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Discussione: Napoli e la Tradizione

  1. #1
    Gaeta resiste ancora!
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    Predefinito Napoli e la Tradizione

    Cento anni dopo la tragica ma straordinaria avventura del Generale Don Josè Borjès, dalla Spagna è giunto Don Francisco Elìas de Tejada, stavolta armato di penna, ma il suo destino è stato identico a quello del Generale.
    Ma diceva Evola che biosgna "agire senza guardare ai frutti, senza che sia determinante la prospettiva del successo e dell'insuccesso, della vittoria e della sconfitta, del guadagno o delle perdite, e nemmeno quella del piacere e del dolore, dell'approvazione e della disapprovazione altrui".

    I. Solitudine in Via Toledo
    Approfondire la Tradizione napoletana costituisce per me un appassionato impegno, accarezzato sin dagli anni dell'infanzia. Quando non avevo ancora fissato lo sguardo verso la cima solenne del Vesuvio, Napoli costituiva per me una immagine desiderata prima che conosciuta. Il richiamo del sangue, profondo, vivo, pressante, mi spingeva a cercare notizie su quel paese azzurro e oro in cui le memorie dei miei antenati e la curiosità dell'incantesimo tessevano leggende. Senza aver messo piede in via loledo, già la conoscevo sfolgorante e rumorosa, come l'immagine che avevo ereditato nella mia coscienza. Nell'angolo dell'Estremadura, dove trascorsi la mia adolescenza, già mi sentivo Napoletano di cuore.
    Sulla trama dell'amore istintivo operò l'insaziabile curiosità che Dio mi ha dato. Quando mi fu possibile, andai a Napoli col sentimento di chi ritorna ai lari dai quali si era allontanato. I miei antenati erano partiti da Napoli nei giorni tormentosi di nostro signore Filippo IV, per stabilirsi nelle terre dell'Estremadura ed io, nel 1956, ritornavo a Napoli per saziare il desiderio alimentato da una fiamma che ardeva da tre secoli.
    Vero è che la Napoli che trovai nel seno della repubblica italiana nel 1956 era di gran lunga diversa dall'immagine che mi avevano tramandato coloro che in un giorno del 1640 l'avevano abbandonata per adempiere ai doveri dell'hidalguia. Non era il regno di Napoli, ma una provincia dipendente da signori che la governavano da Roma, dove la lingua ufficiale era il toscano ed i soldati vestivano uniformi piemontesi. Non era la capitale del primo degli stati della penisola italiana; non aveva più parlamenti in San Lorenzo, né re nazionali, né leggi proprie, né - ed è quel che più importa - la bella serenità di sapersi portatri-ce di una missione storica. I suoi impegni erano campanilistici, le sue lotte intestine ed incivili, la sua bandiera, una bandiera che le avevano imposta conquistatori moderni, la sua mentalità rimpicciolita, le sue peculiarità confuse in una penombra decadente. Volteggiava al suono di musiche straniere. L'unica cosa che le rimaneva di quella sua robusta personalità, la cui immagine mi era stata trasmessa dai miei avi, era la grazia popolare, ma purtroppo questa grazia era disprezzata dagli stessi napoletani, primi attori nel drammatico suicidio collettivo che riduceva il napoletanismo al "folklore". Era la Napoli ritratta dal realismo di Salvatore di Giacomo, in quella disgraziata Peppenella che batte il marciapiede senza pane né acqua, coperta carnevalescamente d'amore venduto con l'esotico nome di Irma:

    "D' 'a Incanna, aieressera
    mmiez' 'a via nnefuie cacciata;
    mmiez 'a via sulagna e nnera
    tutt"a notte Irma è restata.
    Tutt' 'a notte ha fatto 'a cana:
    sotto e ncoppa ha cammenato
    na serata sana sana.
    E nisciuno s'è accustato...
    Irma: nomme farastierò;
    ma se chiamma Peppenella:
    fuie ngannata 'a nu furierò,
    emo... campa... (puverella!).
    Passa gente. È fatto iuorno.
    " Psst! Siente!". E rire... e chiamma...
    C'ha ddafa' si ha perzo 'o scuorno?
    C'ha ddafa'? Se more 'efamma.
    Mmerz' 'e nuove s'ha mangiata
    nafresella nfosa all'acqua.
    E mo, cornine e na mappata,
    sta llà nterra. E dorme, stracana"1.


    Il popolo, ignorante di un passato in cui Napoli era libera ed indipendente, trascina il suo dolore senza speranze, come la Irma del poeta, avvolta in un fatalismo orientalizzante ed amaro; la classe media, ubriaca di garibaldinismo, alla ricerca di vantaggi personali, continua a vagare nella leggenda nera forgiata nel XIX secolo contro la Napoli tradizionale; l'aristocrazia decadente o decaduta, oscillante tra la frenesia di rinnegare le proprie glorie per essere più in armonia coi tempi e un isolamento mortale; il clero, impegnato in un vaticanismo di marca democristiana che sogna una repubblica guelfa nella quale Napoli non conta. Nella confusa baraonda, alcuni sono socialisti ed altri monarchici savoiardi, alcuni papalini, altri garibaldini, alcuni rivolti verso Mosca ed altri verso il Vaticano... ma nessuno pensa a Napoli, nessuno è napoletano.
    Quando io, come in altri tempi Salvatore di Giacomo "percorrevo la vecchia gloriosa strada di Toledo"2, mi sentivo napoletano tra genti non napoletane che casualmente vivevano a Napoli. Mi meravigliava la crassa ignoranza dei classici napoletani che dimostravano perfino i miei più dotti interlocutori. Appena si usciva dalla cerchia dei quattro scrittori consacrati, dei Cortese o dei Basile, calava una densa nebbia, ed anche di questi ultimi sì e no la maggioranza conosceva per sentito dire titoli di opere. La grande e insigne mole della giurisprudenza napoletana, si riduceva al solo nome di Francesco d'Andrea. Se si parlava di Giordano Bruno o di Tommaso Campanella era per metterli da parte come si fa di un argomento fastidioso. Questi nomi tratti dal pozzo dell'oblio, vivevano non nelle loro opere, ma nella trascrizione di alcune frasi di Benedetto Croce. Con un dolore lancinante, paragonabile solo al mio disprezzo, mi chiudevo nella mia solitudine, perché in Napoli non si poteva parlare di Napoli con nessuno. Un pugno di eruditi specialisti alla portata di Carlo Curcio, di Giuseppe Coniglio, di Francesco Calcagno, di Antonio Altamura e pochissimi altri, esaminavano la possibilità di uno scambio d'idee. Ci fu chi, conversando con me, si vantava di conoscere la cultura napoletana, per avere scritto qualche pessimo saggio su di uno scrittore o su un periodo, con una pedanteria congiunta ad ignoranza. Per sette anni mi sono sentito a Napoli come una belva in gabbia, ma anche come un erede dello spirito della vera Napoli; e come una fiera isolata e pronta ad assalire, senz'altro appoggio che la hidalguia del sangue, senz'altro sostegno che il giuramento fatto ai miei morti di chiarire la passione napoletana che essi sentirono, ho scritto e continuo a scrivere il mio Nàpoles hispànico nell'ansia di conoscere in che consiste la Tradizione napoletana, cioè, l'anima della mia adorata Napoli.
    Dio ha premiato i miei lavori con il più bel regalo della mia vita. Nella mia Napoli ho incontrato la compagna perfetta all'ombra immortale del migliore re che abbia avuto Napoli, il nostro signore Don Filippo II. Con lei posso continuare a percorrere i sentieri della mia passione napoletana, benché passi per via Toledo tra rinnegati o incoscienti.
    2. Il corpo istituzionale autonomo
    Dopo molte avvisaglie parziali, la Tradizione napoletana raggiunge la sua prima matura fioritura, propiziata da Alfonso il Magnanimo, nel secolo XVI, sotto il pugno di Ferdinando il Cattolico. Infatti il regno di Napoli comincia ad esistere come entità sociale coerente solo quando Ferdinando il Cattolico doma la ribelle nobiltà e pone il bene comune napoletano al di sopra delle ambizioni politiche di infiniti anarchici reucci quasi onnipotenti, capaci di vendere il Regno allo stesso Turco, come più di una volta effettivamente avevano pensato di fare. Napoli è Regno, e non monarchia che naviga come una nave senza timoniere sui mossi mari delle ambizioni dei signori, solamente quando entra nella grande confederazione delle Spagne.
    Alfonso I potè apparire superiore ai grandi nobili perché, oltre a regnare su Napoli, regnava in Sicilia, Sardegna, Valenza, Aragona e Catalogna. Ma quando a suo figlio ed ai nipoti vennero a mancare il possesso di signorie extraregnicole, costoro dovettero inchinarsi al maggiore potere della nobiltà. Quando era ancora principe, Ferdinando I rappresentava la quarta potenza del regno, di gran lunga inferiore a quel principe di Tarante Giovanni Antonio del Balzo Orsini che aveva in suo potere sette arcivescovadi, trenta vescovadi e quattrocento castelli, e disponeva di cinquecento delle tremila lance che esistevano nel regno. La lotta della dinastia aragonese con le famiglie nobili si concluse, stroncati gli sforzi di Ferdinando I e di Alfonso II, nella debolezza politica del disgraziato Federico. Se i nobili napoletani erano, per dirla col Machiavelli, "uomini al tutto nemici di ogni civiltà"3, la causa era da ricercarsi nell'impotenza della dinastia, perché i re, essendo solamente sovrani di Napoli, erano deboli di fronte alla potente nobiltà. Se rispettarono il Magnanimo e disprezzarono i suoi successori, è perché costoro mancavano di forze "mentre non possedettero altri stati", stando all'acuto giudizio di Camillo Porzio nella sua famosa storia di La congiura de' Baroni di Napoli contro il Re Ferdinando I4. Il regno di Napoli acquista solida struttura quando i suoi re domineranno la nobiltà rivoltosa grazie alla loro qualità di sovrani di altri regni; cioè, quando il regno napoletano entra nella confederazione delle Spagne.
    Segno della costituzione del Regno, come entità politica al di sopra dell'anarchia delle epoche precedenti, fu la permanente presenza dei procuratori popolari alle riunioni di Cortes, Cortes introdotte da Alfonso il Magnanimo come adattamento napoletano delle libere istituzioni catalane. Senz'altre eccezioni che le riunioni del 10 e del 20 settembre 1497, e queste inascoltate, i re della dinastia aragonese non permisero l'accesso del popolo alle riunioni parlamentari, mentre altro segno del passaggio dalla malferma monarchia al regno costituito, il Gran Capitano ebbe la massima cura di convocarlo nella chiesa di San Domenico il 25 Aprile 1504. Mentre il disgraziato Federico si rifiutava, in Capua il 10 Agosto 1497, di ricevere l'omaggio del popolo che disprezzava, il rappresentante del re Cattolico preferiva fare ricorso al popolo e lo convocava immediatamente a Cortes. Se Federico disdegnava l'omaggio dei rappresentanti del popolo, il Gran Capitano li riceveva il 15 Maggio 1503. Dicendola con parole di Benedetto Croce, il carattere popolare della integrazione di Napoli nelle Spagne si dovette al fatto "che il popolo vi trovò iscritto il suo sentimento di giustizia, la cui sete male avevano potuto appagare gli ultimi re di Napoli, sopraffatti troppo spesso dai riottosi baroni"5. Molti sentivano il saluto augurale di Giovanni Battista Valentino:

    "Laetare Hispania felix
    tantorumque Ducum,
    Regumque invicta creatrix"6


    Sono i saluti che il Pontano invia al Gran Capitano nel suo De fortuna; gli stessi che accendevano la prosa di Antonio de Ferrariis, che già si sentiva spagnolo proprio perché era napoletano, quando rende omaggio al Re cattolico, giacché tua ipsius opera Hispania nostra est7.
    Con la formazione del Regno nasce la tradizione politica napoletana, perché si delinea il corpo istituzionale che permetterà di differenziare Napoli dagli Stati vicini on quale scomposto mucchio di anarchiche sabbie feudali, ma quale corpo politico dotato di un struttura robusta e permanente. Il viceré, il Sacro Consiglio Collaterale, la Corte della Vicaria, la cancelleria organizzala da Ferdinando il Cattolico nel 1505, i parlamenti con rappresentanza popolare, i seggi della capitale dotati di poteri deliberanti, intessono una trama coerente che era il meglio che si potesse attuare in quel tempo ed in quelle congiunture. Solo 55 su 1573 centri abitati appartenevano alla Corona, ma l'obiettivo dei re di Napoli sarà d'ora in poi la riduzione dei poteri della turbolenta nobiltà. Ciò anche nelle città amministrate da gruppi oligarchici, per le quali il visitatore Juan de Figueroa chiedeva nel 1536 una ispezione o una riforma. L'alleanza tra la Corona ed il popolo era tale che, se la nobiltà fomentò le sommosse del 1547 contro don Pedro di Toledo, Uberto Folieta poteva commentare nella sua narrazione del Tumultus Neapolitani sub Petro Toleto Prorege come "maximae napolitanae plebis mire gratus, caeterum nobilitate hostiliter invisus"8. Ed il tumulto di Masaniello, lontano dall'essere un'offensiva contro il re di Napoli che era re delle Spagne, fu una reazione contro i soprusi dei nobili come testimonia Paolo Antonio di Tarsia nel suo Tumultos de la ciudad y reino de Nàpoles, quando da un lato segnala che i Napoletani "si sono dimostrati vassalli leali al loro Re, anche nell'impeto delle sommosse e dei tumulti"9 e dall'altro che erano insorti a causa delle "prepotenze perpetrate dai potenti sulla povera gente"10.
    Sarà, quindi, il primo aspetto della Tradizione napoletana l'esistenza di un corpo politico autonomo, con istituzioni proprie, con un diritto peculiare, con consigli e Cortes separati; di un Regno, insomma, quale lo foggiò Ferdinando il Cattolico e lo rafforzarono i suoi successori nell'unione profonda tra la Corona ed il popolo.


    3. Cultura peculiare napoletana
    II secondo elemento è l'esistenza di una cultura particolare di carattere napoletano, sia nella letteratura che nel diritto.
    Nelle lettere assistiamo a due periodi, determinati dagli ondeggiamenti della politica, considerando a parte un caso tipico del secolo XV, quando il miglior poeta in toscano che viveva in Napoli era Benito Gamet, nato a Barcellona, molto più dotto nel poetare alla maniera toscana di Pietro Jacopo di Gennaro o di Giovanni Francesco Caracciolo, per la semplicissima ragione che la lingua fiorentina era molto più diffusa sulle rive del Llobregat che su quelle del Sebeto11.
    Nel primo periodo, che va fino al 1590, gli scrittori napoletani vivono nella speranza di vedere l'Italia intera intorno al trono dei loro re, ed aspirano parimenti alla monarchia universale di Carlo V. Ha origine nelle immagini nitide di Bernardino Martirano nell'Aretusa; continua con i tentativi fatti da Fabrizio Luna e da Benedetto di Falco (che con l'uso della lingua toscana cercarono di estendere l'egemonia napoletana in tutta la penisola); e culmina nei versi di Luigi Tansillo che abbandona l'Arno in nome del Sebeto auspicando per Carlo V la monarchia universale del re di Napoli:
    "e così sia nel mondo, opra non vile, un Pastor solamente, ed un ovile".


    L'abitudine di servirsi del toscano come strumento per il primato italiano di Napoli continua nella prima metà del regno di Filippo II per opera di Antonio Miniili no e di Reginaldo Accetto, fino a quando la sconfitta dell'Invincibile nel 1588 provocò la rinunzia della Monarchia universale delle Spagne e fece abbandonare il sogno della unificazione sotto lo scettro dei re napoletani. È allora che comincia l'offensiva antitoscana; questa si manifesta o in una posizione di ripulsa nei confronti del toscano, come nei versi dell'epistola di Cesare Campana al marchese del Vico Filippo Caracciolo, o con una affermazione del napoletano, concretamente realizzala dal grande classicismo del secolo XVII negli scritti egregi di Giambattista Basile, di Giulio Cesare Cortese, dello sconosciuto Filippo Sgruttendio di Scafati, di Bartolomeo Zito, di Titta Valentino.
    Nel campo del diritto, la scienza giuridica peculiarmente napoletana vive nei secoli XVI e XVII i suoi momenti migliori. Se escludiamo il pensiero di Andrea d'Isernia, che è un gigantesco monolito, è questo il periodo in cui fioriscono le scuole più varie tra i personaggi più eletti. Basti leggere i capitoli che nel mio Nàpoles hispànico consacro ad un tema quasi vergine di bibliografia12 per identificare le energie intellettuali di tanti giureconsulti che fecero di Napoli la culla della scienza giuridica. Sorgono così una serie di scuole che compongono il più ricco mosaico di studi giuridici di cui si abbia memoria, non superato né prima né dopo da nessun popolo.
    Accanto a una particolare letteratura il regno napoletano ebbe una peculiare scienza del diritto.
    Fu possibile una cultura napoletana per lo scrupoloso interessamento dei re delle Spagne, fermi nel loro credo tradizionalista di rispettare la personalità storica del Regno, anche quando suggerimenti provenienti dagli stessi napoletani li incitavano alla castiglianizzazione del Regno partenopeo. E noto il caso di Tommaso Campanella che consigliava a Filippo III nella Monarchia di Spagna di "spagnolizzare" il Regno mediante l'imposizione della lingua, degli usi e delle leggi di Castiglia; e la reazione di quel buon re della vera Napoli che rifiutò i consigli dell'astrologo domenicano rinunziando alla triste gloria dei Cavour, dei Garibaldi e dei sovrani di quel Piemonte che lo stesso Campanella escludeva dalla lista dei popoli italiani.
    Il Regno napoletano tradizionale conobbe, con la personalità politica, l'indipendenza culturale nelle lettere e nel diritto. Fiorito tutto in uno splendido tipo umano che nell'opera El ingrato coglie il più bel fiore della produzione di Lope de Vega quando così descrive il principe Carlos che parla col servo Pasquino della napoletana Elena:

    "Pasquin: y si ella se preda de discreta y no lo es ?
    Carlos: No.
    la que en Nàpoles nació es impossible sea necia".


    4. L'impresa universale cristiana
    Al Regno, così rafforzato nelle istituzioni e maturo nella cultura, quei re affidarono l'impari compito di una missione storica: difendere la verità cattolica del Cristo contro i nemici del nord e del sud, contro il Protestantesimo e l'Islamismo. Oggi, che l'espressione guerra intellettuale non ha più valore per questo debole cattolicesimo conformista che sopportiamo, sarà difficile per molti comprendere la genialità storica che salvò la Cristianità dall'essere divorata dai suoi nemici, mercé i sacrifìci che con gli altri popoli della Confederazione spagnola, i miei antenati affrontarono coraggiosamente.
    Fummo strumenti di Dio. Se il Protestantesimo e l'Islamismo non poterono chiudere il cerchio che avrebbe stritolato quella Cristianità che ancora sopravviveva alla rivoluzione antropocentrica europea, fu perché Iddio si servì dei nostri popoli come strumento della Sua gloria e perché i nostri antenati poterono consacrarsi completamente alla impresa di combattere le battaglie del Signore nei leggendari tercios o nei banchi di Trento, nelle flotte da guerra o nella stampa dei libri.
    La massima gloria della tradizione napoletana è code-sto senso missionario, codesta guerra intellettuale contro l'Isiam e contro l'Europa. Ignorarla o disconoscerla è voler ignorare o disconoscere coscientemente l'essenza del Regno di Napoli. Con questa sciatta tendenza alla creazione dell'Europa, si giungerà unicamente a distruggere quel che rimane del vecchio Regno partenopeo.
    La tradizione di Napoli viene unanimemente vissuta ed espressa dai più grandi scrittori del regno, che sono nemici di Luterò, di Machiavelli, di Bodin, di Hobbes, in una parola di tutti i padri dell'Europa. Contro il primo di essi, Luterò, è un figlio di Gaeta, Tommaso de Vio, che apre la polemica cattolica, sebbene mai fosse spuntato in Napoli il benché minimo tentacolo dell'eresia luterana, giacché i valdesiani non ebbero con Napoli altra relazione se non quella di una momentanea permanenza: Juan de Valdés era di Cuenca, senese Bernardino Tommasini di Oca, fiorentini Pietro Carnesecchi e Pietro Martire Vermiglio, veneto Marc'Antonio Flaminio, lombarda Giulia Gonzaga, iberica Isabel Briceno. Neppure il machiavellismo ebbe fortuna in Napoli, perché la scuola napoletanissima del realismo tacitiano fu per costituzione antimachiavellica. Nelle sue file si trovano nomi dell'altezza di Girolamo Franchetta, Fabio Frezza, Deodato Solerà, Gio. Donato Turboli, Muzio Floriati, Giambattista Vico e molti altri; senza contare che nacque a Rocca d'Evandro, in Terra di Lavoro, uno dei più formidabili polemisti antimachiavellici di cui si abbia memoria: Ottavio Sammarco; ed inoltre pensatori che non ammettevano neanche il tacitismo (data la loro posizione estremamente realistica), come Alberto Pecorelli o Giulio Cesare Capaccio, o il coraggioso polemista Torquato Accetto, impegnato a combattere il Machiavelli dalle trincee della filosofìa stoica. La mentalità assolutistica tipicamente europea e sconosciuta nelle Spagne, teorizzata da Jean Bodin in Les six livres de la République, era incompatibile con la mentalità della Napoli tradizionale perché questa conosceva l'ossequio del principe alle leggi del Regno nella dottrina unanime della giurisprudenza regnicola, sintetizzata dai liberi sudditi di Filippo II nel tanto dimenticato quanto eccelso testo di Giovanni Antonio Lanario secondo cui "potestas absoluta non potest dari in Republica politica, et bene ordinata"1^; sviluppata da Alessandro Turammo nella sua visione della consuetudine come espressione della volontà popolare, da Andrea Molfesio nel suo quadro delle limitazioni legali, da Domenico Tassone nella tavola delle limitazioni istituziomissione storica: difendere la verità cattolica del Cristo contro i nemici del nord e del sud, contro il Protestantesimo e l'Islamismo. Oggi, che l'espressione guerra intellettuale non ha più valore per questo debole cattolicesimo conformista che sopportiamo, sarà difficile per molti comprendere la genialità storica che salvò la Cristianità dall'essere divorata dai suoi nemici, mercé i sacrifìci che con gli altri popoli della Confederazione spagnola, i miei antenati affrontarono coraggiosamente.
    Fummo strumenti di Dio. Se il Protestantesimo e l'Islamismo non poterono chiudere il cerchio che avrebbe stritolato quella Cristianità che ancora sopravviveva alla rivoluzione antropocentrica europea, fu perché Iddio si servì dei nostri popoli come strumento della Sua gloria e perché i nostri antenati poterono consacrarsi completamente alla impresa di combattere le battaglie del Signore nei leggendari tercios o nei banchi di Trento, nelle flotte da guerra o nella stampa dei libri.
    La massima gloria della tradizione napoletana è code-sto senso missionario, codesta guerra intellettuale contro l'Isiam e contro l'Europa. Ignorarla o disconoscerla è voler ignorare o disconoscere coscientemente l'essenza del Regno di Napoli. Con questa sciatta tendenza alla creazione dell'Europa, si giungerà unicamente a distruggere quel che rimane del vecchio Regno partenopeo.
    La tradizione di Napoli viene unanimemente vissuta ed espressa dai più grandi scrittori del regno, che sono nemici di Luterò, di Machiavelli, di Bodin, di Hobbes, in una parola di tutti i padri dell'Europa. Contro il primo di essi, Luterò, è un figlio di Gaeta, Tommaso de Vio, che apre la polemica cattolica, sebbene mai fosse spuntato in Napoli il benché minimo tentacolo dell'eresia luterana, giacché i valdesiani non ebbero con Napoli altra relazione se non quella di una momentanea permanenza: Juan de Valdés era di Cuenca, senese Bernardino Tommasini di Oca, fiorentini Pietro Carnesecchi e Pietro Martire Vermiglio, veneto Marc'Antonio Flaminio, lombarda Giulia Gonzaga, iberica Isabel Briceno. Neppure il machiavellismo ebbe fortuna in Napoli, perché la scuola napoletanissima del realismo tacitiano fu per costituzione antimachiavellica. Nelle sue file si trovano nomi dell'altezza di Girolamo Franchetta, Fabio Frezza, Deodato Solerà, Gio. Donato Turboli, Muzio Floriati, Giambattista Vico e molti altri; senza contare che nacque a Rocca d'Evandro, in Terra di Lavoro, uno dei più formidabili polemisti antimachiavellici di cui si abbia memoria: Ottavio Sammarco; ed inoltre pensatori che non ammettevano neanche il tacitismo (data la loro posizione estremamente realistica), come Alberto Pecorelli o Giulio Cesare Capaccio, o il coraggioso polemista Torquato Accetto, impegnato a combattere il Machiavelli dalle trincee della filosofìa stoica. La mentalità assolutistica tipicamente europea e sconosciuta nelle Spagne, teorizzata da Jean Bodin in Les six livres de la République, era incompatibile con la mentalità della Napoli tradizionale perché questa conosceva l'ossequio del principe alle leggi del Regno nella dottrina unanime della giurisprudenza regnicola, sintetizzata dai liberi sudditi di Filippo II nel tanto dimenticato quanto eccelso testo di Giovanni Antonio Lanario secondo cui "potestas absoluta non potest dari in Republica politica, et bene ordinata"1^; sviluppata da Alessandro Turammo nella sua visione della consuetudine come espressione della volontà popolare, da Andrea Molfesio nel suo quadro delle limitazioni legali, da Domenico Tassone nella tavola delle limitazioni istituzionali, da Francesco Pavone nella concezione delle consue-tudini popolari superiori alle leggi del principe, ed in tanti altri, che non è necessario citare per chiarire il concetto del potere limitato caratteristico delle Spagne, che metteva la Napoli autentica in posizione di contrasto con l'assolutismo bodiniano caratteristico d'Europa. Basterebbe la sistematica del diritto parlamentare napoletano elaborata dal vescovo di Capri Raffaele Rastelli, ai tempi di Filippo IV, per comprendere la contrapposizione del diritto politico napoletano, libero, di impronta spagnola, al diritto politico europeo.
    Il pensiero politico napoletano, come quello spagnolo in generale, fu antieuropeo, antiluterano, antimachiavellico, antibodiniano, schiettamente aderente alla Controriforma. L'Isiam e l'Europa furono i nemici nazionali. Fino al 1700 il Regno formò un blocco con il resto dei popoli della monarchia federata ispanica difendendo il teocentrismo intransigente della Cristianità di fronte alla nuova civiltà antropocentrica europea.
    5. La fine di Napoli
    La Napoli tradizionale, insomma, si cristallizzò in tre punti: la difesa intransigente del Cristianesimo cattolico, il mantenimento appassionato delle libertà del Regno inteso come corpo politico perfetto e totale, il fervido servizio al Re, capitano dell'impresa della Controriforma e paladino della Cristianità missionaria.
    La guerra civile che dilaniò i popoli spagnoli alla morte di Carlo II, provocò lo spezzettamento delle Spagne e, quel che è peggio, l'introduzione del nefasto pensiero europeo. Senza eccezione, in tutti i popoli della monarchia federale spagnola, la storia degli ultimi tre secoli sarà la lotta delle rispettive tradizioni spagnole contro l'estraneo spirito europeo. Napoli non costituisce una eccezione ed il suo sviluppo storico si identificherà con la polemica intorno alla sua tradizione assalita dall'assolutismo francese nel secolo XVIII, dal garibaldinismo liberale nel secolo XIX e dal sogno "romano" del fascismo nel secolo XX, che si succederanno lottando gli uni contro gli altri senza mai permettere una soluzione autenticamente napoletana.
    Il secolo XVIII vede il trionfo dell'Europa sulle Spagne, divise e soggette al governo di europei. Come in Castiglia prevarranno gli infrancesati Feijóo, Luzàn o Moratin, anche a Napoli sarà di moda imitare i Francesi. In ogni luogo si rinnega la genuina tradizione. Come in Castiglia, anche a Napoli una masnada di stranieri scende nel regno per annientare la sua essenza più profonda e per europeizzarla. Il francese Carlo III di Borbone dal trono, il toscano Bernardo Tanucci dal ministero, il conterraneo di quest'ultimo Bartolomeo Intieri sul piano culturale, il genovese Paolo Mattia Doria con la mendace storiografia, straziano l'anima nazionale napoletana. Come in Castiglia, anche qui si copiano l'amministrazione francese del Colbert, i gusti letterari del Boileau, la filosofia del Voltaire. L'eroico idealismo della difesa della Cristianità viene sostituito dal volgare pragmatismo di moda alla corte di Versailles. Invece di morire per degli ideali universali sui campi del Brasile o delle Fiandre, i Napoletani si preoccupano di costruire il palazzo di Caserta e vegetano sotto lo scettro borbonico. Le minoranze intellettuali, da Antonio Genovesi a Cesare Beccarla, da Gaetano Filangieri a Francesco Mario Pagano, non sono che fallite imitazioni di dottrine ultralpine. I letterati disprezzano la loro storia per inginocchiarsi ai piedi dell'idolo Voltaire, come fa Giuseppe Maria Galanti nella lettera del 20 Settembre 1773, o per deificare il selvaggio rousseaiano come Antonio Genovesi nella sua lettera del 9 Marzo 1768 ad Orsola Garappa. Nello stesso campo del diritto, in cui Napoli avrebbe potuto dar lezione a tutti i popoli, viene dimenticato il glorioso passato scopiazzando formule straniere; Broggia, o chiunque sia l'autore anonimo del saggio di un'opera intitolata Diritto pubblico e politico del Regno di Napoli, dichiara nientemeno l'inesistenza di una scienza del diritto e di una dottrina politica nella tradizione napoletana14; gli elementi del diritto del Regno napoletano di Niccolo Valletta parlano della "ragione civile" di stampo europeo disprezzando le radici teologiche del diritto tradizionale di Napoli15; Antonio Rossi edifica il suo libro Della Monarchia su basi assolutistiche, disprezzando la teoria della libertà di un Lanario o di un Tassone16; i giuristi napoletani voltano le spalle ai loro incomparabili predecessori, esponenti universali della scienza giuridica.
    Solo il popolo protesta e continua a parlare napoletano, quel napoletano che gli eruditi disdegnano, come disdegnano le lettere, la filosofia e la giurisprudenza napoletane facendo a gara nel portare a termine un vero e proprio suicidio nazionale paragonabile solo a quello coevo della Castiglia e del Portogallo soggiogati dalla stessa stupida imitazione europea. Come altrove ho segnalato, assistiamo ad un furore collettivo dei napoletani nel rinnegare le proprie tradizioni, come se, non facendo più parte della confederazione delle Spagne, l'anima nazionale avesse perduto la sua ragione d'essere. A tutti i rami del pensiero e delle lettere si potrebbero applicare le parole tristi con cui Ferdinando Galiani descrisse il disprezzo per la lingua: "allo splendore di questa nuova luce di scienza e di sapere, la nazione vide con altr'occhio se stessa e n'arrossì. Per la connessione già formata nelle idee, e divenuta impossibile a staccare fu il suo stesso linguaggio quello che maggiormente la percosse e la ricoprì d'umiliazione e di rossore. Quasi si vergognò d'aver parlato. Ma non seguì a sì fatto rincrescimento la naturai risoluzione d'emendare e purgare il suo dialetto. Ne fu presa un'altra non meno strana che disperata. Si risolvè unanimemente di rinnegarlo, abborrirlo, deriderlo; così, per stimolo d'onore (cosa incredibile!), venne la nazione tutta a mettersi a schernire e vilipendiare se stessa. Poco mancò che non restasse mutola in tutto. Ma, per non perder il maggior contrassegno dell'uomo, qual è la favella, fu risoluto abbracciar con fervore non già il comune italiano, ma il pretto stringato idiotismo toscano. Si fecero venire a furia di Toscana l'edizioni degli autori resi sacri nella lingua della indeclinabile sentenza della Crusca; se ne ristamparono qui moltissimi; s'appresero quasi a mente. Tutti si dettero a rivoltar vocabulari, grammatiche, regole di ben parlar toscano. Niccolo Amenta insiem con altri pubblicarono volumi su qualunque minuzia grammaticale toscana. I nostri dotti non s'occuparono quasi in altro. Divennero argutissimi e sminuzzatissimi parolai. E, quasi in espiazione del nostro lungo peccato, fu avidamente impreso a parlar e a scriver nel più ricercato favellar fiorentino. Come suonassero bene dentro le bocche doriche napoletane i motti, le celie, i riboboli, le facezie, i gorgheggi e tutti i vezzi di mercato vecchio, può ciascuno immaginarselo"17.
    Solamente il popolo abbandonato a se stesso e privo d'orientamento, cercò di continuare ad essere napoletano. Nel mondo delle lettere Giambattista Vico rappresenta l'ultima voce tradizionale con la sua avversione alla cultura moderna, con la sua lotta contro il pensiero europeo, fedele alla comune tradizione spagnola, fedele a Francisco Suarez da lui studiato durante l'intero anno 1684 tanto da diventare più suareziano che tomista, fedele a Tacito che illuminerà il realismo di Fabio Frezza e di Nuzio Floriati, confutatore di Bodin in un intero capitolo della Scienza nuova seconda, il III della parte XIII; nemico di Hobbes e Machiavelli, quali empi, distruttori della giustizia, scandali del pensiero, nel capitolo VII del libro III della prima Scienza nuova; spregiatore dell'idioma francese fino all'estremo di vantarsi di ignorarlo18, lui, l'erudito degli eruditi; ultimo nome della Tradizione napoletana, la cui massima gloria fu costituita dalla lotta che condusse contro le astrazioni figlie del giusnaturalismo protestante utilizzando genialmente la sintesi suareziana della metafisica con la storia.
    La vittoria dell'Europa sulle minoranze intellettuali annientò la cultura originale napoletana. La monarchia borbonica affidò i suoi popoli ad uomini di formazione intellettuale straniera o addirittura di diversa nazionalità. Tanucci o Acton non sono meno stranieri di Murat; Luigi Medici non meno infrancesato di Carlo III. Dal momento in cui Napoli esce dalla confederazione delle Spagne, viene governata da nemici della sua libertà tradizionale, portati in alto dal favore reale o usciti dal seno di circoli illuministi del tipo di quelli che il palermitano Giovanni Meli fustiga nella satira IV de La villeggiatura:

    C'è Voltier! c'è Russò!... La signunua
    li capisci sti libra ch'haju dittu?
    Oh ultra eh'è na vera francisina
    li spiega lu sirventi 'ntra un vuschiettu".


    Ciò nonostante, il popolo profondamente napoletano odiava la Francia che l'Europa gli aveva imposto nel governo e che le stupide minoranze intellettuali adoravano. Con i Borboni perdette l'amore per la monarchia, quell'amore che aveva sentito per i monarchi spagnoli proprio per il loro napoletanismo, rimasto incompreso dai Borboni francesi.
    Dei grandi ideali, Dio e Re, che costituivano la profonda unità della confederazione spagnola, il secolo XVIII tolse al popolo napoletano il secondo, e nel 1799, senza più ideali né guide, la Tradizione napoletana perdette la sostanza monarchica pur continuando ad essere spagnola e napoletanissima nell'odio contro l'Europa incarnata dai Francesi e nella fedeltà alla fede cattolica. Nel 1799, dirà Vincenzo Cuoco nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, "il popolo non amava più il re, non voleva neanche udirlo nominare; ma ripiena la mente delle impressioni di tanti anni, amava ancora la sua religione, amava la patria e odiava i francesi"19.
    Nel secolo XVIII la tradizione napoletana perde il senso della monarchia autentica, ma sente la nostalgia delle libertà spagnole, continua ad odiare l'Europa, e crede nella realtà tradizionale di Napoli. Il suo grido di battaglia sarà l'"Evviva la Santa Fede ed il Popolo napoletano!". Perciò il grande teorico del tradizionalismo napoletano d'allora, il tanto calunniato principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, più che una soluzione monarchica che le circostanze imbrigliavano nell'assolutismo, parve postulare una repubblica aristocratica in unione con i "cavalieri della Città", proprio immediatamente prima che i Borboni distruggessero gli ultimi resti dell'antica libertà sciogliendo i "Sedili" il 25 Aprile 1800. L'aspirazione di Canosa, percorrendo altre vie, era tuttavia non lontana da quella di Vincenzo Cuoco: una Napoli fedele alla tradizione nazionale dei tempi spagnoli, tradizione più intuita che conosciuta, una Napoli antieuropea, cattolica, con proprie leggi libere.
    Il senso della storia è quel che avvicina due atteggiamenti apparentemente così diversi come quello di Canosa e del Cuoco nell'ultima svolta del 1800. Ma la loro voce rimase senza ascolto, come accadde a Mozo de Rosales nella Castiglia di Ferdinando VII; nessuno di loro, soffocati tra il liberalismo e l'assolutismo, riuscì ad imporre la propria tesi: quella di dare alla propria patria dei governi tradizionali basati su libertà concrete. Fu l'ultima speranza della Tradizione napoletana e, nel cadere, Napoli entrò nel dilemma di due soluzioni contrarie alla sua sostanza storica: l'assolutismo infrancesato dei Borboni nel secolo XVIII ed il garibaldinismo rivoluzionario dei Savoia nel XIX.
    Nel 1860 i liberali trionfarono sugli assolutisti ed i Piemontesi sostituirono i Francesi. Napoli non moriva allora, già era morta da 150 anni quando era uscita dalla confederazione monarchica delle Spagne. Carlo II era stato l'ultimo re nazionale.
    La data decisiva della fine di Napoli è il 1700, quando lo spirito nazionale viene annientato; Garibaldi fu solo colui che seppellì un popolo assassinato più di un secolo addietro.
    Chi legge N'appiceco tra nu fauzo liberale e n'accanito palatone di Antonio Teodoro, comprende la ragione di tali
    giudizi vedendoli proiettati nella realtà napoletana20. Dopo un secolo e mezzo cadranno nel vuoto i tentativi di risuscitare lo spirito nazionale, sia nel campo letterario con lo scarno realismo di Ferdinando Russo, sia con il radicalismo nazionalista dei collaboratori di 'O spassatiem-po o con l'Accademia dei Filopatridi.
    Il popolo non reagisce più, rovinato com'è da imposte che scandalizzavano il marchese di Caccavone o il caustico Raffaele Petra21. Prima ancora d'essere vinto nel 1860, fu venduto nel 1700. Solo qualche poeta, come Luigi Chiurazzi, rinnegherà la libertà garibaldina "mo portata", facendosi nostalgico sognatore della vera tradizione perduta, nella sua Aummaria22. Il popolo napoletano, che nel secolo XVIII aveva perduta la fede nella monarchia per colpa di alcuni despoti francesi, nel XIX perdette la fede nella libertà per aver provato la libertà piemontese. Alle parole di Vincenzo Cuoco sopra citato, fanno eco quelle di Luigi, il "luciano" del nostalgico poema di Ferdinando Russo:

    "A libbertà! Chesta Mmalora nera
    ca nce ha arredutte senza pelle 'ncuolle!...
    A libbertà!... Sta fauzapuntunera
    ca te fa tante cicere e nnammuolle!...
    Po' quanno t'ha spugliato, bonasera!"23


    Degli antichi grandi ideali, il popolo napoletano conserva solamente la fede cattolica. E le sue stupide minoranze, abbagliate da dottrine straniere, ora nel secolo XX, stanno lavorando tenacemente per abbattere l'unico baluardo che resta della vera Tradizione.
    6. Via Toledo, 1963
    II Regno di Napoli, opera dei re delle Spagne, raggiunge la sua piena formazione istituzionale verso il 1500 e una propria cultura peculiare nei secoli XVI e XVII, quando l'indipendenza nel seno della confederazione spagnola rese possibile la realizzazione della sua personalità politica, giuridica e culturale. Nel 1700, smembratasi la confederazione delle Spagne, Napoli divenne vittima della nemica Europa. Il trinomio tradizionale di Dio, libertà concreta e re si svuota di contenuto nei tre secoli successivi: nel XVIII la fede nella monarchia, nel XIX il ricordo delle proprie libertà, nel XX la passione fervente nel Dio della Cristianità militante.
    Perciò io, passeggiando nella vecchia via Toledo, meta prediletta da tanti napoletani purosangue nei giorni in cui Napoli era Napoli, ho sentito spesso il peso dolce di una eredità così nobile ed ho guardato con pietoso dolore tanti figli del popolino venduti a tutte le pazzie delle mode europee dalle vuote minoranze di pseudo-intellettuali. Ultimo napoletano nell'intimità del mio spirito mi sentivo l'unico figlio spirituale della Tradizione napoletana tra gente che, non solo l'ignorava, ma si vantava d'ignorarla. Solo dall'anima del popolino, disprezzata da tali minoranze, traspariva la genuinità sepolta della Napoli mia e dei miei avi.
    L'incompetenza del comandante Achille Lauro ha dato il colpo di grazia alla Tradizione napoletana, poiché ha voluto camuffarla con la monarchia straniera dei Savoia, invece di indirizzarla verso la restaurazione della cultura patria. Avrebbe potuto seguire l'esempio di Francesco Gambo in Catalogna e la sua opera sarebbe stata efficace e duratura. Come Cambó, avrebbe potuto creare cattedre, fondare centri di cultura, finanziare case editrici, patrocinare ricerche, in una parola intraprendere l'impresa di fomentare la restaurazione spirituale di tutto il suo popolo. L'impresa di Cambó è riuscita a far sì che lo spirito catalano abbia resistito all'offensiva di due dittature e continui nella sua splendida primavera nazionale. Allo stesso modo Lauro avrebbe potuto salvare il salvabile della Tradizione napoletana se avesse lavorato alla restaurazione di Napoli invece di perdersi in mille meschine lotte campanilistiche, se avesse preferito il mecenatismo storico alla transitoria carica di sindaco, se avesse posseduto il senso esatto della prospettiva storica napoletana.
    Forse ora è tardi per risuscitare la Tradizione di Napoli. Ma, per coloro che ancora cercano di denigrarla o vogliono ignorarla, lì stanno le sue vestigia; nei libri che non si leggono, nel popolo che viene disprezzato, nel cuore di molti che inconsciamente le sentono come io le sento. Perciò passeggiando tanti pomeriggi nella rumorosa via Toledo ho sofferto la tristezza profonda della solitudine, consolata solo dalla voce serena dell'ultimo tradizionalista napoletano, del fraterno amico Silvio Vitale, quando il richiamo che sentivo nel più profondo del mio essere mi diceva che era impossibile finisse così il popolo dei miei antenati, ricco di lealtà generosa, creatore di grandi libertà concrete, paladino di imprese universali. Morirò, ma voglio morire con la speranza che, anche se sepolta e derisa, la tradizione della mia Napoli non può restare inerte archeologia. La giustizia di Dio non può permettere che muoia tra ludibri un popolo che è stato strumento di Lui nelle battaglie decisive della storia. Neanche se, come sembra accadere, i Napoletani si sono lasciati andare nella pazzia di un suicidio collettivo.


    NOTE
    1 Salvatore Di Giacomo, Opere, Verona, Arnoldo Mondadori, 1957, 2 tomi, citazione nel I, p. 192.
    2 Ibidem, II, p. 645.
    Nàpoles hispànico nell'ansia di conoscere in che consiste la Tradizione napoletana, cioè, l'anima della mia adorata Napoli.
    Dio ha premiato i miei lavori con il più bel regalo della mia vita. Nella mia Napoli ho incontrato la compagna perfetta all'ombra immortale del migliore re che abbia avuto Napoli, il nostro signore Don Filippo II. Con lei posso continuare a percorrere i sentieri della mia passione napoletana, benché passi per via Toledo tra rinnegati o incoscienti.
    2. Il corpo istituzionale autonomo
    3 Niccolo Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Il Principe e Discorsi, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 256. Nel I, p. 55. 4 Napoli, Gravier, 1769, p. 2.
    4 Benedetto Croce, II villano dì Matera e Ferdinando il Cattolico, in Varietà dì storia letteraria e civile, Bari, Laterza, I (1949), p. 34.
    5 Epigrammatum liber, Venezia, Mateo Capcasa parmense, 1493, f. 47 v.to 7. ' Elogio al Catholico Re Ferdinando, in Locanna dì scrittori dì Terra di Otranto, Lecce, Tipografia Garibaldi, III (1867), p. 107.
    8 Napoli, Giovanni Cravier, 1769, p. 3.
    9 Leon de Francia, Carlo Burgea, 1670, p. 2a.
    10 Tumultos, 2
    11 Lo certifica Erasmo Percopo nella pagina 183 della sua edizione delle Rime del Canteo, Napoli, Biblioteca napoletana di storia e letteratura, 1892.
    12 Nàpoles hispànico, Madrid e Sevilla, Ediciones Montejurra, I (1958), pp. 343-391, II (1958), pp. 249-315. Ili (1959), pp. 187-264. IV (1961), pp. 493-565.
    13 Ioannis Antonii Lanarii, Repetitiones feudales, Napoli, Apud Lazarum Scorigìum, 1630, p. 115 b.
    14 Cosmopoli s.d., p. 2.
    15 Napoli, Michele Morelli, 1776, p. 8.
    16 Napoli, Giuseppe Campo, 1779, pp. 12 e 110 fra altre.
    17Ferdinando Galiani, Del dialetto napoletano, 1779, Edizione di Fausto
    18 Su ciò Fausto Nicolini, La giovinezza di Giambattista Vico (1668-1770), saggio biografico, Bari, Laterza, 1932, p. 157.
    19 Edizione di Nino Cortese, Firenze, Vallecchi, 1926, p. 101.
    20 Datato 14 Luglio 1865. Nella Raccolta di poesìe edite ed inedite, Napoli, Fratelli
    Tornese, 1887, pp. 57 b59 a.
    21 Vedi Andrea Genoino, Profilo del Marchese di Caccavone, Napoli, N. Jovene,
    1924, p. 134.
    22 In Enrico Malato, La poesìa dialettale napoletana, Napoli, Edizioni
    Scientifiche Italiane, 1960, citazione nel II, p. 173.
    23 Ferdinando Russo, 'O Luciano d' o Rre, Napoli, Bideri, 1963, p. 47.

    Francisco Elias de Tejada, La Monarchia Tradizionale, Controcorrente 2001

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