User Tag List

Risultati da 1 a 2 di 2
  1. #1
    Matteo Maria Boiardo
    Data Registrazione
    26 Jun 2006
    Località
    Emilia
    Messaggi
    726
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Post L'Insorgenza in Emilia Romagna

    Questo documento è stato postato in origine da: Celta boico.


    L'INSORGENZA IN EMILIA-ROMAGNA di Francesco Mario Agnoli




    Nel tracciare un quadro generale e, quindi necessariamente sommario, pur se limitato all'Emilia-Romagna, dell'Insorgenza, la spontanea resistenza armata delle popolazioni contro l'invasione delle idee rivoluzionarie e delle armi francesi alla fine del secolo XVIII e agli inizi del XIX, occorre tenere presenti distinzioni temporali e territoriali anche nell'ambito di una sola regione e limitatamente, pur se con qualche puntata al periodo successivo, al cosiddetto "triennio giacobino" (1796 - 1799), che rappresenta il primo e più violento fra la società organica, il mondo dell'ancien régime, e quella rivoluzionaria, attraversata ancora dalle convulsioni del parto, fondata sull'incontro fra le speculazioni dei Lumi e la filosofia di Jean Jacques Rousseau, il virtuoso, ma lagrimoso filosofo di

    Ginevra
    , rielaborate e fuse, nonostante l'apparente inconciliabilità, nelle officine delle logge massoniche. Per quanto riguarda i territori che oggi compongono l'Emilia - Romagna, divisi allora fra i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, Modena e Reggio e le provincie più settentrionali dello Stato della Chiesa (le legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna), la data iniziale del triennio giacobino é il 7 maggio 1796, quando l'Armee d'Italie, guidata dal giovane generale Napoleone Bonaparte, sconfitti i piemontesi del generale Michelangelo Colli a Mondovì (21 aprile 1796) e costretto il re di Sardegna, Vittorio Amedeo III, a firmare, il successivo 27 aprile, l'armistizio di Cherasco, varca il Po sopra Piacenza. Primo obbiettivo é battere l'armata austriaca del generale Johann-Peter di Beaulieu e prendere Milano (15 maggio), ma già il 18 giugno i Francesi sono a Bologna, il 23 a Ferrara e a Lugo, il 26 a Ravenna, quando già, il 23, é stato sottoscritto a Bologna un armistizio, che lascia alla Francia le legazioni di Bologna e Ferrara, mentre torna al Pontefice quella di Ravenna (a eccezione di Castelbolognese), che tuttavia le truppe francesi finiranno di sgombrare solo nel mese di ottobre. Resta ai margini, appena sfiorata dall'invasione, nella parte meridionale della regione, Rimini, mentre in quella nord-occidentale il Ducato di Parma e Piacenza, pur soggetto a una sorta di vessatorio protettorato di fatto, viene per il momento lasciato al duca Ferdinando di Borbone, dietro pagamento di una pesantissima taglia in denaro, derrate e opere d'arte. Nonostante i discorsi e gli evviva delle sparute minoranze giacobine, che invano si adoperano per persuadere i concittadini a rallegrarsi dell'arrivo della libertà, già lungo il cammino di avvicinamento a Bologna, dove l'accoglienza é sul primo momento migliore che altrove, perché il Bonaparte ha saputo ingraziarsi il Senato, lasciandogli sperare prossima la realizzazione del suo antico sogno di indipendenza, i francesi hanno immediata conferma che i sentimenti delle popolazioni emiliane e romagnole nei loro confronti non sono più favorevoli di quelli trovati in Lombardia. Forse é anche per questo che sulle prime il Bonaparte sembra propendere per lasciare, così come ha fatto a Parma e Piacenza, il Ducato di Modena e Reggio al suo sovrano, il duca Ercole d'Este, col quale anzi sottoscrive un armistizio, che prevede tuttavia, esattamente come a Parma, il pagamento di un "riscatto", pari in questo caso a 24 milioni di lire modenesi. Ben presto però, a causa delle mene dei giacobini, che soprattutto a Reggio, pur restando una ridottissima minoranza, hanno più seguaci che in altre parti del Ducato estense, la situazione precipita e il 26 agosto viene proclamata la Repubblica Reggiana e impiantato nella principale piazza cittadina l'albero della libertà. Gli avvenimenti di Reggio segnano la sorte dell'intero Ducato, anche se la definitiva rottura dell'armistizio con l'inglobamento ufficiale del territorio modenese nel sistema di potere rivoluzionario che si viene costruendo si ha solo all'inizio del successivo mese di ottobre (Modena viene occupata il giorno 4). Tanto nell'intervallo fra l'arrivo delle truppe francesi e gli avvenimenti di Reggio quanto dopo la proclamazione della Repubblica Reggiana e la definitiva occupazione di Modena é vivissima la resistenza alla "democratizzazione" da parte delle popolazioni, assai più determinate del loro Duca, che già in maggio si é rifugiato a Venezia, affidando il governo a un Consiglio di Reggenza e la conduzione delle trattative al suo fratellastro, il conte di San Romano. Inevitabilmente le manifestazioni, che tuttavia coinvolgono anche le due maggiori città (Modena conosce un tentativo di insorgenza il 25 novembre in contemporanea con quella, ben più minacciosa, perché favorita dall'aspra natura dei luoghi, della Garfagnana), sono più forti e coronate, almeno sul primo momento, da maggior successo nelle campagne e nei grossi borghi del contado, dove la neonata Repubblica può contare solo sulle milizie giacobine non appoggiate da forti contingenti francesi, anche se nemmeno questi si sottraggono all'ostilità degli abitanti come accade a S.Ilario, dove ai primi di agosto vengono bastonati dai contadini sedici soldati francesi riunitisi a cena in una osteria. In realtà l'intero Ducato é in subbuglio. Rubiera, Gualtieri e Mirandola si dichiarano per il Duca. A Concordia e a San Possidonio si danno alle fiamme le bandiere della Rivoluzione. Novellara rifiuta di riconoscere il regime repubblicano. A Bagnolo e Scandiano vengono abbattuti gli alberi della libertà. A Camposanto, a Concordia e a Correggio i giacobini giunti da Modena e Reggio o, a seconda del momento, per predicarvi il verbo rivoluzionario o per installarvi una rappresentanza del nuovo potere repubblicano, vengono allontanati a forza dal paese. Comunque i centri dove l'insorgenza tenta di tenere testa anche all'arrivo delle truppe sono in particolare Castelnuovo nei Monti e Montealfonso. Quì gli insorti guidati dal confessore del Duca, fra' Pier Paolo Maggesi, poi condannato a morte in contumacia assieme ai suoi fratelli Giuseppe e Saverio (intanto, in attesa di rintracciarli, si ordina che la loro casa sia "saccheggiata e distrutta sino a' fondamenti"). Meno fortunati, non pochi altri insorgenti, caduti nelle mani dei francesi comandati dal generale Rusca, fra i quali due ragazzi appena diciottenni, Angelo Masotti e Giovanni Andrea Raggi, vengono fucilati. La "democratizzazione" del Ducato modenese pone fine anche anche alla breve illusione indipendentista della Repubblica Bolognese e del suo aristocratico Senato. A dispetto della sua opposizione il 16 ottobre 1796 i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio danno vita,"per la comune sicurezza a difesa della libertà", alla Confederazione Cispadana, che si affretta a rivolgere alla Romagna, nonostante che il Bonaparte l'abbia lasciata con l'armistizio di Bologna allo Stato della Chiesa, un pubblico invito all'unione. E' pronta la replica dei "Popoli di Romagna ai Popoli del Bolognese e del Ferrarese oppressi dall'autonoma Confederazione Cispadana", con la riaffermazione della propria fedeltà al governo pontificio "il più soave, il più tranquillo, il più felice di tutti i governi d'Europa". L'unione alla neonata repubblica liberamente respinta é però ben presto imposta con la forza. La conquista dell'Emilia-Romagna viene, difatti, completata (sempre con l'eccezione, nei limiti indicati, del Ducato di Parma e Piacenza) il 2 febbraio 1797, quando le truppe pontificie, affiancate dai volontari dell'insorgenza, sono sconfitte sul fiume Senio nei pressi di Castelbolognese in uno scontro assai combattuto, nonostante l'assenza del comandante in capo dei pontifici, generale Colli, giunto, forse volutamente, in ritardo, il cattivo impiego, per inesperienza, dell'artiglieria e il tradimento di alcuni comandanti fautori delle nuove idee (in particolare il conte Francesco Biancoli), di quanto sostenuto, con sprezzante ironia, dalla pubblicistica e dalla storia giacobina, ripresa in seguito da quella risorgimentalista, come dimostrano le rilevanti perdite patite dai francesi e, soprattutto dalla Legione lombarda del generale Giuseppe Lahoz, ancora giacobino, rimasto egli stesso ferito mentre guida i suoi all'assalto di un ponte tenacemente difeso dai pontifici. Anche se resiste ancora la munitissima fortezza di San Leo (cadrà solo il 1° dicembre 1797) la vittoria francese non lascia altra scelta che la firma, il successivo 19 febbraio, del Trattato di Tolentino, col quale il Papa rinuncia, oltre che alle legazioni di Bologna e Ferrara, già di fatto perdute, a quella di Ravenna, che, unita in maggio alla Cispadana, ne segue le sorti, confluendo il 29 giugno 1797 nella Cisalpina. Sul piano territoriale un certo rilievo (anche se non così determinante come si é voluto da alcuni sostenere) va riconosciuto alla distinzione fra campagna e città, non perché le classi popolari urbane siano meno avverse delle rurali agli invasori, ovunque invisi al popolo (ma in compenso corteggiati e adulati da non piccola parte dell'aristocrazia e della borghesia benestante) per l'ostentata irreligione, i saccheggi, le depredazioni, le imposizioni fiscali e la leva militare, ma perché nelle città la forte presenza di truppe francesi e cisalpine riesce, se non a blocare le manifestazioni di questa profonda ostilità, quanto meno a contenerle, anche se tutti, e primi fra tutti i nuovi amministratori delle locali municipalità giacobine, ne avvertono la minacciosa presenza, segnalata in particolare dagli attentati agli odiatissimi alberi della libertà, simbolo del nuovo regime e del processo di scristianizzazione da questo messo in atto, e da gli atti ostili, non di rado violenti, contro gli esponenti più in vista del giacobinismo indigeno, come l'8 dicembre 1797 accade a Bologna a Giuseppe Gioannetti, nipote dell'arcivescovo Andrea Gioannetti, preso di mira da una fitta sassaiola mentre, ritto accanto al celebre albero, predica il nuovo verbo democratico (lo stesso Gioannetti il 31 giugno 1798, per avere proclamato al Circolo costituzionale di Rimini che "tutti i Papi sono stati tanti Anticristi", viene salvato a stento all'ira dei presenti e costretto a fare ammenda con la pubblica dichiarazione di avere inteso riferirsi solo ai Papi, non meglio determinati, che non erano stati veraci imitatori della "pura dottrina di Cristo"). Del resto non appena si allenta la presenza militare, anche nelle città capoluogo si intensificano i tentativi di ristabilire il vecchio governo (il fenomeno si accentua, come si vedrà, nel 1799). Così accade a Ravenna il 12 luglio 1796, quando alla partenza dei francesi, richiamati a nord dalle esigenze della guerra con l'Austria, fanno seguito il ritorno del cardinal legato Dugnani, accolto trionfalmente dalla popolazione festante, che stacca dalla carrozza i cavalli per trascinarla a braccia fino alla residenza del legato, e il disarmo a opera della folla della Guardia Civica. Negli stessi giorni a Ferrara i componenti della municipalità giacobina, consapevoli di non potersi attendere nulla di buono dai loro amministrati, abbandonano precipitosamente la città, nella quale, sollecitato dallo stesso Pio VI, rientra il vice legato monsignor La Greca, ma il suo soggiorno é brevissimo, perché ben presto giunge la notizia delle vittorie di Bonaparte. Con grande frequenza la protesta, quando non può esprimersi con le armi, si concretizza nelle tradizionali manifestazioni religiose, spesso vietate, sempre osteggiate da Francesi e giacobini, come la proibitissima processione del Corpus Domini, che, in attesa di sopprimerla, si vorrebbe tenere rinchiusa all'interno delle chiese, come dispongono appositi decreti, e che invece in molte località il popolo dei fedeli continua a portare, spesso contro la volontà di parroci spaventati e preti tremebondi, sui percorsi consueti, come, per restare nel contado bolognese, avviene, tanto nel '97 quanto nel '98, a Minerbio, Stiola, Porretta, Tolé, Casaglia e altri luoghi. Anche a Rimini l'occasione per un tumulto, questa volta accuratamente preparato, che non si trasforma in qualcosa di peggio solo per la prudente retromarcia delle autorità giacobine, é offerta, il 7 aprile 1799, dalla processione cittadina della Madonna dell'Acqua, voluta dal popolo fuori dell'abituale ricorrenza agostana per impetrare la fine di insistenti pioggie rovinose per la campagna. La processione, esattamente come era accaduto l'anno prima, viene autorizzata alla tassativa condizione di rimanere all'interno della chiesa e dell'annesso chiostro, ma quando, giunto al limite fissato, il parroco, che non per nulla ha prima dell'inizio ricordato l'obbligo di obbedienza alle prescrizioni delle autorità, sempre costituite da Dio, sicchè chi le offende si ribella alla religione, vorrebbe rientrare, dalla folla dei fedeli si leva un grido unanime:"Fuori la processione! Viva Maria!", al quale seguono spinte e strattoni per quei sacerdoti che non vogliono ottemperare alla volontà popolare. La Guardia Nazionale, comandata di vigilanza sulla sulla piazza, si fa avanti per bloccare il corteo e l'ufficiale che la guida punta una pistola coi cani alzati al petto del chierico, che, davanti a tutti, regge la croce, ma i contadini che seguono la sacra immagine traggono da sotto i mantelli mannaie, coltelli, roncole e bastoni e si precipitano, gridando e tempestando, sui militi, che, terrorizzati dal numero e dalla furia che li investe, si volgono a precipitosa fuga, quasi subito seguiti dallo sbalordito ufficiale, che non ha tardato a rendersi conto dell'inutilità dell'arma che impugna. Altre volte (lo si é visto per il Ducato modenese) l'occasione é data dall'impianto dell'albero della libertà. A Forlì il 28 febbraio 1797, riferisce il filofrancese cronista Pellegrino Baccarini, "cadendo l'ultimo giorno di carnevale si vide poche ore prima dell'avemaria della sera piantato ed alzato il tanto odiato, il tanto temuto e il tanto desiderato albero della Libertà... Il basso popolo si era portato in parte portato agli angoli della piazza e parte radunato a complotti non solo sulla medesima, ma benanche disseminato sui diversi punti delle strade principali cominciò con urli e sarcasmi a inveire contro il nuov'ordine che si istituiva, lo che se non produsse tragedia fu causa per altro di uno spavento non per anche conosciuto, atteso che la cavalleria benchè in poco numero urtò, calpestò e percosse di piatto i tumultuosi. Il capo di questi fu certo Lorenzo Bofondi, il quale urlando e gridando come un'ossesso s'inginocchiò co' suoi compagni avanti la colonna situata in mezzo di questa piazza maggiore, sormontata da una statua rappresentante la Beata Vergine del Fuoco, intuonando subito le litanie. Dall'urto delle truppa a cavallo, che si era unita a quella d'infanteria, non rimasero ilesi se non per quelli che ebbero campo di rifugiarsi in qualche casa, o bottega. Tutti gli altri ricevettero contusioni e percosse". Questo primo episodio, scelto fra mille altri, può apparire abbastanza modesto, ma, oltre a riuscire significativo di come il popolo avverta il contrasto del simbolo arboreo con la fede cristiana, é esemplare di una infinita serie di gesti di disprezzo e di ogni genere di attentati contro gli alberi della libertà, divenuti in ogni sommossa uno dei primi obiettivi degli insorti, che a volte li atterrano, a volte, e a quanto sembra con maggior gusto, li immerdano o vi appiccano il fuoco. Fra Rivoluzione e Controrivoluzione la guerra é, difatti, anche di simboli, considerati da entrambe le parti carichi di significati e suggestioni. Se le popolazioni ce l'hanno con gli "alberi", non per nulla letteralmente grondanti di insegne massoniche, al punto che pressoché dappertutto, in particolare nelle ore notturne, debbono essere sorvegliati da militi armati, le amministrazioni rivoluzionarie e, dove queste non hanno il coraggio di ordinare la rimozione, i partitanti giacobini prendono di mira le immagini sacre, in particolare quelle dedicate alla Madonna oggetto di particolare odio, all'epoca numerosissime nelle strade di città e di campagna. Tuttavia, mentre gli insorti debbono agire di nascosto e a proprio rischio e pericolo, i giacobini sanno di avere comunque alle spalle la garanzia della forza e della prepotenza del potere. Di coseguenza, se la tumultuosa indignazione degli abitanti costringe, non appena scoperto il misfatto, la municipalità ravennate, timorosa che le truppe a sua disposizione non bastino a proteggere dalla violenta esplosione della collera popolare, a ordinare l'arresto dei caporioni della squadraccia che nella notte di lunedì 9 aprile 1798 atterra e distrugge immagini sacre e croci marmoree da sempre presenti nelle vie e nelle piazzette di Ravenna, decorso appena qualche giorno e arrivati in città i richiesti rinforzi, gli arrestati vengono prontamente liberati. Al contrario le punizioni per gli oltraggi agli alberi sono sempre di esemplare severità e in crescendo col passare del tempo, senza escludere la pena capitale, che il 28 luglio di quello stesso anno viene, difatti, inflitta a don Pietro Maria Zanarini, parroco di S.Maria di Varignana, località della Bassa bolognese, colpevole di avere atterrato due alberi della libertà (secondo altri, prima due poi un terzo), impiantati, in evidente segno di sfida, proprio sul sagrato della sua chiesa. Nulla di strano se si considera che il ricorso al terrore e la distruzione dell'avversario sono caratteristiche essenziali dell'ideologia rivoluzionaria e che fin dal primo momento dell'invasione la religione rappresenta il punto di maggior frizione, il casus belli, fra occupanti e giacobini da una parte e le popolazioni dall'altra. I primi, anche se non lo confessano apertamente ed anzi protestano, ma le parole sono continuamente e vistosamente contraddette dai fatti, il massimo rispetto per la religione cattolica e non solo chiedono, ma esigono, punendo severamente i sacerdoti che si rifiutano, la celebrazione del Te Deum per solennizzare le loro vittorie con la parvenza di un consenso popolare, perseguono un piano di totale scristianizzazione, del resto da tempo obiettivo principale delle logge; le seconde ne sono perfettamente consapevoli e reagiscono con ogni mezzo, anche quando i loro pastori, e in particolare quelli di grado più elevato, o per preoccupazioni personali e timidezza di carattere o per il timore di ritorsioni sull'intero paese, invitano alla calma e alla prudenza. E' quanto accade, quasi in contemporanea con l'occupazione, a Lugo, il più importante centro della Bassa Romagna (all'epoca inclusa nella legazione ferrarese), non appena, il 30 giugno 1796, vi giungono da Ferrara (occupata da un migliaio di soldati francesi il precedente 23) due commissari della nuova municipalità giacobina, il conte Giovanni Cremona e il dottor Antonio Scutellari, incaricati di prelevare ori e argenti, pubblici e privati, per fare fronte all'enorme contributo di guerra di quattro milioni di lire imposto dai Francesi come corrispettivo del non richiesto dono della libertà. Le imposizioni fiscali, comunque denominate e motivate, non riescono mai gradite alle popolazioni anche se decise dal governo di casa, ma divengono insopportabili quando vi si aggiunge l'offesa a ciò che la gente ha di più sacro. A Lugo fra gli oggetti sacri viene confiscato e avviato alla fusione il busto argenteo di Sant'Ilaro (più esattamente Ellero), patrono della città. I Lughesi, profondamente offesi nei loro sentimenti religiosi e patriottici (sotto l'ancien régime i due concetti in larga parte coincidono), guidati dal fabbro Francesco Mongardini, detto il Fabbrone o il Morone, che, avendo servito nell'esercito pontificio, si assume il ruolo di capo militare, dall'agricoltore Giambattista Sassi, dai conti Matteo Manzoni e Luigi Samaritani, dal notaio Antonio Maria Randi, recuperano la statua, subito solennemente ricollocata nella chiesa dei padri carmelitani, si impadroniscono di un buon numero di fucili e, decisi a tirare dritto, pongono il loro quartier generale nel collegio Trisi. Intanto, approfittando della confusione e con l'aiuto di qualche anima buona, i terrorizzati commissari ferraresi abbandonano nascostamente la città. Nonostante le esortazioni alla calma della grande maggioranza del clero locale, sostenuto dall'intervento del vescovo di Imola (la cui diocesi include, oggi come allora, il territorio lughese), Barnaba Chiaramonti (il futuro Pio VII), che, convinto dell'inevitabile sconfitta dell'Insorgenza e della conseguente necessità di evitare una feroce rappresaglia, si adopera per la pacificazione su due fronti ugualmente difficili: con gli insorti per indurli a deporre le armi, e con i Francesi, perché concedano favorevoli condizioni di resa, é intenzione degli insorgenti di non appagarsi della facile vittoria (per il momento non vi sono Francesi a Lugo), ma di cogliere l'occasione per promuovere una generale insurrezione. Vengono, quindi, inviati messi nei paesi vicini per invitarli a prendere le armi e, anche se non tutti aderiscono,l'incendio si estende ad Argenta, Bagnara, Solarolo, Cotignola, Massalombarda, Sant'Agata, Mordano. Resta in bilico la posizione di Castelbolognese, che ancora non ha digerito il passaggio, disposto due anni prima (1794), dalla legazione di Bologna a quella di Ravenna, mentre si mostra ostile Bagnacavallo, contrapposta a Lugo da una secolare rivalità e dominato da un ceto aristocratico largamente influenzato dalle idee dei philosophes (tuttavia di lì a poco anche Bagnacavallo farà conoscenza dell'Insorgenza grazie agli abitanti del suo contado, che il 17 ottobre entrano in città per abbattervi le insegne repubblicane e sostituirvi quelle pontificie). La presenza fra gli insorgenti in posizione di comando di rappresentanti dell'aristocrazia e della borghesia locale consente di allargare gli orizzonti, facendo comprendere che nemmeno con questi aiuti si può sperare in un successo non precario se non si coinvolge nello scontro armato ormai inevitabile l'intero Stato Pontificio e a questo scopo il 1° luglio viene inviato a Roma il conte Matteo Manzoni, uno dei capi più accesi e determinati dell'insurrezione. I Francesi, che sulle prime hanno probabilmente sottovalutato l'importanza del moto e la determinazione dei Lughesi, soltanto il 5 luglio inviano da Faenza un piccolo corpo di truppa, facilmente vittima di un'imboscata predisposta dal Mongardini, che intanto, forse per fare il verso al Bonaparte, ma certamente per indicare come gli insorgenti mirino solo a vivere in pace, ha assunto il nome di generale Buonapace. Caduti alcuni dragoni e gli ufficiali che li comandano, i Francesi ripiegano su Faenza, ma intanto si é mossa da Argenta, proveniente da Ferrara, una grossa colonna al comando del colonnello Pourailly. Francesco Mongardini riesce a bloccare il nemico nella zona paludosa che si estende ininterrotta a nord-est del paese e dopo due giorni di aspri combattimenti costringe il comandante francese, rimasto ferito, a battere in ritirata, lasciando sul terreno circa duecento morti e i carriaggi, mentre i Lughesi, appostati dietro un alto argine, che il nemico non é riuscito a conquistare nonostante i ripetuti assalti, ognuno dei quali é costato molti morti e molti feriti, hanno avuto solo pochi caduti. Tuttavia il giorno del momentaneo trionfo é anche quello della sconfitta. Lo stesso 7 luglio, terminato appena lo scontro con la colonna Pourailly, il rimbombo del cannone annuncia la fine dell'insorgenza lughese. Un forte corpo di truppa, proveniente da Imola al comando del generale Augerau in persona, ha superato la resistenza degli abitanti di Villa S.Martino, che, appostati nei fossi per ripetere la manovra riuscita qualche giorno prima, spinti dall'impazienza hanno commesso l'errore di aprire il fuoco sui dragoni dell'avanguardia, così perdendo il vantaggio della sorpresa. I cannoni fanno il resto e la città (all'epoca le sue dimensioni sono all'incirca equivalenti a quelle di Ravenna e il comprensorio agricolo che le gravita intorno é particolarmente florido, sicché Lugo é sede di un celebre mercato annuale) viene sottoposta ad uno spietato saccheggio, nel corso del quale vengono uccisi non pochi abitanti, non bastando a salvarli le suppliche e gli interventi diplomatici del vescovo di Imola, che arriva a mettere di mezzo l'incaricato di affari del governo spagnolo. Si é indugiato sull'insorgenza lughese per le sue particolari caratteristiche di rivolta urbana, che vede riunite contro l'invasione giacobina tutte le componenti della società locale, caratteristiche accentuate dal tentativo, non presente in altri episodi connotati da un maggiore localismo, di coinvolgere nello scontro l'intero Stato pontificio, sicché non del tutto a torto, anche se con qualche esagerazione, il generale Augerau, oltre che parlare di "Vandea d'Italia" (in questo periodo agli occupanti accade spesso di dovere rievocare in Italia la guerra vandeana), può, nel suo rapporto al Direttorio parigino, definire la massa degli insorti, armati di schioppi e carabine da caccia, ma anche di falci e forconi, "Armata Apostolica". Tuttavia, pur se in certo senso esemplare della compattezza di una comunità urbana ancora fortemente permeata di spiriti cristiani, questa Insorgenza (che presenta- non é fuori luogo sottolinearlo- pur nelle sue più ridotte dimensioni notevoli punti di contatto con quella veronese del 1797- le famose "Pasque"-, anche per il consapevole tentativo di trasformare un'insurrezione locale in una guerra antifrancese di tutto lo Stato) non é un episodio isolato e troverà numerosi imitatori (pressoché contemporanei i moti di Argenta, Cento e Pieve di Cento, paesi particolarmente irrequieti, come si vedrà anche nell'Insorgenza, questa volta pressoché generale, del 1799) dopo essere stata, a sua volta, preannunciata e in certo qual modo preparata (in questi anni tumultuosi le notizie si diffondono con la stessa rapidità delle fiamme sospinte da forti venti nei periodi di siccità) da quanto accaduto qualche giorno prima a Ravenna, Cesena e Forlì. Nonostante l'editto di Pio VI (del resto pubblicato in ritardo), che prescrive di non opporre resistenza alle truppe francesi e ordina "ad ogni buon cattolico e suddito... di non eccitare il popolo a rumore", a Forlì il 24 giugno 1796 (siamo, quindi, al momento iniziale dell'invasione, otto mesi prima dell'impianto dell'albero della libertà e delle litanie riparatrici guidate dall'operaio Lorenzo Bofondi) " moltissimi operai stavansi in piazza (essendo giorno festivo). Parte amareggiati per avere visto a giungere dai Francesi, del cui procedere avevano inteso mille cose in contrario, e parte pentiti di aver depositato le armi, cominciarono a borbottare tra di loro e dire: quale viltà abbiamo commesso noi mai? Ripariamoci. Andiamo a prendere le nostre armi, che più tardiamo, andiamo, andiamo!", finché, decisi a riaverle, corsero al palazzo pubblico, dove erano state depositate, "atterrarono le porte, entrarono nella grande stanza e fra gli urli, le bestemmie e le grida ne presero quante ne vollero". Tuttavia, essendo intanto partito l'Augerau alla volta di Faenza, il clero e l'aristocrazia cittadina ebbero modo di calmare i bollenti spiriti e di evitare lo scontro armato, per timore del quale, "vedutasi dagli abitanti di Forlì la partenza del generale francese, osservata la città tutta via in preda alla ribellione, nel timore che in tal frangente arrivassero truppe (quali, se mai fossero giunte, si sarebbero attaccate coi rivoltosi, e ne sarebbe nato crudele massacro) abbandonarono quasi tutti le proprie abitazioni, e tanto nobili che cittadini si ritirarono nei loro casini di campagna" (si tratta evidentemente di ricchi e benestanti, assai più preoccupati delle turbolenze popolari che dell'occupazione francese). L'iniziativa pacificatrice viene presa da uno dei più ragguardevoli e benvoluti personaggi cittadini, il marchese Fabrizio Paulucci, che, accordatosi col vescovo, l'anziano e tremebondo monsignor Mercuriale Prati (di lì a poco sarà praticamente esautorato da una Giunta ecclesiastica composta da sacerdoti contagiati dall'eresia giansenista e, quindi, favorevoli alle nuove idee, come il canonico Albicini e don Gelpi, "mandò a chiamare tutti i Parrochi della città e gli incombenzò a portarsi dai sollevati all'oggetto di esortarli al buon ordine e nel tempo stesso a dirgli che si recassero da lui che voleva parlargli... Finalmente dopo un'ora e mezzo di preghiere, tre dei più facinorosi, già carichi d'armi da capo a piedi, rivolsero i passi verso la chiesa di S.Mercuriale ed entrarono nel palazzo Paulucci", dove con buone parole ed elargizione di denaro si lasciano per il momento persuadere a deporre le armi. Altrettanto avviene a Ravenna, dove l'aristocrazia e i cittadini abbienti hanno consumato tutto il loro coraggio quando, il 26 giugno, le autorità cittadine , i Savi, rispondono, suscitandone le ire, al generale Augerau, che gli annuncia solennemente di essere venuto a portare la libertà e gli ingiunge di dichiarare se preferiscono essere liberi o soggetti al Papa, di non avere di che dolersi del suo buon governo e di essere, quindi, intenzionati "di allontanarsi dall'obbedienza del legittimo Sovrano sol quando dalla forza vi fossero astretti". Anche quì i ceti popolari urbani e gli abitanti del contado sono meno disposti dei maggiorenti, laici ed ecclesiastici, ad accontentarsi delle parole. Il 28 giugno ai borghigiani di porta Adriana, già in subbuglio per la rimozione delle insegne pontificie, si uniscono i terrazzani di Alfonsine, Santerno, Glorie, Mezzano, Piangipane, convenuti a Ravenna a seguito dell'ordine di consegna delle armi da fuoco, e tutti insieme, avendo appreso che dopo la partenza di Augerau sono rimasti in città appena trenta dragoni agli ordini del commissario di guerra Francesco Deschamps, decidono di sbarazzarsene nel più violento e definitivo dei modi. A dissuaderli, quando già stanno marciando verso il centro urbano, intervengono il marchese Camillo Spreti, nelle grazie popolari per le sue idee legittimiste e filo-imperiali (nel 1799, dopo la liberazione di Ravenna a seguito delle vittorie austro-russe, sarà posto a capo della Reggenza Provvisoria) e l'arcivescovo Antonio Codronchi, accompagnato in solenne corteo da tutti i canonici del duomo. Lo scopo é raggiunto, ma non manca "chi ebbe l'ardire di spianare lo schioppo contro l'arcivescovo e contro i canonici che li stavano di fianco". Si tratta di scontri e contrasti che non vanno sottovalutati, dal momento che rappresentano con ogni probabilità la prima occasione di quel distacco fra la popolazione e la gerarchia ecclesiastica, che, abilmente sfruttato dalla propaganda rivoluzionaria svolta in particolare dalle logge massoniche, che proprio in questi anni si insediano in Romagna, si approfondirà e ingigantirà a dismisura nel secolo successivo fino ad approdare al deserto spirituale della scristianizzazione. In seguito (ma già lo si é visto con l'episodio riminese, che tuttavia si colloca oltre due anni più tardi, in un momento poco favorevole alle armi francesi e, quindi, più propizio) nemmeno la sconfitta del Senio e l'armistizio di Tolentino valgono a riportare la calma, perché, come non ci si stanca di sottolineare, essendo questa l'indispensabile chiave di lettura dell'Insorgenza, le popolazioni hanno intuito (ovviamente a vari livelli di cosapevolezza) la natura essenzialmente anticristiana e, con particolare virulenza, anticattolica, della Rivoluzione, per cui sono consapevoli che questa volta non si tratta soltanto di sostituire un sovrano a un altro in un immutato quadro di sostanziale "legittimità", ma che é in gioco la propria fede religiosa, il che all'epoca significa il proprio modello di vita, il proprio mondo, il proprio modo di essere uomini. Per questo non solo le sconfitte e le rappresaglie non spezzano lo spirito di resistenza, ma cadono nel vuoto le esortazioni alla pace, alla tranquillità, all'obbedienza pressantemente rivolte ai fedeli dai vescovi, che impongono ai parroci di ripeterle durante la Messa, affinché, come scrive nel marzo '97, in occasione dell'Insorgenza di Tavoleto, il vescovo di Cesena, cardinal Bellisomi, "gli ignoranti non pensino di rendere onore a Dio nel disprezzare gli ordini di quelli ai quali Egli stesso ha voluto sottoporli". Non migliori risultati ottiene il vescovo di Sarsina, monsignor Nicola Casali, a quanto si deduce da una lettera da lui diretta alle autorità giacobine per scusarsi di non essere riuscito ad impedire il proibitissimo suono delle campane, nonostante la buona volontà e la collaborazione dei parroci, per il vero tutt'altro che garantita, verosimilmente perché il basso clero si sente più vicino ai sentimenti popolari, a giudicare da quanto scrive proprio a monsignor Casali Don Domenico Minotti, arciprete di Ranchio:"posso assicurarLa che in questi Popoli sebben rozzi, ignoranti e miserabili sta ben radicata la vera Fede, e in essa si protestano di morir volentieri e di questo mi consolo e mi glorio". Il trattato di Tolentino é appena stato firmato ed ecco che agli inizi del mese di marzo esplode l'intera zona appenninica e pedemontana dal cesenate al riminese, e oltre, dal momento che é contemporaneamente in armi tutta la parte settentrionale della regione marchigiana, dove si trova, a poche centinaia di metri dal confine emiliano-romagnolo (ed in realtà alla Romagna accomunato dalla lingua e dai costumi), il paese che passerà alla storia come il principale centro dell'Insorgenza (alla quale dà il nome), la piccola comunità montana di Tavoleto, al cui parroco, don Luigi Galluzzi, i francesi attribuiscono, probabilmente in parte a torto, il ruolo di promotore di una delle più violente e determinate Insorgenze del periodo, che coinvolge Sarsina, Mercato Saraceno, Montecastello, Ciola, San Romano, Bertinoro e molti altri paesi della Romagna e della zona di confine fra questa e il Montefeltro, fra i quali Sogliano, che da all'Insorgenza ben 500 uomini guidati da Gioacchino Tornari, un paesano noto in tutta la zona per la sua forza e il suo coraggio. Il moto, che si estende fino al mare, coinvolgendo Gatteo, Cesenatico e Cattolica, é tanto importante che il 26 marzo i giacobini di Cesena, temendo un assalto alla città e per nulla sicuri delle convinzioni democratiche dei loro concittadini, non per nulla accorsi l'anno precedente ad appoggiare l'Insorgenza forlivese, poi bloccata sul nascere dall'intervento del marchese Paulucci, scrivono alla Giunta di Difesa Generale di Bologna che "la Vandea della Francia sembra rinascere sulle nostre vicine montagne", i cui abitanti si mostrano animati da un odio "in singolar modo rivolto ai francesi", sicché le rapine di cui si rendono responsabili hanno per oggetto soprattutto "gli effetti che appartengono alla Repubblica". Puntuale anche il riconoscimento delle motivazioni religiose di questa Insorgenza. Difatti i giacobini, pur sostenendo la tesi (probabilmente immaginaria, dal momento che non se ne trova conferma in altre fonti) della presenza di due correnti politiche (ovviamente i giacobini, per i quali si tratta di briganti, parlano di due"bande"), una delle quali favorevole al ritorno del Papa, l'altra contraria tanto alla Repubblica quanto al Papa e mirante ad "erigersi in sovranità indipendente", aggiungono: "Tutti però gli individui delle due bande professano la più alta divozione alla Beata Vergine", specificando poi che si tratta di fanciulli, giovani e vecchi,"coraggiosi fino alla temerità". Dopo le ripetute sconfitte delle truppe civiche messe in piedi dalle municipalità giacobine (in tutti questi scontri quasi mai i Civici, le Guardie nazionali e i Cisalpini quando non sono affiancati dai Francesi riescono a contrastare validamente gli insorti, probabilmente perché non convinti a sufficienza della bontà della causa che dovrebbero difendere), alla fine di marzo i generali Sahuguet e Chambarlach muovono da Cesena al comando di una colonna composta di almeno un migliaio di uomini fra francesi, cispadani e sbirri (sulle cifre esistono contraddizioni anche non piccole fra le fonti) e il 31 marzo sconfiggono a Sant'Arcangelo e a Morciano i paesani, che dopo una breve resistenza preferiscono, di fronte alla disparità delle forze, ritirarsi nei boschi. Risalendo la valle, i francesi prendono Tavoleto, dato alle fiamme dopo essere stato sottoposto, come di prammatica, al saccheggio, nel corso del quale non mancano, accanto alle rapine e le uccisioni, gli atti sacrileghi (le sacre particole sono disperse per le strade e una collocata in segno di dileggio, fra le labbra di un chierico ucciso). L'episodio bellico é modesto, perché anche a Tavoleto gli insorti preferiscono ripararsi nei boschi, ma il Sahuguet, gradasso e vanitoso come la maggior parte dei comandanti repubblicani, non rinuncia ad ingrandire la propria vittoria e così scrive il 1° aprile al vescovo di Urbino, col quale si trova, pare, in buoni rapporti: "Sono stato obbligato di far marciare delle truppe sopra Tavoleto per sterminare gli abitanti, e bruciare il villaggio. Codesti miserabili, igannati dal loro curato, erano scesi nel piano e si erano stabiliti alla Cattolica per assassinare e svaligiare tutti i viaggiatori. Li ho fatti inseguire, molti ne sono stati uccisi a Morciano e fortunatamente ho trovato gli altri a Tavoleto, dove si erano trincerati e fortificati; si sono difesi per un momento, ma ben presto gli assassini e le loro tane sono stati ridotti in cenere. Suppongo che il curato Galluzzi sia stato bruciato con gli altri nel villaggio. Cotesto scellerato aveva fatto traviare tutta la sua parrocchia predicando al popolo l'omicidio e il saccheggio. Aveva affisso sulla porta della chiesa un manifesto incendiario". In realtà il parroco é riuscito a scamparla e il sacedote perito tra le fiamme é un vecchio prete semicieco, le cui infermità hanno impedito la fuga. Per effetto della pace europea seguita al trattato di Campoformio, nel triennio giacobino il 1798, contrassegnato dalla proclamazione, il 15 febbraio, della Repubblica romana e dall'esilio (20 febbraio) di Pio VI, é, nell'Italia settentrionale (Roma e le regioni centrali dello Stato della Chiesa sono invece sconvolte dalle Insorgenze, che accompagnano, da febbraio ad agosto, la proclamazione della Repubblica romana, anche quì tanto violente che un generale francese, il Thiéboult, scrive al Direttorio c'est absolument la Vendée), un anno di relativa tranquillità. Tuttavia, se sono modesti gli episodi di veri e propri scontri armati soprattutto nelle città, dove "l'imponente presenza di truppe francesi costituì sempre un insuperabile impedimento allo sviluppo di risposte violente da parte della popolazione", come scrive per Ferrara Valentino Sani nel suo saggio pubblicato nel già citato fascicolo dell'insospettabile rivista dell'Istituto Gramsci, prosegue dovunque una sorda opposizione, alimentata nel corso di tutto il 1798 anche dal rifiuto di molti funzionari pubblici di prestare il giuramento imposto da una legge approvata il 16 dicembre 1797 dal Corpo legislativo della Cisalpina secondo la seguente formula:" Io giuro inviolabilmente osservanza della Costituzione, odio eterno al governo dei re, degli aristocratici e delle oligarchie, e prometto di non sopportare mai nessun giogo straniero e di contribuire con tutte le mie forze al sostegno della libertà e della eguaglianza, e alla conservazione e prosperità della Repubblica". Formula contraddittoria politicamente, perché coloro stessi che la imponevano non solo sopportavano, ma favorivano la subordinazione della Cisalpina agli occupanti francesi, e avversata soprattutto per motivi religiosi, dal momento che, come insegnavano molti vescovi anche non ostili alle nuove idee e predicavano i parroci dal pulpito, "l'odio eterno" verso chiunque é in radicale contrasto con la religione dell'amore predicata da Cristo. Se questa permanente avversione si esprime nel corso del 1798 soprattutto attraverso la mancata collaborazione con le autorità giacobine, non mancano comunque gli attentati agli alberi della libertà e alle altre insegne del potere repubblicano, seguiti da condanne alla pena capitale, che, se da un lato intimoriscono, dall'altro esarcebano gli animi, o, per i fatti più lievi (evidentemente non rientrano fra questi ultimi gli attentati agli alberi, se viene promessa una taglia di lire 1000 milanesi solo per ottenere informazioni "sul delinquente", che a Bologna ha "tentato di mettere fuoco all'albero della libertà") a pene detentive come i cinque anni di carcere inflitti all'orefice bolognese Zambonini, accusato di avere criticato la Repubblica (va peggio - ma siamo già nel '99, non per nulla definito "l'anno terribile" - al suo concittadino Luigi Cocchi, fucilazione perché porta sul petto la coccarda imperiale). E' appunto il 1799 a segnare l'esplosione di una serie infinita di moti d'insorgenza, la cui contemporaneità rende arduo, anche per gli storici più ostinati, il compito di negarne l'unitarietà ideologica e motivazionale. Nonostante che si apra con l'invasione del Granducato di Toscana e la costituzione della Repubblica napoletana, che completano la conquista rivoluzionaria dell'intera penisola, é questo l'anno della sconfitta francese e della fuga dei quisling giacobini, sul momento sperate e credute definitive dalle popolazioni liberate e, per quanto riguarda l'Emilia-Romagna (e la Lombardia), della caduta della Cisalpina, dovuta soprattutto alle vittorie degli austro-russi guidati dal generale Aleksandr Vasil'evic Suvorov, ma favorita dalle insurrezioni popolari, che, come avviene nell'intero periodo dell'occupazione francese, riesplodono irrefrenabili a ogni sia pur momentaneo allentarsi della morsa o del giungere di notizie che fanno rifiorire la speranza. Nella primavera di questa fine secolo non vi é in pratica città, paese e borgata che non vanti almeno un episodio di Insorgenza (dappertutto uno dei primi bersagli continua ad essere, come é accaduto fin dal principio, l'odiatissimo albero della libertà, contraltare della croce di Cristo), ma spesso più di uno, perché la marcia degli Imperiali procede lentamente e a macchia di leopardo, sicché i Francesi, non ancora rassegnati, hanno tempo e spazio per ritorni offensivi, che costano alle popolazioni processi sommari, morti e saccheggi. Fra la fine di marzo e i primi di aprile la notizia che gli Austriaci sono sull'Adige infiamma, al grido di "Viva Francesco II", il Polesine, l'alto Ferrarese e tutta la zona sulle due rive del Po, sicché ben presto la stessa città di Ferrara si trova isolata da Bologna e con tutte le vie di comunicazione tagliate dagli insorti, che controllano la vasta distesa circostante di pianeggiante campagna e di valli paludose e tuttavia non in grado, per la mancanza di artiglieria, di assaltarne le mura, entro le quali si é rinchiusa fin dal 30 marzo. Se il capoluogo risulta per il momento imprendibile e occorre attendere fino al 23 maggio l'arrivo degli imperiali, diversa é la situazione dei paesi e dei grossi borghi che punteggiano la pianura e la costa in direzione di Bologna e di Ravenna. A Cologna il commerciante Valeriano Chierati si mette a capo di una schiera di volontari, e, ovunque trionfalmente accolto, marcia su Copparo, Villanova, Sabbioncello, Migliarino, Ostellato, Portomaggiore fino a giungere, il 13 aprile, ad Argenta, dove però tre giorni dopo viene sorpreso dall'inatteso ritorno in forze dei giacobini e imprigionato con molti suoi compagni fino al successivo 22, quando tutti vengono rimessi in libertà dagli insorti, che, impadronitisi nel frattempo dell'importante località rivierasca di Pontelagoscuro, costringono i repubblicani a lasciare definitivamente il paese. Cento, liberata il 17 aprile, viene ripresa il 19 da un migliaio di "nazionali" al comando del colonnello Trippault dopo un furioso combattimento, al quale prende parte, tra le fila repubblicane, il poeta Ugo Foscolo (sulla strada del ritorno i nazionali bolognesi sconfiggono anche gli insorgenti di Finale e fucilano sul posto il loro comandante, Costanzo Vandalini). Questa vittoria serve ad alleggerire per il momento la pressione su Bologna, seconda città, dopo Milano, della Cisalpina, e principale punto di raccolta delle truppe francesi in Emilia-Romagna, ma intanto la controrivoluzione si é estesa dal Ferrarese a tutto il Ducato estense, dove le colonne dei comandanti francesi Puthod e Lieboult vengono battute dai sollevati a Camposanto e San Felice. Il 3 maggio gli imperiali del barone Wesseleney entrano a Reggio e il 4 quelli del barone Buday a Modena. Nonostante questi avvenimenti, che estendono ai dipartimenti cisalpini a sud del Po quanto già avvenuto a quelli della sponda settentrionale (Milano cade il 28 aprile), il generale Montrichard, comandante il fianco destro dell'Armee d'Italie, non dispera di riuscire ancora a guadagnare la partita grazie al rinforzo delle truppe guidate dal generale Macdonald, che, in ritirata da Napoli, dove hanno abbandonato al loro destino la Repubblica Partenopea, stanno rapidamente risalendo su due direttrici, una tirrenica e una adriatica, la penisola. Di conseguenza, pur tenendosi aperte delle vie di ritirata tanto in direzione del Piemonte, ancora in mano francese, quanto della Romagna e delle Marche, dove conta di riunirsi alle colonne in ritirata dalla Puglia e dagli Abruzzi se queste non arriveranno in tempo a soccorrerlo, concentra le sue forze intorno a Bologna, sicché gli insorgenti, dopo averne raggiunto i sobborghi con la conquista di Lavino, avvenuta il 22 maggio, debbono, una volta di più a causa della cronica mancanza di artiglieria, attendere per entrarvi il 30 giugno, quando la città capitola nelle mani degli Austriaci. I principali protagonisti di questa convulsa fase della presenza francese in Emilia-Romagna sono sugli opposti fronti, oltre naturalmente al Suvorov e al Montrichard, il generale Giuseppe Lahoz e l'Aiutante generale Pierre Augustin Hulin. Il primo, milanese di lontane origini spagnole, già ufficiale austriaco di guarnigione a Milano, passato poi alla Cisalpina e distintosi, al comando della Legione lombarda, nella battaglia del Senio del 2 febbraio 1797 e successivamente nella repressione dell'Insorgenza veronese, approfitta dell'incarico di riorganizzare l'esercito cisalpino ormai a corto di combattività ricevuto dal Montrichard per mettere in piedi, fra la fine di aprile e i primi giorni di maggio, un tentativo di rivolta antifrancese nei dipartimenti già cispadani ( in particolare, ormai perdute Reggio e Modena, del Reno e del Rubicone) con la collaborazione di alcuni colleghi indicati poi dalla storiografia come appartenenti alla società dei Raggi tanto segreta da fare ancora oggi dubitare della sua effettiva esistenza (fra questi il general Domenico Pino, comandante delle truppe cisalpine nei dipartimenti del Crostolo e del Panaro, che però, come altri supposti appartenenti ai Raggi, rientrerà ben presto nei ranghi, raggiungendo nelle Marche il Montrichard, che vi si é nel frattempo ritirato, e convincendolo di essere stato sorpreso nella propria buona fede). Sulle prime i congiurati tentano di utilizzare la loro qualità di comandanti cisalpini, che gli consente di disporre di uomini e armi e di presentarsi come i più autentici e puri fra i repubblicani, ai cui ideali si appellano, impiegandone il linguaggio rivoluzionario nei proclami al popolo diffusi in particolare a Bologna e nelle città della Romagna. Così il Lahoz, lasciata il 3 maggio Bologna a causa dell'avvicinarsi degli Austriaci, coi quali ha probabilmente preso accordi che non possono essere svelati pena il fallimento del piano, é sempre in nome di questi ideali che da Forlì dichiara il dipartimento del Rubicone in stato d'assedio e conseguentemente esautora la Centrale giacobina, i cui poteri vengono trasferiti al generale Pino. Un'operazione troppo arrischiata, che insospettisce il Montrichard, il quale, mangiata la foglia, dichiara decaduti dal comando tanto il Lahoz quanto il Pino, sostituendoli col generale Hulin. Abbandonato anche dal Pino, ributtatosi, come si é detto, fra le braccia dei Francesi probabilmente per il timore ispiratogli dall'imminente arrivo dell'armata del Macdonald, il Lahoz deve ripiegare su Rimini e dichiararsi apertamente per l'Insorgenza per passare poi nelle Marche, dove, a Montegallo, con la benedizione del capuccino Donato De' Donatis, più noto come generale dei Colli, si unisce agli insorgenti del capo-massa Giuseppe Cellini, uscendo così dall'ambito territoriale dell'Emilia-Romagna, ma non dalle vicende dell'Insorgenza, nella quale assume anzi un ruolo di primo attore, divenendone il principale capo militare nell'Italia centrale e infliggendo in questa veste ripetute sconfitte ai Francesi, costretti a rinchiudersi nelle mura di Ancona, sottoposta a un sempre più stretto assedio nonostante le difficoltà conseguenti alla mancanza di un adeguato parco artiglieria, che sarà fornito dagli Austriaci del generale Froelich soltanto il 2 ottobre, pochi giorni prima della morte del Lahoz (mortalmente ferito sul campo di battaglia il 10 ottobre). A sua volta l'Aiutante generale Hulin, assunto il ruolo di sostituto e antagonista del Lahoz e di promotore della repressione dei moti popolari, si distingue immediatamente per determinazione e ferocia. Se fallisce, e si morde le mani, nel compito di arrestare il suo predecessore, rioccupa San Giovanni in Persiceto, dove alla uccisione del capo degli insorti, il sessantottenne marchese Luigi Davia (un filo-francese seguace delle nuove idee pentito), portatogli dinnanzi già gravemente ferito in combattimento, fa seguire il saccheggio e un vero e proprio bagno di sangue. Il 18 maggio si precipita a Lugo. Quì il conte Matteo Manzoni, uno dei principali capi dell'Insorgenza del '96, ha abbattuto i simboli repubblicani e alzato lo stendardo imperiale, per effettuarvi una effimera riconquista, che nonostante il rapido susseguirsi degli avvenimenti gli lascia il tempo di fucilare 16 presunti insorgenti (si tratta in realtà dei primi disgraziati capitati sottomano ai soldati), mentre altri cinquanta, sempre contadini raccolti a casaccio e rinchiusi in attesa di analogo destino, vengono salvati all'ultimo momento dall'intervento del vescovo di Imola, il cardinale Chiaramonti e, forse soprattutto, dalla necessità di accorrere in tutta fretta, appunto, a Imola, dove, il giorno 20, il presidio repubblicano é stato sconfitto dai montanari di Fontanelice, Castel Del Rio, Casola Valsenio e Brisighella guidati da Antonio Lombardi di Tossignano, ribattezzato col nome di guerra di generale della Croce. Questa volta la ferocia di Hulin, che pone agli arresti il comandante francese della piazza, generale Dubois, e vorrebbe fare altrettanto col capo della Chiesa imolese, lo mette in urto con la stessa Municipalità giacobina, che, fin troppo consapevole della precarietà di questi successi e ansiosa di farsi perdonare dal prossimo vincitore i trascorsi repubblicani (e in effetti al momento buono il Chiaramonti interverrà a favore dei suoi componenti), si rifiuta di procedere all'arresto e si offre di mettere in salvo, facendolo accompagnare in Toscana, il cardinale, che tuttavia rifiuta, riuscendo comunque a discolparsi dall'accusa di intese con il generale della Croce. Se perdona a un vescovo per di più in fama di giacobino dopo la famosa omelia "democratica" pronunciata la notte di Natale del 1797, Hulin non intende risparmiare né chi ha preso le armi né le popolazioni che gli assicurano il sostegno senza il quale ogni ribellione sarebbe impossibile, e il 24 maggio, alla testa di una colonna forte di 1200 soldati e quattro cannoni, mette a ferro e fuoco il piccolo comune di Tossignano, patria di Antonio Lombardi e principale centro degli insorgenti, che, "trovandosi ad armi impari (praticamente fucili da caccia contro carabine e cannoni) abbandonano il campo, dileguandosi fra i monti", mentre restano nella polvere i cadaveri di trentasei civili, le case sono abbruciate e l'arciprete Camerucci e alcuni maggiorenti vengono condotti in catene ad Imola. La notizia che gli Imperiali hanno preso Ferrara e marciano su Lugo già ripresa dai "volontari imperiali", come adesso si definiscono gli insorgenti lughesi, dopo la partenza dell'Hulin, che ha lasciato nella fortezza una guarnigione di ottanta piemontesi (il 29 maggio anche questi cedono le armi), costringe però i Francesi a ripiegare su Bologna, provocando l'immediata insurrezione degli Imolesi, che, rassicurati dall'arrivo di 17 dragoni austriaci, depongono la Municipalità giacobina (per la salvezza dei suoi componenti dalle rappresaglie riesce determinante, come si é già accennato, l'intervento del vescovo) e danno alle fiamme i due alberi della libertà innalzati in città. Le campane di tutte le chiese suonano a festa, ma, contrariamente a tutte le aspettative, non é ancora finita. Il 1° giugno i dragoni si ritirano verso Lugo e ricompaiono, provenienti da Bologna, i Francesi di Hulin, che il giorno seguente rioccupano anche Faenza, dove i popolani del borgo Durbecco, fanaticamente avversi a Francesi e giacobini, hanno appena abbattuto l'albero e costretto a cercare riparo a Bologna i conti Laderchi e Raffi e gli altri capi della giacobineria locale. Sono però gli ultimi, disperati sussulti. L'ingresso a Ravenna, avvenuto il 27 maggio attraverso Porta Alberoni, sfondata a cannonate, da millecinquecento austriaci, provenienti da Ferrara agli ordini del colonnello De Grill, segna il crollo delle amministazioni cisalpine in tutto il Rubicone. Il giorno seguente il "Direttorio segreto della Felice Insorgenza" proclama a Forlì l'insurrezione generale, già riaccesa da tempo in tutta la montagna e in particolare a Ciola, Tenello, Polenta e Teodorano. In città si arrestano i repubblicani, condotti in carcere fra le grida , i lazzi e le ingiurie di una folla minacciosa, e si appicca il fuoco all'albero della libertà con concorso di un immenso numero di persone, come scrive un cronista giacobino, che aggiunge quasi suo malgrado: "riboccanti di allegrezza si abbracciavano, cantavano, urlavano. Non fu mai visto il popolo forlivese tanto riscaldato, né tanto furibondo". A Cesena, il primo giugno, narra il cronista Filippini, "di prima mattina per allegrezza e ringraziamento della grazia per essere fuggiti li nemici della Religione e de' Cristiani si sono suonate tutte le campane della città" e molti popolani, recatisi sulla piazza principale, dove l'albero della libertà era stato innalzato fin dal 2 maggio 1797, "cominciarono ad atterrarlo, e a ridurre in pezzi con manaje anche tutti li suoi emblemmi ed ornamenti repubblicani, ed i tre busti poi ridotti in pezzi, ed acceso il fuoco il tutto si ridusse in cenere". Più movimentata, il 30 maggio, l'insurrezione di Rimini, più immediatamente minacciata dalle truppe francesi, che occupano ancora gran parte delle Marche, e che ha appena subito le alterne e turbinose vicende conseguenti al mutamento di campo di Giuseppe La Hoz. Questi, prima di proseguire alla volta di Pesaro, vi ha lasciato una piccola guarnigione al comando del piemontese Gouget, supposto membro dei segretissimi "Raggi", ma il 13 vi é rientrato, senza incontrare opposizione dal momento che il Gouget imita il Pino e protesta di essere stato ingannato, il capitano Fabert, comandante francese della Piazza. Adesso l'iniziativa é presa direttamente dal popolo dei pescatori, che, approfittando delle loro quotidiane uscite in mare per la pesca, hanno stretto accordi col comandante di un piccolo brigantino austriaco, il tenente Carlo Martiniz. Costui, entrato a vele spiegate in porto, vi fa sbarcare una ventina di marinai in assetto da combattimento per unirli ai pescatori, che intanto, organizzati da un anziano "parone" di barca, Giuseppe Federici, detto "Glorioso", hanno superato di slancio la trincea fatta scavare dal Fabert e volto in fuga i franco-cisalpini. La ritirata é tanto precipitosa da non lasciare il tempo di chiudere le porte delle mura cittadine, attraverso le quali i pescatori e marinai austriaci si precipitano per le strade, invitando all'insurrezione generale con grida di "Morte alla Repubblica! Morte ai giacobini! Viva il Papa! Viva l'Imperatore! Viva la Religione!". L'insurrezione dilaga e al Fabert non resta che ritirarsi in tutta fretta, apparentemente in direzione di Bologna. Tuttavia il pomeriggio del giorno seguente, quando già si trovano in città gli insorti del contado, ansiosi di partecipare alla festa ed anche al sacccheggio delle case dei giacobini più compromessi, si diffonde la voce che il Fabert, riorganizzate le forze, sta marciando sulla città e si trova ad appena un miglio da Borgo San Giuliano. Segue un attimo di scoramento, ma il Glorioso rincuora i suoi, fa suonare le campane a martello, e, validamente fiancheggiato dal Martiniz e dalla sua esperienza di professionista della guerra, consegue in un rapido scontro una nuova vittoria, tuttavia non definitiva, perché il Fabert, anch'egli buon soldato, riesce a sganciarsi con la maggior parte dei suoi e a ripiegare in buon ordine sul vicino villaggio di Santa Giustina, dove si accampa per la notte. Poco meno ostinato dell'Hulin, é sua intenzione ritentare l'impresa il giorno seguente, ma viene anticipato dal Martiniz, che, invece di cedere al desiderio dei Riminesi di festeggiare una vittoria ritenuta non del tutto a ragione e comunque con una buona dose di imprudenza decisiva, organizza in tutta fretta un corpo volontario di cavalleggeri, coi quali, alle due di notte, piomba sui Francesi e, nonostante la sommarietà dell'organizzazione della sua truppa e la varietà delle cavalcature, col favore della sorpresa li costringe a una fuga questa volta disordinata e definitiva. Fra i fuggiaschi vi é anche il Fabert, che, accompagnato da un giacobino riminese, soprannominato "Gironda", riesce a raggiungere San Leo, dove verrà però catturato, il 12 luglio, alla caduta di questa fortezza dopo 44 giorni di assedio da parte degli insorgenti del Montefeltro. I Francesi lasciano Imola il 10 giugno, seguiti il 19 dai cisalpini, che cedono il posto ai primi dragoni imperiali, seguiti qualche giorno dopo da un reggimento di fanteria. Bologna, ormai totalmente circondata dagli insorti, cade il 30 giugno. A Rimini gli imperiali arrivano soltanto il 3 luglio, ma a quel momento le sorti dei Francesi, che tuttavia tengono ancora alcune località delle Marche e, soprattutto, Ancona, dove si é rinchiuso il generale Monnier, sono state segnate dalla sconfitta patita sulla Trebbia dal tanto atteso e temuto, a seconda dei punti di vista, Mac Donald a opera di Suvorov dopo tre giorni di sanguinoso combattimento (17-20 giugno 1799). Pur se il periodo culminante dell'Insorgenza si colloca temporalmente negli anni 1796-1799, passati alla storia come "triennio giacobino", al quale é soprattutto dedicato il presente scritto, la narrazione della resistenza antirivoluzionaria (includendo nel termine sia quella antigiacobina sia quella antinapoleonica) in Emilia-Romagna non sarebbe completa senza qualche pur rapido accenno agli avvenimenti relativi al periodo che va dal ritorno dei Francesi (non più giacobini, ma napoleonici a seguito del colpo di stato del 19 brumaio, che ha sostituito al Direttorio il Consolato) dopo la vittoria di Marengo (14 giugno 1800) alla caduta del Regno d'Italia (20 aprile 1814). Accenni tanto più necessari in quanto consentono di completare il quadro territoriale della regione con gli avvenimenti del Ducato di Parma e Piacenza, che, mantenuta almeno formalmente dagli occupanti la sovranità del duca Ferdinando e rispettato nella sostanza l'armistizio anche per l'atteggiamento quì stranamente moderato delle truppe francesi, si mantiene durante il triennio giacobino estraneo ai moti antirivoluzionari, pur se nell'aprile del 1799 il passaggio nel territorio del Ducato e la sosta a Parma di Pio VI, condotto prigioniero a Valenza (vi morirà il successivo 29 agosto), danno luogo a grandi manifestazioni di fervore religioso e di affetto per il Papa, che assumono necessariamente carattere antifrancese, tanto più che vi si accompagnano, se non veri e propri tentativi, propositi di impedire la prosecuzione del forzato viaggio. La situazione cambia dopo il 1802, quando, a seguito della morte del duca, il Ducato viene unito alla Francia (tuttavia l'annessione definitiva all'impero francese avverrà solo nel 1808). E' in questo momento che si creano i presupposti anche ideologici per una serie di moti, che hanno il loro culmine tra il dicembre del 1805 e il gennaio 1806, dilagando per tutto l'Appennino sotto la guida di capi come Agostino De Torri, detto "Foppiano", figlioccio della duchessa Maria Amalia, e Giuseppe Bussandri, ribattezzato "Generale Mozzetta". La rivolta, che trae occasione dall'arruolamento forzoso di ben seimila uomini per fronteggiare lo sbarco degli austro-russi a Napoli, ma la cui ragione profonda va cercata, come scrive Corrado Camizzi, nell'empietà e nel disprezzo degli occupanti per le tradizioni dei ceti contadini e popolari urbani, ha inizio il 6 dicembre 1805 a Castel San Giovanni, nei pressi di Piacenza, dove é concentrato il maggior numero di coscritti, e si estende ben presto nelle valli piacentine di Trebbia, Tidone, Nure e Arda, in quelle parmensi del Ceno, del Taro, del Tolle, dello Stirone, al territorio di Salsomaggiore e dei circostanti Castelli. Insorgono o vengono occupati Carpaneto,Montecchio, Carpenedolo, Bobbio (quì i sollevati entrano il 3 gennaio, gridando Viva l'Imperatore tedesco evidentemente per distinguerlo da Napoleone, imperatore francese), Castell'Arquato, dove il 15 gennaio 1806 ha luogo un violento scontro, cocluso con la sconfitta degli insorgenti, Borgotaro, Bardi, Pellegrino e molti altri paesi. La repressione viene affidata da Napoleone, timoroso che quanto avviene a Parma possa innescare quella rivolta generale, la cui mancanza é alla base dei successi francesi in Italia sia durante il periodo Repubblicano sia in quello del potere napoleonico e che assicura invece alla Spagna la riconquista della libertà, al generale Junot, il quale, pur personalmente propenso a non eccedere, non può sottrarsi alle precise direttive dell' "imperatore francese", che desidera una esemplare punizione, scrivendogli: "non é con delle frasi che si mantiene la tranquillità in Italia. Fate come ho fatto a Binasco; che un grande villaggio sia bruciato; fate fucilare una dozzina di insorti... al fine di dare un esempio". Per l'incendio Junot, che dal canto suo preferisce presenziare alle feste offertegli dal belmondo parmense e corteggiare le dame della nobiltà, sceglie il villaggio di Mezzano. Alle fucilazioni provvede, facendo processare 88 insorgenti, dei quali 19, inclusi due sacerdoti, condannati a morte (altri quattro arrestati muoiono in carcere, gli altri se la cavano con lunghe pene detentive). Il 19 febbraio 1806 viene fucilato Agostino De Torri. Il 2 maggio la stessa sorte tocca a Giuseppe Bussandri. Nello stesso periodo, sia per una minore presenza di truppe francesi, impegnate dapprima in Austria e in Germania contro le potenze della terza coalizione, poi nella conquista del Regno di Napoli e nella successiva repressione del cosiddetto "brigantaggio", si registrano tentativi, in realtà modesti e prontamente repressi, nella zona tra Castellano e Sassuolo e nella stessa Bologna. Di assai maggior rilievo i moti esplosi nel 1809 in concomitanza e per effetto della "quinta coalizione antinapoleonica", così intensi e diffusi da essere definiti da qualche storico "la Controrivoluzione del Regno d'Italia". Gli episodi di maggior rilievo sono indubbiamente quelli che riguardano il Tirolo, tanto al di quà quanto al di là delle Alpi, dove risplende di purissima luce l'eroica figura di Andreas Hofer, ma che coinvolge moltissime località di quelle che ormai sono le provincie emiliane del Regno e che costituiscono ulteriore prova, caso mai ve ne fosse ancora bisogno, di come quella che si é definita "sorda opposizione" e "resistenza passiva", proprio perché le sue radici sono molto profonde, coinvolgendo la difesa della propria fede e, quindi, del proprio modo di vivere e della propria identità comunitaria, aspetti solo un'occasione favorevole o addirittura una semplice speranza di successo per esplodere in aperta e armata ribellione. Le Insorgenze coinvolgono Bondeno, Comacchio, Copparo, Portomaggiore, Argenta, Cento, Minerbio, Budrio, Galliera, Molinella, Castel San Pietro, Imola, Bazzano, Loiano, Pianoro, Vergato, Castiglione dei Pepoli, Porretta, Anzola, Vignola, Sassuolo, Maranello, Castelfranco, Castelvetro, Pavullo ecc., e bussano violentementealle porte di città più grandi, come, in particolare, Bologna e Ferrara, la cui popolazione é tenuta a freno da una residua, ma non indifferente presenza di truppe e anche dall'essere venuta meno l'unità interna, residuo fino a pochi anni prima dell'antica, comune fede cristiana, unità intaccata poi nei ceti dominanti dalla diffusione delle idee illuministe, perché in questi anni gran parte dell'aristocrazia e della borghesia, convintesi della irreversibilità della nuova situazione politica, hanno trovato un vantaggioso modus vivendi con il Regno e l'Impero, sono attaccate ai privilegi di rango e di censo acquisiti e temono più di ogni altra cosa il turbamento dell'ordine, sentimento questo in realtà già largamente presente nel triennio giacobino, quando però riusciva spesso difficile distinguere i fautori dell'ordine (comunque già allora individuati dai più prudenti nei francesi) dai suoi perturbatori. Per la sua durata e per l'importanza della zona nella quale si svolge, la ricca pianura estesa fra Bologna e Ferrara, può, a titolo di esempio, riportarsi qualche avvenimento di questa Insorgenza nel territorio incluso fra i Dipartimenti del Reno e del Basso Po, che comprende un gran numero di centri, paesi e borghi, fra i quali si distinguono per popolazione ed importanza economica Altedo, Baricella, Malalbergo e Minerbio (il Cantone - sottoripartizione del Dipartimento secondo l'organizzazione del Regno d'Italia - di cui Minerbio é capoluogo, comprende inoltre i comuni di Ca' De' Fabbri, Capo Fiume, S.Marino, S.Martino in Soverzano, S.Giovanni in Triario e molte altre minori frazioni e località. L'Insorgenza, facilitata dal gran numero di renitenti alla leva e di disertori dall'esercito, che si aggirano per le campagne, e dalla diffusa ostilità popolare alla tassa sul macinato, ha inizio il 2 luglio 1809, con l'occupazione per un'intera giornata del paese di Budrio da parte di un gruppo capitanato dal ventottenne Prospero Baschieri, un gigantesco (quasi due metri di altezza e taglia e forza in proporzione) contadino di Cadriano (era nato però a Maddalena di Cazzano), che, chiamato alle armi nel 1803, aveva disertato, rifiutandosi di combattere per l'odiato Napoleone. Il 5 luglio é la volta di Minerbio, dove il Baschieri, dopo avere disarmato i tremebondi militi della Guardia Nazionale, sequestrati nella casa municipale e dati alle fiamme le liste dei coscritti e l'apparecchio destinato a misurarne l'altezza, enuncia il programma politico degli insorti, che "non vogliono più né Coscrizione, né Tassa volendo piantare un nuovo Governo". Un programma confermato durante la prima occupazione di Baricella (come per tutti i paesi della zona ne seguiranno molte altre), dove la prima cura del Baschieri é di abbattere l'insegna del Regno italico appesa alla porta del municipio e, come scrive il sindaco Giovanni Ferretti al prefetto del Dipartimento del Reno, Mosca, di mettere i suoi "lungo la strada in traccia de' Giacobini, che a loro senso sono quelli che spiegano apertamente sentimenti di leale sudditanza al suo legittimo Sovrano, ed aborrono l'Insorgenza". Venerdì 7 luglio gli insorgenti, dopo aver fatto suonare le campane a martello in tutti i paesi del Dipartimento per accrescere il proprio numero, tentano la grande impresa della conquista di Bologna, che attaccano da porta Galliera, rendendosi tuttavia ben presto conto della inadeguatezza delle carabine e fucili da caccia di cui dispongono a fronteggiare l'armamento, in particolare i cannoni, della Guardia Nazionale bolognese e dei soldati francesi del generale polacco Giuseppe Grabinsky, che nei giorni seguenti, incoraggiati dalla facile vittoria (di fronte alla propria manifesta inferiorità i sollevati si sono ritirati dopo la prima scaramuccia), comincieranno, a loro volta, a battere la campagna alla ricerca dei "disertori", come li definiscono, senza tuttavia riuscire a trovarli, forse per non troppa voglia, dal momento che preferiscono impadronirsi, a spese di contadini e bottegai, di vino, pane e formaggio e di fieno per i cavalli. Altri gruppi di insorgenti, in parte, pare, provenienti dal Veneto, di consistenza numerica notevolmente maggiore di quello guidato dal Baschieri (le fonti ufficiali parlano di sei settemila uomini), circondano l'altro grosso centro della zona, Ferrara, ma ancora una volta il successo é impedito dall'insufficienza delle armi a disposizione, sicché, dopo un breve tentativo di resistenza (decisivo come sempre l'impiego da parte francese dell'artiglieria), non resta agli assedianti che disperdersi per la campagna, esattamente come a Bologna, all'arrivo, il 16 luglio, dei rinforzi condotti dal solito Grabinsky. Non é questa la sede per descrivere tutti gli episodi di un'Insorgenza, che, dopo il fallimento degli assalti a Bologna e a Ferrara, si sminuzza in una continua serie di ripetute, ma brevi occupazioni dei paesi della zona (incluso l'importante centro di San Giovanni in Persiceto, invaso dal Baschieri il 1° luglio), che, proseguendo per tutto il 1809 e fino alla primavera del 1810, offrono l'occasione per distruggere i registri, gli archivi e i documenti delle case comunali (non vengono invece toccati - ed é significativo - quelli delle canoniche e delle chiese) e per esigere contribuzioni in denaro e in generi alimentari dai sindaci (molti di questi, così come alcuni comandanti locali della Guardia Nazionale, finiscono, di fronte allo stillicidio delle occupazioni e requisizioni, col dimettersi e col lasciare il paese) e dagli altri "giacobini". Il governo reagisce istituendo a Bologna già il 20 luglio una Commissione militare, incaricata di punire con la pena di morte "ogni Cospirazione o Complotto tendente a turbare la Repubblica colla Guerra Civile armando i Cittadini, gli uni contro gli altri o contro l'esercizio dell'Autorità legittima". I primi condannati (le sentenze vengono eseguite, mediante fucilazione, entro le ventiquattro ore) sono i braccianti Giuseppe Pancaldi, detto "Coppetto", di Corticella, e Pietro Falzoni, detto "Falfarello", di Castenaso, ma la Commissione si occupa anche di chi, pur senza impugnare le armi, diffonde voci tese a screditare i francesi e a favorire gli austriaci. Appunto sotto l'accusa di diffusione di "voci allarmanti e incitamento alla rivolta" viene arrestato e processato il 9 agosto il medico di Altedo, Luigi Saltari, che, girando di casa in casa nella campagna fra Altedo e Minerbio, dove risiede, col pretesto dell'esercizio della sua professione svolge propaganda antifrancese (l'esito del processo non é noto, ma, considerato il tipo di giustizia proprio delle Commissioni Militari, é più facile pensare ad una condanna che ad una assoluzione). Nel dicembre 1809, la fine della guerra contro l'Austria e la successiva sconfitta dell'Insorgenza tirolese (Andreas Hofer viene catturato per tradimento il 27 gennaio 1810 nel suo rifugio in Val Passiria) consente ai francesi di intensificare la presenza militare in tutti i territori interessati dalla rivolta, come preannunciato da un manifesto fatto affiggere il 31 dicembre in tutto il Dipartimento del Reno dal generale di divisione Bonfanti, il quale, evidentemente persuaso che gli insorti godano di complicità e simpatie assai maggiori di quelle emergenti dalle relazioni ufficiali, invita non solo la popolazione, ma gli stessi sindaci e le guardie nazionali a intensificare la lotta agli insorgenti sotto la minaccia che, in mancanza, "mali sommi potrebbero desolare il vostro Paese, e vi sovrastano i castighi e l'indignazione di Napoleone". Nonostante gli ultimi disperati tentativi di resistenza, che inducono i sindaci più timorosi, come quello di Baricella, il già noto e tremebondo Giovanni Ferretti, ad abbandonare per la più sicura Bologna il paese cui hanno fatto ritorno dopo la notizia della fine della guerra con l'Austria e l'arrivo di nuove truppe, non vi sono più speranze di successo per l'Insorgenza del Reno. La fine di Baschieri e i suoi superstiti seguaci arriva il 13 marzo, quando il capitano Henry Lambert, avendo saputo per l'imprudenza di una donna, recatasi a Budrio per l'acquisto di viveri, che gli insorti si sono ricoverati da alcuni giorni nella casa di Giuseppe Rubbini a Malcampo di Budrio, riunisce per l'attacco decisivo i propri uomini e quelli del capitano Dalla Noce della locale Guardia Nazionale. Nonostante la disparità di forze lo scontro é violentissimo e vi rimane ferito lo stesso Lambert, che ripiega con molti dei suoi su Budrio per radunarvi rinforzi, perché i "disertori", pur costretti ad uscire allo scoperto dall'incendio del fienile addossato al loro rifugio e lasciando sul terreno due morti, riescono a rompere l'accerchiamento e a disperdersi per la campagna. Fra i fuggitivi Prospero Baschieri, che tuttavia, gravemente ferito, deeve ripararsi morente in un fosso, dove viene poco dopo rinvenuto cadavere da alcuni soldati francesi, giunti dai paesi vicini, che provvedono a mozzargli il capo e a caricarne il corpo, assieme a quello degli altri due caduti, sopra un carro per condurlo, "con gran pompa" (come recita una cantata di ispirazione "napoleonica" di quei giorni) a Budrio. Il giorno seguente "di buon mattino il corpo di Baschieri fu legato in piedi alla sponda di un carro, la testa mozzata infilata su di un lungo palo, e con ai suoi lati gli altri due briganti. Preceduto e seguito dalle guardie nazionali di Budrio e dai soldati francesi che avevano partecipato allo scontro, il carro giunse lentamente nella piazza di Bologna dove venivano eseguite le sentenze e le tre teste dei briganti furono esposte sul palco davanti al numeroso popolo accorso". Non per questo vengono meno i sentimenti che hanno animato l'Insorgenza e che danno luogo alle corali dimostrazioni di esultanza seguite in tutti i dipartimenti dell'Emilia-Romagna dapprima alla notizia delle sconfitte napoleoniche poi al ritorno degli Austriaci, considerati ancora dalle popolazioni gli "imperiali" e, quindi, non del tutto soldati stranieri. Non sembri fuor luogo rammentare, quasi a chiusura e suggello, con l'aiuto dell'arte, gemella della musa della Storia, di quanto si é fin quì detto, come l'eco delle Insorgenze in Emilia-Romagna, con particolare riferimento alle vicende bolognesi e, soprattutto , ferraresi, percorra e vivifichi i primi capitoli del Mulino del Po del bolognese Riccardo Bacchelli, che vi narra, fra le altre cose (inclusi il giudizio popolare sull'imperatore francese, "Napoleone é un birbante e una trista pelle", "il ricordo delle angherie e delle violenze" e il perdurare del "vecchio rancore della religione offesa, benché d'"alberi" dal 1803 non si parlasse più, e sponsali e battesimi si celebrassero d'accapo in chiesa, da cristiani e non da bestie"), la condanna e la morte per fucilazione del parroco don Pietro Maria Zanarini, che "una folla costernata, che lo ebbe per martire e santo, vide a passare a testa alta e col crocifisso fra le mani che non tremavano, in mezzo ai militi della civica, che parevan loro condannati; lo vide inginocchiarsi a far le sue preghiere davanti alla Madonna dei Condannati o del Conforto, sotto Porta di San Paolo; lo vide mettersi davanti ai fucili, da cristiano animoso".

    fonte: Celta boico

  2. #2
    AUTONOMISTA
    Data Registrazione
    21 Jun 2007
    Località
    CAZZOLA+MANES = DREAM TEAM
    Messaggi
    1,031
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    soccia complimenti hai riportato un intero libro!
    (a dire il vero mi sono stancato di leggere più o meno a metà...)

    Mirko

 

 

Discussioni Simili

  1. la Romagna toscana dovrebbe essere annessa all'Emilia-Romagna?
    Di dedelind nel forum Il Termometro Politico
    Risposte: 31
    Ultimo Messaggio: 28-09-11, 19:37
  2. Risposte: 18
    Ultimo Messaggio: 22-02-08, 21:30
  3. EMILIA e ROMAGNA
    Di ARTISTA nel forum Emilia-Romagna
    Risposte: 9
    Ultimo Messaggio: 21-11-06, 15:29
  4. L'Insorgenza in Emilia Romagna
    Di Matteoblu nel forum Storia
    Risposte: 0
    Ultimo Messaggio: 21-08-06, 16:32
  5. Emilia Romagna
    Di LUCIO (POL) nel forum Repubblicani
    Risposte: 4
    Ultimo Messaggio: 05-06-05, 20:52

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
[Rilevato AdBlock]

Per accedere ai contenuti di questo Forum con AdBlock attivato
devi registrarti gratuitamente ed eseguire il login al Forum.

Per registrarti, disattiva temporaneamente l'AdBlock e dopo aver
fatto il login potrai riattivarlo senza problemi.

Se non ti interessa registrarti, puoi sempre accedere ai contenuti disattivando AdBlock per questo sito