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    Predefinito 15 luglio (13 luglio) - S. Enrico II imperatore

    Dal sito SANTI E BEATI:

    Sant' Enrico II Imperatore e Re

    13 luglio - Memoria Facoltativa

    Bad Abbach , Baviera o Hildesheim, 6 maggio 973 o 978 - Bamberga, Germania, 13 luglio 1024

    L'imperatore Enrico II è un esempio di rettitudine nella difficile arte del governare: per questo oltre che santo è patrono delle teste coronate. Nato nel 973 presso Bamberga, in Baviera, crebbe in un ambiente cristiano. Il fratello Bruno divenne vescovo di Augsburg (Augusta), una sorelle si fece monaca e l'altra andò in sposa a un santo, il re d'Ungheria Stefano. Lui venne affidato per l'educazione ai canonici di Hildesheim e, in seguito, al vescovo di Regensburg (Ratisbona), san Wolfgang. Si preparò così a un giusto esercizio del potere, cosa che avvenne dapprima quando divenne Duca di Baviera, e poi nel 1014 quando - già re di Germania e d'Italia - Papa Benedetto VIII, lo incoronò a guida del Sacro Romano Impero. Tra i consiglieri ebbe Odilone, abate di Cluny, centro di riforma della Chiesa. Enrico morì nel 1024. Fu lui a sollecitare l'introduzione del Credo nella Messa domenicale. (Avvenire)

    Patronato: Oblati benedettini

    Etimologia: Enrico = possente in patria, dal tedesco

    Emblema: Corona, Globo, Scettro

    Martirologio Romano: Sant’Enrico, che imperatore dei Romani, si adoperò insieme alla moglie santa Cunegonda per rinnovare la vita della Chiesa e propagare la fede di Cristo in tutta l’Europa; mosso da zelo missionario, istituì molte sedi episcopali e fondò monasteri. A Grona vicino a Göttingen in Germania lasciò in questo giorno la vita.

    Martirologio tradizionale (15 luglio): Sant'Enrico primo, Imperatore Romano e Confessore, il cui giorno natalizio è ricordato il tredici di questo mese.

    (13 luglio): A Bamberga il natale di sant'Enrico primo, Imperatore Romano e Confessore, il quale con santa Cunegonda, sua moglie, conservò perpetua verginità, e indusse santo Stefano, Re d'Ungheria, con quasi tutto il suo regno, ad abbracciare la fede di Cristo. La sua festa si celebra il quindici di questo mese.

    Nella storia della Chiesa riscontriamo non poche coppie di sposi ascese alla gloria degli altari, vicende di santità coniugale sovente purtroppo poco conosciute, come quella di Cunegonda ed Enrico, quest’ultimo singolarmente festeggiato in data odierna nell’anniversario della sua morte. Le notizie sul suo conto ci provengono da due versioni della sua Vita, attribuite ad Adalberto di Utrecht ed Adalberto di Bamberga.
    Nato nel 972 dal duca bavarese Enrico il Litigioso e Gisella di Borgogna, Enrico fu istruito dal vescovo di Ratisbona, San Volfango. Enrico ebbe un fratello, Bruno, che rinunciò agli agi della vita di corte per divenire pastore d’anime come vescovo di Augusta, nonché due sorelle: Brigida, che si fece monaca, e Gisella, che andò in sposa al celebre Santo Stefano d’Ungheria. Nel 995 Enrico II succedette al padre quale duca di Baviera e nel 1002 al cugino Otone III come re di Germania. Contro Enrico insorse il celebre Arduino d’Ivrea, che dopo tante fatiche aveva ottenuto la corona d’Italia, ma questi lo sconfisse con un’armata e poi raggiunse Roma con sua moglie Cunegonda per ricevere la corona imperiale da Papa Benedetto VIII, che lo pose così a guida del Sacro Romano Impero.
    Enrico si mostrò in vari modi enefattore della Chiesa, restaurando le sedi di Hildeshein, Magdeburgo, Strasburgo e Meersburg. Nel 1006 fondò la diocesi di Bamberga ed in tale città fece edificare la cattedrale ed un monastero, onde rafforzare il suo potere in quella parte della Germania. In questa sua opera fu osteggiato dai vescovi di Wurzburg ed Eichstatt, che perdettero parte del territorio delle loro diocesi. Il sovrano pensò bene di ottenere al riguardo l’approvazione pontificia e lo stesso Benedetto VIII officiò nel 1020 la consacrazione della nuova cattedrale.
    Il santo imperatore sostenne la riforma cluniacense, in particolare Sant’Odilone di Cluny e Riccardo di Saint-Vanne, e fu lui inoltre a sollecitare l’introduzione della recita del Credo nella Messa festiva, pur restando un potente sovrano intento ad estendere la sua influenza ed il suo potere. Alcune delle sue azioni politiche appaiono infatti equivoche, se analizzate da un punto di vista del bene del cristianesimo: rovesciò infatti la politica dei suoi predecessori nei confronti dell’Oriente cristiano e, come ebbe ad evidenziare il Dvornik, per la prima volta “il capo dell’impero del cristianesimo occidentale prende le armi contro un paese [la Polonia], il cui carattere cristiano è stato così apertametne e solennemente benedetto dal suo predecessore”.
    Pur di perseguire i suoi scopi, strinse alleanze con alcune popolazioni pagane, consentendo loro di praticare le loro religioni apertamente e di portare in battaglia i loro stendardi ed i loro dei. A molti suoi contemporanei tale atteggiamento parve in assoluto contrasto con quello tradizionale dell’imperatore in dovere di convertire i pagani. Fu perciò aspramente criticato da San Bruno di Querfurt, missionario proprio in terra pagana: “E’ giusto perseguitare una nazione cristiana e concedere amicizia ad una nazione pagana? In che modo può Cristo avere relazione con Satana? In che modo possiamo paragonare la luce al buio? Non è meglio combattere i pagani per il bene del cristianesimo, piuttosto che far torto ai cristiani per onori terreni?”.
    Queste sono solo alcune delle ragioni per cui pare fu problematico, agli occhi dei suoi primi biografi, dipingere Enrico II come un santo ed a tal fine non restò che creare, forse artificiosamente edificanti leggende che lo descrissero come un governante riluttante ed un monaco sincero, intento a condurre uno stile di vita ascetico, vivendo il matrimonio in castità. Si trattò però in gran parte di esagerazioni volte ad esaltare oltre misura la sua opera pubblica e la sua vita privata.
    Enrico tornò nuovamente in Italia nel 1021, per una spedizione in Puglia contro i bizantini, ma si ammalò e sulla via del ritorno fu portato a Montecassino, ove secondo la leggenda guarì miracolosamente pregando sulla tomba di San Benedetto. Restò tuttavia storpio per il resto dei suoi giorni, fino alla morte avvenuta a Bamberga il 13 luglio 1024. Sua moglie Cunegonda si ritirò in un monastero benedettino da lei fondato ed infine fu sepolta accanto al marito nella cattedrale di Bamberga.
    L’imperatore Enrico II, forse innanzitutto per il suo aperto appoggio concesso al papato, fu canonizzato nel 1152, o secondo altre fonti autorevoli nel 1146 dal papa Beato Eugenio III, ma solo nel 1200 fu raggiunto nel canone dei santi dalla moglie Cunegonda.

    Da una «Vita antica» di sant'Enrico.

    Questo santo servo di Dio, ricevuta l'unzione regale, non fu contento delle ristrettezze di un regno terreno, ma, per conseguire la corona della vita immortale, si propose di militare sotto le insegne del sommo Re. Servire lui è regnare! Perciò usò grandissima diligenza nel diffondere l'amore alla religione, nell'assicurare alle chiese benefici e suppellettili preziose. Stabilì nel suo stesso palazzo la sede episcopale di Bamberga sotto i titoli dei principi degli apostoli Pietro e Paolo e del glorioso martire Giorgio. Ne fece omaggio con diritti particolari alla santa Chiesa di Roma, per rendere alla prima Sede l'onore dovutole per diritto divino. Con questo alto patronato diede solide basi alla sua fondazione.
    Perché poi a tutti sia noto con quale vigilanza quest'uomo santo abbia provveduto la sua nuova chiesa dei beni della pace e della tranquillità anche per i tempi futuri, inseriamo qui, a conferma, una sua lettera: «Enrico per divina Provvidenza re, a tutti i figli della Chiesa presenti e futuri. Siamo invitati e ammoniti dai salutari insegnamenti della Sacra Scrittura di abbandonare i beni temporali e le comodità di questa terra e cercare con ogni mezzo di conseguire le dimore eterne dei cieli. Infatti il godimento della gloria presente è transitorio e vano, a meno che non sia orientato all'eternità celeste. E la misericordia di Dio provvide al genere umano un utile rimedio quando stabilì che i beni della terra fossero il prezzo della patria celeste.
    Perciò a noi, memori di questa clemenza e ben sapendo di essere stati innalzati alla dignità regale per una gratuita disposizione della misericordia di Dio, è parsa cosa buona non solo di ampliare le chiese costruite dai nostri predecessori, ma di costruirne delle nuove a maggior gloria di Dio e dotarle di benefici e favori in segno della nostra devozione. Perciò, porgendo vigile ascolto ai comandamenti del Signore e osservando i divini consigli, desideriamo mettere in serbo in cielo i tesori elargiti dalla generosa liberalità divina; in cielo dove i ladri non sfondano né rubano, né il tarlo o la tignola li consumano; in cielo dove, mentre ora ci diamo premura di raccogliervi tutte le nostre cose, anche il nostro cuore possa rivolgersi più spesso con desiderio e con amore.
    Pertanto vogliamo che tutti i fedeli sappiano che noi abbiamo innalzato alla dignità di prima sede episcopale una località che si chiama Bamberga, lasciataci in eredità dal nostro padre, perché là si mantenga un solenne ricordo di noi e dei nostri genitori e si offra continuamente il sacrificio di salvezza per tutti i fedeli».

    ORAZIONE

    O Dio, che hai colmato dei tuoi doni Sant’Enrico
    e dalla regalità terrena lo hai innalzato alla corona eterna,
    assisti e proteggi i tuoi fedeli, perchè tra le vicende del mondo
    corrano incontro a te nella giustizia e nella santità.
    Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
    e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
    per tutti i secoli dei secoli. Amen.

    Autore: Fabio Arduino






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    S. Enrico II, Imperatore, e S. Cunegonda, Bamberga

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    Enrico II è incoronato da Cristo, Miniatura dal Sacramentario di Enrico II, Bayerischen Staatsbibliothek, Monaco

    Hartmann Schedel, Enrico II e Cunegonda del Lussemburgo, Cronache di Norimberga, XV-XVI sec.

    Autore anonimo, S. Enrico imperatore con sua moglie S. Cunegonda, XV sec., Mährische Galerie, Tafelbild Brünn

    Enrico II e sua moglie Cunegonda

    Marzio o Marco Ganassini, Enrico II, imperatore, conferma a papa Benedetto VIII le donazioni fatte dai suoi predecessori e ne aggiunge di nuove, XVII sec., 1° Sala, Piano nobile, Archivio Segreto Vaticano, Palazzo apostolico, Città del Vaticano

  6. #6
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    Un'altra biografia

    Enrico II
    il Santo
    di Ornella Mariani


    Figlio di Gisella di Borgogna e di Enrico I il Pacifico alla cui morte, nel 995, ereditò la guida del Ducato; nato a Bad Abbach, in Baviera, verso il 973; sposato a Cunegonda del Lussemburgo e morto a Gottinga il 13 luglio del 1024, Enrico II fu l’ultimo Imperatore della dinastia sassone.
    Eletto a Magonza nel giugno del 1002, in successione ad Ottone III privo di discendenza diretta, elaborò un programma politico fondato esclusivamente sugli interessi tedeschi, fin dal suo insediamento fronteggiando la ribellione di Baldovino di Fiandra, di Federico del Lussemburgo e dell’Arcivescovo di Metz; combattendo in difesa dei confini orientali minacciati dagli Slavi; contrastando il Duca cristiano Boleslao, aspirante al trono polacco.
    Le sue guerre, a causa delle quali trascurò la questione italiana; isempre più pressanti appelli dei Vescovi e le richieste della Feudalità ecclesiale, pilastro della sovranità tedesca, produssero la perdita della Lusazia e l’affermazione di autonomia del Regno di Polonia e del suo nuovo Sovrano che aveva fatto causa comune col Margravio Enrico di Schweinfurt.
    In definitiva, preso dalle vicende interne, Enrico attese alla sola soluzione delle questioni germaniche, aggravate dall’orientamento politico filoitaliano del predecessore e dalla conseguente rottura degli equilibri feudali, finché fu costretto ad intervenire contro il costituirsi, proprio nella penisola, di varie Signorie ecclesiali e contro la sanguinosa rivalità esplosa tra Grandi Vassalli laici e Vescovi investiti di potestà feudale.
    In quel turbolento contesto, emerse anche il complesso scontro fra Arduino d’Ivrea ed i Vescovi Pietro e Leone di Vercelli: la Marca d'Ivrea, nodale per la vastità del suo territorio e per la felice posizione geografica, nell'ultimo decennio del secolo X, era costituita dai Comitati di Vercelli, Lomello, Pombia, Bulgaria, Ossola e Stazzona. Arduino, che ne era a capo, era entrato in conflitto con l’Episcopato vercellese per il possesso di Caresana, ceduta nel 987 alla chiesa locale. Le tensioni si erano acuite nel febbraio del 997 quando, presa d’assalto la città, le sue milizie avevano messo al rogo il Primate Pietro. Nel 998, innalzato al soglio episcopale, il Logoteta imperiale Leone, col Vescovo Varmondo, lo aveva accusato apertamente di omicidio e di usurpazione presso Gregorio V e Ottone III, ottenendone la deposizione e la confisca dei beni. Tuttavia, pur condannato, egli non aveva rispettato le prescrizioni del bando ed era restato in armi nella Marca mostrandosi fieramente ribelle nell'anno 1000, quando l’Imperatore, tornato in Italia, aveva concesso a Varmondo l'immunità e ad Olderico Manfredi il possesso del distretto di Ivrea.
    Alla morte del Sovrano, i Grandi Vassalli laici dell’Alta Italia, finalmente liberi dalla inclinazione al Clero e persuasi di poter recidere il legame fra Regno italico e Germania, decisero di conferire la corona a qualcuno in grado di sfidare la vessatoria politica tedesca che aveva feudalizzato l’Alto Clero, rendendolo titolare di attribuzioni civili ed immunità: fecero ricadere la scelta su Arduino d’Ivrea, acerrimo nemico dei Vescovi, incoronandolo nella basilica di san Michele a ventiquattro giorni dal decesso di Ottone, il 15 febbraio del 1002.
    A parere di molti storici, quella elezione rappresentò una riscossa nazionale ma, per quanto un solido partito antitedesco tendesse ad affrancare l’Italia da qualsivoglia interferenza esterna, più che gli interessi generali contarono gli interessi di alcuni ceti: Arduino, così, non fu un Sovrano nazionale; non dispose dell’appoggio dei Nobili laici; non ebbe il consenso delle classi popolari che, seppur insofferenti alla signorìa germanica, si tennero ostili all’Aristocrazia e, referente solo di una faziosa minoranza, a fronte delle incalzanti denunce dell’Episcopato convinto della nullità della sua elezione irritualmente celebrata dall’Arcivescovo di Pavia e non di Milano, instaurò metodi persecutori e ritorsivi trattando, come testimoniò il cronista Titmaro, ...i vescovi come bifolchi...
    La Chiesa, pertanto, guardò alla Germania auspicando un intervento imperiale ed Enrico inviò un modesto esercito capeggiato da Ottone di Carinzia e supportato dall’Arcivescovo di Ravenna e dal Marchese Teobaldo di Toscana: acquartieratosi a Verona, il sedicente Sovrano italiano gli inibì l’accesso all’Italia lo sconfisse a Fabbrica, alla fine di dicembre del 1002.
    Nel 1004, l’Imperatore decise di pareggiargli personalmente i conti: giunto a Trento con la moglie ai primi di aprile e ricevuto l’omaggio di tutti i Signori italiani ostili all’usurpatore, che lo attendeva lungo l’Adige, scelse il percorso della valle del Brenta; attraversò Bassano ed entrò nella pianura veneta ma il ribelle, per la defezione degli alleati, riparò nella sua Marca.
    Occupata Verona e posto un contingente al suo inseguimento, Enrico puntò su Pavia ove il 15 maggio del 1004 fu solennemente incoronato nella chiesa di san Michele, dal Vescovo di Milano Arnolfo. La cerimonia, però, si concluse con un bagno di sangue: aizzato dai residui partigiani di Arduino, il Popolo si sollevò contro i Tedeschi facendone strage per una intera notte.
    Occorsero ben dieci giorni, per sedare i tumulti; poi, il 25 maggio, reso omaggio alla tomba di sant’Ambrogio, il Sovrano lasciò l’Italia attraverso il Gottardo.
    Considerandosi a tutti gli effetti ancora Re, Arduino punì i traditori mentre un diffuso clima di contrapposizioni motivate da rivalse autonomistiche agitava le regioni del Nord italiano: Vescovi contro Vescovi; città contro città; Valvassori e Valvassini contro i Grandi Vassalli del Regno; Arnolfo di Milano contro il Vescovo astigiano Alrico; Verona contro la Signorìa del Marchese Oberto II; Lucca contro Pisa.
    Il contagio si spinse fino a Roma ove, parallelamente all’incoronazione lombarda di Enrico, era insorta la fazione del Senatore Giovanni Crescenzio che aveva consolidato il suo potere con un groviglio di parentele; con l’apertura di intense relazioni con Costantinopoli; con la mobilitazione di tutti i nemici della Corona tedesca.
    Alla sua morte, però, i sostenitori dell’Impero si erano raccolti attorno alla famiglia dei Conti di Tuscolo all’epoca rappresentata da Alberico, Romano e Teofilatto. Scomparso, intanto, Sergio IV, i Crescenzi designarono Papa un prete di nome Gregorio che arretrò quando i Tuscolani consacrarono il giovane Teofilatto col nome di Benedetto VIII.
    Era il 20 aprile del 1012: una volta insediato, costui rafforzò la posizione familiare sottraendo ai rivali ogni incarico pubblico; ponendo l’amministrazione cittadina nelle mani prima di Alberico e poi di Romano, investiti della dignità di Consol e Dux; eliminando i nemici; garantendosi, per prevenire iniziative di pari segno di Gregorio, l’amicizia con l’Imperatore cui, grazie ai buoni uffici dei Vescovi di Vercelli, Piacenza e Parma, verso il finire del 1012 offrì l’incoronazione a Roma, in cambio della legittimità pontificia. Pertanto, nell’autunno del 1013 Enrico II tornò in Italia con un forte esercito; festeggiò con la moglie il Natale a Pavia; ricevette gli omaggi vassallatici e nel gennaio del nuovo anno scese a Ravenna, ove incontrò il Papa col quale proseguì fino a Roma: il 14 febbraio vi fu incoronato nella basilica di san Pietro, previo impegno solenne a difendere la Chiesa. Nei giorni successivi, dopo l’emanazione di diplomi imperiali in favore delle abbazie di Montecassino, san Vincenzo al Volturno e san Pietro in Ciel d’Oro, un Concilio consacrò suo fratello Arnolfo al soglio di Ravenna e Adalberto al soglio di Aricia; ma, a nove giorni da tali eventi e per cause sconosciute, Roma fu scossa da una violenta contrapposizione fra cittadini e soldati tedeschi.
    Era il 23 febbraio del 1014: verosimilmente s’era concluso un accordo fra Arduino ed i Crescenzi. Di fatto, si combatté tutto il giorno e tutta la notte sul ponte di Castel sant’Angelo ma l’Imperatore, sopraffatti i ribelli, si spostò in Toscana e poi a Pavia donde il 24 maggio riprese la via della Germania. Il suo viaggio non fu apertamente disturbato da Arduino che, limitatosi a vane incursioni nelle Signorìe ecclesiali, nel 1014 depose le armi; si ritirò nel monastero di Fruttiaria ed indossò il saio da penitente, spegnendosi il 14 dicembre del 1015: un pericoloso nemico dell’Impero era così scomparso dalla scena politica dando ad Enrico certezza che il suo dominio non sarebbe stato ulteriormente minacciato. Verso il 1016, pertanto, riguadagnata la successione del Regno di Rodolfo III di Borgogna, promosse la riforma conventuale in Lorena e nella Diocesi di Basilea, alla cui cattedrale, nel 1019, donò l'antependio dorato dell'altare e nel 1020 assegnò l'abbazia di Disentis al Vescovo di Bressanone.
    Ma altre vicende incombevano sui precari equilibri politici italiani: la scomparsa del Catepano bizantino Curcuas aveva messo in subbuglio la Puglia. La sua sostituzione con lo Stratega di Cefalonia Leone Tornicio aveva agitato Bari donde Melo, sua moglie Maralda e suo cognato Datto fuggirono a Capua per ricevere aiuti di Pandolfo II e del Papa: Benedetto procurò all’uno il necessario sostegno normanno e concesse all’altro una torre sul Garigliano contro i Saraceni.
    La Puglia fu recuperata: nel dicembre del 1017, l’Imperatore Basilio II sostituì Leone Tornicio con Basilio Bojannes che nell’ottobre del 1018 a Canne, sulla pianura a destra dell’Ofanto, sferrò un potente attacco ai ribelli di Melo, fuggito a Bamberga.
    Nella stessa città, in aprile del 1019, giunse anche Benedetto VIII per dirimere, su richesta di Enrico II, la controversia fra i Vescovi di Magonza e Wutzburg. Ma la ragione reale dell’incontro era altra: dopo la battaglia di Canne, temendo di essere spodestati ed allarmando la Chiesa, i Principi longobardi avevano riconosciuto l’alta sovranità dell’ Impero d’Oriente, sottomettendosi al Catepano bizantino.
    Il Papa persuase l’Imperatore ad intervenire nel Sud dell’Italia, mentre Melo si spegneva il 23 aprile del 1020 e con tutti gli onori veniva sepolto nella cattedrale di Bamberga. Nel novembre dell’anno successivo, alla testa di sessantamila fra Bavari, Lorenesi e Svevi, Enrico mosse dalla Germania; il 6 dicembre ricevette a Verona l’omaggio dei Grandi del Regno e, rafforzato da contingenti lombardi, trascorse il Natale presso il fratello Arnolfo a Ravenna ove divise l’esercito in tre corpi: affidò ventimila uomini a Pilgrim, Vescovo di Colonia incaricandolo di puntare su Capua e sottomettervi Pandolfo e Atenolfo; assegnò undicimila unità al Patriarca Poppo di Aquileia; tenne per sè trentamila ed oltre soldati.
    La marcia sulla Capitanata mosse da Benevento, ove egli incontrò il Papa nel marzo del 1022. Insieme cinsero d’assedio Troia che, dopo tredici settimane, cadde per fame mentre il Primate di Colonia prendeva prigionieri Pandolfo di Capua e il figlio di Guaimaro di Salerno. La spedizione imperiale era conclusa: seppur non sottratto ai Bizantini, il Mezzogiorno era stato piegato e la sovranità germanica era stata restaurata sui Principati longobardi; a Capua fu insediato il Conte Pandolfo di Teano, devoto alla Corona; a capo dell'abbazia di Montecassino fu posto il monaco Teobaldo; il comitato di Comino, presso l'alta valle del Liri, fu assegnato ai nipoti di Melo, sotto le cui insegne si raccolsero i Normanni superstiti, prima di costituire il primo nucleo della loro dominazione nell'Italia meridionale.
    Il 6 giugno Enrico II lasciò Troia, dopo essersi recato in pellegrinaggio a san Michele al Gargano. Nell’estate si fermò a Pavia ove tenne un Concilio di condanna contro concubinato e simonia ed ove emanò canoni in difesa dell’integrità dei patrimoni ecclesiali.
    Tornato in Germania, nell’aprile del 1024 vi ebbe notizia della morte del Papa il cui fratello Romano gli era subentrato al soglio, col nome di Giovanni XIX. L’Imperatore gli sopravvisse solo due mesi, spegnendosi il 13 luglio.
    Con la sua morte si estinse la dinastia sassone che aveva regnato centocinque anni in Germania e settantaquattro in Italia, ove egli aveva rafforzato l'autorità papale in un periodo foriero di grandi stravolgimenti politici e sociali: Venezia, Genova e Pisa coltivavano i germi della loro rivalità; il Sud si accingeva ad unificarsi sotto la guida dei Normanni; la servitù veniva agitando i suoi diritti, mentre la Borghesia si organizzava e la feudalità militare perdeva di consistenza; un risveglio delle coscienze pervadeva le genti ed insorgeva, insopprimibile, uno spirito di indipendenza.
    Molto pio e convinto assertore delle responsabilità imperiali nei confronti della fede e del benessere dei sudditi, parimenti ad Ottone I, Enrico II aveva esercitato un forte controllo sulla Chiesa e sui monasteri tedeschi conferendo al Clero un ruolo compensatore rispetto al potere ed all’ingerenza dell’Aristocrazia laica e promuovendo una riforma dei costumi, nello spirito dei princìpi propugnati dall'Ordine cluniacense.
    La sua morte fu accompagnata in Italia da furiose rivolte popolari e dall’incendio del palazzo imperiale di Pavia ed in Germania dal rimpianto di quella solida politica interna proseguita da Corrado II, iniziatore della dinastia di francone.
    Nel 1146, nella fase più aspra del conflitto vertente sulle prerogative imperiali e papali, in una Roma elevata a Comune e sconvolta dal carisma di Arnaldo da Brescia, designato campione di devozione, Enrico II fu canonizzato.

    Bibliografia:
    R. Panetta: I Saraceni in Italia
    V. Gleijesis: La storia di Napoli
    G.Scherr: Duemila anni di vita tedesca

    FONTE: www.italiamedievale.org

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    St. Henry II

    German King and Holy Roman Emperor, son of Duke Henry II (the Quarrelsome) and of the Burgundian Princess Gisela; b. 972; d. in his palace of Grona, at Gottingen, 13 July, 1024.

    Like his predecessor, Otto III, he had the literary education of his time. In his youth he had been destined for the priesthood. Therefore he became acquainted with ecclesiastical interests at an early age.

    Willingly he performed pious practices, gladly also he strengthened the Church of Germany, without, however, ceasing to regard ecclesiastical institutions as pivots of his power, according to the views of Otto the Great. With all his learning and piety, Henry was an eminently sober man, endowed with sound, practical common sense. He went his way circumspectly, never attempting anything but the possible and, wherever it was practicable, applying the methods of amiable and reasonable good sense. This prudence, however, was combined with energy and conscientiousness. Sick and suffering from fever, he traversed the empire in order to maintain peace. At all times he used his power to adjust troubles. The masses especially he wished to help.

    The Church, as the constitutional Church of Germany, and therefore as the advocate of German unity and of the claims of inherited succession, raised Henry to the throne. The new king straightway resumed the policy of Otto I both in domestic and in foreign affairs. This policy first appeared in his treatment of the Eastern Marches. The encroachments of Duke Boleslaw, who had founded a great kingdom, impelled him to intervene. But his success was not marked.

    In Italy the local and national opposition to the universalism of the German king had found a champion in Arduin of Ivrea. The latter assumed the Lombard crown in 1002. In 1004 Henry crossed the Alps. Arduin yielded to his superior power. The Archbishop of Milan now crowned him King of Italy. This rapid success was largely due to the fact that a large part of the Italian episcopate upheld the idea of the Roman Empire and that of the unity of Church and State.

    On his second expedition to Rome, occasioned by the dispute between the Counts of Tuscany and the Crescentians over the nomination to the papal throne, he was crowned emperor on 14 February, 1014. But it was not until later, on his third expedition to Rome, that he was able to restore the prestige of the empire completely.

    Before this happened, however, he was obliged to intervene in the west. Disturbances were especially prevalent throughout the entire north-west. Lorraine caused great trouble. The Counts of Lutzelburg (Luxemburg), brothers-in-law of the king, were the heart and soul of the disaffection in that country. Of these men, Adalbero had made himself Bishop of Trier by uncanonical methods (1003); but he was not recognized any more than his brother Theodoric, who had had himself elected Bishop of Metz.

    True to his duty, the king could not be induced to abet any selfish family policy at the expense of the empire. Even though Henry, on the whole, was able to hold his own against these Counts of Lutzelburg, still the royal authority suffered greatly by loss of prestige in the north-west.

    Burgundy afforded compensation for this. The lord of that country was Rudolph, who, to protect himself against his vassals, joined the party of Henry II, the son of his sister, Gisela, and to Henry the childless duke bequeathed his duchy, despite the opposition of the nobles (1006). Henry had to undertake several campaigns before he was able to enforce his claims. He did not achieve any tangible result, he only bequeathed the theoretical claims on Burgundy to his successors.

    Better fortune awaited the king in the central and eastern parts of the empire. It is true that he had a quarrel with the Conradinians over Carinthia and Swabia: but Henry proved victorious because his kingdom rested on the solid foundation of intimate alliance with the Church.

    That his attitude towards the Church was dictated in part by practical reasons, primarily he promoted the institutions of the Church chiefly in order to make them more useful supports his royal power, is clearly shown by his policy. How boldly Henry posed as the real ruler of the Church appears particularly in the establishment of the See of Bamberg, which was entirely his own scheme.

    He carried out this measure, in 1007, in spite of the energetic opposition of the Bishop of Wurzburg against this change in the organization of the Church. The primary purpose of the new bishopric was the germanization of the regions on the Upper Main and the Regnitz, where the Wends had fixed their homes. As a large part of the environs of Bamberg belonged to the king, he was able to furnish rich endowments for the new bishopric. The importance of Bamberg lay principally in the field of culture, which it promoted chiefly by its prosperous schools. Henry, therefore, relied on the aid of the Church against the lay powers, which had become quite formidable. But he made no concessions to the Church.

    Though naturally pious, and though well acquainted with ecclesiastical culture, he was at bottom a stranger to her spirit. He disposed of bishoprics autocratically. Under his rule the bishops, from whom he demanded unqualified obedience, seemed to be nothing but officials of the empire. He demanded the same obedience from the abbots. However, this political dependency did not injure the internal life of the German Church under Henry. By means of its economic and educational resources the Church had a blessed influence in this epoch.

    But it was precisely this civilizing power of the German Church that aroused the suspicions of the reform party. This was significant, because Henry was more and more won over to the ideas of this party. At a synod at Goslar he confirmed decrees that tended to realize the demands made by the reform party. Ultimately this tendency could not fail to subvert the Othonian system, moreover could not fail to awaken the opposition of the Church of Germany as it was constituted.

    This hostility on the part of the German Church came to a head in the emperor's dispute with Archbishop Aribo of Mainz. Aribo was an opponent of the reform movement of the monks of Cluny. The Hammerstein marriage imbroglio afforded the opportunity he desired to offer a bold front against Rome. Otto von Hammerstein had been excommunicated by Aribo on account of his marriage with Irmengard, and the latter had successfully appealed to Rome.

    This called forth the opposition of the Synod of Seligenstadt, in 1023, which forbade an appeal to Rome without the consent of the bishop. This step meant open rebellion against the idea of church unity, and its ultimate result would have been the founding of a German national Church. In this dispute the emperor was entirely on the side of the reform party. He even wanted to institute international proceedings against the unruly archbishop by means of treaties with the French king. But his death prevented this.

    Before this Henry had made his third journey to Rome in 1021. He came at the request of the loyal Italian bishops, who had warned him at Strasburg of the dangerous aspect of the Italian situation, and also of the pope, who sought him out at Bamberg in 1020. Thus the imperial power, which had already begun to withdraw from Italy, was summoned back thither. This time the object was to put an end to the supremacy of the Greeks in Italy. His success was not complete; he succeeded, however, in restoring the prestige of the empire in northern and central Italy.

    Henry was far too reasonable a man to think seriously of readopting the imperialist plans of his predecessors. He was satisfied to have ensured the dominant position of the empire in Italy within reasonable bounds. Henry's power was in fact controlling, and this was in no small degree due to the fact that he was primarily engaged in solidifying the national foundations of his authority.

    The later ecclesiastical legends have ascribed ascetic traits to this ruler, some of which certainly cannot withstand serious criticism. For instance, the highly varied theme of his virgin marriage to Cunegond has certainly no basis in fact.

    The Church canonized this emperor in 1146, and his wife Cunegond in 1200.

    Fonte: The Catholic Encyclopedia, vol. VII, New York, 1910

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    Da dom Prosper Guéranger, L’Année Liturgique - Le Temps après la Pentecôte, Paris-Poitiers, 1901, VI ediz., t. IV, p. 120-129

    LE XV JUILLET.

    SAINT HENRI, EMPEREUR.


    Henri de Germanie, deuxième du nom quant à la royauté, premier quant à l'empire, fut le dernier représentant couronné de cette maison de Saxe issue d'Henri l'Oiseleur, à laquelle Dieu, au dixième siècle, confia la mission de relever l'œuvre de Charlemagne et de saint Léon III. Noble tige, où l'éclat des fleurs de sainteté qui brillent en ses rameaux l'emporte encore sur la puissance dont elle parut douée, quand elle implanta dans le sol allemand les racines des fortes institutions qui lui donnèrent consistance pour de longs siècles.

    L'Esprit-Saint, qui divise comme il veut ses dons (1), appelait alors aux plus hautes destinées la terre où, plus que nulle part, s'était montrée l'énergie de son action divine dans la transformation des peuples. Acquise au Christ par saint Boniface et les continuateurs de son œuvre, la vaste contrée qui s'étend au delà du Rhin et du Danube était devenue le boulevard de l'Occident, sur lequel durant tant d'années elle avait versé la dévastation et la ruine. Loin de songer à soumettre à ses lois les redoutables tribus qui l'habitaient, Rome païenne, au plus haut point de sa puissance, avait eu pour suprême ambition la pensée d'élever entre elles et l'Empire un mur de séparation éternelle; Rome chrétienne, plus véritablement souveraine du monde, plaçait dans ces régions le siège même du Saint-Empire Romain reconstitué par ses Pontifes. Au nouvel Empire de défendre les droits de la Mère commune, de protéger la chrétienté contre les barbares nouveaux, de conquérir à l'Evangile ou de briser les hordes hongroises et slaves, mongoles, tartares et ottomanes qui successivement viendront heurter ses frontières. Heureuse l'Allemagne, si toujours elle avait su comprendre sa vraie gloire, si surtout la fidélité de ses princes au vicaire de l'Homme-Dieu était restée à la hauteur de la foi de leurs peuples !

    Dieu, en ce qui était de lui, avait soutenu magnifiquement les avances qu'il faisait à la Germanie. La fête présente marque le couronnement de la période d'élaboration féconde où l'Esprit-Saint, l'ayant créée comme à nouveau dans les eaux de la fontaine sacrée, voulut la conduire au plein développement de l'âge parfait qui convient aux nations. C'est dans cette période de formation véritablement créatrice que l'historien doit s'attacher principalement à étudier les peuples, s'il veut savoir ce qu'attend d'eux la Providence. Quand Dieu crée en effet, dans l'ordre de la vocation surnaturelle des hommes ou des sociétés coin nie dans celui de la nature elle-même, il dépose dès l'abord en son œuvre le principe de la vie plus ou moins supérieure qui doit être la sienne: germe précieux dont le développement, s'il n'est contrarié, doit lui faire atteindre sa fin; dont par suite aussi la connaissance, pour qui sait l'observer avant toute déviation, manifeste clairement à l'endroit de l'œuvre en question la pensée divine. Or, maintes fois déjà nous l'avons constaté depuis l'avènement de l'Esprit sanctificateur, le principe de vie des nations chrétiennes est la sainteté de leurs origines: sainteté multiple, aussi variée que la multiforme Sagesse de Dieu dont elles doivent être l'instrument (2), aussi distincte pour chacune d'elles que le seront leurs destinées; sainteté le plus souvent descendant du trône, et douée par là du caractère social que trop de fois plus tard revêtiront aussi les crimes des princes, en raison même de ce titre de princes qui les fait devant Dieu représentants de leurs peuples. Déjà aussi nous l'avons vu (3): au nom de Marie, devenue dans sa divine maternité le canal de toute vie pour le monde, c'est à la femme qu'est dévolue la mission d'enfanter devant Dieu les familles des nations (4) qui seront l'objet de ses prédilections les plus chères; tandis que les princes, fondateurs apparents des empires, occupent par leurs hauts faits l'avant-scène de l'histoire, c'est elle qui, dans le douloureux secret de ses larmes et de ses prières, féconde leurs œuvres, élève leurs desseins au-dessus de la terre et leur obtient la durée.

    L'Esprit ne craint point de se répéter dans cette glorification de la divine Mère; aux Clotilde, Radegonde et Bathilde, qui pour elle donnèrent en des temps laborieux les Francs à l'Eglise, répondent sous des cieux différents, et toujours à l'honneur de la bienheureuse Trinité, Mathilde, Adélaïde et Chunégonde, joignant sur leurs fronts la couronne des saints au diadème de la Germanie. Sur le chaos du dixième siècle, d'où l'Allemagne devait sortir, plane sans interruption leur douce figure, plus forte contre l'anarchie que le glaive des Othon, rassérénant dans la nuit de ces temps l'Eglise et le monde. Au commencement enfin de ce siècle onzième qui devait si longtemps encore attendre son Hildebrand, lorsque les anges du sanctuaire pleuraient partout sur des autels souillés, quel spectacle que celui de l'union virginale dans laquelle s'épanouit cette glorieuse succession qui, comme lasse de donner seulement des héros à la terre, ne veut plus fructifier qu'au ciel! Pour la patrie allemande, un tel dénouement n'était pas abandon, mais prudence suprême; car il engageait Dieu miséricordieusement au pays qui, du sein de l'universelle corruption, faisait monter vers lui ce parfum d'holocauste: ainsi, à l'encontre des revendications futures de sa justice, étaient par avance comme neutralisées les iniquités des maisons de Franconie el de Souabe, qui succédèrent à la maison de Saxe et n'imitèrent pas ses vertus.

    Que la terre donc s'unisse au ciel pour célébrer aujourd'hui l'homme qui donna leur consécration dernière aux desseins de l'éternelle Sagesse à cette heure de l'histoire; il résume en lui l'héroïsme et la sainteté de la race illustre dont la principale gloire est de l'avoir, tout un siècle, préparé dignement pour les hommes et pour Dieu. Il fut grand pour les hommes, qui, durant un long règne, ne surent qu'admirer le plus de la bravoure ou de l'active énergie grâce auxquelles, présent à la fois sur tous les points de son vaste empire, toujours heureux, il sut comprimer les révoltes du dedans, dompter les Slaves à sa frontière du Nord, châtier l'insolence grecque au midi de la péninsule italique; pendant que, politique profond, il aidait la Hongrie à sortir par le christianisme de la barbarie, et tendait au delà de la Meuse à notre Robert le Pieux une main amie qui eût voulu sceller, pour le bonheur des siècles à venir, une alliance éternelle entre l'Empire et la fille aînée de la sainte Eglise.

    Epoux vierge de la vierge Chunégonde, Henri fut grand aussi pour Dieu qui n1eut jamais de plus fidèle lieutenant sur la terre. Dieu dans son Christ était à ses yeux l'unique Roi, l'intérêt du Christ et de l'Eglise la seule inspiration de son gouvernement, le service de l'Homme-Dieu dans ce qu'il a de plus parfait sa suprême ambition. Il comprenait que la vraie noblesse, aussi bien que le salut du monde, se cachait dans ces cloîtres où les âmes d'élite accouraient pour éviter l'universelle ignominie et conjurer tant de ruines. C'était la pensée qui, au lendemain de son couronnement impérial, l'amenait à Cluny, et lui faisait remettre à la garde de l'insigne abbaye le globe d'or, image du monde dont la défense venait de lui être confiée comme soldat du vicaire de Dieu; c'était l'ambition qui le jetait aux genoux de l'Abbé de Saint-Vannes de Verdun, implorant la grâce d'être admis au nombre de ses moines, et faisait qu'il ne revenait qu'en gémissant et contraint par l'obéissance au fardeau de l'Empire.

    Voici la notice, forcément incomplète, consacrée par l'Eglise à saint Henri.

    Henri surnommé le Pieux fut d'abord duc de Bavière, puis roi de Germanie et ensuite empereur des Romains. Portant ses désirs au delà des bornes étroites d'un royaume temporel, il ambitionna la couronne de l'immortalité, et pour l'obtenir se fit le serviteur zélé du Roi éternel. Promu donc à l'Empire, il mit tous ses soins à accroître la religion, relevant avec une magnificence plus grande qu'auparavant les églises que les infidèles avaient détruites, et les enrichissant de nombreuses largesses et de biens-fonds. Des monastères, d'autres lieux de dévotion, furent établis par lui ou le virent augmenter leurs revenus. Il fit tributaire de saint Pierre et du Pontife romain l'évêché de Bamberg, qu'il avait fondé de ses biens patrimoniaux. Benoît VIII, qui lui avait donné la couronne impériale, ayant dû prendre la fuite, trouva près de lui asile et fut par lui rétabli sur son siège.

    Saint Benoît le guérit par un insigne miracle dans le monastère du Cassin où une grave maladie le faisait souffrir. L'Eglise Romaine fut l'objet de ses libéralités consignées dans un important diplôme; il entreprit pour la défendre une guerre contre les Grecs, et leur reprit la Pouille qu'ils occupaient depuis longtemps. La prière était la compagne habituelle de toutes ses entreprises; aussi vit-il plus d'une fois l'Ange du Seigneur et les saints Martyrs combattre pour sa défense en tête des armées. A l'aide de cette protection divine, ce fut par ses prières plus que par les armes qu'il vainquit les nations barbares. Il amena à la foi de Jésus-Christ la Hongrie jusque-là infidèle, en mariant sa sœur au roi Etienne qui reçut le baptême. Il donna le rare exemple de la virginité dans la vie conjugale, et, près de mourir, rendit Chunégonde son épouse à la famille de celle-ci telle qu'il l'avait reçue.

    Ce fut avec une prudence souveraine qu'il disposa toutes choses à l'honneur et l'utilité de l'Empire. La Gaule, l'Italie, la Germanie gardèrent partout les traces illustres de sa religieuse munificence. De tous côtés se répandait au loin le très suave parfum de son héroïque vertu. Plus illustre par sa sainteté que par le sceptre, ayant achevé les labeurs de sa vie, il fut enfin appelé parle Seigneur aux récompenses du royaume des cieux l'an du salut mil vingt-quatre. On ensevelit son corps dans l'église des saints Apôtres Pierre et Paul à Bamberg, et aussitôt Dieu qui voulait le glorifier permit que de nombreux miracles éclatassent à cette tombe, lesquels ayant été prouvés par la fuite, Eugène III l'inscrivit au nombre des Saints.

    Par moi régnent les rois, par moi les princes exercent l’empire (5). Cette parole descendue des cieux, vous l'avez comprise, ô Henri! En des temps pleins de crimes, vous avez su où étaient pour vous le conseil et la force (6). Comme Salomon vous ne vouliez que la Sagesse, et comme lui vous avez expérimenté qu'avec elle se trouvaient aussi les richesses et la gloire et la magnificence (7); mais plus heureux que le fils de David, vous ne vous êtes point laissé détourner de la Sagesse vivante par ces dons inférieurs qui, dans sa divine pensée, étaient plus l'épreuve de votre amour que le témoignage de celui qu'elle-même vous portait. L'épreuve, ô Henri, a été convaincante: c'est jusqu'au bout que vous avez marché dans les voies bonnes, n'excluant dans votre âme loyale aucune des conséquences de l'enseignement divin; peu content de choisir comme tant d'autres des meilleurs les pentes plus adoucies du chemin qui mène au ciel, c'est par le milieu des sentiers de la justice (8) que, suivant de plus près l'adorable Sagesse, vous avez fourni la carrière en compagnie des parfaits.

    Qui donc pourrait trouver mauvais ce qu'approuve Dieu, ce que conseille le Christ, ce que l'Eglise a canonisé en vous et dans votre noble épouse? La condition des royautés de la terre n'est pas lamentable à ce point que l'appel de l'Homme-Dieu ne puisse parvenir à leurs trônes; l'égalité chrétienne veut que les princes ne soient pas moins libres que leurs sujets de porter leur ambition au delà de ce monde. Une fois de plus, au reste, les faits ont montré dans votre personne, que pour le monde même la science des saints est la vraie prudence (9). En revendiquant votre droit d'aspirer aux premières places dans la maison du Père qui est aux cieux, droit fondé pour tous les enfants de ce Père souverain sur la commune noblesse qui leur vient du baptême, vous avez brillé comme un phare éclatant sous le ciel le plus sombre qui eût encore pesé sur l'Eglise, vous avez relevé les âmes que le sel de la terre, affadi, foulé aux pieds, ne préservait plus de la corruption (10). Ce n'était pas à vous sans doute qu'il appartenait de réformer directement le sanctuaire; mais, premier serviteur de la Mère commune, vous saviez faire respecter intrépidement ses anciennes lois, ses décrets nouveaux toujours dignes de l'Epoux, toujours saints comme l'Esprit qui les dicte à tous les âges: en attendant la lutte formidable que l'Epouse allait engager bientôt, votre règne interrompit la prescription odieuse que déjà Satan invoquait contre elle.

    En cherchant premièrement pour vous le royaume de Dieu et sa justice (11), vous étiez loin également de frustrer votre patrie d'origine et le pays qui vous avait appelé à sa tête. C'est bien à vous entre tous que l'Allemagne doit l'affermissement chez elle de cet Empire qui fut sa gloire parmi les peuples, jusqu'à ce qu'il tombât dans nos temps pour ne plus se relever nulle part. Vos œuvres saintes eurent assez de poids dans la balance des divines justices pour l'emporter, lorsque depuis longtemps déjà vous aviez quitté la terre, sur les crimes d'un Henri IV et d'un Frédéric II, bien faits pour compromettre à tout jamais l'avenir de la Germanie. Du trône que vous occupez dans les cieux, jetez un regard de commisération sur ce vaste domaine du Saint-Empire, qui vous dut de si beaux accroissements, et que l'hérésie a désagrégé pour toujours; confondez les constructeurs nouveaux venus d'au delà de l'Oder, que l'Allemagne des beaux temps ne connut pas, et qui voudraient sans le ciment de l'antique foi relever à leur profit les grandeurs du passé; préservez d'un affaissement plus douloureux encore que celui dont nous sommes les témoins attristés, les nobles parties de l'ancien édifice restées à grand'peine debout parmi les ruines. Revenez, ô empereur des grands âges, combattre pour l'Eglise; ralliez les débris de la chrétienté sur le terrain traditionnel des intérêts communs à toute nation catholique: et cette alliance, que votre haute politique avait autrefois conclue, rendra au monde la sécurité, la paix, la prospérité que ne lui donnera point l'instable équilibre avec lequel il reste à la merci de tous les coups de la force.

    -----------------------------------------------------------------------
    NOTE

    1. I Cor. XII, 11.

    2. Eph. III, 10; I Petr. IV, 10.

    3. Le Temps après la Pentecôte, t. III, Sainte Clotilde.

    4. Psalm. XXI, 28.

    5. Prov. VIII, 15-16.

    6. Ibid. 14.

    7. Ibid. 18.

    8. Ibid. 20.

    9. Prov. IX, 10.

    10. Matth. V, 13-16.

    11. Ibid. VI, 33.

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