succedersi di eventi nel tempo – è “cieca”. Non rivela nulla sulle cause e gli effetti di tali eventi.
    Ad esempio, potremmo trovarci d’accordo sul fatto che l’Europa feudale fosse povera, che l’Europa monarchica fosse più ricca, e che l’Europa democratica sia ancora più ricca. Oppure sul fatto che l’America del diciannovesimo secolo, nella quale vigevano imposte ridotte e poche regolamentazioni, fosse povera, mentre l’America contemporanea, con tasse alte e molte regolamentazioni, sia più ricca.

    Tuttavia, bisogna chiedersi se l’Europa fosse povera a causa del feudalesimo, e sia diventata più ricca grazie alla monarchia e alla democrazia. O l’Europa si è invece arricchita nonostante monarchia e democrazia? Oppure le due cose non sono neppure correlate?
    Allo stesso modo, l’America di oggi è più ricca a causa di tasse più alte e imponenti regolamentazioni o nonostante le une e le altre? Ovvero, l’America sarebbe ancora più prospera se tasse e regolamentazioni fossero rimaste ai livelli del diciannovesimo secolo?
    Gli storici in quanto storici non possono rispondere a tali domande, e nessun tentativo di giocare con la statistica può cambiare questo fatto. Ogni sequenza di eventi è compatibile con un gran numero di interpretazioni mutuamente confliggenti, incompatibili l’una con l’altra.

    Per scegliere quale di queste interpretazioni tra loro inconciliabili si debba adottare, noi abbiamo bisogno di una teoria. Per “teoria” intendo una proposizione la cui validità non riposi sull’esperienza ma possa essere stabilita a priori. Ciò non significa dire che si possa prescindere del tutto dall’esperienza quando si sostiene una proposizione teorica. Tuttavia, ciò significa che se pure l’esperienza è importante, le intuizioni teoriche si estendono logicamente oltre, e trascendono, una particolare esperienza storica. Le proposizioni teoriche riguardano infatti la necessità di fatti e relazioni e, eventualmente, l’impossibilità di altri fatti e relazioni. L’esperienza può così servire ad illustrare le implicazioni di una teoria. Ma l’esperienza storica non può né stabilire un teorema né confutarlo.

    La Scuola austriaca
    La teoria economica e politica, specie quella avanzata da parte della cosiddetta Scuola austriaca, è uno scrigno che contiene molte proposizioni di tal genere. Per esempio, una più ampia quantità di un bene è preferibile a una più piccola quantità dello stesso bene; la produzione deve precedere il consumo; ciò che viene consumato oggi non potrà essere consumato di nuovo in futuro; prezzi fissati al di sotto dei prezzi di mercato condurranno a periodi di scarsità; senza proprietà privata nei fattori di produzione, e senza i prezzi che ne derivano, il calcolo economico risulta impossibile; un aumento nella quantità di moneta circolante non può andare ad aumentare la ricchezza sociale ma può soltanto redistribuire ricchezza che già esiste; il monopolio (l’assenza di libero accesso ad un mercato) conduce a prezzi più alti e per giunta ad una inferiore qualità rispetto a quella che si otterrebbe in regime di concorrenza; ogni cosa e ogni quota di una data cosa non possono essere possedute, in un dato momento, che da un unico soggetto; la democrazia (regola della maggioranza) e la proprietà privata sono incompatibili.

    Se la teoria non può essere un sostituto della ricostruzione storica, tuttavia senza una certa comprensione teorica è difficile evitare gravi errori nell’interpretazione dei dati storici. Per esempio, il noto storico Carroll Quingley sostiene che l’invenzione del sistema bancario a riserva proporzionale sia stata una delle cause principali dell’esplosione di ricchezza senza precedenti che ha accompagnato la rivoluzione industriale, e un numero imprecisato di storici hanno associato il disastro economico del socialismo di marca sovietica all’assenza di democrazia.
    Da un punto di vista teorico, tali interpretazioni vanno rigettate categoricamente. Un aumento nella quantità di circolante non può condurre a una maggiore prosperità, ma può soltanto redistribuire la ricchezza. L’esplosione di ricchezza durante la rivoluzione industriale ebbe luogo nonostante il sistema bancario a riserva proporzionale.

    Analogamente, il disastro economico del socialismo non può essere ricondotto all’assenza di democrazia. Esso è sistematicamente causato dall’assenza della proprietà privata nei fattori di produzione.
    La storia, per come ci viene spesso presentata, è piena di simili interpretazioni truffaldine. La teoria ci permette di escludere certi supposti “resoconti” storici, mostrando che essi sono impossibili ed incompatibili con la natura delle cose. In virtù degli stessi principi, ci consente di contemplare altre cose come possibilità che potranno effettivamente verificarsi nel corso della storia, anche se esse non sono ancora state sperimentate.

    Una storiografia revisionista
    Ciò che intendo fare è presentare brevemente una ricostruzione revisionista della storia occidentale moderna: dall’ascesa delle monarchie assolute, a spese dell’ordine feudale, fino alla trasformazione – iniziata con la rivoluzione francese e completatasi essenzialmente con la fine della prima guerra mondiale – degli Stati occidentali in Stati democratici, per quindi giungere all’ascesa degli Stati Uniti al rango di “impero universale”. Scrittori d’impostazione neo-conservatrice come Francis Fukuyama hanno interpretato questi sviluppi come un processo di civilizzazione, e ci hanno annunciato che la “fine della storia” sarebbe arrivata con il trionfo della democrazia occidentale (cioè statunitense) e la sua “mondializzazione” (rendere il mondo sicuro per la democrazia).
    La mia interpretazione teorica è totalmente differente. Essa presuppone la confutazione di tre miti storiografici.

    Mito numero uno
    Il primo, e più importante, è il mito secondo cui l’emergere degli Stati da un precedente ordine politico non-statuale sia stato la causa del progresso economico e della crescita della civiltà. In realtà, la teoria insegna che ogni progresso deve essere accaduto nonostante l’istituzione dello Stato, e non per sua causa.
    Lo Stato è definito convenzionalmente come un ente particolare che esercita il monopolio della tassazione e della giurisdizione, essendo decisore ultimo su un determinato territorio. Per definizione, quindi, ogni Stato, quale che sia la sua costituzione, è economicamente e moralmente deficitario. Ogni monopolio è un “male” dal punto di vista dei consumatori. Una situazione di monopolio, si badi, è quella nella quale non vi è possibilità di libera entrata in una data linea di produzione, per cui solo una particolare agenzia, A, può produrre X.

    Ogni monopolio è un “male” per i consumatori poiché, una volta che il monopolista è protetto nei confronti di nuovi potenziali competitori, il prezzo di ciò che produce sarà maggiore, e la qualità inferiore, di quanto avverrebbe in regime di libero accesso al mercato. E un monopolista che sia anche decisore ultimo è, ovviamente, particolarmente deleterio. Poiché mentre gli altri monopolisti producono beni inferiori, un giudice monopolista, oltre a produrre beni inferiori, produrrà mali, poiché esso è anche giudice nei conflitti di cui è parte. Conseguentemente, invece di prevenire e risolvere conflitti, il decisore ultimo monopolista tenterà di causare e provocare conflitti per poter così risolvere ogni disputa a suo stesso vantaggio.

    Non solo nessuno accetterebbe di fornirsi del bene “risoluzione delle dispute” presso un tale monopolista, ma nessuno mai sarebbe d’accordo a lasciare che tale giudice fissi da sé, unilateralmente, il prezzo per i suoi “servizi”. Come è prevedibile, tale monopolista farebbe uso di sempre più risorse (le entrate fiscali) per produrre sempre meno beni e per perpetrare sempre più mali. È ovvio che questa non è una ricetta per assicurarsi protezione, ma per venir oppressi e sfruttati. L’esistenza dello Stato si traduce di fatto non nella cooperazione pacifica e nell’ordine sociale, ma in conflitto, provocazione, aggressione, oppressione e impoverimento. Cioè, essa mette in atto un processo di de-civilizzazione. È questo ciò che la storia degli Stati c’insegna. È innanzitutto e soprattutto la storia di un numero infinito di milioni di vittime innocenti.

    Mito numero due
    Il secondo mito concerne la transizione storica dalle monarchie assolute agli Stati democratici. Vi è un accordo pressoché universale sul fatto che la democrazia rappresenti un avanzamento rispetto alla monarchia assoluta e sia causa di progresso economico e morale. Tale interpretazione risulta curiosa alla luce del fatto che la democrazia è stata all’origine di ogni forma di socialismo: della social-democrazia europea, del liberalism e del neo-conservatorismo americani, così come del socialismo sovietico, del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco. È ancora più importante notare, tuttavia, come la teoria contraddica e smentisca questa interpretazione: posto che le monarchie e le democrazie sono deficitarie in quanto Stati, la democrazia è comunque peggiore della monarchia.

    Esaminando l’una e l’altra da un punto di vista teorico, è evidente come la transizione dalla monarchia alla democrazia riguardi null’altro che il fatto che il “proprietario” di un monopolio ereditario (il principe, o re) sia rimpiazzato da “custodi” dello stesso monopolio, temporanei e intercambiabili (presidenti, primi ministri, membri del parlamento). Sia i re che i presidenti produrranno mali; però un re, siccome è il proprietario del monopolio della forza e può eventualmente venderlo o trasmetterlo in eredità ai figli, si curerà di evitare che le sue azioni si ripercuotano negativamente sul valore del capitale di tale monopolio. Come proprietario del “suo” territorio, il re sarà al confronto più lungimirante. Per preservare o eventualmente aumentare il valore della sua proprietà, tenderà a sfruttare i suoi sudditi con moderazione e in modo calcolato.

    Viceversa, i “custodi” democratici temporanei e intercambiabili non sono proprietari del paese, ma finché sono in carica è permesso loro farne uso a proprio vantaggio. Essi posseggono il suo attuale valore d’uso, ma non il suo valore di capitale. E questo non basta ad eliminare lo sfruttamento, anzi rende tale sfruttamento più miope (essendo orientato esclusivamente al presente) e sconsiderato, cioè perseguito senza alcun riguardo per il valore del capitale di un paese.

    E non è nemmeno un pregio della democrazia il fatto che esista libertà di entrata per quel che attiene ogni posizione di governo (mentre in una monarchia l’accesso ad una posizione di governo è a discrezione del re). Al contrario, bisogna sottolineare come soltanto la concorrenza nella produzione di beni sia una cosa positiva. La concorrenza nella produzione di mali non è affatto buona: anzi, è essa stessa un male.
    I re, che erano tali per ragioni dinastiche, potevano rivelarsi dilettanti imbelli oppure addirittura brave persone. E, nel caso fossero invece “pazzi”, essi sarebbero stati presto messi in condizione di non nuocere o, se ce ne fosse stato bisogno, uccisi, da parenti stretti preoccupati per le sorti della dinastia.

    Di converso, la selezione di chi governa attraverso le elezioni popolari rende pressoché impossibile che una persona innocua o persino onesta possa mai raggiungere la vetta del potere. Presidenti e primi ministri agguantano le loro posizioni come risultato della propria bravura, quali demagoghi privi di inibizioni morali. Ancora, la democrazia assicurerebbe virtualmente la presenza al governo di soli uomini pericolosi.
    In particolare, la democrazia promuove un aumento nel tasso sociale di preferenza temporale (orientamento al presente) ed in tal modo causa l’“infantilizzazione” della società. Ciò implica tasse continuamente in crescita, il passaggio da un sistema di gold standard a un sistema che fa perno sul denaro cartaceo (paper money) e una vieppiù importante inflazione, un flusso legislativo senza fine, e un debito “pubblico” sempre in crescita.

    Così, la democrazia conduce ad un risparmio sempre più esiguo, ad una maggiore incertezza legale, al relativismo morale, all’assenza di una vera legge e al crimine. Inoltre, la democrazia è uno strumento per la confisca della ricchezza e del reddito, e per la loro redistribuzione.
    Ciò implica l’ “esproprio” legislativo della proprietà di alcuni – i proprietari di un dato bene – e la “distribuzione” di esso ad altri – i non proprietari della medesima cosa. E siccome ciò che viene redistribuito è presumibilmente qualcosa che ha valore – della quale i proprietari hanno troppo ed i non proprietari hanno troppo poco – ogni redistribuzione siffatta implica che l’incentivo a produrre qualcosa che valga viene sistematicamente ridotto.

    Infine, le democrazie comportano un cambiamento radicale nel modo di condurre la guerra. Potendo, in virtù della tassazione, esternalizzare i costi delle loro aggressioni sugli altri, sia i re che i presidenti saranno sempre più aggressivi e guerrafondai di quanto non siano normalmente gli uomini. Tuttavia, il motivo che spinge un re alla guerra è tipicamente una disputa sull’eredità e sul possesso di un dato territorio.
    L’obiettivo di un tale conflitto è tangibile e territoriale: guadagnare il controllo su piccole estensioni di terra ed i suoi abitanti. E per raggiungere questo obiettivo è nell’interesse del sovrano distinguere fra i combattenti (i suoi nemici, e obiettivo dell’attacco) e i non-combattenti e le loro proprietà (da lasciar fuori dalla guerra e cui non arrecare danno).

    La democrazia ha trasformato le “guerre limitate” dei re in guerre totali. Il motivo per cui si va in guerra è diventato ideologico – è stato contrabbandato di volta in volta sotto la parola d’ordine della “democrazia”, piuttosto che quella della “libertà”, della “civiltà”, dell’ “umanità”. L’obiettivo è sfuggente: la “conversione” ideologica dei perdenti preceduta dalla loro resa “incondizionata” (la quale, dato che nessuno può mai esser certo della sincerità di una conversione, potrebbe richiedere mezzi quali l’omicidio di massa dei civili).
    In tal modo la distinzione fra combattenti e non-combattenti si fa più opaca e sotto la democrazia è destinata a scomparire, mentre le masse diventano protagoniste della guerra (a causa della coscrizione, e non certo per volontà popolare) ed i “danni collaterali” diventano parte della strategia militare.

    Mito numero tre
    Il terzo mito da sfatare è che non ci sia alternativa alle social-democrazie occidentali, ricalcate sul modello americano. Ancora una volta, un’analisi di tipo teorico suggerisce qualcosa di diverso.
    In primo luogo, questa credenza è falsa poiché il moderno Stato sociale non è un sistema economico “stabile”. Esso è condannato a collassare sotto il suo stesso parassitismo, esattamente come il socialismo nella sua variante sovietica è imploso una decina d’anni fa. Ancora più importante, tuttavia, è il fatto che un’alternativa economicamente stabile alla democrazia esiste. Il nome che propongo per tale alternativa è: “ordine naturale”.

    In un ordine naturale ogni risorsa scarsa, inclusa tutta la terra, è posseduta privatamente, ogni impresa è finanziata dai consumatori (che ne acquistano volontariamente i prodotti) oppure da benefattori privati, e vi è libero accesso ad ogni linea di produzione, inclusa la sicurezza, l’arbitraggio e il peacemaking.
    Mentre nel corso della sua storia lo Stato moderno ha progressivamente disarmato i propri sudditi in modo di poterli dominare e derubare con più facilità (rendendoli al contempo più vulnerabili agli attacchi dei terroristi e dei comuni criminali), un ordine naturale è caratterizzato dalla presenza di una cittadinanza armata.

    A questa caratteristica si unisce poi la presenza di compagnie d’assicurazioni, che giocano un ruolo importante come fornitori di sicurezza e protezione.
    Gli assicuratori incoraggiano il possesso di armi offrendo tariffe inferiori ai propri clienti armati (ed esperti nell’uso di quelle stesse armi). Per la loro stessa natura, le assicurazioni sono agenzie difensive. Solo un danno “accidentale” – non autoinflitto, causato o provocato – è “assicurabile”.

    Ad aggressori e provocatori verrebbe rifiutata copertura assicurativa e dunque essi verrebbero indeboliti. E siccome le assicurazioni dovrebbero indennizzare i loro clienti nel caso siano vittime di un danno, esse sarebbero costantemente preoccupate della prevenzione di aggressioni criminali, del recupero delle proprietà rubate e della restituzione alle vittime (o del loro risarcimento).
    Inoltre, la relazione fra un’assicurazione e un cliente è contrattuale. Le regole del gioco sono fissate e accettate dagli uni e dagli altri.
    Un’assicurazione non può “legiferare” o cambiare unilateralmente i termini del contratto. In particolare, nel caso un assicuratore voglia attrarre una clientela sempre più ampia, egli deve contemplare nei contratti che stipula una soluzione per i prevedibili conflitti non solo fra i clienti di una stessa agenzia, ma anche fra questi e i clienti di un’altra assicurazione.

    Per un’assicurazione, l’unico modo per risolvere in modo soddisfacente le conflittualità di questo secondo tipo è legarsi essa stessa contrattualmente con una terza parte, che svolga la funzione di arbitraggio. È altrettanto ovvio che le compagnie d’assicurazione in conflitto devono accordarsi sull’arbitro o sulla compagnia d’arbitraggio cui affidare il compito di dirimere una disputa, e a sua volta per risultare gradito alle assicurazioni un arbitro deve produrre un servizio (in termini di procedura legale e giudizio sostanziale) che possa raccogliere il più ampio consenso possibile tra i suoi clienti.

    Così, contrariamente alle condizioni in cui versiamo nell’epoca dello statalismo, un ordine naturale è caratterizzato da una legge stabile e predicibile e da una crescente armonia legale.
    Inoltre, c’è un altro modo nel quale le compagnie d’assicurazione promuoverebbero lo sviluppo di un’autentica sicurezza. Gli Stati non hanno soltanto disarmato i cittadini portando via loro le armi, ma gli Stati democratici in particolare l’hanno fatto derubandoli del diritto di escludere e promuovendo invece, attraverso varie politiche cosiddette “anti-discriminatorie” (politiche di affirmative action e multiculturali), una forma di integrazione forzata. In un ordine naturale, il diritto di escludere che è intrinseco nella stessa idea di proprietà privata sarebbe restituito ai proprietari.

    Di conseguenza, abbassando il costo della produzione della sicurezza e migliorando invece la sua qualità, un ordine naturale sarebbe caratterizzato da varie forme di discriminazione legittima: separazione spaziale, segregazione, omogeneità culturale, esclusività e esclusione.

    Inoltre, se gli Stati hanno minato le istituzioni sociali intermedie (famiglie, chiese, comunità locali, e club), e i gradi ed i livelli d’autorità ad esse associati così da aumentare il proprio potere nei confronti di individui uguali ed ugualmente isolati, un ordine naturale è segnatamente anti-egualitario: sarebbe “elitario”, “gerarchico”, “proprietarista”, “patriarcale”, e la sua stabilità dipenderebbe in parte dall’esistenza di un’aristocrazia naturale – volontariamente riconosciuta e conscia della propria importanza.

    Strategia
    Come si potrebbe passare dallo scenario presente a quello che ho brevemente delineato in questa occasione? Sono convinto che la risposta stia nella possibilità di innescare una serie di “secessioni” che riducano drasticamente le dimensioni delle unità politiche.
    Comunemente si presuppone che le unità politiche più grandi – e alla fine un unico governo mondiale – comportino mercati più vasti e un aumento della ricchezza. Ma piuttosto che riflettere una verità, questo punto di vista ortodosso dimostra semplicemente che la storia viene scritta dai vincitori.

    L’integrazione politica (centralizzazione) e l’integrazione economica (mercato) sono due fenomeni completamente distinti. L’integrazione politica comporta una maggiore capacità per uno Stato di imporre tasse e regolamentare la proprietà (esproprio). L’integrazione economica rappresenta una estensione della divisione interpersonale ed interregionale della partecipazione al lavoro e al mercato.
    Esiste, inoltre, un’importante relazione indiretta fra le dimensioni di uno Stato e il suo tasso di integrazione economica. Un governo centrale con poteri su territori vasti – molto meno di un unico governo mondiale – non può nascere ab ovo. Tutte le istituzioni che hanno il potere di tassare e regolamentare la proprietà privata devono, al contrario, nascere piccole. Le dimensioni piccole contribuiscono alla moderazione. Un governo piccolo ha molti concorrenti, e se tassa e regola i suoi cittadini più dei suoi concorrenti sarà inevitabilmente soggetto a subire l’emigrazione del lavoro e del capitale.

    Come abbiamo visto, è proprio il fatto che l’Europa avesse una struttura fortemente decentralizzata composta da innumerevoli unità politiche indipendenti che spiega l’origine del capitalismo nel mondo occidentale. Non è un caso che il capitalismo sia nato in condizioni di estrema decentralizzazione politica: nelle città-stato del Nord Italia, nella Germania meridionale e nei Paesi Bassi secessionisti.
    La competizione fra piccoli Stati per avere soggetti da tassare li pone in conflitto fra loro. Il risultato di questi conflitti tra Stati è che pochi di essi riescono a espandere i loro territori. Naturalmente, sono diversi i fattori che determinano quali stati vincono in questo processo di eliminazione concorrenziale, ma a lungo termine il fattore decisivo risulta la quantità relativa di risorse economiche a disposizione di un governo. A parità di condizioni, minore è l’onere fiscale e di regolamentazione imposto da un governo alla sua economia, e più cresce la quantità di ricchezza nazionale dalla quale lo Stato può attingere per sostenere conflitti con gli Stati vicini. Gli Stati che tassano e regolamentano al minimo le proprie economie – gli stati liberali – in genere riescono a espandere il loro territorio alle spese di quelli non liberali. Tuttavia, man mano che i governi più liberali sconfiggono quelli meno liberali, essi stessi avranno sempre meno incentivi a continuare una politica improntata ai principi liberali.

    Avvicinandosi allo scenario di uno Stato mondiale unico, scompaiono tutte le possibilità di opporsi a un governo votando coi piedi (nel senso di emigrare in Stati meno oppressivi). Dovunque si vada, si ritrovano le stesse strutture fiscali e la medesima regolamentazione. Eliminato così il problema dell’emigrazione, viene meno uno dei principali freni all’espansione dei governi.
    Alla luce di tutto ciò, quindi, vi sono argomenti a favore della secessione.

    Inizialmente, la secessione non significa altro che spostare il controllo sulla ricchezza nazionale da un grande governo centrale ad uno più piccolo e regionale. Dipende in gran parte dalla politica regionale se questo porterà a maggiore o minore integrazione economica e benessere. Comunque la secessione stessa ha un impatto positivo sulla produzione, giacché una delle prime ragioni che l’hanno determinata è tipicamente la convinzione dei secessionisti di essere sfruttati da altri.
    Inoltre, come il centralismo tende alla fin fine a promuovere la disintegrazione economica, così la secessione tende a incoraggiare l’integrazione e lo sviluppo economico. La secessione comporta sempre maggiori opportunità di migrazione interregionale. Per evitare di perdere la parte più produttiva della sua popolazione, un governo secessionista è spinto sempre più ad adottare politiche interne relativamente liberali.

    In particolare, più un paese è piccolo, maggiore è lo stimolo a scegliere il libero mercato. Qualsiasi interferenza del governo nel commercio con l’estero limita necessariamente le possibilità di scambi infraterritoriali mutuamente vantaggiosi, causando così un relativo impoverimento. Ma, nell’ipotesi su avanzata, più un paese e il suo mercato interno sono piccoli, più drammatico sarà questo effetto. Un paese delle dimensioni degli Stati Uniti, per esempio, potrà raggiungere uno standard di vita relativamente alto anche rinunciando al commercio con l’estero. Se invece, per esempio, le città o le contee a predominanza serbe all’interno della Croazia secedessero da questa e perseguissero lo stesso tipo di protezionismo ne conseguirebbe un disastro. Quindi, più piccolo è un territorio e il suo mercato interno, più è probabile che esso scelga il libero scambio.

    La secessione, allora, non rappresenta un anacronismo, ma la forza potenzialmente più rivoluzionaria della storia, soprattutto alla luce del fatto che, con la caduta dell’Unione Sovietica, ci siamo mossi più vicino che mai alla creazione di un “nuovo ordine mondiale”.
    La secessione promuove l’integrazione e lo sviluppo. Il processo di centralizzazione ha creato governi sempre più intrusivi e onerosi, la minaccia di uno statalismo globale preoccupato di assicurare il nostro benessere si fa sempre più opprimente, così come l’incubo di guerra e stagnazione, o addirittura di un declino degli standard di vita.

    La secessione, se sufficientemente diffusa, può imporre una svolta a questa situazione. Il mondo sarebbe composto da decine di migliaia di diversi paesi, regioni e cantoni e da centinaia di migliaia di libere città indipendenti come le “bizzarrie” rappresentate oggi da Monaco, Andorra, San Marino, Liechtenstein, Hong Kong, Singapore. Il risultato sarebbe un grande aumento delle opportunità per migrazioni economicamente motivate, entro una logica di libero scambio, e una valuta internazionale come l’oro. Sarebbe un mondo caratterizzato da una prosperità, una crescita economica e un progresso culturale senza precedenti.

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