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    Lettera ai compagni d’Italia
    Locarno, 13-29 marzo 1872

    di Mikhail Bakunin


    Questo documento in forma di lettera a Celso Ceretti, fu scritto da Bakunin dal 15 al 27 marzo 1872, pubblicato da Jacques Mesnil nella “Société Nouvelle” di Bruxelles, n. 134 (febbraio 1896), pp. 175-199, ripresa in parte da M. NETTLAU, op. cit., pp. 318-330, tradotta in italiano solo nel 1955, dal gruppo de «L’Impulso», con il titolo Lettera ai compagni d’Italia, Livorno 1955, che noi utilizziamo; ora in ARCHIVES BAKOUNINE cit., I, 2, pp. 233-255. Bakunin all'epoca era ancora membro dell'Internazionale socialista



    Mio caro amico,

    nel momento stesso in cui mi giungeva la vostra lettera, ho ricevuto la grande, la triste notizia: Mazzini è morto.

    L’Italia ha perduto uno dei suoi figli più illustri. Perché per ciascuno di noi non vi può essere dubbio, non vi è dubbio, che Mazzini, con Garibaldi, è stato una delle piu grandi individualità italiane, il secondo eroe del secolo. Eminente intelligenza, cuore ardente, indomabile volontà, devozione immutabile, sublime: ecco certamente delle qualità che nessuno oserà contestargli e che fanno i grandi uomini.

    E pertanto, al termine della sua lunga e magnifica carriera, egli ha trovato in noi degli avversari convinti e inconciliabili. Noi l’abbiamo combattuto, non a cuor leggero ma con la tristezza nell’anima e perché il nostro dovere, la nostra religione, la religione dell’umanità, opposta a quella della divinità, ci avevano imposto questa battaglia.

    Le idee teologiche di Mazzini, armate di quella potenza liberticida che è propria a tutte le astrazioni divine, avendo alla fine trionfato sul suo temperamento di rivoluzionario e sulla sua natura sostanzialmente liberale d’italiano, lo avevano trasformato negli ultimi giorni della sua vita, in un implacabile nemico della rivoluzione. Egli l’ha maledetta in tutte le sue più grandi manifestazioni del giorno: nella Comune di Parigi, il cui programma demolitore della centralizzazione politica degli Stati e la cui insurrezione e l’eroico martirio hanno inaugurato una nuova epoca nella storia; nell’Internazionale, magnifica organizzazione uscita dal profondo della vita del proletariato europeo e divenuta incontestabilmente oggi il più potente se non l’unico strumento della sua prossima emancipazione; nel Libero Pensiero, questo alter ego, questa espressione ideale, inseparabile dall’emancipazione materiale del genere umano; e nella scienza positiva, astro umano che oggi si leva per soppiantare col suo certo giorno la equivoca luce degli astri divini; infine nell’alleanza generosa e feconda che la parte più viva e più intelligente della vostra gioventù ha concluso col proletariato italiano, sull’unica base della giustizia e della solidarietà umana. Mazzini ci ha attaccato in tutto ciò che ci è sacro e caro ed ha voluto imporci delle idee e delle istituzioni che noi detestiamo dal profondo dei nostri cuori e con tutta la forza delle nostre convinzioni. Noi saremmo stati dei vili e dei traditori se non l’avessimo combattuto ad oltranza. Il profondo sentimento di rispetto, di simpatia e di pietà che non abbiamo mai cessato di nutrire per questo sublime e sincero retrogrado, ci aveva reso assai dolorosa, assai penosa questa battaglia, ma ci era impossibile sottrarci ad essa, senza tradire la nostra causa, la grande causa del trionfo finale dell’umanità sulla divinità e sulla bestialità riunite in una sola azione retrograda, trionfo realizzato attraverso la emancipazione economica e sociale del proletariato.

    Novello Giosuè, Mazzini aveva tentato di fermare il corso del sole. Egli ha dovuto soccombere davanti a tale compito. La sua grande anima affaticata, torturata, ha trovato finalmente il riposo che, viva, non conobbe mai. Il grande patriota mistico, l’ultimo profeta di Dio sulla terra è morto, portando nella sua tomba, insieme all’ultima religione, Dio stesso, che questa volta, speriamolo, non risusciterà più.

    Il partito di Mazzini non ha più forza per continuare la sua propaganda, ormai impossibile e tale che non trovando alcuna base viva negli istinti reali della nazione italiana, era stata sostenuta dalla sola potenza del suo genio retrogrado. Restano in seno al partito uomini indubbiamente degni di stima: Saffi, Campanella e soprattutto il vecchio Quadrio, il più nobile e il più puro uomo che io abbia incontrato nella mia vita, un vegliardo che io adoro e che probabilmente mi maledice..., alcuni altri ancora i cui nomi mi sono sconosciuti; ma nessuno sarà in grado di raccogliere l’eredità di Mazzini e la costituzione tanto teorica che pratica di questo partito, autoritario più di ogni altro, è tale che per esistere ha bisogno di un capo. Il capo è scomparso, dunque deve dissolversi. Ma non subito. Al contrario è più che probabile che in un primo momento, galvanizzati dalla sciagura che li ha colpiti, essi faranno un estremo sforzo per unirsi ancora meglio; ma passata questa prima ora, siccome non esiste un vero legame fra tutti e siccome il loro partito non ha messo alcuna radice nella vita popolare, i mazziniani non potranno fare a meno di dividersi in molte piccole chiese, che, dirette da diversi capi, diverranno tanti piccoli centri d’intrigo politico... [una parola illeggibile] ...e molto spesso opposti. Molti, e senza dubbio i più vivi, i più sinceri, i più giovani verranno con voi. Voi li accoglierete, senza dubbio, con un sentimento fraterno, ma, vi prego, non lasciatevi metter da parte da loro e non permettete loro d’introdurre nel vostro campo così compatto le loro piccole passioni politiche, ambiziose, fallaci ed autoritarie. Aprite loro una larga porta: ma non li ammettete se non alla condizione di una leale accettazione da parte loro di tutto il programma dell’Internazionale.

    Permettete ad un amico di mettervi in guardia contro un altro pericolo. Tutta l’Italia pensante e sensibile, colta da un grande dolore, si unisce oggi in certo modo in un sentimento di adorazione per Mazzini. Se non vi fossero altre prove che questa, essa basterebbe da sola per mostrare come l’Italia, in mezzo alla decadenza generale dell’Europa, è restata ancora una nazione grande e viva. L’Italia si onora e si afferma nel culto che rende ad uno dei suoi grandi, ad uno dei suoi figli e dei suoi servitori più appassionatamente devoti. Quale cosa più naturale che in questo momento di dolore e di commozione generale, mazziniani e internazionalisti italiani, rivoluzionari borghesi e socialisti rivoluzionari, dimenticando per un momento tutte le loro passate divergenze, si tendano una mano fraterna? Ma, vi prego, anche in mezzo a questo abbraccio patriottico, non dimenticate l’abisso che separa il vostro programma dal programma dei mazziniani. Non lasciatevi trascinare da loro - che non mancheranno certo di tentarlo - in una pratica impresa comune, conforme al loro programma, ai loro piani e ai loro metodi di lavoro, non ai vostri. Invitateli a unirsi con voi sul vostro proprio terreno, ma non seguiteli sul loro piano, che voi non potreste accettare senza sacrificare e tradire questa grande causa del proletariato che ormai è divenuta la vostra causa. Non dimenticate che fra la rivoluzione borghese che essi sognano e la rivoluzione sociale che oggi esige il vostro contributo, vi è realmente un abisso, non soltanto quanto agli scopi che sono essenzialmente diversi, ma anche in rapporto ai mezzi che devono essere necessariamente conformi a questi scopi. Accettando i loro piani d’azione, non soltanto voi rovinereste tutto il vostro lavoro socialista e strappereste il vostro paese alla solidarietà rivoluzionaria che l’unisce oggi con tutta l’Europa, ma voi condannereste voi stessi, insieme a tutti coloro che vi seguissero su questa nuova funesta via, a una disfatta certa, ad un smacco [fiasco nel testo] sanguinoso e completo.

    È un fatto che tutte le spedizioni intraprese e condotte direttamente da Mazzini, senza eccezione alcuna, hanno sempre fallito. E pertanto chi oserebbe dire che queste imprese siano state inutili? Considerate nel loro insieme, come un sistema di educazione pratica applicato alla gioventù italiana, esse produssero un risultato immenso: quello di ispirare, di svegliare, di formare e rinsaldare questa gioventù patriottica e di farne il vero germoglio della rinascita italiana. Ecco la grande opera, l’opera immortale di Mazzini: egli ha formato questa gioventù e, tramite essa, ha creato l’Italia qual’è oggi, sì, ma soltanto quale è oggi: l’Italia civile, letteraria, borghese, l’Italia politica, l’Italia-Stato, non l’Italia sociale, non l’Italia popolare e viva. All’opera ideale e politica di Mazzini è mancata la consacrazione del popolo, non questa consacrazione formale e artificiosa che si ottiene grazie ai voti politici di quell’astrazione, di quella menzogna che si chiama suffragio universale, ma la consacrazione vasta e feconda che non si ottiene che con la partecipazione reale e con l’azione spontanea della vita popolare. Tutta l’opera di Mazzini è restata fuori di questa vita reale delle masse. Ed ecco perché questa opera gigantesca, intrapresa dal più grande uomo del secolo e compiuta da due generazioni di martiri e di eroi italiani, sembra un’opera morta, apparendo piuttosto come un cadavere in stato di putrefazione che come un corpo vivo e vitale; ed ecco perché, malgrado l’idealismo trascendente del pensiero che l’ha ispirata, l’unità politica creata da Mazzini, già mezza imputridita, è divenuta l’Eldorado dei parassiti e di immonde bestie da preda. Per grande che possa essere il genio di un uomo, esso può ben concepire un pensiero, può anche ispirarlo a centinaia di giovani, ma non può creare la vita, ne la potenza della vita, perché la vita non è mai figlia dell’astrazione, perché la seconda procede sempre a ritroso della prima e non ne è che una espressione incompleta. Il segreto e la potenza della vita non si trovano che nella società, nel popolo. E finché il popolo non avrà dato la sua sanzione ad un’opera sedicente nazionale, quest’opera non sarà mai né realmente nazionale né viva. L’Italia creata da Mazzini ha fatalmente condotto all’Italia dei Lanza, dei Bonghi, dei Correnti e dei Visconti-Venosta, all’Italia dei Crispi, Mordini, Nicotera e tutti quanti [in italiano nel testo]... Questo non è un disgraziato accidente ma una necessità logica e fatale.

    Nessuno l’ha avvertito meglio di Mazzini. Così voi ritrovate il nome del popolo in tutti i suoi scritti; esso costituisce anche il secondo termine della sua famosa formula: Dio e Popolo [in italiano nel testo], e Mazzini ha sempre dichiarato che egli non avrebbe considerato la sua opera definitivamente compiuta, se non quando essa fosse stata sanzionata dal popolo. Ma il popolo di cui parla Mazzini non è il popolo reale considerato nella sua realtà spontanea e vivente; il suo popolo è un essere fittizio, astratto, teologico per cosi dire. Le masse popolari prese nella loro esistenza naturale, reale e viva, non costituiscono ai suoi occhi che la moltitudine: e perché questa moltitudine divenga popolo, bisogna che accetti anzitutto la legge di Dio, il pensiero di Dio rivelato dai profeti, uomini di genio coronati di virtù. Questo pensiero che ha la facoltà di trasformare la moltitudine in un popolo non è dunque l’espressione della vita stessa di questa moltitudine, esso nasce al di fuori di essa, e le è conseguentemente conferito ed imposto dal di fuori. Questo è il vero significato della formula: Dio e Popolo [in italiano nel testo]. Dio [in italiano nel testo] è il pensiero dogmatico, aristocratico, extrapopolare e per conseguenza antipopolare, che si deve ad ogni costo imporre alla moltitudine perché quest’ultima, con una parvenza di voto spontaneo, lo sanzioni e sanzionandolo divenga popolo. Il popolo di Mazzini è una moltitudine magnetizzata, sacrificata e facilmente rappresentata nei concilî e nelle costituenti da uomini che hanno attinto le loro ispirazioni non negli interessi delle masse, non nella vita reale delle masse, ma in una astrazione teologica-politica, assolutamente estranea a queste masse.

    Il nostro principio, invece, è del tutto opposto; al di fuori della scienza positiva, noi non riconosciamo nessun’altra fonte di verità morali che la vita stessa del popolo, poiché la stessa scienza positiva non è in verità che il compendio metodico e ragionato dell’immensa esperienza storica dei popoli. La società, considerata nel senso più largo del termine, il popolo la vile [in italiano nel testo] moltitudine, la massa dei lavoratori, non produce soltanto la potenza e la vita, essa produce anche gli elementi di tutto il pensiero moderno; e un pensiero che non è estratto dal suo seno e che non è la fedele rappresentazione degli istinti popolari a mio giudizio, è un pensiero nato-morto. Di qui io traggo la conclusione che il compito della gioventù colta ed appassionata non è quello dei rivelatori, dei protetti dei precettori dei dottori, non quello di creatori, bensì di ostetrici del pensiero partorito dalla vita stessa del popolo; penso cioè che i giovani che vogliono servire il popolo devono cercare le loro ispirazioni non al di fuori di lui, ma in lui, per esprimere in una forma chiaramente definita ciò che esso porta nelle sue inconsapevoli ma potenti aspirazioni.

    Fra le idee popolari, quella che oggi incontestabilmente occupa il primo posto come aspirazione delle masse di ogni paese, è l’emancipazione materiale o economica. I mazziniani, dall’alto del loro idealismo extra popolare e trascendente, disprezzano molto questa tendenza, e se essi si sono visti obbligati a farle certe concessioni in quest’ultimi tempi, essi lo hanno fatto con una sorta di sdegnosa condiscendenza per la vile brutalità di queste masse incapaci di dimenticare il loro ventre e di vivere nella sola contemplazione dell’ideale. Il loro sprezzante socialismo è una specie di esca per la moltitudine che la bellezza di quell’ideale non commuove. Accecati dalle loro idee teologiche e politiche, idee che rappresentano in fondo tante catene antiche e nuove per il popolo, essi non hanno visto in questa aspirazione che l’espressione brutale di brutali appetiti, e non hanno compreso che pur nella sua forma incosciente e primitiva, essa contiene la più alta delle idee emancipatrici del secolo: quella che, distruggendo tutte le idealità come astrazioni, come finzioni o come simboli teologici, poetici, giuridici e politici, deve tradurle in viventi realtà popolari: verità, giustizia, libertà, eguaglianza, solidarietà, fratellanza, umanità, tutte queste magnifiche parole finché sono restate allo stato di verità teologiche, poetiche, politiche e giuridiche non hanno servito che a consacrare e coprire la più brutale oppressione e il più duro sfruttamento nella vita reale del popolo, non hanno espresso che la condanna delle masse alla schiavitù e ad una eterna miseria. La base reale, come l’ultima conseguenza di tutte queste splendide astrazioni, non è sempre stata, da che esiste storia, lo sfruttamento del lavoro forzato delle masse a profitto di minoranze privilegiate chiamate classi? La Chiesa cattolica, la più ideale di tutte per principio, non è stata, dopo i primi anni della sua esistenza ufficiale, cioè dopo l’imperatore Costantino il Grande, l’istituzione più rapace e più avida? E tutto il resto in proporzione. Tutti gli splendori della civiltà cristiana, Chiesa, Stato, prosperità materiale delle nazioni, scienza, arte, poesia, tutto questo non ha avuto per sostegno la schiavitù, l’asservimento, la miseria di milioni di lavoratori che costituiscono il vero popolo? Che cosa fa dunque il popolo ponendo questa terribile questione economica? Egli attacca tutta questa civiltà, che l’ha troppo a lungo asservito, nella sua base reale. Egli obbliga gli eterni ideali a scendere dal cielo sia teologico sia politico sulla terra della vita reale e a trasformarsi in realtà viventi e feconde per il popolo. Rivendicando il suo pane quotidiano, il pieno prodotto del suo lavoro, il popolo rivendica dunque per se stesso la scienza, la giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà, la fratellanza, e per dirla in una parola sola, l’umanità. Donde risulta che il suo materialismo, che i mazziniani disprezzano tanto, è la più alta espressione di idealismo pratico e reale.

    Ecco ciò che i mazziniani, finché resteranno fedeli alla dottrina politico-religiosa del loro maestro, non comprenderanno mai. Ma dalla diversità di principi e di scopi deriva inevitabilmente una diversità di mezzi e di pratica rivoluzionaria. I mazziniani, infatuati delle loro idee, tratte fuori della vita e delle reali aspirazioni popolari, si immaginano che loro basti costituirsi in piccoli centri di cospirazione nelle principali città d’Italia, in numero di alcune decine in ciascuna, trascinando con loro al massimo alcune centinaia di operai e di sollevarsi all’improvviso in una insurrezione simultanea, perché le masse li seguano. Ma anzitutto essi non hanno mai saputo organizzare una insurrezione simultanea: inoltre e ciò che più conta, le masse sono sempre restate sorde e indifferenti ai loro appelli, in modo che tutte le imprese mazziniane hanno avuto per invariabile risultato degli insuccessi [fiasco nel testo] sanguinosi ed anche talvolta ridicoli. Ma poiché i mazziniani sono dei dottrinari incorreggibili, sistematicamente sordi alle crudeli lezioni della vita, questa terribile serie di dolorosi aborti, questa stessa esperienza non ha loro insegnato niente e, ad ogni primavera, essi ricominciano di nuovo, attribuendo tutte queste disfatte subite non al vizio inerente al loro sistema, ma ad alcune circostanze secondarie, a sfavorevoli accidenti, accidenti che si incontrano in tutte le imprese della storia ma che non hanno potuto esser vinti che da quelle imprese che emanavano dal profondo della vita reale. [...]

    Queste imprese, sempre fallite, avevano una ragion d’essere, malgrado il loro fatale e costante insuccesso, quando si trattava di svegliare e di formare il patriottismo della gioventù italiana. Questa fu, come io ho già detto, l’opera gloriosa di Mazzini. Ma una volta compiuta quest’opera, bisognava assolutamente cambiare sistema, pena la sua distruzione o la sua corruzione. Il vecchio sistema di Mazzini, che era eccellente per creare una prode gioventù, non valeva niente per realizzare una grande rivoluzione vittoriosa. Essendo lui stesso sempre dominato dalle sue astrazioni teologiche, poetiche, politiche e patriottiche, essendo d’altro lato riuscito a imporre più o meno l’entusiasmo dottrinario, di cui egli era stato animato ad un numero d’altronde sempre più ridotto, di giovani suoi discepoli, Mazzini aveva creduto che le sue astrazioni fossero sufficienti per sollevare le masse. Egli non ha mai compreso che le masse non entrano in movimento se non quando vi sono spinte da forze - al tempo stesso interessi e principi - che emanano dalla loro propria vita, e che delle astrazioni sorte al di fuori di questa loro vita non potranno mai esercitare su di esse questa azione.

    Ingannato da questa costante illusione della sua vita, egli ha creduto fino all’ultimo momento che si potesse fare una rivoluzione con un colpo di sorpresa e che una ribellione a mano armata spontanea e simultanea di alcune centinaia di giovanotti, sparsi in piccoli gruppi in tutto il paese, fosse sufficiente per sollevare la nazione.

    L’insurrezione che egli aveva progettato per questa primavera, preparandola calcolandola organizzandola sempre nello stesso modo, avrebbe avuto inevitabilmente la sorte di tutte le imprese precedenti. Le conseguenze sarebbero state forse ancora più dure; perché l’Italia mi sembra trovarsi in una di quelle situazioni critiche in cui qualsiasi errore può riuscire fatale. Non bisogna invece che la rivoluzione si disonori con un movimento insensato e che l’idea di una insurrezione rivoluzionaria cada nel ridicolo.

    Ciò che può e deve salvare l’Italia dallo stato di avvilente e rovinosa prostrazione in cui presentemente si trova, ciò che voi dovete preparare ed organizzare non è, mi sembra, una ridicola sommossa di giovani eroici ma ciechi; è una grande rivoluzione popolare. Per questo non basta far prendere le armi a qualche centinaio di giovanotti, non basta neppure sollevare il proletariato delle città, bisogna che insorga la campagna, bisogna che insorgano anche i vostri venti milioni di contadini.

    Dopo il medio evo ed anche dopo Roma antica, dacché l’Italia ha iniziato la sua esistenza storica, si può dire, tutta la sua vita politica e sociale, il moto della sua civiltà si è concentrato nelle città. Durante il medio evo le vostre campagne costituivano dal punto di vista politico e morale un grande deserto muto e arido, in mezzo al quale le vostre città, esuberanti di moto, di ricchezza, di cultura e di vigore brillavano come oasi piene di splendore. Questa non partecipazione della campagna alla prodigiosa vita del e vostre città fu una delle cause principali della decadenza del vostro paese. In questo secolo, la gloriosa rinascita dell’Italia fu ancora opera esclusiva delle vostre città, con l’assenza quasi totale delle campagne. Dunque fino a questo momento i vostri contadini, cioè circa venti milioni d’italiani, sono restati al di fuori della vita storica dell’Italia, non vi hanno partecipato che come servi e come vittime.

    Ecco il più grosso pericolo. Tutto l’avvenire del vostro paese dipende dall’atteggiamento che i vostri contadini prenderanno nella prossima rivoluzione. Fino ad oggi essi sono restati passivi ed hanno subito quasi senza resistenza la sorte e le forme di governo che le città hanno voluto loro imporre. Ma voi lo sapete meglio di me, i contadini da voi, come dovunque del resto, e forse più da voi che altrove, non amano le città. Poiché le città sono state più o meno politicamente rivoluzionarie, i contadini sono stati necessariamente reazionari, non tanto a causa della nefasta influenza che i preti esercitano su di loro, quanto a causa di questo rancore assolutamente naturale, e, diciamolo pure, assolutamente legittimo che essi nutrono, per tradizione storica e per loro recente esperienza, contro le città. I contadini detestano i borghesi.

    Oggi che il proletariato cittadino si sveglia e si organizza per la rivoluzione in Italia come in tutti gli altri paesi d’Europa, la campagna, la massa compatta dei contadini, è divenuta l’unica via di salvezza e l’unico punto d’appoggio per la reazione. Un punto di appoggio cosi formidabile, che se noi non lo strapperemo nel più breve tempo alla reazione, non potremo mai trionfarne, ne usciremo sempre battuti. Tutta la questione del successo rivoluzionano si riduce dunque a questa: come sollevare, come portare alla rivoluzione i contadini?

    Miei amici, non è forse chiaro, tanto per voi come per me, che le formule magiche e mistiche di Mazzini, che hanno fin perduto oggi quella potenza di suggestione che avevano avuto una volta sulla gioventù italiana, sono insufficienti per sollevare non soltanto i contadini, ma anche il proletariato delle vostre città? Il popolo delle campagne e il popolo delle città hanno sete d’emancipazione. Ma quella che si chiama libertà politica non emancipa in realtà che la sola borghesia; e siccome questa specie di libertà è (organizzata) in un grande stato centralista, fosse anche questo stato una repubblica come la vorrebbe Mazzini e come la vogliono ancor oggi i repubblicani; siccome la libertà costa molto cara e siccome tutte le spese dello Stato cadono in fin dei conti sul popolo lavoratore, ne consegue che questa libertà politica schiaccia sotto un nuovo peso il cammello popolare sovraccarico da non poterne più, come ha ben detto il generale Garibaldi.[...]

    La reale emancipazione del popolo non potrà essere conquistata che a mezzo della rivoluzione sociale. Questa rivoluzione presenterà necessariamente, come tutte le cose viventi e attive, due facce: un lato negativo e un lato positivo. Il lato negativo consiste nella distruzione di tutto ciò che è, di tutto ciò che rovina ed opprime la vita popolare; questo sarà precisamente l’atto col quale il cammello popolare getterà per terra il fardello sempre più pesante che lo schiaccia da secoli; e questo fardello stesso ha una doppia natura: il fardello propriamente politico e fiscale, che ostacola da una parte lo sviluppo spontaneo, il libero movimento delle masse e che dall’altra le sovraccarica e le sacrifica con tasse ed imposte, cioè il fardello dello Stato. L’altra parte del fardello consiste nello sfruttamento economico del lavoro popolare da parte del capitale monopolizzato nelle mani dell’alta e ricca borghesia. In fondo queste due parti del fardello sono inseparabili, perché lo Stato necessariamente ostile, volto alle conquiste e occupato a rompere la solidarietà umana all’esterno, non ha mai avuto all’interno altra missione che quella di consacrare, legittimare e regolarizzare lo sfruttamento del lavoro popolare a profitto delle classi privilegiate.

    Il rovesciamento dello Stato e del monopolio finanziario, questo è dunque il compito negativo della rivoluzione sociale. Quale sarà il limite di questa rivoluzione? In teoria, per sua logica, essa va assai lontano. Ma la pratica resta sempre dietro la teoria perché essa è subordinata a un complesso di condizioni sociali, la cui somma costituisce la situazione obiettiva di un paese, e che pesa necessariamente su ogni rivoluzione veramente popolare. Il dovere dei capi sarà non di imporre le loro proprie fantasie alle masse, ma di andare tanto lontano quanto lo consentiranno o lo imporranno l’istinto e le aspirazioni del popolo. Il compito positivo della rivoluzione sociale sarà la nuova organizzazione della società più o meno emancipata.

    Anche sotto questo rapporto l’ideale è assai chiaramente posto in sede teorica. Come organizzazione politica, è la federazione spontanea, assolutamente libera dei comuni e delle associazioni operaie; come organizzazione sociale è l’appropriazione collettiva del capitale e della terra da parte delle associazioni operaie. In pratica sarà ciò che ciascuna sezione, ciascuna provincia, ciascun comune, ciascuna associazione operaia potrà e vorrà, a condizione che a decidere sia veramente la reale volontà delle masse e non il capriccio, la fantasia o la ripugnanza dei capi.

    Una delle maggiori cure di coloro che si trovano oggi alla testa del movimento rivoluzionario socialista in Italia, dovrebbe essere, a mio avviso, quella di ricercare e di fissare, per quanto è possibile farlo oggi, almeno le grandi linee del piano e soprattutto del programma della prossima insurrezione rivoluzionaria. Senza perdere mai di vista l’ideale che deve guidarci come la stella polare una volta guidava i marinai, - e con questa parola ideale io intendo la più completa giustizia, la più completa libertà, la più completa eguaglianza economica e sociale, la solidarietà universale e la fratellanza umana - per formulare un programma pratico e realizzabile, bisogna necessariamente tener conto della diversa situazione di ciascuna vostra provincia, come dello stato di certe classi che compongono la vostra società. Non di tutte. Perché se voi volete contentare tutte le classi, voi arriverete necessariamente a zero; infatti gli interessi delle classi dirigenti e superiori sono troppo opposti a quelli degli strati inferiori perché una loro conciliazione sia possibile. lo penso dunque che tutte le classi che, direttamente o condirettamente, sono interessate alla conservazione dello Stato attuale devono essere sacrificate senza pietà: così tutta la nobiltà e tutta l’alta borghesia finanziaria, commerciale e industriale, tutti i grandi proprietari di terre e di capitali, e in gran parte anche la media borghesia: quella i cui rampolli affollano oggi l’esercito come ufficiali e la burocrazia come funzionari. Questa media borghesia, in Italia come dovunque, è una classe vigliacca e stupida, il puntello di tutte le corruttele, di tutte le iniquità, di tutti i dispotismi.

    Vi sono in Italia quattro gruppi sociali dei quali, a mio avviso, bisogna tener conto. E anzitutto i due gruppi principali, i più numerosi, quelli che formano la base reale dell’intera nazione: il proletariato delle città e quello delle campagne, gli operai propriamente detti e i contadini. Sono essi principalmente che devono dare il tono e la direzione concreta alla prossima rivoluzione. C’è bisogno di dirvi che gli uni come gli altri sono necessariamente, eminentemente, istintivamente socialisti?

    I vostri operai delle città ve ne danno ogni giorno nuove prove. La prontezza con cui essi vengono ad associarsi sotto la bandiera dell’Internazionale dovunque si trovino soltanto alcuni individui di buona volontà, capaci di inalberarla, né è una prova incontestabile. I mazziniani stessi hanno finito per riconoscerlo: così li vediamo oggi fare del socialismo di pessima lega e con molta goffaggine, senza dubbio. Da buoni idealisti essi non saranno mai capaci di fare del socialismo serio. Ma lo spirito socialista che si è impadronito delle masse operaie è troppo potente perché essi lo possano ignorare più a lungo. In questa massa che io ho chiamato proletariato delle città, l’ideale che ho definito è oggetto nella sua integrità di una tendenza assai marcata, molto esplicita, tanto che se esistesse soltanto questa massa, si potrebbe andare molto lontano. La passione che soprattutto la anima è quella dell’eguaglianza e di una assoluta giustizia. Il proletariato delle città vuole che tutti gli uomini lavorino su un piede di parità, alle stesse condizioni economiche e sociali, che il mondo sia un mondo di lavoratori, che non vi siano più signori, che non vi sia più possibilità per alcuno di ingrassare col lavoro altrui. Esso vuole che ciascun operaio fruisca del pieno prodotto del suo lavoro. Mazzini stesso, nei suoi ultimi scritti, ha riconosciuto la legittimità di questa richiesta che è iscritta per prima nel programma dell’Internazionale. Ma sapete ciò che questa domanda significa? Nient’altro che l’appropriazione di tutti i capitali da parte delle associazioni operaie, effettuata in un modo o in un altro. Perché fin tanto che i capitali resteranno monopolizzati in mani individuali come proprietà privata, e fin tanto che, per la stessa ragione le associazioni operaie, che rappresentano propriamente il lavoro, resteranno private del capitale, niente potrà impedire ai capitalisti di prelevare a proprio profitto una parte sempre maggiore dei prodotti di questo lavoro. L’interesse del capitale e tutti i premi da esso guadagnati nelle diverse speculazioni finanziarie, commerciali e industriali che altro significa se non questo iniquo prelevamento? Perché infine se mettete insieme tutti i capitali che volete, questi non figlieranno mai. Dal momento in cui le associazioni operaie saranno liberate dal giogo del capitale, ciò avrà per effetto che, in possesso esse stesse di capitali, non avranno più bisogno di pagare i servizi dei capitali estranei, questi ultimi non daranno più alcun interesse, e i loro attuali possessori li finiranno ben presto. Emancipazione del lavoro dunque non significa altro che espropriazione dei capitalisti e trasformazione di tutti i capitali necessari al lavoro in proprietà collettiva delle associazioni operaie.

    Quanto all’ideale politico proprio agli istinti del proletariato cittadino, mi sembra oggi spartito in due tendenze abbastanza fra loro opposte e contraddittorie. Da una parte, l’operaio di città, anche il contadino istruito, liberato per la natura stessa delle sue occupazioni da quella mentalità “locale” che la cultura della terra imprime, comprende facilmente la solidarietà universale fra i lavoratori di tutti i paesi, trova la sua patria piuttosto nel suo particolare mestiere che nel paese in cui è nato. L’operaio di città è più o meno cosmopolita. D’altra parte, evidentemente sotto l’influenza delle dottrine borghesi che egli ha subito così a lungo, egli non è molto avversario della centralizzazione dello Stato. Gli operai tedeschi e inglesi sognano oggi questa centralizzazione di un grande Stato, purché, essi dicono questo Stato sia popolare: lo Stato dei lavoratori, ciò che, a mio avviso, costituisce una utopia, poiché ogni Stato e ogni governo centralista implicano necessariamente una aristocrazia ed uno sfruttamento, se non altro della classe dominante. Non dimentichiamo mai che Stato significa dominazione e che la natura umana è cosiffatta che ogni dominazione si traduce fatalmente e sempre in sfruttamento.

    Invece, la massa dei contadini è per natura federalista. Il contadino è appassionatamente attaccato alla sua terra e detesta fortemente la dominazione delle città come ogni governo esterno che gli imponga il suo pensiero e la sua volontà. In Inghilterra e in Germania la rivoluzione che si prepara prende decisamente il carattere di una rivoluzione cittadina, tendente ad una nuova dominazione delle città sulle campagne. In Inghilterra il pericolo che ne deriverà per la rivoluzione stessa non sarà tanto grande, perché in verità, se si eccettua l’Irlanda, non vi esiste una classe di contadini, essendo i lavoratori rurali dei salariati pagati a giornata come gli operai delle città. In Germania, è un’altra cosa; la massa dei contadini vi è numerosa e vi sono molti contadini proprietari, come in Francia. Per colpa dei borghesi che a tre diverse riprese hanno ricacciato indietro e represso l’insurrezione spontanea dei contadini tedeschi: nel 1520 una prima volta, nel 1830 una seconda, nel 1848 una terza, questa enorme massa costituisce oggi la grande fortezza della reazione, il formidabile punto d’appoggio sul quale Bismark fa muovere la sua leva minacciosa contro tutte le libertà d’Europa; e il socialismo astratto dei tedeschi vi incontra una opposizione molto seria, molto pericolosa.

    Voi non cadrete nell’errore dei tedeschi e non vi accontenterete di fare del socialismo cittadino; voi non ignorerete lo spirito e le naturali potenti aspirazioni del vostro proletariato rurale, dei vostri venti milioni di contadini. Voi non condannerete la vostra rivoluzione a una disfatta sicura. Volete che io vi dica tutto intero il mio pensiero? Ebbene, io penso che voi avete un elemento rivoluzionario molto più potente e reale nelle campagne che nelle città. Indubbiamente c’è più istruzione fra i vostri operai di città. L’ignoranza, purtroppo, è generale nel vostro paese, ma essa è assai più grande nelle campagne che nelle città. Nel proletariato cittadino c’è più pensiero, maggiore coscienza rivoluzionaria, ma c’è più potenza naturale nelle campagne.

    Il vostro popolo delle campagne è rivoluzionario per natura, malgrado i preti la cui influenza non si esercita che sulla sua epidermide. E a questo proposito voglio dirvi ciò che io penso della propaganda del libero pensiero. Questa propaganda è eccellente per correggere l’indirizzo e le tendenze pratiche della vostra gioventù più o meno colta. Ma sul popolo propriamente detto, la sua azione è nulla. Perché la religione del popolo non è tanto l’affetto di una aberrazione teorica quanto la manifestazione di una protesta pratica della vita popolare contro gli angusti limiti che le sono posti, contro la servitù e contro la miseria. Emancipate realmente, largamente il popolo e vedrete automaticamente cadere tutte le superstizioni religiose e tutte le ubriacature del cielo. Non è la propaganda del libero pensiero, è la rivoluzione sociale che ucciderà la religione del popolo.

    Il vostro contadino è necessariamente socialista e, dal punto di vista rivoluzionario, si trova in una posizione eccellente, cioè in una situazione economica deplorevole. Ad eccezione dei contadini della Toscana, forse, dove vi sono molti mezzadri - io ignoro la situazione economica dei vostri contadini romagnoli - i contadini del Piemonte, della Lombardia, di tutto l’antico reame di Napoli si trovano in una tale miseria, la loro esistenza è divenuta cosi insopportabile, che una rivoluzione promossa dalle campagne mi sembra inevitabile, anche se non fosse diretta da alcuno. Due anni fa i contadini non si erano sollevati spontaneamente a proposito di questa legge del “macinato”? [in italiano nel testo]. E notate come è stato giusto il loro istinto. In parecchi posti, a Parma ad esempio, essi hanno bruciato tutta la carta bollata, loro mortale nemico. L’autodafè di tutta la carta bollata ufficiale, ufficiosa, penale e civile, mi sembra uno dei più bei mezzi della rivoluzione apertamente socialista. È molto più umano e molto più radicale che tagliare delle teste, alla maniera dei giacobini. [...]

    Così, espropriazione dei detentori dei capitali e trasformazione del capitale in proprietà collettiva delle associazioni operaie; e organizzazione della solidarietà generale - questo è l’ideale del proletariato cittadino.

    Completa libertà locale e presa di possesso di tutta la terra da parte dei lavoratori della terra, questo è l’ideale del proletariato rurale.

    Questi due ideali si possono ben conciliare nel principio della libera federazione dei comuni e delle associazioni operaie coraggiosamente proclamato, un anno fa, dalla Comune di Parigi. E se non vi fossero che questi due gruppi sociali, il programma della rivoluzione sociale sarebbe già rapidamente tracciato.

    Ma vi sono altri gruppi di cui bisogna tener conto; anzitutto perché per la loro situazione sempre più disastrosa, essi divengono necessariamente di giorno in giorno più rivoluzionari, e poiché assai numerosi l’uno e l’altro, essi esercitano una reale influenza sul popolo: essi sono nelle città, la piccola borghesia e nelle campagne i piccoli proprietari. Queste due classi non hanno propriamente un programma, essendo completamente disorientate. Per le loro tradizioni e per la loro vanità sociale, esse propendono un po’ verso le classi privilegiate, per i loro istinti sempre più minacciati e sacrificati e per le condizioni reali della loro esistenza, esse sono al contrario sempre più sospinte verso il proletariato. Pertanto esse conservano ancora alcuni interessi che risentirebbero di una applicazione troppo conseguente e troppo logica dei principi socialisti, quali emanano già dalle aspirazioni delle masse: conciliare questi interessi con queste aspirazioni, senza tuttavia sacrificare quest’ultime, questa è l’opera che oggi vi spetta.

    Federalismo e socialismo, questi sono i due elementi basilari della prossima rivoluzione. È assolutamente l’opposto del programma mazziniano. Non è chiaro allora che ogni conciliazione fra questi due partiti è impossibile sul terreno dei mazziniani? Voi non potete prender parte alle loro imprese, prima perché esse sono fatalmente condannate sempre a fallire; poi e soprattutto perché i vostri scopi e i vostri mezzi sono assolutamente diversi. Voi volete l’emancipazione completa e definitiva della società italiana e la sua organizzazione è nuova riorganizzazione sulla base del lavoro al tempo stesso libero e collettivo, dal basso in alto, tramite la federazione e l’associazione naturale. Essi sognano invece per questa società una nuova servitù sotto il giogo di un grande stato unitario. Voi volete preparare e organizzare un potente movimento popolare che rovescerà tutto ciò che gli si oppone spezzando le eventuali resistenze e rendendo queste stesse resistenze impossibili. Invece incapaci di organizzare o anche soltanto di concepire un tale movimento, i mazziniani continueranno a sfinirsi in ridicole imprese...

    Ciò che io prevedo - ed è forse dal punto di vista di una attività più seria la miglior cosa che possa loro capitare - è che molti di loro cadano, senza nemmeno accorgersene, nelle mani di Agostino Bertani, il solo fra i capi o i promotori di secondo piano dei passati moti patriottici che non si sia completamente fiaccato e che non abbia del tutto compromesso la sua posizione e il suo carattere di vecchio rivoluzionario.

    Fra i notabili mazziniani, non ve n’è uno solo che sia realmente capace di dirigere un’impresa. Sono dei dottrinari, non degli uomini d’azione. Quadrio, il più rispettabile e il più simpatico fra loro, può ispirare, entusiasmare i giovani per i quali ha una grande passione, ma non lo credo capace di predisporre e di dirigere un’azione. Saffi è una sorta di sapiente mancato, dottore di una facoltà che non esiste, il Melantone di una religione nata-morta. Petroni, si dice, è uno sciocco gesuita; Campanella, un fondatore di sette, nel partito mazziniano, come Alì lo fu nella religione maomettana. È quello che d’altronde io conosco meno, ma da quanto ho potuto raccogliere sul suo conto, non è certamente lui che potrà rimpiazzare l’azione sempre debole, ma sempre geniale di Mazzini.

    Bertani non è affatto mazziniano, ma ha saputo mantenere rapporti più o meno intimi con i mazziniani e con lo stesso Mazzini, come ha saputo mantenerli con i garibaldini, senza essere tuttavia un garibaldino, con i liberi pensatori e con l’anzidetta sinistra democratica - ridotta oggi allo stato del Gorgonzola o del formaggio di Limburgo - i Crispi, i Nicotera e compagnia; Bertani è sempre stato con tutti, l’amico di tutti e non si è mai legato a nessuno; egli è anche amico di Alberto Mario, che è troppo vanitoso per cercare un altro amico all’infuori di se stesso e di cui si può dire, senza dubbio con maggior ragione, ciò che Camillo Desmoulins diceva di Saint-Just: “Quegli porta la sua testa come un santissimo sacramento”.

    Bertani è l’uomo politico per eccellenza. Egli ha sempre voluto fare da sé [in italiano nel testo]. Uomini, partiti, cose tutto deve servirgli da mezzo. Malgrado ciò, io lo credo un repubblicano molto sincero. Io penso e ricapitolando alcune conversazioni che ho avuto con lui, or non è molto, sono indotto a credere che egli nutre in fondo all’animo la segreta ambiziosa passione di non voler morire senza aver ristabilito o almeno senza aver potentemente contribuito al trionfo e all’instaurazione della repubblica in Italia. Soltanto, di quale repubblica? Federalista o centralista? Ecco ciò che io non sono riuscito bene a chiarire. Credo che non lo sappia neppure lui. Bertani, che non è un dottrinario, non ha idee precostituite e penso che se anche vi sono delle idee che raccolgono i suoi favori, egli le sacrificherà senza troppa fatica se le circostanze, la natura e l’insieme del movimento glielo imporranno. Egli è amico di Giuseppe Mazzoni di Prato, quello che è chiamato il Catone della Toscana, è amico di Alberto Mario, ed entrambi sono federalisti regionalisti, ciascuno a suo modo; egli è federalista con loro e centralista con i mazziniani, come è costituzionalista con la sinistra parlamentare. In caso di bisogno farà del socialismo e dell’internazionalismo con voi. In una parola egli si tiene al di sopra di tutti i partiti, con l’intenzione, almeno nel suo pensiero, di trar vantaggio da ciascuno per la realizzazione dei suoi scopi più pratici che teorici e dottrinari. È l’uomo di Stato per eccellenza, discepolo più di Machiavelli che di Dante.

    Ed è appunto perché egli è un discepolo di Machiavelli che io lo credo oggi chiamato a comandare le sbandate falangi dei mazziniani, discepoli di Dante. Per i mazziniani ciò sarà incontestabilmente assai utile, perché Bertani imprimerà ai loro sforzi rivoluzionari e repubblicani un indirizzo pratico che essi da soli non sarebbero mai capaci di seguire. Ma non bisogna ingannarsi: la repubblica per il cui trionfo lavorerà Bertani, sarà una repubblica esclusivamente borghese; perché lui stesso, borghese nel sangue, per le sue idee e per i suoi istinti, per i suoi interessi, per la sua ambizione e per tutte le sue relazioni di amicizia, non potrà mai agire se non nel senso di un uomo di stato borghese, piuttosto centralista che federalista, piuttosto da sfruttatore che da socialista, che cercherà senza dubbio di conciliare i due opposti ed inconciliabili termini, ma che per sentimento e per consuetudine dello spirito come per necessità della sua posizione, finirà sempre, come conviene d’altronde ad ogni uomo di Stato, per sacrificare le autonomie e le libertà locali alla centralizzazione dello Stato e per sacrificare la prosperità del popolo allo sfruttamento dei capitalisti.

    Se come io presumo, Bertani diviene di fatto il capo e l’occulto dirigente delle azioni dei mazziniani, qual è la posizione che voi, socialisti, rivoluzionari, partigiani della vera emancipazione del proletariato, prenderete nei suoi confronti?

    Ignorarlo sarebbe un errore; allearsi con lui sarebbe un altro e, secondo me, ancora più grave. Voi non siete dei teorici utopisti, voi volete formare un partito attivo e potente, capace di trasformare, in un termine più prossimo possibile, la vostra bella Italia in un paese di libertà, d’eguaglianza, di giustizia, di benessere e di dignità per tutti. Voi vi organizzate per questa azione: conseguentemente non vi è consentito ignorare nessuno degli elementi che costituiscono la realtà attuale. Voi dovete ben conoscere la forza degli errori che dovrete combattere come la forza degli elementi che senza essere propriamente i vostri, sono obbligati a diventare fino ad un certo punto e durante tutto un periodo di transizione, in qualche modo, vostri alleati, vostri amici, avendo da combattere i vostri stessi nemici. I mazziniani, benché in maniera diversa e per ragioni diverse dalle vostre, sono accaniti nemici di questo governo che, temendovi molto più di loro, comincia a perseguitarvi in tutta Italia e vi perseguiterà penso, molto presto con un accanimento ancora più furioso. Fino ad un certo punto, voi sarete dunque obbligati a marciare parallelamente con loro, a tenervi al corrente delle loro azioni, e non soltanto a lasciarli fare, ma qualche volta anche, in rarissime occasioni senza dubbio ed osservando la massima prudenza, a secondarli indirettamente, in quanto facendolo, voi potete sperare di indebolire e di demoralizzare l’attuale governo che è ormai il vostro più accanito, più molesto e più potente nemico. In tutte le lotte dei mazziniani o dei bertaniani, cioè dei repubblicani borghesi contro il governo, voi certamente vi terrete in dispane nel maggior numero dei casi e nella misura in cui ciò sarà possibile senza suicidarvi moralmente e materialmente; ma tutte le volte che voi vi sentirete obbligati ad uscire da questa apparente passività, voi ne uscirete soltanto, è inutile dirlo, per prendere le loro parti contro il governo.

    Voi sarete dunque obbligati ad organizzarvi ed a marciare parallelamente a loro, per poter profittare di ciascuno dei loro movimenti per la realizzazione dei vostri scopi. Ma voi vi guarderete bene, nevvero, dall’allearvi con loro fino a confondervi, voi non permetterete loro mai di entrare nella vostra organizzazione, nella quale essi non potranno mai entrare che per falsarla, per stornarla dal suo scopo, per paralizzarla e per dissolverla. La loro natura è tanto contraria alla vostra che essi lavorerebbero in questo senso, anche se non ne avessero l’intenzione. Mi pare dunque assolutamente necessario che tutte le vostre organizzazioni, tanto pubbliche che segrete, restino completamente al di fuori delle organizzazioni mazziniane e bertaniane.

    * * *

    Ed ora una parola sulla vostra organizzazione romagnola, e in generale su quella delle sezioni dell’Internazionale in Italia. Credete che esse potranno resistere e sopravvivere alle persecuzioni del governo, come organizzazioni pubbliche e legali? Nessun dubbio è più possibile, la persecuzione contro l’Internazionale è universale, internazionale. Dopo la disfatta della Francia repubblicana e socialista bisognava certo attenderselo. La Germania imperiale, la Germania di Bismark, teneramente unita allo knut czarista di Russia, si trova, come logico, alla testa della reazione. Bismark sembra far poco da se stesso, ma fa fare gli altri. Egli [dirige] spesso, senza che questi lo sospettino, la politica interna di tutti gli altri governi; e non v’è dubbio che esiste una intesa positiva fra tutti contro l’Internazionale che è la più potente e, si può anche dire, l’unica rappresentante della rivoluzione in Europa, oggi. In Francia, in Italia, in Belgio, in Germania si infierisce contro di essa. Se le cose vanno ancora per un po’ nello stesso senso, anche la Svizzera prenderà presto questa strada. Anzitutto essa è troppo debole per resistere a lungo alla pressione imperativa delle grandi potenze che la circondano e che non domanderebbero di meglio che dividersela fra loro; in secondo luogo bisogna dire che la borghesia sedicente radicale, quella che oggi governa nella maggior parte dei cantoni della Svizzera non domanderà di meglio che vedersi forzata dalla pressione diplomatica delle grandi potenze, a infierire contro l’Internazionale. Questa associazione non ha che un solo riparo in questo momento in Europa: l’Inghilterra. Dovrebbe avvenire una rivoluzione aristocratica, un rovesciamento della Costituzione perché essa ne venisse cacciata. E le associazioni operaie vi rappresentano già una vera potenza, al punto che i partiti politici, tory, whigs e radicali, si vedono obbligati a fare i conti con questa forza. Ma in tutti i paesi del continente europeo, l’esistenza pubblica, palese dell’Internazionale è fortemente minacciata. E in nessuna parte essa è ancora giunta a tale concentrazione di forze da renderla minacciosa a sua volta - io parlo di oggi, non di domani, perché sono certo che il domani è nostro - in nessuna parte, eccettuata la Spagna forse. Le lettere che io ricevo da diverse parti di quest’ultimo paese mi informano, infatti, che gli operai socialisti di Spagna, assai progrediti e ben organizzati, e non soltanto gli operai ma i contadini di Andalusia, fra i quali le idee socialiste sono state propagate con grande efficacia, si propongono di prendere una parte assai attiva alla rivoluzione che si prepara, tendendo questa volta la mano ai partiti politici, senza tuttavia confondersi con loro e con l’intenzione ben ferma di imprimere a questa rivoluzione un carattere francamente socialista. Noi tutti attendiamo con ansietà l’esito degli avvenimenti che si annunciano. Tutto il mezzogiorno della Francia si organizza, fìn’anche a Parigi, malgrado tutte le leggi votate dai rurali di Versailles, e questa organizzazione si fa sotto la direzione dei nostri consociati, e non sotto quella di Londra, la cui propaganda tanto vantata in realtà si riduce a zero. Se la rivoluzione trionfa in Spagna, ciò sarà naturalmente un formidabile appoggio per la rivoluzione in Europa. Se soccombe, la reazione che ci minaccia sarà ancor più formidabile. Ma anche in caso di trionfo della rivoluzione in Spagna, il primo effetto che ne risulterà immancabilmente negli altri paesi dell’Europa, in Francia, in Belgio, in Germania, in Italia e in Svizzera, soprattutto a causa della riforma centralista che minaccia le libertà cantonali di questo paese, sarà una recrudescenza della reazione. Quand’anche il governo di Versailles non fosse capace da solo di reprimere la rivoluzione nel Mezzogiorno della Francia, non dimentichiamo che l’esercito di Bismark occupa ancora il nord-est della Francia; e per me non vi è dubbio che esiste già ora una intesa fra Bismark e il vostro governo italiano e che nel corso delle conversazioni che hanno avuto luogo recentemente, l’ipotesi del trionfo della rivoluzione in Spagna non è stato dimenticato, tanto più che essa interessa direttamente la vostra dinastia regnante.

    Infine prevedo in tutti i paesi d’Europa e in Italia soprattutto, delle persecuzioni assai serie contro i socialisti e contro tutte le organizzazioni dell’Internazionale. Ciò che è avvenuto a Milano ne è la prova.

    “Il Martello” è un giornale che non s’è mai permessa alcuna eccentricità. Al contrario, molto deciso nella sostanza, esso ha adottato una forma assai prudente e moderata. Sequestrandolo sistematicamente, emettendo dei mandati di cattura contro il gerente e contro il direttore, minacciando di inviare al domicilio coatto [in italiano nel testo] i giovani che fanno parte del Comitato del “Circolo Operaio”, si prova che esiste sistematicamente da parte del vostro governo un partito preso contro l’Internazionale; e non penso che ci si limiti alla sola Lombardia. Io credo che si tratti di una misura fissata per tutta l’Italia. Non dubito che ben presto si prendano delle misure assai energiche nonché assai arbitrarie per sciogliere, per distruggere il vostro “fascio operaio” [in italiano nel testo]. Che farete allora? Una insurrezione? Sarebbe magnifìco se poteste avere la speranza di riuscire. Ma pensate di averla? Siete così ben preparati, così saldamente organizzati per questo? Avete la certezza di sollevare tutta la Romagna, compresi i contadini? Se si, raccogliete il guanto che vi è lanciato. Ma se non avete questa fiducia - io non vi parlo di illusioni ma di una fiducia basata su dei fatti positivi - allora, vi prego, abbiate la forza di comprimere la vostra naturale indignazione, di evitare una battaglia che dovrebbe terminare per voi in una disfatta. Ricordatevi che una nuova disfatta sarebbe esiziale non solo per voi, ma per tutta l’Europa. Io penso che bisogna attendere l’esito del movimento spagnuolo, e allora, quando il movimento di questo paese prenderà un carattere largamente e francamente rivoluzionario, bisognerà sollevarsi tutti insieme, non soltanto la Romagna, ma tutte le parti d’Italia che sono capaci di un moto rivoluzionario.

    E, nell’attesa, che fare se vien sciolta violentemente la vostra organizzazione pubblica? Bisogna trasformarla in organizzazione segreta, imprimendole un carattere, dandole un programma molto più rivoluzionario di quello che avete potuto darle fino ad oggi...

    Senza dubbio è augurabile che voi possiate conservare l’organizzazione pubblica e legale delle sezioni romagnole e delle altre che costituiscono il fascio operaio [in italiano nel testo]. Ma se le persecuzioni governative vi obbligano a scioglierle come organizzazioni politiche, voi sarete obbligati a trasformarle in organizzazioni segrete, a meno che non vogliate condannare voi e con voi tutti i vostri amici e la vostra causa ad una completa distruzione. Per chiunque vi conosce, come io comincio a conoscervi, quest’ultima supposizione è inammissibile. Dirò di più: anche nel caso in cui voi riusciate, mediante una lotta abile ed energica, a salvaguardare l’esistenza delle vostre sezioni pubbliche, penso che prima o poi arriverete a comprendere la necessità di costituire in mezzo ad esse dei nuclei [in italiano nel testo], composti dei membri più sicuri, più fedeli, più intelligenti e più energici, in una parola dei più intimi. Questi nuclei intimamente collegati fra di loro e con i nuclei affini che si organizzano o si organizzeranno nelle altre regioni dell’Italia o all’estero, avranno una doppia funzione: in primo luogo formeranno l’anima ispiratrice e vivificatrice di questo immenso corpo che si chiama l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, in Italia come altrove; e in secondo luogo si occuperanno delle questioni che è impossibile trattare pubblicamente. Essi costituiranno il ponte necessario fra la propaganda delle teorie socialiste e la pratica rivoluzionaria. Per degli uomini così perspicaci come voi ed i vostri amici, credo di aver detto abbastanza.

    È soprattutto dal punto di vista di questa organizzazione intima in tutta l’Italia che io ho molto desiderato che il Congresso della Democrazia italiana, di cui col vostro illustre generale voi avete preso l’iniziativa si riunisca al più presto. Questa sarebbe per tutti i democratici socialisti, per tutti i più seri socialisti rivoluzionari d’Italia una così magnifica occasione di conoscersi, di intendersi e di associarsi sulla base di un programma comune. Naturalmente questa alleanza segreta non ammetterebbe nel suo seno che un ridottissimo numero di elementi, più sicuri, più fedeli, più intelligenti, migliori: perché in questo genere di organizzazioni non è la quantità ma la qualità che bisogna ricercare. Ciò che deve, secondo me, distinguere la vostra pratica rivoluzionaria da quella dei mazziniani, è che voi non avete bisogno di reclutare dei soldati per formare dei piccoli eserciti clandestini, capaci di tentare dei colpi di mano. I mazziniani devono farlo perché essi vogliono e credono di poter fare delle rivoluzioni al di fuori del popolo. Voi invece volete una rivoluzione popolare: perciò non avete da reclutare un esercito, perché il vostro esercito è il popolo. Ciò che dovete formare sono gli stati-maggiori, la rete bene organizzata e ben orientata dei capi del movimento popolare. E per questo non è necessario in alcun modo avere un gran numero d’individui iniziati nell’organizzazione segreta.

    Io dunque sono rimasto assai addolorato vedendo che il generale, tediato dalla discordia di opinioni democratiche e socialiste in Italia, ha finito in certo senso per rinunziare alla idea di convocare questo congresso oppure l’ha rinviato a tempo indeterminato, quando vi sarà maggiore armonia nelle idee. Credo che se voi vorrete attendere quel momento, voi attenderete a lungo, per sempre, e che morrete tutti senza veder realizzata questa assoluta armonia. Mio caro amico, lasciatemelo dire, questa armonia è irrealizzabile e non è neppure desiderabile. Questa armonia è l’assenza della lotta, l’assenza della vita, è la morte. In politica, è il dispotismo. Prendete tutta la storia e convincetevi che in tutte le epoche e in tutti i paesi, quando vi è stato sviluppo e esuberanza di vita, di pensiero, di azione creatrice e libera, vi è stato dissenso, lotta intellettuale e sociale, lotta dei partiti politici e che è precisamente in mezzo a queste lotte e grazie ad esse che le nazioni sono state più felici e più potenti nel senso umano della parola. [...]

    Vedete come le opinioni possono essere diverse. Molti eccellenti democratici italiani si spaventano delle divisioni che in questi due ultimi anni sono sorte in seno al partito democratico e vi vedono i segni della decadenza del partito. Io vi vedo, al contrario, il segno della sua rinascita e una garanzia della sua potenza feconda e vitale. La consorteria [in italiano nel testo] non è punto divisa. È forse per questo più viva? Finché essa era ancora divisa, in certi casi essa conservava dei residui di vita. Ma oggi che una commovente unità si è stabilita nel suo seno, e che questa concordanza di vedute ha inondato anche il partito della sinistra parlamentare, che non è più diviso che da interessi e da ambizioni personali, non sentite che tutta questa Italia ufficiale è ormai morta? Ebbene! alcuni anni fa, la democrazia italiana addormentata nell’uniformità armoniosa degli stessi preti, era sul punto di morire. Il socialismo gli ha reso la vita e cosi ha suscitato nel suo seno un grande sviluppo di pensieri e di tendenze diverse, e conseguentemente la lotta interna, questa grande educatrice della forza creativa... [...]

    Per tornare al congresso della democrazia italiana, vi confesso che non ho mai sperato e neppure desiderato che esso apporti una conciliazione e una armonizzazione impossibili fra tutte le opinioni che sono, o che si credono, o che si dicono avanzate: fra i massoni, Campanella, Stefanoni, Filopanti e tutti quanti da una parte e fra i rivoluzionari socialisti sinceri dall’altra. Una simile conciliazione, se potesse realizzarsi, sarebbe a mio giudizio la maggiore sciagura che possa colpire l’Italia, perché secondo le eterne regole della logica.

    + 1 – 1 = 0. Sarebbe l’annientamento della causa viva, popolare, a vantaggio di alcune formule morte e di alcuni tribuni dottrinali e borghesi. Il vostro congresso sarà, come tutti i congressi, una sorta di torre di Babele: ma vi darà la possibilità di riconoscere i vostri, cioè i socialisti rivoluzionari di tutte le regioni d’Italia e di formare insieme a loro una minoranza seria, bene organizzata e la sola potente, perché esprimerà le aspirazioni e gli interessi popolari: soltanto essa rappresenterà il popolo in questo congresso. [...]

  2. #2
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    questo documento di bakunin, allora membro dell'internazionale socialista, che ho rubato al forum di Nuvola rossa non lo conoscevo e lo reputo molto importante come testimonianza diretta dei rapporti che intercorrevano fra il movimento socialista ed il nostro. Mi sono permesso di postarlo sul forum dello mre, perchè discuto spesso, con scarso profitto, dei rapporti conflittuali ed antitetici fra il socialismo e mazzini. Ovviamente andrebbe considerato che nel populista Bakunin c'era ancora un rispetto evidente verso la figura del nostro, rispetto che Marx si preoccupò, una volta cacciato bakunin, di estirpare. Ovviamente la tradizione socialista italiana, escluso il vecchio Turati, che per cultura aveva ancora riflessi bakuniani, è integralmente marxista. Salvo Mastellone sostiene sostanzialmente che il manifesto di Marx ed Engel era una diretta polemica con Mazzini, considerato il principale avversario del socialismo sul loro stesso terreno, cosa che Bakunin conferma. La pietra dello scandalo è la lettera di Mazzini agli operai italiani. Magari con più tempo mi riservo un commento al testo bakuniano.

  3. #3
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    Bellissimo documento, grazie assai

  4. #4
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    io sono il ladruncolo. Il ringraziamento va a Nuvola Rossa che mo mi cava gli occhi!

  5. #5
    McFly
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    Oh calvin...sto bakukì gli ha scritto una lettera veramente lunga!!

  6. #6
    ALTRA FACCIA DELLA MONETA
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    . . . ma prima si è accertato ben benino che il Nostro NON potesse assolutamente rispondergli.

  7. #7
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    E' un po' un antecedente storico delle alluvionali conversazioni di Pannella con Bordin a Radio Radicale.

 

 

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