Risultati da 1 a 4 di 4
  1. #1
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito L'America è un marchio e lotta all'ultimo spot

    L'America è un marchio e lotta all'ultimo spot
    La regina della pubblicità Charlotte Beers dirige il nuovo ministero (dotato di 800 milioni di dollari) che deve «vendere» la politica estera americana e finanzia radio e tv in arabo. La sua filosofia: se il mondo non ci capisce, allora cambiamo messaggio. Ma la merce è rimasta la stessa


    MARCO D'ERAMO

    Se la pubblicità è l'anima del commercio, la propaganda è l'anima della guerra. Lo sanno da sempre gli americani che proprio sulla guerra di propaganda hanno fondato le loro più durature vittorie. E l'11 settembre 2001 è stato - a dir poco - un segnale di odio nei confronti della superpotenza americana, che ha mostrato quanto sia deteriorata l'immagine mondiale degli Stati uniti. Così il presidente George Bush jr. è corso ai ripari e già il 2 ottobre dell'anno scorso, tre settimane dopo l'attacco alle Twin Towers, ha nominato una sottosegretaria alla «diplomazia e agli affari pubblici» con lo specifico compito di «vendere» la politica estera americana. Si chiama Charlotte Beers e ha fatto tutta la sua carriera nel mondo della pubblicità; è stata presidentessa e amministratrice delegata di due tra le 10 più grandi agenzie pubblicitarie del mondo: dal 1988 al 1992, e poi di nuovo dal 1997 al 2001, ha guidato la J. Walter Thomson Worldwide, mentre dal 1992 al 1997 è stata alla testa di Ogilvy & Mather (nel 1992 la rivista Glamour la premiò come una delle «donne dell'anno»); ed è soprannominata «la regina del marchio (branding)». «Il problema del "perché ci odiano" è stato riformulato, per così dire, con "Come riposizioniamo il nostro marchio"», ha scritto sul New York Times Victoria De Grazia, professoressa di storia europea contemporanea alla Columbia University.

    Beers ha ottenuto dal Congresso uno stanziamento di circa 800 milioni di dollari per concentrarsi sulle «popolazioni scontente" soprattutto del Medio oriente. «La pubblicità», mi dice Victoria de Grazia nel salotto del suo spazioso appartamento nell'Upper Westside, «può vendere di più un buon prodotto oppure nascondere i difetti di uno mediocre. Il problema in America è che tutti sono convinti di essere nice guys, "brave persone", e non si capacitano che il mondo non li capisca. Perché in Guatemala o in Cile non sono considerati tali? Il problema è il messaggio - pensano -, non il prodotto: è la campagna pubblicitaria che non va, non la merce. Non sembra sfiorarli l'idea che il problema stia proprio nel prodotto, cioè nella nostra politica estera, e che sia questa la "merce" da modificare», dice con fare concitato e gesti quasi italiani delle mani.

    Ma quale immagine degli Stati uniti sta reclamizzando Charlotte Beers? «Da un certo punto di vista l'amministrazione Bush, di estrema destra, cerca di vendere dell'America la stessa immagine che propongono come modello d'avvenire i teorici postmodernisti di sinistra: una società colma di diversità, di differenze, multiculturale, poliglotta, aperta. Il dipartimento di Beers ha preparato un depliant molto ben fatto di 24 pagine, quattro colori, studiatissimo, in cui l'America appare come una nazione aperta, ospitale, in cui ognuno può essere sé stesso, e che racchiude in sé popoli e umani provenienti da tutta la terra. Il messaggio è "non potete essere contro di noi, perché noi siamo anche voi. L'America non può essere contro il mondo, perché è il mondo"».

    Finora l'iniziativa di maggior peso consiste in radio Sawa (in arabo «insieme»), creatura nata da una costola della vecchia Voice of America (Voa), che il Congresso ha finanziato con 35 milioni di dollari (ma l'amministrazione Bush ha richiesto altri 21,7 milioni per il 2003) e gestita dal produttore di Los Angeles Norman J. Pattiz. Va detto che gli americani non si sono ancora ripresi dal trauma inferto nell'autunno scorso dalla tv satellitare araba Al Jazeera che per la prima volta ha tolto agli Usa il monopolio delle informazioni, lasciando la Cnn inerme e sfiatata. Non per nulla, una richiesta avanzata (ma respinta) lo scorso anno dal segretario di stato Colin Powell al Qatar fu quella di oscurare Al Jazeera. Per farle concorrenza con una tv satellitare, Pattiz chiede al governo Usa 160 milioni di dollari. E radio Sawa ha cominciato ad assumere giornalisti di Al Jazeera, come il marocchino Hussein.

    D'altronde la guerra-radio non ha nulla di nuovo. Joseph Goebbels ne fu un precursore. E nel 1938, ricorda The Economist, la Bbc lanciò il suo notiziario in arabo (il primo dei suoi servizi in lingua straniera) per contrastare l'influenza nazista nel mondo islamico. Negli anni 1950 Gran Bretagna e Francia accusarono Radio Cairo di diffondere il nazionalismo arabo che minacciava i loro interessi. Per tutta la guerra fredda la radio Free Europe (in cui lavoravano esuli da tutto l'est europeo) fu un potente strumento per minare il consenso interno dei paesi comunisti e per far balenare un'immagine agiata e felice del «mondo libero».

    Né dopo l'11 settembre gli Usa sono i soli a essersi imbarcati in trasmissioni rivolte al «nemico», anche se per il momento con esiti mediocri: la tv satellitare israeliana in lingua araba non viene captata nelle capitali arabe perché i governi la oscurano. In ogni caso, osserva The Economist, «gli arabi che la ricevono, avrebbero difficoltà a collocare quelle che gli speaker israeliani chiamano "Giudea e Samaria" e a identificare la "Forza di difesa israeliana", perché loro le conoscono come la "West Bank" e come l'"esercito di occupazione israeliano"». Lo stesso avviene con le emittenti in lingua ebraica varate quest'anno non solo dai governi di Egitto e Siria, ma persino dagli Hezbollah del Libano: tradotti in israeliano, i proclami trasmessi dalla tv satellitare sciita, pieni di martiri e di guerra santa, non possono suscitare simpatia in un pubblico ebraico. Per sormontare questi problemi, a Sawa limitano al massimo le notizie e trasmettono in continuazione accattivante musica leggera americana. Ma pare che i giovani arabi ascoltino la musica e si disinteressino delle notizie: i detrattori di Sawa hanno già trovato un nomignolo: Radio Popaganda (senza la r), con riferimento alla musica pop. Rispetto alle campagne propagandistiche attuali, inoltre, quelle della guerra fredda avevano un altro spessore culturale. Si pensi all'operazione Il dio che è fallito: il libro che i servizi segreti Usa finanziarono nel 1949 perché fosse pubblicato in più di 150 lingue fu scritto dai maggiori narratori europei che erano stati comunisti e che erano usciti dal partito (tra cui André Malraux, Arthur Koestler, Ignazio Silone).

    Sullo stretto terreno pubblicitario, il compito di propagandare l'Alleanza atlantica fu affidato alla Walter J. Thomson (di cui Beers è stata presidente). La Thomson aveva lavorato col governo Usa fin dal 1917, quando, su suggerimento del giornalista George Creel, il presidente Woodrow Wilson aveva creato il Comitato per l'Informazione pubblica che doveva convincere i tedeschi che «la sconfitta era inevitabile» e farli «precipitare nella disperazione». Per la Nato, la J. Walter Thompson fece un buon lavoro. Filmati sull'«alto tenore di vita», villetta unifamiliare, frigorifero, televisione e auto di «Joe Smith, lavoratore medio d'America». Per l'anniversario della Nato furono coniati slogan come «Buona notte, dormi bene, la Nato veglia», oppure « N-A-T-O, quattro lettere per la pace». Furono organizzati recital con Bing Crosby, Frank Sinatra, Harry Belafonte. Hollywood fu messa al lavoro con film sui poveri sovietici che «sceglievano la libertà».

    «Ma rispetto ad allora Bush è in una situazione di totale debolezza, dice Victoria De Grazia. «Per cominciare, Belafonte e Sinatra trovavano tanto più ascolto quanto il pubblico riceveva gli aiuti del piano Marshall, tre miliardi di dollari, una cifra strabiliante per l'epoca. Oggi invece Bush fa propaganda senza piano Marshall. Inoltre, per un secolo gli Stati uniti hanno avuto una tradizione di un efficiente apparato pubblico che collaborava strettamente con le imprese private, con un'idea della missione degli Usa nel mondo. Il Dipartimento di stato finanziava mostre itineranti sull'arte espressionista astratta, incoraggiava gli scambi culturali, nominava Duke Ellington e Louis Armstrong ambasciatori dell'"American way of life". I privati fornivamo le borse di studio Fullbright, le fondazioni Ford, Carnegie, Rockfeller. Dagli anni `70 quest'interazione si è andata indebolendo, sempre meno giovani di valore intraprendevano carriere pubbliche e sempre più imprese erano restie a stanziare fondi per scopi non di "sponsorizzazione". Con l'amministrazione Clinton il deserto si è fatto ancor più totale, con la convinzione che ormai il mondo ci appartenesse. E adesso siamo ridotti a Bush che pensa di affrontare l'11 settembre in termini pubblicitari e non politicamente».


    il manifesto 11 settembre 2002
    http://www.ilmanifesto.it

  2. #2
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito L'America è un marchio e lotta all'ultimo spot

    L'America è un marchio e lotta all'ultimo spot
    La regina della pubblicità Charlotte Beers dirige il nuovo ministero (dotato di 800 milioni di dollari) che deve «vendere» la politica estera americana e finanzia radio e tv in arabo. La sua filosofia: se il mondo non ci capisce, allora cambiamo messaggio. Ma la merce è rimasta la stessa


    MARCO D'ERAMO

    Se la pubblicità è l'anima del commercio, la propaganda è l'anima della guerra. Lo sanno da sempre gli americani che proprio sulla guerra di propaganda hanno fondato le loro più durature vittorie. E l'11 settembre 2001 è stato - a dir poco - un segnale di odio nei confronti della superpotenza americana, che ha mostrato quanto sia deteriorata l'immagine mondiale degli Stati uniti. Così il presidente George Bush jr. è corso ai ripari e già il 2 ottobre dell'anno scorso, tre settimane dopo l'attacco alle Twin Towers, ha nominato una sottosegretaria alla «diplomazia e agli affari pubblici» con lo specifico compito di «vendere» la politica estera americana. Si chiama Charlotte Beers e ha fatto tutta la sua carriera nel mondo della pubblicità; è stata presidentessa e amministratrice delegata di due tra le 10 più grandi agenzie pubblicitarie del mondo: dal 1988 al 1992, e poi di nuovo dal 1997 al 2001, ha guidato la J. Walter Thomson Worldwide, mentre dal 1992 al 1997 è stata alla testa di Ogilvy & Mather (nel 1992 la rivista Glamour la premiò come una delle «donne dell'anno»); ed è soprannominata «la regina del marchio (branding)». «Il problema del "perché ci odiano" è stato riformulato, per così dire, con "Come riposizioniamo il nostro marchio"», ha scritto sul New York Times Victoria De Grazia, professoressa di storia europea contemporanea alla Columbia University.

    Beers ha ottenuto dal Congresso uno stanziamento di circa 800 milioni di dollari per concentrarsi sulle «popolazioni scontente" soprattutto del Medio oriente. «La pubblicità», mi dice Victoria de Grazia nel salotto del suo spazioso appartamento nell'Upper Westside, «può vendere di più un buon prodotto oppure nascondere i difetti di uno mediocre. Il problema in America è che tutti sono convinti di essere nice guys, "brave persone", e non si capacitano che il mondo non li capisca. Perché in Guatemala o in Cile non sono considerati tali? Il problema è il messaggio - pensano -, non il prodotto: è la campagna pubblicitaria che non va, non la merce. Non sembra sfiorarli l'idea che il problema stia proprio nel prodotto, cioè nella nostra politica estera, e che sia questa la "merce" da modificare», dice con fare concitato e gesti quasi italiani delle mani.

    Ma quale immagine degli Stati uniti sta reclamizzando Charlotte Beers? «Da un certo punto di vista l'amministrazione Bush, di estrema destra, cerca di vendere dell'America la stessa immagine che propongono come modello d'avvenire i teorici postmodernisti di sinistra: una società colma di diversità, di differenze, multiculturale, poliglotta, aperta. Il dipartimento di Beers ha preparato un depliant molto ben fatto di 24 pagine, quattro colori, studiatissimo, in cui l'America appare come una nazione aperta, ospitale, in cui ognuno può essere sé stesso, e che racchiude in sé popoli e umani provenienti da tutta la terra. Il messaggio è "non potete essere contro di noi, perché noi siamo anche voi. L'America non può essere contro il mondo, perché è il mondo"».

    Finora l'iniziativa di maggior peso consiste in radio Sawa (in arabo «insieme»), creatura nata da una costola della vecchia Voice of America (Voa), che il Congresso ha finanziato con 35 milioni di dollari (ma l'amministrazione Bush ha richiesto altri 21,7 milioni per il 2003) e gestita dal produttore di Los Angeles Norman J. Pattiz. Va detto che gli americani non si sono ancora ripresi dal trauma inferto nell'autunno scorso dalla tv satellitare araba Al Jazeera che per la prima volta ha tolto agli Usa il monopolio delle informazioni, lasciando la Cnn inerme e sfiatata. Non per nulla, una richiesta avanzata (ma respinta) lo scorso anno dal segretario di stato Colin Powell al Qatar fu quella di oscurare Al Jazeera. Per farle concorrenza con una tv satellitare, Pattiz chiede al governo Usa 160 milioni di dollari. E radio Sawa ha cominciato ad assumere giornalisti di Al Jazeera, come il marocchino Hussein.

    D'altronde la guerra-radio non ha nulla di nuovo. Joseph Goebbels ne fu un precursore. E nel 1938, ricorda The Economist, la Bbc lanciò il suo notiziario in arabo (il primo dei suoi servizi in lingua straniera) per contrastare l'influenza nazista nel mondo islamico. Negli anni 1950 Gran Bretagna e Francia accusarono Radio Cairo di diffondere il nazionalismo arabo che minacciava i loro interessi. Per tutta la guerra fredda la radio Free Europe (in cui lavoravano esuli da tutto l'est europeo) fu un potente strumento per minare il consenso interno dei paesi comunisti e per far balenare un'immagine agiata e felice del «mondo libero».

    Né dopo l'11 settembre gli Usa sono i soli a essersi imbarcati in trasmissioni rivolte al «nemico», anche se per il momento con esiti mediocri: la tv satellitare israeliana in lingua araba non viene captata nelle capitali arabe perché i governi la oscurano. In ogni caso, osserva The Economist, «gli arabi che la ricevono, avrebbero difficoltà a collocare quelle che gli speaker israeliani chiamano "Giudea e Samaria" e a identificare la "Forza di difesa israeliana", perché loro le conoscono come la "West Bank" e come l'"esercito di occupazione israeliano"». Lo stesso avviene con le emittenti in lingua ebraica varate quest'anno non solo dai governi di Egitto e Siria, ma persino dagli Hezbollah del Libano: tradotti in israeliano, i proclami trasmessi dalla tv satellitare sciita, pieni di martiri e di guerra santa, non possono suscitare simpatia in un pubblico ebraico. Per sormontare questi problemi, a Sawa limitano al massimo le notizie e trasmettono in continuazione accattivante musica leggera americana. Ma pare che i giovani arabi ascoltino la musica e si disinteressino delle notizie: i detrattori di Sawa hanno già trovato un nomignolo: Radio Popaganda (senza la r), con riferimento alla musica pop. Rispetto alle campagne propagandistiche attuali, inoltre, quelle della guerra fredda avevano un altro spessore culturale. Si pensi all'operazione Il dio che è fallito: il libro che i servizi segreti Usa finanziarono nel 1949 perché fosse pubblicato in più di 150 lingue fu scritto dai maggiori narratori europei che erano stati comunisti e che erano usciti dal partito (tra cui André Malraux, Arthur Koestler, Ignazio Silone).

    Sullo stretto terreno pubblicitario, il compito di propagandare l'Alleanza atlantica fu affidato alla Walter J. Thomson (di cui Beers è stata presidente). La Thomson aveva lavorato col governo Usa fin dal 1917, quando, su suggerimento del giornalista George Creel, il presidente Woodrow Wilson aveva creato il Comitato per l'Informazione pubblica che doveva convincere i tedeschi che «la sconfitta era inevitabile» e farli «precipitare nella disperazione». Per la Nato, la J. Walter Thompson fece un buon lavoro. Filmati sull'«alto tenore di vita», villetta unifamiliare, frigorifero, televisione e auto di «Joe Smith, lavoratore medio d'America». Per l'anniversario della Nato furono coniati slogan come «Buona notte, dormi bene, la Nato veglia», oppure « N-A-T-O, quattro lettere per la pace». Furono organizzati recital con Bing Crosby, Frank Sinatra, Harry Belafonte. Hollywood fu messa al lavoro con film sui poveri sovietici che «sceglievano la libertà».

    «Ma rispetto ad allora Bush è in una situazione di totale debolezza, dice Victoria De Grazia. «Per cominciare, Belafonte e Sinatra trovavano tanto più ascolto quanto il pubblico riceveva gli aiuti del piano Marshall, tre miliardi di dollari, una cifra strabiliante per l'epoca. Oggi invece Bush fa propaganda senza piano Marshall. Inoltre, per un secolo gli Stati uniti hanno avuto una tradizione di un efficiente apparato pubblico che collaborava strettamente con le imprese private, con un'idea della missione degli Usa nel mondo. Il Dipartimento di stato finanziava mostre itineranti sull'arte espressionista astratta, incoraggiava gli scambi culturali, nominava Duke Ellington e Louis Armstrong ambasciatori dell'"American way of life". I privati fornivamo le borse di studio Fullbright, le fondazioni Ford, Carnegie, Rockfeller. Dagli anni `70 quest'interazione si è andata indebolendo, sempre meno giovani di valore intraprendevano carriere pubbliche e sempre più imprese erano restie a stanziare fondi per scopi non di "sponsorizzazione". Con l'amministrazione Clinton il deserto si è fatto ancor più totale, con la convinzione che ormai il mondo ci appartenesse. E adesso siamo ridotti a Bush che pensa di affrontare l'11 settembre in termini pubblicitari e non politicamente».


    il manifesto 11 settembre 2002
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  3. #3
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    Non vedo dove sia il problema.

    Tissi fanno propaganda, e adesso la colpa degli Stati Uniti sarebbe quella di farla pure loro?

    E poi, parlano quelli del Manifesto, che è solo un foglio di propaganda...

  4. #4
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    Non vedo dove sia il problema.

    Tissi fanno propaganda, e adesso la colpa degli Stati Uniti sarebbe quella di farla pure loro?

    E poi, parlano quelli del Manifesto, che è solo un foglio di propaganda...

 

 

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