Negli Stati Uniti, gli immigrati (clandestini inclusi) costituiscono circa il 10,3 per cento della popolazione; in Germania l’8,9; in Francia il 5,6; ma solo il 2,2 in Italia. Difficile ipotizzare che i flussi migratori verso il nostro Paese non aumentino nei prossimi anni. Invece di schierarsi in battaglie demagogiche pro o contro gli immigrati, concentrandosi sui clandestini, che rappresentano solo uno degli aspetti della questione, sarebbe meglio valutare pragmaticamente le politiche più adatte a gestire il problema.
In questo senso, l’esperienza di altri Paesi suggerisce come sia possibile trasformare l'immigrazione in una risorsa. Quella americana degli ultimi vent’anni è molto istruttiva: l’immigrazione ha fatto registrare un’impennata, toccando una media di circa 1,2 milioni immigranti l’anno, tra regolari e clandestini. Un flusso imponente paragonabile per dimensioni a quello più famoso di inizio Novecento.
Questa nuova ondata migratoria ha dato un contributo significativo alla straordinaria crescita economica del periodo: si può stimare che gli immigrati abbiano contribuito con lo 0,22% al 3,3% di aumento medio annuo del prodotto interno lordo americano (in Italia è stato mediamente l'1,8%). Le politiche adottate negli Stati Uniti hanno ottenuto il risultato di un'immigrazione molto eterogenea, con una componente altamente qualificata: la probabilità che un immigrato sia laureato è maggiore che per l'americano medio; anche se gli immigrati rappresentano il 30% dei lavoratori con un basso livello di istruzione.
Così, tra gli immigrati, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è superiore a quella della popolazione nativa (già elevata, per gli standard europei).
Quattro i benefici di un'immigrazione con queste caratteristiche. In assenza di immigrati la produttività dei nativi dovrebbe aumentare molto più rapidamente (e maggiore sarebbe il capitale di cui bisognerebbe dotarli) per far crescere il reddito nazionale e sostenere il numero crescente di pensionati. Un problema sempre più acuto, soprattutto in Europa, dove la popolazione invecchia rapidamente e la forza lavoro si contrae. L'offerta di lavoratori immigrati senza qualifiche evita un eccesso di domanda nei settori a bassa specializzazione, calmierando il costo dei beni prodotti, soprattutto nei settori dove la concorrenza è scarsa (terziario, servizi).
Gli immigranti in possesso di qualifiche elevate, invece, aumentano rapidamente lo stock di capitale umano del Paese che, altrimenti, richiederebbe tempi lunghi di accumulazione. Inoltre, la pressione degli immigrati qualificati stimola i lavoratori nativi a investire in educazione: non è un caso che negli ultimi 10 anni la percentuale di giovani americani (da 25 a 29 anni) con una laurea sia salita dal 23% al 29%; in Italia è ferma al 10%.
L'esperienza americana suggerisce un indirizzo alle politiche sull'immigrazione. I flussi migratori devono essere pianificati, fissando espliciti obiettivi pluriennali per il numero di ingressi, costringendo così il Paese a una scelta razionale, coerente con le sue esigenze economiche e con la capacità di assorbimento (per esempio, la densità della popolazione italiana rende impensabili tassi di immigrazione a livelli americani). Ma i controlli alle frontiere devono assicurare che gli obiettivi siano credibili. Visti e permessi di soggiorno devono essere diversificati per durata e caratteristiche, in funzione di professionalità, area di provenienza e settore d'impiego del richiedente (gli Usa trattano diversamente un analfabeta del Benin e un programmatore indiano). La politica dell'immigrazione deve essere attiva, agendo preventivamente nei Paesi di origine, anche con incentivi mirati; non deve cominciare alla frontiera.
Il mercato del lavoro regolare deve essere liberalizzato per tutti gli immigrati, facilitandone l'inserimento. Non avendo le capacità tecnologiche degli Stati Uniti, che calamitano le migliori professionalità nel mondo, l'Italia dovrebbe individuare nicchie in cui può essere competitiva, e attirare immigrazione qualificata. In questo, l'università dovrebbe avere un ruolo fondamentale: negli Stati Uniti, molti immigrati qualificati entrano per la prima volta come studenti; ma quella italiana brilla per la scarsa competitività nel panorama internazionale. Un sistema universitario più concorrenziale dovrebbe essere un elemento chiave della politica dell'immigrazione. La miglior prova dello scarso valore del nostro sistema educativo è la modestia dell'investimento degli italiani in capitale umano. E fra quelli che investono, troppi percepiscono ancora l'università come un percorso necessario per accedere a una rendita di posizione (accesso agli albi professionali, carriera nella pubblica amministrazione, miglioramento dello stipendio contrattuale).
L'esperienza americana insegna anche che, per quanto una politica dell'immigrazione possa avere successo, i suoi effetti benefici non sono permanenti: persistono il tempo necessario perché l'immigrato si assimili al nativo. Un processo che può durare anche trent'anni: in ogni caso, troppo poco per sperare che l'immigrazione basti a rendere sostenibile il sistema pensionistico. Le riforme vanno fatte comunque.

di ALESSANDRO PENATI e ALDO RUSTICHINI
Corriere della Sera 28 agosto 2002