• da La Stampa del 5 luglio 2006, pag. 15
di Domenico Quirico
«La Francia ha torturato, ucciso, sfruttato per 130 anni, dal 1830 al 1962»; «ha cercato di annientare la identità algerina»; «c'è stata un'aggressione ingiustificata contro una nazione, uno stato, un popolo»; «una barbarie che ha pochi eguali nella storia»; «un genocidio»; «la violazione flagrante dei diritti naturali più elementari del popolo alterino»; «l'unica riparazione può essere quella della pronuncia di pubbliche scuse».
In questa arringa senza precedenti, al limite dello sgarbo diplomatico non si fa fatica a riconoscere lo stile bramoso e risentito dell'angoloso presidente algerino Bouteflika. Lo sfondo, un convegno di studi sul tema “colonialismo tra verità storica e polemica politica”. Sembrava fatto apposta per ricordare che da qualche tempo
il leader algerino è in furore con Parigi. Soprattutto da quando il 23 febbraio dello scorso anno una sciagurata iniziativa parlamentare ha certificato la volontà francese di definire, sui testi scolastici, «il ruolo positivo del colonialismo in Africa del Nord». Sono appunto i 130 anni passati dallo sbarco dei primi soldati venuti a dare una lezione ad Algeri, agli accordi di Evian che misero i coloni francesi di fronte alla scelta «tra la bara e la valigia», ovvero al frettoloso sgombero di una parte della loro storia.
Parigi ha cercato di cancellare il madornale errore in tutti modi: Chirac ha ordinato di abrogare la legge in base al principio che «la storia è compito degli storici e non dei parlamenti»; il ministro degli esteri Douste-Blazy si è recato in aprile ad Algeri offrendo la clausola di nazione più favorita alla ex colonia: il presidente ha reso omaggio a Verdun al sacrificio dei «poilus» algerini caduti per la Francia. Tutto inutile. Dall'altra sponda del Mediterraneo le veemenze sono cresciute, e la firma del grande accordo che deve voltar pagina tra i due paesi previsto entro la fine del 2005 è rimbalzato nelle nebbie diplomatiche. Anche ieri Bouteflika, significativamente, nel diluvio dei rancori postcoloniali non ne ha fatto cenno.
Ricoverato a lungo in un ospedale di Parigi, per una malattia ancora misteriosa come i raffreddori di Breznev, non ha dimenticato lo sgarbo dei deputati francesi: che hanno chiesto al governo di sapere chi pagava la retta ospedaliera.
Il problema è più vasto delle ripicche e degli umori. Il passato è fatto di avvenimenti molteplici dal significato indeterminato, sono i protagonisti presenti che decidono di dotare quegli avvenimenti di un valore indiscutibile. L'8 maggio in Francia, per esempio, è festa nazionale perché i generali francesi firmarono nel 1945 insieme a russi, inglesi e americani la capitolazione del Terzo Reich. In Algeria invece è l'anniversario del massacro di Sétif, dove gli stessi soldati spararono sui sudditi coloniali che avevano ingenumente creduto che la liberazione valesse per tutti. Si contarono da 1500 a 45 mila morti.
L'indignazione veemente di Bouteflika, la sua richiesta di scuse attinge anche finalità politiche assai più contingenti e interne. La società algerina, uscita intontita dal lungo massacro della guerra civile con i fondamentalisti, incomincia a chieder conto di altre scomode verità: la guerra sporca dell'esercito, per esempio, con i suoi desaparecidos, la rendita del gas e del petrolio che non si traduce in benessere diffuso e sparisce piuttosto nei fiumi carsici della corruzione e del sottogoverno. Soprattutto Bouteflika deve far dimenticare la islamizzazione strisciante della società, il patto firmato con gli ex fuorilegge del partito islamico: in cambio del consenso a perpetuare il suo senescente potere personale oltre i limiti della logica. Per questo i crimini del colonialismo vanno benissimo: si chiudono le scuole francesi e si cancella una doppia identità culturale, sollevando nazionalistiche rivincite, si fa la voce grossa, soprattutto si manovra su un rimorso a cui i governanti francesi, alle prese con un elettorato musulmano che conterà nelle presidenziali del prossimo anno, fingono di essere sensibilissimi.