Originariamente Scritto da
Sanjica
La scomparsa di Milosevic ferma il processo, ma non cancella il giudizio della storia sulla pulizia etnica». E' quanto dice Emma Bonino, leader radicale.
Con la morte di Miloaevic si ferma anche la giustizia e quindi l'indagine giudiziaria e storica su un decennio di sangue?
«La giustizia penale internazionale, nata proprio in seguito alle guerre provocate dalla politica pan-serba di Milosevic, non potrà terminare il processo per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Le garanzie processuali inserite nei regolamentì istitutivi del Tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia, hanno dato a Milosevic la possibilità di difendersi con ogni mezzo. Ciò ha portato, anche per via delle cattive condizioni dì salute dell'imputato, ad una dilazione continua».
Considerando che le guerre balcaniche sono iniziate nei primi anni 90 non si può dire che la giustizia internazionale abbia lavorato speditamente...
«Pesavano su Milosevic ben 66 capi d'imputazione, 29 relativi a crimini commessi in Bosnia, addirittura 32 in Croazia, e 5 in Kosovo, ciascuno dei quali riguardano diversi episodi a sé stanti. Carla Del Ponte ha istruito il dossier in due anni, dal febbraio 2002 al febbraio 2004, e il processo vero e proprio sì è aperto ad agosto 2004. Se teniamo conto del namero dei capi d'imputazione, delle prove raccolte e delle testimonianze ricevute, non credo si possa parlare di una giuìstizia lenta, anche perché per un processo di tale importanza occorreva dare garanzie all'opinione pubblica, serba in particolare, di un rigoroso rispetto delle regole processualì e dei diritti della difesa. Non credo, da questo punto di vista, che la giustizia penale internazionale ne esca diminuita. Dopo le migliaia dì ore di testimonianze raccolte e la montagna di documenti prodotti, il lavoro svolto impedirà a chiunque di poter negare che cosa è veramente successo sotto il regime di Milosevic».
Non si può tuttavia dimenticare il fatto che Milosevic, per molti anni, è stato considerato un interlocutore e non un pericoloso dittatore da molti paesi dell'Occidente, ricorda a Dayton...
«La morte di Milosevic non consentirà, come dicevo, una sentenza definitiva sul suo operato e sul suo disegno di pulizia etnica che in Europa si può apparentare solo all'esperienza nazista, il giudizio della storia, credo, sia stato già dato. Non è inutile ripensare al tentativo compiuto con gli Accordi di Dayton del 1995 di passare oltre i crimini orrendi di Srebrenica, Goradze, Zepa e dì scendere a patti con Milosevic che, mentre firmava Dayton con la mano destra, con la sinistra già appiccava il fuoco in Kosovo. I radicali, quando venne avviata la campagna internazionale per l'istituzione del Tribunale ad hoc, fatta propria nel 1992 dal governo presieduto da Giuliano Amato, hanno avuto il merito di essersi opposti dall'inizio ad una politica dì «pace senza giustizia» e di aver individuato in Mìlosevic, non la soluzione ma «il» problema principale della ex Jugoslavia, avviando una campagna per la sua incriminazione e ammonendo, inascoltati, che lo scenario bosniaco si sarebbe ripetuto dì li a poco».
La scomparsa di Milosevic non cancella le responsabilità di altri protagonisti di quell'epoca..
«Non solo per rispetto alla memoria delle vittime oggi non dobbiamo considerare vanificato il lavoro del Tribunale dell'Aja. Occorre anzi fare il possibile affinché Radovan Karadzìc e Ratko Mladic siano assicurati alla giustizia internazionale, e che lo stesso possa avvenire per l'ex signore della guerra liberiano Charles Taylor, e per tutti gli altri inseguiti da mandati d'arresto spiccati dalla Corte Penale Internazionale. E' ora di dire chiaramente che i dittatori e gli autocrati, di qualunque colore, non devono, non possono mai essere «i nostri» dittatori. Dobbiamo smetterla di coltivare I'illusione dell'uomo forte, del regime autoritario, come puntello dell'Occidente e come argine all'instabilità. Occorre avviarci con forza, tanto a livello italiano che a livello europeo, ad una nuova politica che promuova e sostenga la democrazia e i democratici, e che ponga al centro la laicità e il rifiuto dì piegarsi a logiche di relativismo culturale e religioso, di una «comprensione» per i limiti imposti alla libertà individuale, ai diritti della persona umana. Sul caso Iran, ad esempio, occorre sostenere quanto proposto da Shirin Ebadi e Timothy Garton Ash, e non fare in definitiva il gioco subdolo di Ahmadinejad, ma rafforzare la società iraniana, potenziando l'informazione libera, sostenendo con forza i movimenti delle donne, i giornalisti, gli ambienti culturali e universitari. Occorre tar tunzionare la Community ot Democracies in seno alle Nazioni Unite, in cui l'Italia siede nel consiglio direttivo, la nuova Fondazione per la Democrazia, dare vita finalmente a un vero Consiglio Onu per i diritti umani in cui i regimi dittatoriali non la facciano da padroni».