La lezione delle Torri e gli errori degli Usa
di BENJAMIN BARBER
A UN anno di distanza dal devastante attacco al simbolo dell'egemonia militare americana, il Pentagono, e ai templi gemelli del capitalismo, il World Trade Center, gli americani si trovano di fronte ad un'irritante ironia: tutto è cambiato, ma nulla è cambiato davvero.
Tutto è cambiato per coloro che guardano oltre le permeabili frontiere degli Usa: l'interdipendenza ha sostituito l'indipendenza, la sovranità politica nazionale ha ceduto il passo alla sovranità economica globale, e l'ineluttabilità di soluzioni sociali ed economiche collettive ha rimpiazzato l'efficienza di soluzioni militari ad opera di un'unica nazione. Sfortunatamente, per coloro che non riescono ancora a guardare al di là del fiume Potomac - e tra questi sono compresi molti che fan parte dell'amministrazione Bush - non è cambiato nulla: ci pensiamo noi, lo imporremo noi, lasciamo perdere il nascente sistema civile e giuridico internazionale, riconfermiamo l'egemonia americana, come se fosse ancora il 1954.
Quest'ironia costituisce un vero dilemma, sia per gli americani più raziocinanti, sia per gli amici e gli alleati degli Stati Uniti che in tutto il mondo intendono sradicare il terrorismo. Sebbene vi sia un vasto e opportuno consenso nei confronti delle problematiche del Terzo Mondo e delle poste in gioco quando si ha a che fare con l'Islam, c'è ben poca tolleranza ovunque per il terrorismo inteso come strumento di giustizia e di rimediazione. Come dimostra la coalizione formatasi all'indomani dell'11 settembre, nazioni non sempre inclini ad approvare le azioni militari americane hanno tuttavia prontamente appoggiato l'opzione militare contro l'Afghanistan dei Taliban, così come hanno appoggiato e preso parte ad un'efficace campagna politica e delle intelligence contro il terrorismo in tutto il mondo. Ma la premessa fondamentale era che l'azione militare e l'azione politica dovessero essere soltanto il primo passo di una più complessa campagna atta a rispondere alle sfide della globalizzazione. Quello cui si era chiamati era una risposta al terrorismo vero e proprio e una risposta all'ambiente globale che ha alimentato il terrorismo. Perché quello specifico ambiente, fatto di ineguaglianze, predominio economico, aggressivo e secolare materialismo, era chiaramente destabilizzante per i paesi in via di sviluppo, e troppo spesso faceva sembrare ad altri che quella che noi definiamo lotta per la democrazia fosse in realtà una battaglia per l'occidentalizzazione e l'egemonia culturale.
Nel periodo immediatamente seguente l'11 settembre, il presidente Bush fece sfoggio di una più che comprensibile retorica del "male" per condannare i malvagi esecutori di un simile attentato e per tenere unita la traumatizzata nazione americana. Ma l'ineluttabile retorica di un giorno si è immediatamente trasformata nell'espressione permanente di una politica estera ispirata a un moralismo farisaico e all'unilateralismo. In realtà, dire al mondo che chi non è con noi è contro di noi - senza accettare alcuna posizione intermedia - non favorisce la cooperazione, bensì evoca la posizione dei grandi guerrieri di un tempo, quelli della guerra fredda, come John Foster Dullas e il senatore Joe McCarthy.
Insomma, se per gran parte degli americani è tutto cambiato, per George Bush è cambiato troppo poco. Egli continua a reagire alle sfide dell'11 settembre ignorandone le più ovvie lezioni.
Gli avvenimenti dell'11 settembre hanno trasformato un'interdipendenza virtuale in un'inconfutabile e tangibile realtà. I brutali metodi terroristici di Al Qaeda hanno impartito alcune dure lezioni: che la potenza militare americana non è nemmeno in grado di difendere il proprio quartiere generale in patria; che la tanto decantata economia americana può essere sconvolta da un singolo, per quanto catastrofico, evento terroristico; che l'America è maggiormente vulnerabile dal suo "interno" che dal di fuori, tanto sopra quanto sotto; che "i confini della sovranità" non sono più rilevanti; che il nemico può avere successo, nonostante la propria inferiorità, ricorrendo alle stesse forze dell'America, ai suoi oggetti, alle sue istituzioni come fossero armi terroristiche gli aerei americani, i sistemi finanziari americani e i sistemi di credito americani, le istituzioni americane scolastiche e di addestramento, i passaporti americani e le carte verdi americane.
L'ironia più irritante di questo anniversario dell'11 settembre è costituita dal fatto che forse i terroristi hanno una migliore comprensione del significato di interdipendenza di quanto l'abbiano gli Usa. Sanno perfettamente di essere parte di un'infrastruttura internazionale che nessuna nazione può controllare da sola per quanto potente possa essere. Sanno perfettamente di non correre particolari rischi perché i paesi nemici "ospiti", che loro sfruttano, sono già stati attaccati e distrutti; perché i terroristi hanno strutture mutevoli, mobili e flessibili cui non occorre necessariamente una particolare nazione di riferimento. Possono annidarsi presso e tra i loro nemici (in Pakistan o in Egitto, in Germania o in Florida). Se li si sradica dall'Afghanistan, compariranno in Indonesia, o in Sudan o nelle Filippine; oppure terranno per qualche tempo un basso profilo, mescolandosi nei bassifondi di popoli della stessa etnia (come stanno facendo i sopravvissuti Taliban in Afghanistan) o sfrutteranno il multiculturalismo dei loro nemici (come forse stanno facendo gli immigranti o i lavoratori stranieri a Marsiglia o a New York).
Interdipendenza significa che il terrorismo non può essere decapitato: perché è un sistema il cui tessuto connettivo è più importante delle singole cellule di cui è formato. Perché per ogni terrorista catturato o ucciso, ce ne sono dozzine che aspettano dietro le quinte, e la morte di quello davanti sarà solo un ulteriore incentivo per quello a cui tocca. Forse gli orrori in Palestina non sono serviti a nient'altro, ma almeno questo l'hanno fatto capire.
La scusa della sovranità alla quale fa appello Bush è giù stata tradita, da molto tempo, dal virus dell'Hiv, dal riscaldamento del pianeta, dall'emigrazione, da Mtv, dal mercato globale, dall'immigrazione, dalle pellicole di Hollywood, dal libero movimento dei capitali della finanza accanto a quelli della droga, del petrolio e del crimine.
Gli Usa non riescono a capire che i trattati internazionali che non firmeranno, la Corte Internazionale che non riconosceranno, il sistema dell'Onu che non appoggeranno, sono tutti sforzi volti a sviluppare un nuovo contratto sociale globale che possa controbilanciare l'anarchia della globalizzazione sulla quale puntano sia i rapaci terroristi sia gli operatori della tentacolare finanza. Che gli americani non tengano in nessun conto questi sforzi equivale a tradire una strategia che esalta l'anarchia globale nel nome della protezione della sovranità nazionale.
Essere soli non equivale più ad essere forti. Agire da soli non è più segno di sovranità, ma di impotenza. La nuova e ineluttabile realtà è quella dell'interdipendenza, e le nazioni veramente forti sanno che il loro potere è rafforzato e non impoverito dalla cooperazione e dall'intesa comune. I diritti dei popoli non sono più assicurati da ogni singola nazione: tutti godranno dei loro diritti, oppure non ne godrà nessuno. Questa è stata l'ultima lezione che l'Europa ha imparato, a caro prezzo, nel secolo scorso: e oggi in Europa soltanto un'esigua minoranza di anacronistici nazionalisti in alcune zone della Francia, della Germania e dell'Italia può ancora credere che le loro nazioni sarebbero più forti fuori dell'Europa che dentro di essa.
Riconoscere l'interdipendenza significa legittimare il carattere sistemico della sfida al terrorismo e il carattere necessariamente sistemico e cooperativo di reazioni efficaci. Significa accettare il fatto che il terrorismo, per quanto malvagio, ha radici in un più vasto contesto globale di interdipendenza. Significa comprendere che le madrasas, che incitano all'odio in Afghanistan, in Egitto, in Pakistan e altrove, prosperano perché esistono pochissime scuole pubbliche alternative. Significa capire che i leader del terrorismo, al pari di altri rivoluzionari tradizionali, possono anche aver ricevuto un'educazione, ma parlano a beneficio, e in funzione, della rabbia e della disperazione degli ignoranti e di coloro che non godono dei diritti civili. Significa constatare che è più conveniente educare un bambino e dargli un lavoro remunerativo quando sarà cresciuto, piuttosto che dare la caccia al bambino cresciuto diventato terrorista che non ha né educazione né un lavoro, o troppa educazione e poche opportunità di tenere un posto di lavoro o di essere un cittadino in senso pieno. Significa comprendere che per far tacere l'estremismo occorre un genuino pluralismo globale, occorre un'adeguata apertura ai molti aspetti della religione e della fede.
Il dilemma di questa nuova epoca dell'interdipendenza consiste nella risposta da dare ad una donna musulmana che teme sia che suo figlio resti emarginato dal miracolo dell'odierna economia globale e muoia in povertà e nella vergogna, sia che suo figlio possa invece essere coinvolto nel miracolo dell'odierna economia mondiale e viva nella corruzione morale e nel degrado dello spirito. I terroristi hanno saputo creare un business abilmente, manovrando negli interstizi di questo stridente dilemma, nel quale la disperazione di esserne emarginati (le ingiustizie globali di McWorld) si mescola alla rabbia di esserne soggiogati (l'imperialismo culturale di McWorld).
La leadership americana, essenziale per dare adeguata risposta a queste contraddizioni che costituiscono il fertile terreno della violenza, esige l'interdipendenza americana, la partnership americana, il multilateralismo americano. La sovranità che abbiamo perduto all'interno del vecchio e disfunzionale sistema statale delle nazioni, può essere resuscitato soltanto in una nuova società civile globale, nella quale gli Usa mettano in comune le loro forze e le loro prerogative con gli alleati e gli amici che essi aiutarono a far nascere, una nuova società civile globale nella quale dividano i loro doni e la loro fortuna con coloro a dispetto dei quali li hanno ottenuti. Questa è la vera lezione dell'11 settembre.
L'asse del male sarà vinto soltanto quando si spezzerà l'asse dell'ineguaglianza. E, in definitiva, l'America vincerà solo se ovunque trionferà la democrazia.
(Traduzione Anna Bissanti)
L'autore, ex consigliere del presidente Bill Clinton, insegna all'università del Maryland. Ha scritto una quindicina di saggi, tra cui "Jihad contro McWorld"
Repubblica (7 settembre 2002)