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    Cool Festa per un grande uomo di Chiesa e alter Christus

    Oggi ricorrono esatamente 100 anni dalla nascita del card. Giuseppe Siri.
    Da chi, come noi, è "siriano" da sempre e per sempre, nn può che venire che un modesto omaggio. Nel mio blog http://vandeano2005.splinder.com/

    ho aperto una sezione solo per il grande cardinale, che nn nascondiamo di aver voluto come papa. Oggi la Chiesa....
    Buona lettura!!!


    1ª puntata - Un grande italiano… di umili origini



    IL FIGLIO DELLA PORTINAIA

    Nacque a Genova il 20 maggio 1906, di umili origini (papà operaio e mamma portinaia). A cent'anni dalla nascita, il suo ricordo e la sua testimonianza sono ancora molto vivi: è stato definito «un uomo tra storia e fede». Parliamo del Cardinale Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova per quarantuno anni, dal 1946 al 1987, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana dal 1959 al 1964. Un uomo straordinariamente appassionato per la Verità, che come pochi l’ha servita in tempi di grande confusione, anche a costo dell’impopolarità nei «salotti buoni». Con fine ironia scriveva: «La Chiesa cattolica ha vinto le eresie, ma ha ben più difficoltà a vincere le confusioni»…
    1ª puntata: la testimonianza che di lui hanno dato due pensatori, uno di destra e uno di sinistra...


    Il cardinale che vide il vero volto della sinistra

    di Alessandro Massobrio


    Il Giornale n. 91 del 18-04-2006
    pagina 6

    La testimonianza di due pensatori, Piero Vassallo e Peppino Orlando, uno di destra e l’altro di sinistra…
    20 maggio 1906: all'ombra dei palazzi fin de siecle di via Assarotti e tra le penombre di piazza Marsala, vede la luce Giuseppe Siri. Uno dei più grandi arcivescovi genovesi del Novecento (solo Minoretti può forse reggerne il confronto). Un arcivescovo grande ma, soprattutto, lungimirante, la cui grandezza e lungimiranza crescono con il passare del tempo e lo svilupparsi degli eventi.
    In questo primo anniversario della nascita, siamo andati alla ricerca di testimoni capaci di superare il dato aneddotico. Di affondare la lama dell'analisi al di là della semplice rievocazione, per giungere al cuore di un insegnamento che non si è certo concluso con la conclusione dell'arco temporale di una vita. E i primi in cui ci siamo imbattuti sono due guardie - una bianca e l'altra rossa - che a lungo, quando le ideologie del Novecento soffiavano violente anche sulla nostra città, hanno incrociato le armi affilate della dialettica.
    Gli anni sono passati, le ideologie - come sostengono i politologi alla moda - sono tramontate, ma le guardie sono ancora là, nel piccolo locale adiacente alla funicolare di S. Anna. Si chiamano Piero Vassallo (scrittore, filosofo e docente emerito presso la Facoltà di teologia del Nord Italia) e Peppino Orlando (teologo del dissenso e pubblicista), stanno prendendo un caffé sotto il primo sole di primavera. Un sole che abbacina lo sguardo più che scaldare cuori, che molte altre primavere hanno conosciuto nel corso di una lunga vita. Fatta magari di scontri e battaglie, combattute sempre comunque nel leale riconoscimento del valore dell'avversario.
    Ecco, come è stato il primo incontro con Siri? Quale insegnamento del grande cardinale si è impresso, a caratteri indelebili, nella vostra memoria?
    «Era l'estate del '66 - incomincia Vassallo - era appena terminato il Concilio. Si sentiva l'urgenza di risistemare la teologia. Il cardinale Siri volle fare una rivista teologica, ma io con altri collaboratori insistemmo perché la rivista, oltre alla teologia, si occupasse di cultura. Affrontasse cioè quei fenomeni involutivi, che lo stesso cardinale aveva segnalato nelle lettere pastorali degli anni '50. Nacque così Renovatio».
    Quali furono i primi obiettivi della rivista?
    «Essenzialmente quello di ricostruire il profilo della nuova filosofia, quella filosofia che, a partite dai lavori di Benjamin, Horkheimer, Block, Adorno, Taubes, aveva soppiantato la linea illuministico-marxista di Lukàcs. Ci trovavamo, in altri termini, davanti ad un pensiero neognostico che rifiutava l'idea di Dio come padre per sostituirla con quella di un Dio come supremo nulla. Un assoluto nichilismo, tipico comunque della filosofia post - moderna, grazie al quale l'uomo sarebbe potuto sfuggire all'“incantesimo nero” della creazione».
    Voi dunque aveste per primi la percezione che il pensiero della sinistra si stava trasformando?
    «Certamente. Grazie alle indicazioni del cardinale Siri, noi avevano intuito questa metamorfosi sconvolgente e l'abbiano denunciata. Naturalmente, nessuno ha dato seguito a questa nostra intuizione. Nel bene come nel male. Ricordo che proprio in quegli anni iniziava la sua attività la potentissima casa editrice Adelphi, che poi ha sviluppato quelle linee sino alle estreme conseguenze, specializzandosi nella pubblicazione di tutti quei pensatori che venivano apprezzati proprio per il loro essere “dopo Marx”. Non tanto in senso cronologico quanto piuttosto perché erano considerati coloro che avevano ribaltato la prospettiva marxista tradizionale. Imponendo una nuova filosofia, quella della dissoluzione. Mi riferisco ad autori come Nietzsche, Heidegger. Gli unici a cogliere il nostro messaggio - il mio e quello di Gianni Baget Bozzo - furono solo Del Noce e Sciacca. Gli altri non furono neppure sfiorati dalle nostre considerazioni. L'idea predominante era che il marxismo fosse ancora vivo e vegeto. Nessuno si era accorto della svolta epocale che i Minima Moralia di Adorno avevano impresso alla filosofia del Novecento. La cultura cattolica ufficiale di quegli anni continuava a vivere nel passato. Noi eravamo nel futuro, ma totalmente isolati».
    A quanto pare, invece, nonostante le accuse di arretratezza, il cardinale Siri si teneva costantemente aggiornato circa gli ultimi esiti del dibattito filosofico?
    «Senza dubbio. So che leggeva molto e dialogava intensamente con i suoi confratelli dell'episcopato. Soprattutto con quelli dell'episcopato americano e latino-americano. Intellettuale straordinario, prontissimo a cogliere i messaggi che gli provenivano dalle avanguardie, è stato il primo a sostenere ed a concedere spazio a Cornelio Fabbro, questo grande restauratore del tomismo novecentesco. Ciononostante ha sempre conservato una semplicità francescana. Nella Genova del tempo, quella dei salotti buoni della sinistra cattocomunista, che si riferiva sprezzantemente a lui come al «figlio della portinaia», Siri ha continuato a rimanere il prete che parlava in genovese ed era amato dalla gente semplice e dai poveri. Mentre era detestato dai falsi intellettuali e da certa stupida alta borghesia cittadina, che ha lavorato, attraverso il suo quotidiano - Il Secolo XIX di Piero Ottone - a demolirne la figura morale. Mi ricordo quando il cardinale, per difendere il diritto delle classi più povere ad avere un minimo vitale, osò citare quel passo biblico dove si afferma che homo sine pecunia imago mortis est. Affermazione persino ovvia, mi sembra, visto che davvero coloro che non posseggono mezzi di sostentamento sono l'immagine stessa della morte. Ebbene, Ottone fece uscire il Secolo con un titolo del tipo: il cardinale calunnia Cristo stesso nella sua povertà. Il che la dice lunga circa il grado di stupidità raggiunto dalla cultura ufficiale genovese del tempo».
    Passiamo dall'altra parte della barricata, da quel Peppino Orlando che al tempo di Siri fu su posizione di contestazione, sulle quali comunque ha avuto oggi modo di meditare e riflettere. E magari addirittura ricredersi.
    «Il mio incontro con il cardinale Siri è avvenuto presso la Cittadella, la Pro Civitate di Assisi, dove ho studiato teologia per tre anni e mezzo, dal '58 al '61. Due corsi di esercizi spirituali furono dettati ai volontari dal cardinale. In questa piccola cappella dove lo incontravamo, Siri si rivelava per quello che davvero era: l'uomo di fede, il teologo, l'uomo di cultura, che cercava di far comprendere che cosa fosse una autentica formazione spirituale. Fui molto colpito da questi incontri, al punto che chiesi un colloquio con lui. La prima domanda che gli rivolsi, mi ricordo ancora, fu proprio questa. “Eminenza, gli dissi, qual è la cosa fondamentale che deve possedere chi intende fare cultura cristiana?”. Mi immaginavo che tirasse fuori, ad esempio, la Bibbia. E invece, mi rispose: l'ontologia. La logica e l'ontologia. Senza di quelle non si può assolutamente accedere alla Bibbia, che è il discorso del Logos. “Ricordati, Orlando - mi ricordo ancora le parole con cui concluse il suo discorso - che dove non c'è logica, non può attecchire la grazia”. Non a caso, la filosofia moderna, con Kant, Hegel e Marx, ha proprio attaccato la logica e l'ontologia, anzi, prima l'ontologia e poi la logica».
    Ancora oggi sei convinto della validità di questo insegnamento?
    «Assolutamente sì. Io sono rimasto fedele a questo discorso. Per me filosofia, spiritualità e teologia devono stare sempre insieme. Anzi, nonostante il marasma in cui ad un certo punto mi sono immerso, vale a dire la partecipazione al dissenso cattolico, questa è stata la scialuppa di salvataggio che me ne ha portato fuori».
    In altri termini, che cosa aveva colto Siri nel mondo della sinistra?
    «Senza dubbio, l'illogicità e la mancanza di senso dell'essere e quindi della realtà. Quel senso della realtà che, invece, possedevano il cardinale e, insieme con lui, il presidente della Confindustria del tempo. Quell'Angelo Costa della cui famiglia ero entrato a far parte con il mio matrimonio. Economia, certo, ma accanto all'economia i dieci comandamenti. Anzi, spesso mi chiedevo perché mai Siri insistesse tanto sull'ottavo. Non dire falsa testimonianza».
    Te ne sei poi data una spiegazione?
    «Certamente. Il cardinale voleva sottolineare il valore assoluto della verità. Un altro di quei valori che ha costituito una sorta di filo rosso nel corso della mia vita. E di questo se ne era accorto anche il mio vecchio maestro di Assisi, che, sempre, nonostante la mia posizione di decisa contestazione di quegli anni, aveva dato ordine che fossi ricevuto in arcivescovado. Mi ricordo il malumore di tanti preti e monsignori in attesa di un colloquio, a cui io passavo davanti. E mi ricordo anche i “mugugni” più ricorrenti, come quello, ad esempio, secondo cui Sua Eminenza riceveva sempre i nemici e mai i fedeli servitori della Chiesa. Ma tant'è. Per me c'era sempre libero il passaggio».
    E di che cosa parlavate in quegli incontri?
    «Della Chiesa, di Oregina, della contestazione. L'amicizia con Siri mi forniva, in altri termini, quei contro-veleni che, a lungo andare, mi avrebbero permesso di uscire dalla sinistra stessa. Solo che - e Siri questo lo aveva compreso benissimo - alla Chiesa di quel tempo e purtroppo anche a quella di oggi manca il papa. Il papa che non è soltanto il vescovo di Roma, ma colui che detiene l'autorità di governo e di insegnamento e che conferma nella fede i suoi confratelli. Il Concilio e Paolo VI, invece, rifiutando il triregno, avevano in qualche modo privato il pontefice del potere di giurisdizione. Insomma, si è passati dal principio monarchico di Pietro a questa collegialità, che si basa soltanto sull'opinione».
    Siri dunque aveva percepito il pericolo di una perdita del potere autoritativo infallibile da parte del pontefice?
    «Senza dubbio, ma si rese conto di non poter andare avanti perché in questa materia non era compreso neppure dai tradizionalisti. Sembrava che tutta la polemica riguardasse la messa in latino mentre l'autentico problema era legato all'ottavo comandamento. La verità. Ancora una volta, il cardinale aveva visto giusto e, soprattutto, aveva visto lontano. Aveva cioè compreso che nella logica della sinistra non c'è l'essere, non c'è il senso della realtà, ma l'ideologia, il cogito cartesiano, inteso in senso assolutamente soggettivo».



    BIBLIOGRAFIA UTILE:

    Raimondo Spiazzi, Il Cardinale Giuseppe Siri - Arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987, E.S.D. Edizioni Studio Domenicano, 1991.
    Benny Lai, Il Papa non eletto, Laterza, 1993.
    Mario Grone, Accanto al “mio” Cardinale, Marietti 1820, 1999.
    Marco Doldi, Giuseppe Siri, il Pastore, Libreria Editrice Vaticana





  2. #2
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    Nihil sub sole novi, ecco come la vedeva Siri nel 1978

    Il testo integrale della famosa intervista dell’Arcivescovo di Genova prima del conclave che elesse Papa Wojtyla
    Il 14 ottobre 1978, data di inizio del Conclave che due giorni dopo eleggerà Giovanni Paolo II, La Gazzetta del Popolo di Torino pubblicò questa intervista all’arcivescovo di Genova cardinale Giuseppe Siri, titolandola: “Io papa? Siri alla Gazzetta. Un’intervista esclusiva dell’arcivescovo di Genova che entra oggi favorito nella Cappella Sistina”. Si è detto e scritto che questa intervista gli sia costata il papato. Alla vigilia di un altro Conclave, la ripubblichiamo.

    di Gianni Licheri

    Il Foglio 13 aprile 05
    ***
    Città del Vaticano. L’arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri, cardinale dal 1952, da trentaquattro anni a capo della Chiesa genovese, al suo quarto Conclave, rappresenta ormai un punto di riferimento di tutta quella corrente della Chiesa che prendendo a spunto una certa esigenza di “rimettere ordine”, tenta con questo Conclave di tornare alla Chiesa preconciliare. Il tentativo senz’altro è sottile poiché prende le mosse dalla esigenza di proseguire sulla strada tracciata da Giovanni Paolo del quale si evidenziano però le origini, quale uomo di disciplina e di dottrina. E’ la naturale tendenza che nella Chiesa non ha certo visto di buon occhio la svolta di questo ventennio. Nel nome di Albino Luciani, sul quale confluirono anche gli innovatori montiniani come chiaramente appare nel discorso della Sistina, la visione si superò. La sua improvvisa morte fa trovare ancor più i cardinali alle prese con i vecchi problemi impersonati oggi praticamente dalle due correnti facenti capo a Siri e Benelli anche se lo schieramento di quest’ultimo è più composito ed ha la maggioranza. Ho incontrato Giuseppe Siri e la conversazione è stata ampia e schietta. Sicuro di sé, ho avuto chiara l’impressione che questa volta la sua è più che una speranza. Dall’incontro la sua linea appare chiara cosicché il dialogo non potrà non risultare che un contributo importante alla ricerca della soluzione idonea a cui tutti i cardinali dovranno arrivare in piena cognizione di causa.
    Come si arrivò all’elezione di Luciani?
    “Io sono sempre stato un solitario, non ho mai trattato ed ho pensato soltanto a dare il mio voto, quindi non so nulla”.
    Ma all’inizio non si era pensato a Luciani. Non è così?
    “Non lo so. Io so che dopo essere entrato in Conclave siamo andati alle votazioni e queste si sono svolte in modo tale che ad un certo momento è diventato papa il cardinale Luciani”.
    Non è stato quindi eletto subito, vero?
    “No, ma nel pomeriggio”.
    Ci si orientò per Luciani già da prima?
    “Non lo so, io non ho partecipato a nessuna riunione”.
    Ed in questi giorni ha preso parte ad incontri?
    “Io appena finita la congregazione scappo, e sto per mio conto”.
    Si può prescindere ora, in questo Conclave che eleggerà il successore di Giovanni Paolo I, dal pontificato di quest’ultimo?
    “Non credo poiché Papa Luciani ha rappresentato qualcosa, sia pure in tempo brevissimo, ma importante”.
    I punti programmatici di Papa Giovanni Paolo annunciati in Sistina sono ancora validi oggi?
    “Nella cappella Sistina non vi è stato alcun punto programmatico perché lì non si parla”.
    Ma io mi riferisco al discorso fatto dal nuovo Papa il giorno dopo la sua elezione nella cappella Sistina. Quel programma annunciato nel suo discorso è ancora valido?
    “Ma quel discorso di cui lei parla glielo hanno fatto gli altri al Papa. Lui ha soltanto letto. Si capiva chiaramente che era un discorso letto e basta. Lo ha pronunciato Giovanni Paolo I come poteva pronunciarlo, che so io, Eugenio I. Non vi era infatti nulla di specifico”.
    Ma non si affrontarono tre punti messi a base del suo pontificato: la collegialità, l’ecumenismo, il dialogo con il mondo?
    “Io non ricordo bene; so che fu un discorso semplicemente letto. Non vi era nulla di speciale e di specifico”.
    Era quindi secondo lei un discorso già preparato?
    “Senz’altro, e preparato dalla segreteria di Stato. Era infatti scritto molto bene, su quei fogli tipici della segreteria di Stato. Era impossibile che il Papa fosse stato tutta la notte a prepararlo. Poi, facendo il paragone con i discorsi pronunciati dopo, si nota lo stile completamente diverso”.
    Secondo lei, quindi, non era un discorso programmatico?
    “Non lo era affatto. Ma si trattava di un intervento in cui si dicono le solite cose. Non ha parlato infatti in modo specifico né della collegialità, né degli altri punti da lei accennati”.
    Si dice che Luciani ha inaugurato un modo nuovo di fare il Papa. Lei è d’accordo?
    “Non saprei dirle. Se lo ha fatto, è stato però senza darne una definizione precisa. E’ stato l’uomo nuovo, questo sì e lascerà un’impronta che ha dirottato tutto sulla linea della dottrina, della disciplina e della spiritualità. Papa Luciani è tutto qui”.
    Ma secondo lei è necessario oggi lo sviluppo della collegialità episcopale con il Papa?
    “Non so neppure cosa voglia dire lo sviluppo della collegialità episcopale”.
    Si tratta di una maggiore partecipazione dei vescovi al governo della Chiesa fino a giungere in seguito al Sinodo quale istituto non soltanto consultivo per il Papa come è oggi, ma deliberativo.
    “Il Sinodo non potrà mai diventare istituto deliberativo nella Chiesa, perché non è contemplato nella costituzione divina della Chiesa. Potrà al massimo divenire, se il diritto canonico l’ammetterà, una istituzione ecclesiastica, ma non di diritto divino”.
    Ma nella “Lumen Gentium” si parla della collegialità, non le sembra?
    “Lasciamo stare questi discorsi perché non rispondo. Io le ripeto che Papa Luciani ha dato un tono nuovo. Ha messo l’accento sulla dottrina, la disciplina, la spiritualità ripeto: questo è il suo tono nuovo”.
    Come si può interpretare la sua improvvisa morte dopo la quasi unanimità per la sua elezione?
    “Non so, non so; mi chiede lei un giudizio troppo grave che io non saprei dare. Certo è un mistero della Provvidenza”.
    E di fronte a quella quasi unanimità, a quel programma, come si presenta oggi la situazione del Conclave?
    “Di programma ripeto non si è parlato, almeno io non l’ho sentito; anche se me ne sto per conto mio e basta, pensando soltanto a chi debbo votare”.
    Lei è considerato un conservatore. Che ne pensa?
    “Io l’ho già detto: non sono né conservatore, né progressista, ma indipendente”.
    In che senso? Potrebbe meglio specificare il suo assunto?
    “Io faccio quello che ritengo che la legge di Dio vuole che in questo momento io faccia e basta; e non guardo se sia a destra o a sinistra. Non mi interessa, e credo che sia una grave ingiustiza darmi una qualificazione che non ho”.
    Lei è considerato colui che ha resistito al Concilio, a certe sue innovazioni caratteristiche. Cosa ha da dire?
    “Questo è un modo errato di porre la questione. Io ho resistito nel difendere la dottrina cattolica, perché c’era della gente che la voleva scarnificare. Io quindi non sono stato né di destra né di sinistra”.
    Ed il Concilio, così com’è stato concluso nelle sue costituzioni e documenti, ha bisogno, secondo lei, di modifiche?
    “E’ un discorso questo sul quale non voglio entrare”.
    Si dice che i criteri che portarono alla elezione di Luciani furono quelli di essere un pastore, italiano, senza esperienze curiali, e aperto ai vescovi. Sono ancora validi per questo Conclave?
    “Il criterio per me è che si faccia uno che sappia fare il Papa. Così: dire soltanto la parola pastore è decapitare la figura del Papa. Non umiliarla, ma decapitarla. Deve essere un pastore, d’accordo, ma deve essere uno che governa la Chiesa. Se non governa la Chiesa, cosa sta a fare lì, a pascolare le pecorelle?”.
    Cosa significa oggi, secondo lei, fare il Papa?
    “E’ un discorso questo che occorrerebbero delle ore per svolgerlo. Non aggiungo altro a quello che ho già detto”.
    Lei è oggi considerato uno dei papabili più in vista. Come si sente?
    “Io sono qui per fare la volontà di Dio. Sono sereno. Sono ben più contento di tornare a Genova che di rimanere a Roma”.
    Accetterebbe però con tranquillità l’elezione a Papa, non è vero?
    “Questo lo dirò al mio confessore, non a lei”.
    Nei suoi confronti c’è molta ostilità da parte di molti ambienti. Come mai?
    “Io sono uno degli uomini più calunniati che ci siano, non mi sono mai difeso, né mi difenderò ora. Credano tutti quello che vogliono di me. A me interessa soltanto andare d’accordo con la legge di Dio. Cerco di fare le cose oneste, giuste, rette e non dipendo né da una parte né dall’altra. Sentito quel che debbo sentire e obbedito a chi debbo obbedire, vado per la mia strada. Io sono incatalogabile”.
    Papa Luciani ha avuto una grande presa nel popolo. Il “carisma gente” ha un significato teologico?
    “Non credo sia necessario disturbare le teologia. Il ‘carisma gente’ non esiste. Si tratta soltanto di doti: un Papa è più umano, l’altro come carattere lo è meno”.
    Il cardinale Gantin che ho incontrato in questi giorni, mi ha detto: “Le masse saranno presenti al Conclave”, nel senso che non potremo non tener conto, nel procedere alla nuova elezione, di questo fenomeno. Lei che ne pensa?
    “Nella testa dei cardinali ci potranno essere in questo Conclave tante cose. Ma, ripeto, nella loro testa, non in altro modo”.
    Lei è favorevole all’elezione a Papa di un cardinale che ha soltanto esperienza curiale?
    “E crede che questo anche se lo pensassi, lo verrei a dire a lei?”.
    Il cardinale Marty mi ha detto che tutti i cardinali sono pastori, sia chi tratta direttamente con il popolo, sia chi si interessa di “dossier”. E’ d’accordo?
    “Penso che sono bellissime frasi. Io dico soltanto che tutti i pastori se sono tali sono crocefissi. Non è retorica, ma realtà. Io in ogni modo mi astengo da tutte queste discussioni perché sono convinto che è una cosa troppo seria fare un Papa. Io sono dell’opinione che ciascuno deve pensare dentro di sé chi deve eleggere. Io non solo non mi sono mai sognato di fare propaganda per me, perché bisogna essere stupidi ad avere voglia di fare il Papa, ma per nessuno. Io, dopo averci pensato, darò il mio voto”.
    Lei però nell’omelia del secondo novendiale in memoria di Paolo VI, affermò che non bisogna attendere soltanto l’azione dello Spirito Santo, ma occorre muoversi per arrivare all’elezione del Papa. Che significato aveva questa sua affermazione?
    “Siccome io conosco tutti i cardinali e so tutto di loro, essendo io il decano dei cardinali poiché la mia nomina risale alla fine del 1952, intendevo spingere coloro che sono privi di informazioni, informazioni tali da fare un Papa, a procurarsele; alle fonti autentiche, però. Non vadano, cioè, a bere alle fontanelle dove esce acqua non potabile, ma a quelle dove l’acqua è potabile”.
    Certamente lei possiede una grande esperienza, non è così?
    “Io praticamente ho fatto il cardinale di Curia, sono il più anziano dei cardinali, ho avuto da fare moltissimo con tre Papi, conosco tutto e non ho bisogno di andare in giro a farmi eliminare”.
    Ma lei non è stato sempre vescovo di Genova?
    “Sono stato sempre arcivescovo di Genova, ma ho agito anche come cardinale di Curia. Poiché infatti avevo molte presidenze venivo due o tre volte al mese a Roma ed ogni volta ero ricevuto da Pio XII; come anche da Giovanni XXIII, mentre da Paolo VI ero ricevuto sì, ma ogni tanti mesi. Mi trovo quindi nella situazione di conoscere molto bene la Curia, cioè i suoi uomini. Ecco perché non ho bisogno di bere a nessuna fontanella”.
    A vent’anni dalla morte di Pio XII e dal passaggio da lui a Giovanni XXIII, quali sono le sue riflessioni?
    “Di Pio XII posso dire che era stato un grande, grande, ed un santo”.
    Ed i suoi rapporti con Roncalli com’erano?
    “Lo conoscevo già da quando era a Parigi e siamo rimasti buoni amici. Sono stato diverse volte suo ospite anche a Venezia”.
    E sui passaggi tra i due pontificati quale continuità vede?
    “La ‘continuità’ è una parola di rito ed io non sono abituato a tali termini. Io so una cosa, cioè che tutti i Papi rappresentano una pagina diversa nella Chiesa. Ognuno di essi volta pagina ed è così per Provvidenza”.
    Ed oggi qual è il “voltar pagina” che occorre?
    “Assolutamente non lo so”.
    Se lei fosse eletto cosa farebbe?
    “Comincerei a pensare a quello che dovrei fare soltanto dopo l’elezione, non prima”.
    Ma un po’ di preparazione ci vuole, non ne conviene?
    “Ma non creda che io sarò eletto, nonostante i ‘si dice’. Io non mi interesso di tutte queste cose. Lascio fare a Dio e basta”.
    Lorscheider ha osservato che non è proprio esatto parlare di “grandi elettori” per il Papa, anche se, ha aggiunto, la Chiesa è anche umana e quindi si serve degli uomini. E’ chiaro quindi che c’è chi si muove in un’altra direzione. Non è così?
    “E’ così, ma io non mi muovo in queste faccende”.
    Lascia però muovere gli altri?
    “Non intendo togliere la libertà a nessuno. Si ricordi che non mi muovo né spingo nessuno a muoversi. Questa è stata in ogni circostanza della mia vita la linea che ha guidato il mio modo di agire e sono contento di essermi comportato così. Sono cinquant’anni che sono prete, trentacinque vescovo ed ho sempre fatto quello che l’obbedienza mi ha invitato a fare”.
    Guardando indietro in questi cinquant’anni cosa può dire?
    “Di avere dato la mia vita a Dio, senza impiegarla in altro modo”.
    Ed ha assistito a diversi passaggi nella Chiesa: cosa ha da dire in proposito?
    “Ne ho viste tante di cose ed ho fatto l’esperienza di uno che si è occupato soltanto delle sue cose senza sindacare in quelle degli altri”.
    Ed invece si dice che lei ha cercato sempre di intervenire in ogni campo, cercando anche di impedire svolte politiche quando era presidente della Conferenza episcopale italiana. E’ così?
    “Io ho obbedito. Se ho fatto qualcosa è perché mi è stato detto di farlo”.
    Anche la lettera all’onorevole Moro allora segretario della Dc, del 1962 con la quale si diceva di non fare il centrosinistra?
    “Quella è una delle iniziative che ho preso io personalmente, perché non volevo mettere il Papa e il cardinale segretario di Stato nei pasticci, in quanto mi sono detto: se sbaglio, sono io che pagherò”.
    E successivamente c’è stato con Moro un chiarimento sul fatto?
    “Ci siamo incontrati diverse volte, ma nessun chiarimento vi è stato su quell’episodio. Ognuno è rimasto con le sue convinzioni”.
    Il cardinale mi saluta con cordialità . E’ arrivato per incontrarlo il fratello di Papa Giovanni Paolo, mentre in anticamera attende per un colloquio il professor Luigi Gedda.




    BIBLIOGRAFIA UTILE:

    Raimondo Spiazzi, Il Cardinale Giuseppe Siri - Arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987, E.S.D. Edizioni Studio Domenicano, 1991.
    Benny Lai, Il Papa non eletto, Laterza, 1993.
    Mario Grone, Accanto al “mio” Cardinale, Marietti 1820, 1999.
    Marco Doldi, Giuseppe Siri, il Pastore, Libreria Editrice Vaticana.






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