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    a.k.a. tolomeo
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    Predefinito Ratisbona - Discorso integrale di Papa Ratzinger

    E’ per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritor**** a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all’università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell’intera università, rendendo così possibile una vera esperienza di universitas: il fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del “tutto” dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impeg**** i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una convinzione indiscussa.
    Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non le risposte dell’erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le “tre Leggi”: Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura del dialogo – che, nel contesto del tema “fede e ragione”, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
    Nel settimo colloquio (dialexis – controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihad (guerra santa). Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”. E’ una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il “Libro” e gli “increduli”, egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. L’imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. “Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…”.
    L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.
    Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il logos”. E’ questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16, 6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco. In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo.
    Già il nome misterioso di Dio dal
    roveto ardente, che distacca questo
    Dio dall’insieme delle divinità con
    molteplici nomi affermando soltanto
    il suo essere, è, nei confronti del mito,
    una contestazione con la quale sta in
    intima analogia il tentativo di Socrate
    di vincere e superare il mito stesso. Il
    processo iniziato presso il roveto raggiunge,
    all’interno dell’Antico Testamento,
    una nuova maturità durante
    l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo
    della Terra e del culto, si annuncia come
    il Dio del cielo e della terra, presentandosi
    con una semplice formula
    che prolunga la parola del roveto: “Io
    sono”. Con questa nuova conoscenza
    di Dio va di pari passo una specie di
    illuminismo, che si esprime in modo
    drastico nella derisione delle divinità
    che sono soltanto opera delle mani
    dell’uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante
    tutta la durezza del disaccordo
    con i sovrani ellenistici, che volevano
    ottenere con la forza l’adeguamento
    allo stile di vita greco e al loro culto
    idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca
    ellenistica, andava interiormente
    incontro alla parte migliore del
    pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole
    che si è poi realizzato specialmente
    nella tarda letteratura sapienziale.
    Oggi noi sappiamo che la
    traduzione greca dell’Antico Testamento,
    realizzata in Alessandria – la
    “Settanta” –, è più di una semplice (da
    valutare forse in modo poco positivo)
    traduzione del testo ebraico: è infatti
    una testimonianza testuale a sé stante
    e uno specifico importante passo della
    storia della Rivelazione, nel quale
    si è realizzato questo incontro in un
    modo che per la nascita del cristianesimo
    e la sua divulgazione ha avuto un
    significato decisivo. Nel profondo, vi
    si tratta dell’incontro tra fede e ragione,
    tra autentico illuminismo e religione.
    Partendo veramente dall’intima
    natura della fede cristiana e, al
    contempo, dalla natura del pensiero
    ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele
    II poteva dire: Non agire “con il
    logos” è contrario alla natura di Dio.
    Per onestà bisogna annotare a questo
    punto che, nel tardo Medioevo, si
    sono sviluppate nella teologia tendenze
    che rompono questa sintesi tra spirito
    greco e spirito cristiano. In contrasto
    con il cosiddetto intellettualismo
    agostiniano e tomista iniziò con
    Duns Scoto una impostazione volontaristica,
    la quale alla fine portò all’affermazione
    che noi di Dio conosceremmo
    soltanto la voluntas ordinata.
    Al di là di essa esisterebbe la libertà
    di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe
    potuto creare e fare anche il contrario
    di tutto ciò che effettivamente
    ha fatto. Qui si profilano delle posizioni
    che, senz’altro, possono avvicinarsi
    a quelle di Ibn Hazn e potrebbero
    portare fino all’immagine di un
    Dio-Arbitrio, che non è legato neanche
    alla verità e al bene. La trascendenza
    e la diversità di Dio vengono accentuate
    in modo così esagerato, che
    anche la nostra ragione, il nostro senso
    del vero e del bene non sono più un
    vero specchio di Dio, le cui possibilità
    abissali rimangono per noi eternamente
    irraggiungibili e nascoste dietro
    le sue decisioni effettive. In contrasto
    con ciò, la fede della Chiesa si è
    sempre attenuta alla convinzione che
    tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito
    creatore e la nostra ragione creata esista
    una vera analogia, in cui certo le
    dissomiglianze sono infinitamente più
    grandi delle somiglianze, non tuttavia
    fino al punto da abolire l’analogia e il
    suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa
    più divino per il fatto che lo
    spingiamo lontano da noi in un volontarismo
    puro ed impenetrabile, ma il
    Dio veramente divino è quel Dio che
    si è mostrato come logos e come logos
    ha agito e agisce pieno di amore in nostro
    favore. Certo, l’amore “sorpassa”
    la conoscenza ed è per questo capace
    di percepire più del semplice pensiero
    (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore
    del Dio-logos, per cui il culto cristiano
    è ?????? ?at?e?a” – un culto che
    concorda con il Verbo eterno e con la
    nostra ragione (Rm 12,1).
    Il qui accennato vicendevole avvicinamento
    interiore, che si è avuto tra
    la fede biblica e l’interrogarsi sul piano
    filosofico del pensiero greco, è un
    dato di importanza decisiva non solo
    dal punto di vista della storia delle religioni,
    ma anche da quello della storia
    universale – un dato che ci obbliga
    anche oggi. Considerato questo incontro,
    non è sorprendente che il cristianesimo,
    nonostante la sua origine e
    qualche suo sviluppo importante nell’Oriente,
    abbia infine trovato la sua
    impronta storicamente decisiva in Europa.
    Possiamo esprimerlo anche inversamente:
    questo incontro, al quale
    si aggiunge successivamente ancora il
    patrimonio di Roma, ha creato l’Europa
    e rimane il fondamento di ciò che,
    con ragione, si può chiamare Europa.
    Alla tesi che il patrimonio greco,
    criticamente purificato, sia una parte
    integrante della fede cristiana, si oppone
    la richiesta della dis-ellenizzazione
    del cristianesimo – una richiesta
    che dall’inizio dell’età moderna domina
    in modo crescente la ricerca teologica.
    Visto più da vicino, si possono osservare
    tre onde nel programma della
    dis-ellenizzazione: pur collegate tra di
    loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni
    e nei loro obiettivi sono chiaramente
    distinte l’una dall’altra.
    La dis-ellenizzazione emerge dapprima
    in connessione con i postulati
    fondamentali della Riforma del XVI secolo.
    Considerando la tradizione delle
    scuole teologiche, i riformatori si vedevano
    di fronte ad una sistematizzazione
    della fede condizionata totalmente dalla
    filosofia, di fronte cioè ad una determinazione
    della fede dall’esterno in
    forza di un modo di pensare che non
    derivava da essa. Così la fede non appariva
    più come vivente parola storica,
    ma come elemento inserito nella struttura
    di un sistema filosofico. Il sola
    Scriptura invece cerca la pura forma
    primordiale della fede, come essa è
    presente originariamente nella Parola
    biblica. La metafisica appare come un
    presupposto derivante da altra fonte,
    da cui occorre liberare la fede per farla
    tornare ad essere totalmente se stessa.
    Con la sua affermazione di aver dovuto
    accantonare il pensare per far spazio
    alla fede, Kant ha agito in base a
    questo programma con una radicalità
    imprevedibile per i riformatori. Con ciò
    egli ha ancorato la fede esclusivamente
    alla ragione pratica, negandole l’accesso
    al tutto della realtà.
    La teologia liberale del XIX e del
    XX secolo apportò una seconda onda
    nel programma della dis-ellenizzazione:
    di essa rappresentante eminente è
    Adolf von Harnack. Durante il tempo
    dei miei studi, come nei primi anni
    della mia attività accademica, questo
    programma era fortemente operante
    anche nella teologia cattolica. Come
    punto di partenza era utilizzata la distinzione
    di Pascal tra il Dio dei filosofi
    ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
    Nella mia prolusione a Bonn,
    nel 1959, ho cercato di affrontare questo
    argomento. Non intendo riprendere
    qui tutto il discorso. Vorrei però
    tentare di mettere in luce almeno brevemente
    la novità che caratterizzava
    questa seconda onda di dis-ellenizzazione
    rispetto alla prima. Come pensiero
    centrale appare, in Harnack, il
    ritorno al semplice uomo Gesù e al
    suo messaggio semplice, che verrebbe
    prima di tutte le teologizzazioni e, appunto,
    anche prima delle ellenizzazioni:
    sarebbe questo messaggio semplice
    che costituirebbe il vero culmine
    dello sviluppo religioso dell’umanità.
    Gesù avrebbe dato un addio al
    culto in favore della morale. In definitiva,
    Egli viene rappresentato come
    padre di un messaggio morale umanitario.
    Lo scopo di ciò è in fondo di riportare
    il cristianesimo in armonia
    con la ragione moderna, liberandolo,
    appunto, da elementi apparentemente
    filosofici e teologici, come per
    esempio la fede nella divinità di Cristo
    e nella trinità di Dio. In questo
    senso, l’esegesi storico-critica del
    Nuovo Testamento sistema nuovamente
    la teologia nel cosmo dell’università:
    teologia, per Harnack, è qualcosa
    di essenzialmente storico e quindi
    di strettamente scientifico. Ciò che
    essa indaga su Gesù mediante la critica
    è, per così dire, espressione della
    ragione pratica e di conseguenza anche
    sostenibile nell’insieme dell’università.
    Nel sottofondo c’è l’autolimitazione
    moderna della ragione,
    espressa in modo classico nelle “critiche”
    di Kant, nel frattempo però ulteriormente
    radicalizzata dal pensiero
    delle scienze naturali. Questo concetto
    moderno della ragione si basa, per
    dirla in breve, su una sintesi tra platonismo
    (cartesianismo) ed empirismo,
    che il successo tecnico ha confermato.
    Da una parte si presuppone
    la struttura matematica della materia,
    la sua per così dire razionalità intrinseca,
    che rende possibile comprenderla
    ed usarla nella sua efficacia
    operativa: questo presupposto di fondo
    è, per così dire, l’elemento platonico
    nel concetto moderno della natura.
    Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità
    funzionale della natura per i
    nostri scopi, dove solo la possibilità di
    controllare verità o falsità mediante
    l’esperimento fornisce la certezza decisiva.
    Il peso tra i due poli può, a seconda
    delle circostanze, stare più dall’una
    o più dall’altra parte. Un pensatore
    così strettamente positivista come
    J. Monod si è dichiarato convinto
    platonico o cartesiano.
    Questo comporta due orientamenti
    fondamentali decisivi per la nostra
    questione. Soltanto il tipo di certezza
    derivante dalla sinergia di matematica
    ed empiria ci permette di parlare
    di scientificità. Ciò che pretende di essere
    scienza deve confrontarsi con
    questo criterio. E così anche le scienze
    che riguardano le cose umane, come
    la storia, la psicologia, la sociologia
    e la filosofia, cercano di avvicinarsi
    a questo canone della scientificità.
    Importante per le nostre riflessioni,
    comunque, è ancora il fatto che il metodo
    come tale esclude il problema
    Dio, facendolo apparire come problema
    ascientifico o pre-scientifico. Con
    questo, però, ci troviamo davanti ad
    una riduzione del raggio di scienza e
    ragione che è doveroso mettere in
    questione.
    Torneremo ancora su questo argomento.
    Per il momento basta tener
    presente che, in un tentativo alla luce
    di questa prospettiva di conservare alla
    teologia il carattere di disciplina
    “scientifica”, del cristianesimo resterebbe
    solo un misero frammento. Ma
    dobbiamo dire di più: è l’uomo stesso
    che con ciò subisce una riduzione.
    Poiché allora gli interrogativi propriamente
    umani, cioè quelli del “da
    dove” e del “verso dove”, gli interrogativi
    della religione e dell’ethos, non
    possono trovare posto nello spazio
    della comune ragione descritta dalla
    “scienza” e devono essere spostati
    nell’ambito del soggettivo. Il soggetto
    decide, in base alle sue esperienze,
    che cosa gli appare religiosamente sostenibile,
    e la “coscienza” soggettiva
    diventa in definitiva l’unica istanza
    etica. In questo modo, però, l’ethos e
    la religione perdono la loro forza di
    creare una comunità e scadono nell’ambito
    della discrezionalità personale.
    E’ questa una condizione pericolosa
    per l’umanità: lo costatiamo nelle
    patologie minacciose della religione e
    della ragione – patologie che necessariamente
    devono scoppiare, quando la
    ragione viene ridotta a tal punto che
    le questioni della religione e dell’ethos
    non la riguardano più. Ciò che
    rimane dei tentativi di costruire un’etica
    partendo dalle regole dell’evoluzione
    o dalla psicologia e dalla sociologia,
    semplicemente insufficiente.
    Prima di giungere alle conclusioni
    alle quali mira tutto questo ragionamento,
    devo accennare ancora brevemente
    alla terza onda della dis-ellenizzazione
    che si diffonde attualmente.
    In considerazione dell’incontro con
    la molteplicità delle culture si ama dire
    oggi che la sintesi con l’ellenismo,
    compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe
    stata una prima inculturazione,
    che non dovrebbe vincolare le altre
    culture. Queste dovrebbero avere il
    diritto di tornare indietro fino al punto
    che precedeva quella inculturazione
    per scoprire il semplice messaggio
    del Nuovo Testamento ed inculturarlo
    poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti.
    Questa tesi non è semplicemente
    sbagliata; è tuttavia grossolana
    ed imprecisa. Il Nuovo Testamento,
    infatti, e stato scritto in lingua greca e
    porta in se stesso il contatto con lo spirito
    greco – un contatto che era maturato
    nello sviluppo precedente dell’Antico
    Testamento. Certamente ci sono
    elementi nel processo formativo
    della Chiesa antica che non devono
    essere integrati in tutte le culture. Ma
    le decisioni di fondo che, appunto, riguardano
    il rapporto della fede con la
    ricerca della ragione umana, queste
    decisioni di fondo fanno parte della
    fede stessa e ne sono gli sviluppi,
    conformi alla sua natura.
    Con ciò giungo alla conclusione.
    Questo tentativo, fatto solo a grandi linee,
    di critica della ragione moderna
    dal suo interno, non include assolutamente
    l’opinione che ora si debba ritornare
    indietro, a prima dell’illuminismo,
    rigettando le convinzioni dell’età
    moderna. Quello che nello sviluppo
    moderno dello spirito è valido
    viene riconosciuto senza riserve: tutti
    siamo grati per le grandiose possibilità
    che esso ha aperto all’uomo e per
    i progressi nel campo umano che ci sono
    stati donati. L’ethos della scientificità,
    del resto, è volontà di obbedienza
    alla verità e quindi espressione di un
    atteggiamento che fa parte della decisione
    di fondo dello spirito cristiano.
    Non ritiro, non critica negativa è dunque
    l’intenzione; si tratta invece di un
    allargamento del nostro concetto di ragione
    e dell’uso di essa. Perché con
    tutta la gioia di fronte alle possibilità
    dell’uomo, vediamo anche le minacce
    che emergono da queste possibilità e
    dobbiamo chiederci come possiamo
    dominarle. Ci riusciamo solo se ragione
    e fede si ritrovano unite in un modo
    nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata
    della ragione a ciò che è
    verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo
    ad essa nuovamente tutta
    la sua ampiezza. In questo senso la teologia,
    non soltanto come disciplina storica
    e umano-scientifica, ma come teologia
    vera e propria, cioè come interrogativo
    sulla ragione della fede, deve
    avere il suo posto nell’università e nel
    vasto dialogo delle scienze.
    Solo così diventiamo anche capaci
    di un vero dialogo delle culture e delle
    religioni – un dialogo di cui abbiamo
    un così urgente bisogno. Nel mondo
    occidentale domina largamente l’opinione,
    che soltanto la ragione positivista
    e le forme di filosofia da essa
    derivanti siano universali. Ma le culture
    profondamente religiose del
    mondo vedono proprio in questa
    esclusione del divino dall’universalità
    della ragione un attacco alle loro convinzioni
    più intime. Una ragione, che
    di fronte al divino è sorda e respinge
    la religione nell’ambito delle sottoculture,
    è incapace di inserirsi nel
    dialogo delle culture. E tuttavia, la
    moderna ragione propria delle scienze
    naturali, con l’intrinseco suo elemento
    platonico, porta in sé, come ho
    cercato di dimostrare, un interrogativo
    che la trascende insieme con le sue
    possibilità metodiche. Essa stessa deve
    semplicemente accettare la struttura
    razionale della materia e la corrispondenza
    tra il nostro spirito e le
    strutture razionali operanti nella natura
    come un dato di fatto, sul quale si
    basa il suo percorso metodico. Ma la
    domanda sul perché di questo dato di
    fatto esiste e deve essere affidata dalle
    scienze naturali ad altri livelli e
    modi del pensare – alla filosofia e alla
    teologia. Per la filosofia e, in modo diverso,
    per la teologia, l’ascoltare le
    grandi esperienze e convinzioni delle
    tradizioni religiose dell’umanità, specialmente
    quella della fede cristiana,
    costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi
    ad essa significherebbe una
    riduzione inaccettabile del nostro
    ascoltare e rispondere. Qui mi viene
    in mente una parola di Socrate a Fedone.
    Nei colloqui precedenti si erano
    toccate molte opinioni filosofiche
    sbagliate, e allora Socrate dice: “Sarebbe
    ben comprensibile se uno, a
    motivo dell’irritazione per tante cose
    sbagliate, per il resto della sua vita
    prendesse in odio ogni discorso sull’essere
    e lo denigrasse. Ma in questo
    modo perderebbe la verità dell’essere
    e subirebbe un grande danno”. L’occidente,
    da molto tempo, è minacciato
    da questa avversione contro gli interrogativi
    fondamentali della sua ragione,
    e così può subire solo un grande
    danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza
    della ragione, non il rifiuto della
    sua grandezza – è questo il programma
    con cui una teologia impegnata
    nella riflessione sulla fede biblica,
    entra nella disputa del tempo
    presente. “Non agire secondo ragione
    (con il logos) è contrario alla natura di
    Dio”, ha detto Manuele II, partendo
    dalla sua immagine cristiana di Dio,
    all’interlocutore persiano. E’ a questo
    grande logos, a questa vastità della ragione,
    che invitiamo nel dialogo delle
    culture i nostri interlocutori. Ritrovarla
    noi stessi sempre di nuovo, è il
    grande compito dell’università.

    Benedetto XVI
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  2. #2
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    L'infallibile Ispettore Ratz

    Dicono che, almeno dai tempi di Pio IX e della sua Pastor Aeternus, il Papa sia infallibile.
    Per lo meno quando parla ex-cathedra: e ovviamente non c'è cattedra più prestigiosa e cattedratica di una università teologica tedesca, come Ratisbona.
    Ai miei tempi - quando Carosello era Carosello - era infallibile anche l'infallibile Ispettore Rock che pubblicizzava un prodotto davvero scomparso da parecchi lustri, la brillantina Linetti; ora van di moda i gel che invece di lisciare i capelli li rendono ispidi.
    L'Ispettore Rock, portava sempre a termine con successo le brevi indagini del Carosello e scovava infallibilmente il colpevole; ma quando riceveva i complimenti finali del suo collega ""Lei è un fenomeno, ispettore: non sbaglia mai!" rispondeva, anche in questo caso infallibilmente, con le parole: "Non è esatto... anch'io ho commesso un errore! Non ho mai usato la Brillantina Linetti!".
    E contemporaneamente - è un ricordo che vale tutte le petite madeleine di Proust - scopriva la testa mostrando una gran pelata.



    Non mancava di titoli di nobiltà nemmeno l'attore che impersonava l'infallibile ispettore, si chiamava infatti Cesare (come gli imperatori di Roma) Polacco (come il penultimo papa) ma evidentemente non era infallibile come il Papa.
    Quanto a Ratzinger, non credo che sia infallibile nemmeno lui; ma tuttavia credo anche - con qualche brivido di orrore - che in questo caso non abbia commesso un errore ma che abbia detto quelle cose sapendo bene quello che avrebbero potuto scatenare, se male interpretate.
    E anche se ora si togliesse la mitria o il camauro e dicesse "anch'io ho commesso un errore...", la bianca chioma fluente al posto della simpatica pelata dell'Ispettore Rock, me lo farebbero sembrare ancora meno infallibile.

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    Citazione Originariamente Scritto da pcosta Visualizza Messaggio
    L'infallibile Ispettore Ratz

    Dicono che, almeno dai tempi di Pio IX e della sua Pastor Aeternus, il Papa sia infallibile.
    Per lo meno quando parla ex-cathedra: e ovviamente non c'è cattedra più prestigiosa e cattedratica di una università teologica tedesca, come Ratisbona.
    Ai miei tempi - quando Carosello era Carosello - era infallibile anche l'infallibile Ispettore Rock che pubblicizzava un prodotto davvero scomparso da parecchi lustri, la brillantina Linetti; ora van di moda i gel che invece di lisciare i capelli li rendono ispidi.
    L'Ispettore Rock, portava sempre a termine con successo le brevi indagini del Carosello e scovava infallibilmente il colpevole; ma quando riceveva i complimenti finali del suo collega ""Lei è un fenomeno, ispettore: non sbaglia mai!" rispondeva, anche in questo caso infallibilmente, con le parole: "Non è esatto... anch'io ho commesso un errore! Non ho mai usato la Brillantina Linetti!".
    E contemporaneamente - è un ricordo che vale tutte le petite madeleine di Proust - scopriva la testa mostrando una gran pelata.



    Non mancava di titoli di nobiltà nemmeno l'attore che impersonava l'infallibile ispettore, si chiamava infatti Cesare (come gli imperatori di Roma) Polacco (come il penultimo papa) ma evidentemente non era infallibile come il Papa.
    Quanto a Ratzinger, non credo che sia infallibile nemmeno lui; ma tuttavia credo anche - con qualche brivido di orrore - che in questo caso non abbia commesso un errore ma che abbia detto quelle cose sapendo bene quello che avrebbero potuto scatenare, se male interpretate.
    E anche se ora si togliesse la mitria o il camauro e dicesse "anch'io ho commesso un errore...", la bianca chioma fluente al posto della simpatica pelata dell'Ispettore Rock, me lo farebbero sembrare ancora meno infallibile
    .

    ...e tanto simpateticamente dilagante nel correttissimo politically correct, vero ?
    e tutti vissero felici e contenti (senza "ragione"... alcuna per esserlo).
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

 

 

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