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  1. #1
    Mé rèste ü bergamàsch
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    Predefinito Pmi e rilancio economico



    Per vederla ingrandita, salvarla sul pc ed aprirla da lì.

  2. #2
    Mé rèste ü bergamàsch
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    Predefinito Manifesto in favore delle piccole imprese

    La cultura d'impresa nel nostro Paese è vaso di coccio fra eredità storico-culturali, spinte corporative e resistenze sindacali.

    Ha più nemici che amici, più sospetti che apprezzamenti. Altrove la si insegna a scuola, da noi è confinata in angoli residui del dibattito pubblico. Competizione e attitudine al rischio, nei Paesi con una democrazia di mercato più evoluta, sono componenti irrinunciabili del progresso, da noi conservano inspiegabili valenze negative. La tradizione giuridica italiana ha seminato l'idea che la tutela dell'interesse pubblico e dei diritti soggettivi si ottenga più facilmente limitando l'attività delle imprese anziché favorendola. Il valore immateriale dell'imprenditorialità è ancora percepito come modesto o secondario: si guardi soltanto alla tormentata storia della legislazione fallimentare. Il non fare finisce per avere uno spessore giuridico ed etico superiore al fare.

    Qualche esempio. L'opporsi alla realizzazione di un'opera necessaria è di frequente valutato come espressione di un'idealità positiva (ambientale); il promuovere un'autostrada, un ponte o una galleria è, al contrario, il sintomo della prevalenza di interessi ed egoismi, generalmente percepiti come negativi. Una comunità scopre il valore sociale di un'impresa quando questa lascia il territorio o ristruttura, ma è raro che si ponga il problema di come attrarla, con le infrastrutture per esempio. Un posto di lavoro è prezioso specie nel momento in cui si rischia di perderlo, ma nessuno manifesta per i tanti posti di lavoro che non si creano per colpa delle rigidità normative. Se non è blasfemo il parallelo, si può dire che l'embrione del lavoro non ha alcuna dignità. Se muore non importa nulla a nessuno.

    Nel vissuto quotidiano poi, è ancora radicata la convinzione che si possa avere lo stesso livello di benessere senza la vista di un capannone, di una centrale elettrica o di una via di comunicazione. Amiamo la modernità che non ha costi, nemmeno estetici, e riteniamo che l'energia elettrica esista in natura al pari dell'acqua.

    Se tutto questo accade, al netto di una voluta drammatizzazione, la spiegazione è una sola, desolante: l'impresa non è al centro delle preoccupazioni del Paese e non è vissuta come tale nel linguaggio della quotidianità.

    La parola impresa ha sempre bisogno di un avversativo (sociale, aperta, solidale) come se non esprimesse in sé alcun valore assoluto. Sia la cultura marxista sia, in parte, quella cattolica hanno a lungo scambiato uffici e fabbriche come luoghi di contraddizioni sociali, se non di sfruttamento. Assai raramente i centri produzione, materiale e non, sono stati descritti come cellule sociali insostituibili, nelle quali non solo si crea il benessere, ma si impara ad essere cittadini.

    In un mondo globale un Paese senza una cultura d'impresa condivisa è destinato a un ruolo subalterno, al di là della propria produttività. L'Italia dimostra di avere consapevolezza della centralità dell'impresa nei suoi distretti, salvo poi perderla nei (troppi) livelli della sua rappresentanza politica. È forte a Pordenone o a Varese, debole in qualsiasi commissione parlamentare o tavolo concertativo romano.

    Forse, è venuto il tempo di scrivere un manifesto dell'impresa, e cominciare dalle piccole unità che sono il 90 per cento del totale. Un manifesto della piccola impresa per promuovere imprenditorialità e attitudine al rischio. La piccola è giovane: l'età media dei microimprenditori è intorno ai 35 anni. E uno su cinque è una donna. Una nuova azienda ogni tre, in città come Milano, ha come titolare un immigrato. Le Pmi non sono soltanto la spina dorsale dell'economia, ma anche i laboratori all'interno dei quali si sperimenta la società multietnica che verrà (Elogio civile della piccola impresa, Il Sole-24 Ore, 11 marzo 2005). Lì si formano identità e cittadinanza. Dal successo delle Pmi, e dal loro sentirsi parte integrante di una società che li rispetta e li valorizza, dipende in gran parte la qualità della nostra futura convivenza civile. Non solo il nostro benessere.

    La piccola impresa è sempre di più luogo di integrazione e costruzione delle appartenenze: svolge un compito civile che in altri momenti storici non le era richiesto. E soltanto per questa ragione dovrebbe ricevere più attenzione e cure. La piccola non chiede sussidi, ma attenzione e rispetto. Se la società la metterà al centro delle proprie attenzioni, ogni posto di lavoro sarà anche la molecola di una identità nazionale più forte e l'invisibile mattone di una cultura di mercato e dell'impresa più diffusa e condivisa. Con la piccola, i lavoratori spesso diventano imprenditori. Nelle microaziende, specialmente nelle fasi di start up, si apprezza di più quanto sia irrilevante e anacronistico il conflitto fra capitale e lavoro. L'innovazione è esigenza quotidiana, vitale. Il rischio è congenito. E fuori c'è il mercato, il mondo con le sue insidie e le sue opportunità, non le relazioni, le protezioni o le amicizie come avviene a volte per gruppi più grandi e non solo a controllo pubblico.

    Un Paese che avesse a cuore di più le proprie piccole imprese non le aggredirebbe con il fisco, la burocrazia, il difficile accesso al credito, i costi indiretti degli straordinari. Non richiederebbe loro un insieme di adempimenti di varia natura che sfiorano i dieci milioni di giornate l'anno. Non le costringerebbe a dedicare quattro giornate l'anno di un addetto per rispettare la sola normativa della privacy. Un Paese più moderno ed evoluto limiterebbe adempimenti e autorizzazioni, semplificherebbe i controlli almeno sulle aziende certificate. E soprattutto non lascerebbe nulla di intentato nel creare un ambiente favorevole alla libera iniziativa imprenditoriale.

    Un manifesto per le piccole imprese dovrebbe essere sottoscritto e fatto proprio dalla politica e dalla classe dirigente italiana per dimostrare, a se stessi e agli altri, di avere un'affinità per valori come competizione e mercato almeno pari a quella che storicamente hanno per equità e solidarietà. Il cammino non è facile né breve, certo è necessario.

    Ferruccio De Bortoli (Direttore Sole24Ore)

  3. #3
    Mé rèste ü bergamàsch
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    Predefinito L'Appello per uno "Statuto degli Outsider"

    Riforme strutturali, concorrenza e liberalizzazioni, 7 giorni per aprire un’impresa, il nodo dei salari più bassi d’Europa.


    L’Italia ce la può fare. E’ ancora possibile invertire la rotta sia rispetto ai segni concreti di declino, sia rispetto alla retorica del "declino inevitabile". La crisi italiana è vera e profonda, ma troppo spesso è descritta come ineluttabile ed irreversibile. Non è così.

    Certo, occorre voltare pagina. Un sistema dei partiti vecchio, eppure ancora troppo potente e costoso, inchioda il paese e la politica italiana a risse di fazioni, a scontri di tifoserie: e da oltre un decennio, a maggioranze troppo timide rispetto alle grandi urgenze di cambiamento, si contrappongono opposizioni dedite a tentare di scalzare e demonizzare i Governi, ma incapaci di sfidarli sul terreno di solide controproposte di riforma. Così, si moltiplicano le occasioni e i fenomeni di sterile conflittualità, che fanno il gioco delle componenti più illiberali e conservatrici dei due schieramenti, così come delle mille lobby impegnate a proteggere i propri privilegi, mentre si impediscono quei confronti che nutrono le democrazie, rendono più saldo il tessuto civile e aiutano il prevalere, dentro e fuori i Poli maggiori, delle forze liberali e riformatrici.

    Per questo, occorre una terapia d’urto, e bisogna ripartire da un’attenzione nuova alla questione sociale del nostro tempo. Servono non maggiori protezioni ma una più concreta offerta di chances al popolo dei "non garantiti": occorre un vero e proprio "statuto degli outsider", di quanti (consumatori, giovani, imprenditori del rischio e dell’innovazione, donne, lavoratori del privato, disoccupati, sottoccupati, pensionati sociali e al minimo, immigrati) sono e restano fuori dal fortino delle garanzie e dei privilegi. Questa Italia degli "outsider", dei "non garantiti", di fatto priva di tutele, è oggi senza volto e senza voce, silenziata prima ancora che silenziosa.

    Condizione preliminare, senza dubbio, è rappresentata dal risanamento dei conti pubblici. Esprimiamo per questo fiducia e sostegno nell’opera del Ministro dell’Economia. Ma, nello stesso tempo, riteniamo che vi siano altre tre priorità da incardinare ed affrontare.

    1. L’economia italiana non ripartirà finché non verrà liberata dai mille vincoli che bloccano la concorrenza e consentono l’accumularsi di rendite pagate dagli outsider. Occorre imboccare con decisione la via delle liberalizzazioni: questa deve essere la priorità della politica economica. In questo senso, proponiamo alcune concrete e urgenti possibilità di intervento, che dovrebbero accompagnarsi ad un rinnovato sforzo e a significativi investimenti delle imprese (sostenute, in questo, da una decisa iniziativa politica a livello nazionale e locale) nell’innovazione di processo e di prodotto, anche come condizione per un’effettiva capacità di attrarre nuove risorse e di competere su scala internazionale.

    a. La competizione e la liberalizzazione nel settore dei servizi di pubblica utilità, anche a livello locale, in una corretta suddivisione dei ruoli tra pubblico e privato, è una priorità assoluta per il paese. Come ha sottolineato il Governatore della Banca d’Italia, la concorrenza è per definizione un agente di giustizia sociale: e il superamento delle rendite monopolistiche e oligopolistiche, con relativa riduzione dei costi dei servizi, è un fattore fondamentale di miglioramento delle condizioni di vita in primo luogo delle fasce più povere della popolazione.

    b. Servono azioni concrete in termini di "riforme senza spesa": ad esempio, il superamento degli ordini professionali (per contribuire a riaprire una società chiusa, segnata dal peso di lobby e corporazioni), e l’abolizione del valore legale del titolo di studio universitario (per garantire uno shock nel segno della competizione positiva, dell'invito ai giovani a scommettere su di sé più che sul possesso di un pezzo di carta).

    c. Occorre ridurre a 7 giorni al massimo il tempo necessario all’apertura di una nuova impresa, comprimendo tempi e caratteristiche degli adempimenti amministrativi, o comunque generalizzando criteri di silenzio-assenso e di autocertificazione: intanto, l’impresa apra e proceda, e poi provveda al completamento dell’iter burocratico.

    2. Non è possibile rinviare ancora l’apertura del dibattito sulle riforme strutturali, in Italia ferme da troppo tempo, e sempre differite e rinviate. E’ necessario che da subito, e comunque nella prima parte della legislatura, si ponga mano alla questione della sanità, del pubblico impiego e delle pensioni, a partire dall’innalzamento dell’età media effettiva di pensionamento, in una nuova alleanza tra padri e figli, e con atti di generosità dei primi nei confronti dei secondi. Ma attenzione, i tagli da soli non servono. Interventi finanziari non accompagnati da un cambiamento delle regole sono effimeri: occorre cambiare le regole che sono alla base della crescita della spesa pubblica.

    3. In termini di mercato del lavoro, occorre ripartire dal Libro Bianco di Marco Biagi. Certo, non possono essere solo i lavoratori a correre i rischi della flessibilità: ma sbarazzarsi della Legge 30 sarebbe un grave errore. Va invece riequilibrata e completata, e proprio nella direzione del Rapporto Biagi, e quindi riscrivendo il sistema degli ammortizzatori sociali, che in questo paese hanno finito spesso per tutelare troppo pochi (su 100 persone che perdono il lavoro, in Italia, solo 17 hanno una qualche forma di tutela). Ecco perché bisognerebbe -invece- pensare al modello inglese, con un sussidio di disoccupazione, e un meccanismo di "welfare to work". Contestualmente, occorre affrontare il nodo dei salari italiani, tuttora tra i più bassi d’Europa. E’ necessario e possibile detassare per cinque anni gli aumenti salariali, e prevedere una riforma dei contratti che leghi la parte variabile dei salari ai risultati raggiunti e alla produttività. I sacrifici non possono essere sostenuti da una sola parte.

    Occorre più coraggio. E una coraggiosa politica di riforme e di modernizzazione avrebbe la doppia caratteristica di rimettere il paese in movimento e -insieme- di aiutare i più deboli.

    Ha detto Tony Blair: "Ogni volta che ho introdotto una riforma, mi sono pentito solo di non essermi spinto ancora più avanti". Invitiamo Governo, Parlamento, forze politiche e sociali a tenere questa citazione come monito e come bussola.

    http://www.radicali.it/appello_outsider/form.php

    http://www.radicali.it/appello_outsi...x_outsider.php
    ____________

    appello promosso da Daniele Capezzone (Presidente della Commissione Attività produttive della Camera)

    questi i nomi di alcuni tra i primi firmatari:

    - Alberto Alesina, Economia, Harvard University
    - Giuliano Da Empoli, Direttore di "Zero"
    - Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes
    - Natale Forlani, Amministratore Delegato di "Italia Lavoro"
    - Oscar Giannino, Vicedirettore di "Finanza e Mercati"
    - Francesco Giavazzi, Economia, Università Bocconi di Milano
    - Massimo Lo Cicero, Economia dello sviluppo, Università di Roma La Sapienza
    - Pio Marconi, Sociologia del diritto, Università di Roma La Sapienza
    - Alberto Mingardi, Direttore generale Istituto Bruno Leoni
    - Fiorella Kostoris Padoa Schioppa, Economia, Università di Roma La Sapienza
    - Fabio Pammolli, Direttore di "Istituzioni Mercati Tecnologie"
    - Gaetano Romano, Presidente Associazione Nazionale Praticanti e Avvocati
    - Florindo Rubbettino, Editore
    - Luca Solari, Direttore del Centro di ricerca interdipartimentale Work, Training & Welfare, Università degli Studi di Milano
    - Carlo Stagnaro, Direttore dipartimento "Ecologia di mercato" Istituto Bruno Leoni
    - Secondo Tarditi, Economia, Università di Siena
    - Chicco Testa, già Presidente dell’Enel

  4. #4
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  5. #5
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    Predefinito Rilancio per le Pmi: fisco più flessibile, meno burocrazia, rivoluzione culturale



    Per vederla ingrandita, salvarla sul pc ed aprirla da lì (Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2006).

  6. #6
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    Predefinito

    Iter parlamentare accelerato per la proposta di legge presentata da Daniele Capezzone, alla quale è dedicata l'inchiesta di copertina del settimanale Economy.


    • da Economy del 28 settembre 2006, pag. 5

    di s.l.

    «Una drastica semplificazione delle procedure per la costituzione di società commerciali e una forte riduzione dei costi relativi»: l'aveva promesso all'inizio del 2000 l'allora ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini, si suppone in buona fede. Non c'è riuscito. Il suo successore Mario Baccini sostenne nel 2005 che la Commissione Ue aveva riscontrato una riduzione — da 22 a 6 settimane, da 21 procedure a 12 e da 7.700 a 3.516 euro — di quel che occorre a lanciare una nuova impresa. Sarà anche stato vero, ma nessuno se n’è accorto: anzi.

    A tutt'oggi, come documenta l'inchiesta di copertina di Economy e confermano i dati dei Radicali di Daniele Capezzone (che propone la sua legge «Un'impresa in sette giorni»), la realtà dei fatti è ben diversa. E racconta di una vera corsa a ostacoli per chi vuol far nascere un'impresa. Con l'ultima chicca, schiettamente ”vischiana”: un conto corrente elettronico in più da aprire (e pagare) per dialogare col fisco, una brutta novità, in vigore dal 10 ottobre, che investe milioni di «partite Iva». La Corte costituzionale l'impallinerà. E loro ne inventeranno qualcun'altra. Forza, Capezzone: provaci tu, a sgombrare la strada ai nuovi imprenditori. È il modo migliore per cavalcare la ripresa.

  7. #7
    Mé rèste ü bergamàsch
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    Predefinito Sburocratizzazione imprese

    Capezzone: su mia Pdl finito oggi, e molto positivamente, lavoro in Commissione (con pareri favorevoli di altre otto Commissioni).

    Adesso, in aula al più presto per approvazione finale Camera. Ora urgente calendarizzazione in tempi serrati.


    Roma, 25 gennaio 2007

    • Dichiarazione di Daniele Capezzone, Presidente della Commissione attività produttive della Camera

    A proposito della mia proposta (larghissimamente sostenuta in Parlamento, sin dalla sua presentazione) di sburocratizzazione nella nascita di nuove imprese, il lavoro in Commissione attività produttive si è positivamente concluso nella seduta di oggi.

    La Commissione ha infatti conferito a me, come relatore, il mandato a riferire in Aula in senso favorevole, dopo che pareri favorevoli erano giunti da altre otto Commissioni (Giustizia, Bilancio, Cultura, Ambiente, Affari sociali e Comitato per la legislazione; e con l'accoglimento dei punti posti dalla Commissione Affari costituzionali e dalla Commissione bicamerale sulle questioni regionali).

    Abbiamo dunque deciso di andare al più presto in Aula per l'approvazione definitiva da parte della Camera. Ora è urgente una calendarizzazione in tempi serrati.

  8. #8
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    Predefinito

    Berg..ti sei specializzato in scannerizzazioni?

    ottimo lavoro!

  9. #9
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    Predefinito

    Qualcuno mi pare che l'ho firmato.

 

 

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