L’indagine del capitalismo contemporaneo nel marxismo italiano
di Nicolò Bellanca
Si inizia con qualche considerazione sullo “stato dell’arte” della teoria economica marxista in Italia. Un problema che ci si pone riguarda il ridotto investimento di energie intellettuali, da parte dei marxisti anche italiani, nella spiegazione del capitalismo contemporaneo, relativamente all’impegno profuso sui temi del valore, dei prezzi relativi e della distribuzione del reddito. I paragrafi centrali del testo sono dedicati alla ricostruzione di due tra le poche e più originali riflessioni sul funzionamento degli odierni sistemi socio-economici: quelle di Gianfranco La Grassa e di Ernesto Screpanti. Nella conclusione, vengono discussi alcuni spunti di risposta al problema prima sollevato.
1. Cosa rimane della teoria economica marxista?
La teoria economica marxista conta in Italia su una tradizione intellettuale vivace, che vuole capire per proprio conto quali basi razionali abbiano le teorie di Marx, e possano ricevere oltre Marx. Questo tratto è stato ben colto, quasi un secolo fa, da Roberto Michels: «Ognuno tra [i marxisti italiani] crede che il Marx come critico analitico della società capitalistica sia insuperato, ma nessuno che egli sia insuperabile. Nessuno altresì si azzarda a dire che il Marx abbia creato una dottrina così esaurientemente completa per spiegare tutti i fenomeni sociali, in qualunque campo si manifestino. Perciò uno dei maggiori compiti dei marxisti italiani consiste nella ricerca di una teoria complementare al Marx».[1][1] Questa “teoria complementare” non intende unicamente integrare o aggiornare Marx. Si propone anche, e forse soprattutto, di conferire alle sue dottrine principali una sistemazione razionale che esse, per gli autori in oggetto, non possiedono appieno.[2][2]
Anche a livello internazionale, sembra negli ultimi anni prevalere, nella teoria economica marxista, un atteggiamento di aperta discussione così di importanti contributi di altre impostazioni critiche, come dei fondamenti stessi del proprio approccio.[3][3] Come osserva, con notevole slancio di ottimismo, Fabio Petri, «negli ultimi decenni l’economia marxista ha riacquistato piena cittadinanza nella scienza ufficiale, ma perdendo una sua unitarietà e distintività rispetto a un più generale approccio critico, classico-keynesiano, non marginalista. Ormai le differenze tra gli studiosi che si dichiarano marxisti sono spesso non inferiori alle loro differenze da altri studiosi che, pur senza dichiararsi esplicitamente tali, accettano numerose tesi caratteristiche della tradizione marxista, ad esempio il ruolo centrale del conflitto di classe, il rifiuto dell’impostazione marginalista, la tendenza delle economie di mercato non regolate a generare crisi, talvolta anche l’interesse delle classi dominanti a non eliminare la disoccupazione; e gli studiosi di quest’ultimo tipo stanno aumentando, per via dell’attrattiva sempre minore esercitata dall’impostazione marginalista. I criteri in base ai quali distinguere un approccio chiaramente marxista alla spiegazione dei fatti economici da un più generale approccio classico-keynesiano diventano dunque sempre più sfuggenti e meno validi scientificamente».[4][4]
Tutto bene, dunque? Affatto. Se consideriamo quali e quanti studi sistematici sono stati dedicati dai marxisti viventi, in Italia e non, alla dinamica strutturale del capitalismo coevo, dobbiamo fermarci a pochi titoli. La quota largamente maggioritaria delle ricerche continua ad occuparsi delle tematiche del valore-lavoro, dei prezzi di produzione e della distribuzione del reddito. Si tratta, ovviamente, di tematiche cruciali nell’indagine della natura riproduttiva del capitalismo. Esse non si traducono però automaticamente in disamine del funzionamento diacronico del medesimo capitalismo, laddove pare indubbio che queste disamine dovrebbero rappresentare l’autentico fine conoscitivo di un marxismo che desideri capire e cambiare lo status quo. Non basta. La prevalenza di queste ultime tematiche appare addirittura strabordante se abbracciamo l’intera letteratura storica del marxismo internazionale: quante opere come Il capitale finanziario di Hilferding o La crisi fiscale dello Stato di O'Connor sono state scritte? Sembra pertanto esistere una propensione radicata e poco sradicabile, da parte dei marxisti che studiano la teoria economica, a privilegiare l’asse valore-prezzi-ripartizione, a scapito dell’asse moneta-crisi-ciclo-dinamica strutturale e, ancor più, a scapito dell’asse di analisi economica dei sistemi capitalistici concreti.
Possiamo chiederci come mai ciò sia avvenuto e continui ad accadere quasi senza soluzioni di continuità. La risposta più immediata consisterebbe nell’ipotizzare che il marxismo abbia poco di significativo da aggiungere alle altre analisi economiche critiche, alle quali allude Petri nel suo brano. Se così fosse, la “nicchia intellettuale” dei marxisti rimarrebbe davvero unicamente il dibattito su temi quali la sostanza del valore e la trasformazione dei valori in prezzi. Iniziamo dunque con lo smentire, almeno parzialmente, questa linea di spiegazione. Presentiamo l’elaborazione di due tra i pochi e più originali marxisti italiani che si sono concentrati sulla dinamica interna del capitalismo: Gianfranco La Grassa (§2) ed Ernesto Screpanti (§3).[5][5] Nel §4 riprenderemo il quesito qui formulato, azzardando qualche diverso spunto di risposta.
[1][1] Michels (1910), p.116.
[2][2] Ho ricostruito alcune tappe importanti di questa tradizione intellettuale in Bellanca (1997).
[3][3] Segnaliamo Arestis - Sawyer (1993), che contiene introduzioni, spesso autobiografiche, a economisti marxisti recenti; Howard - King (1992) e, per l’Italia, Bellofiore (1999), in riferimento ai dibattiti sulla teoria del valore.
[4][4] Petri (1999), p.78 dell’estratto.
[5][5] Non aspiriamo ad una ricostruzione compiuta del pensiero di questi due autori; ci soffermeremo soltanto su alcuni loro contributi, selezionati sulla base di un percorso problematico e interpretativo.