L'Unione Sovietica poteva andare fiera del proprio sistema sanitario. Oggi è il disastro
Il dottor Zivago non abita più qui


Sabina Morandi

Se c'era una cosa di cui poteva andare fiera l'Unione Sovietica era il suo sistema sanitario. Con una serie di coraggiosi piani quinquennali decisi da Mosca, i sovietici guadagnarono una vittoria dopo l'altra contro malattie ed epidemie. Nel 1970 la Russia aveva innalzato l'aspettativa di vita, che prima della rivoluzione era di trentotto anni per gli uomini e quarantatré per le donne, fino a sessantacinque e settantaquattro anni. La mortalità infantile era passata da 250 morti ogni mille nati nel 1917, a 20 nel 1970.
Il successo era stato edificato sui metodi autoritari del periodo staliniano - metodi molto efficienti sia per combattere le malattie infettive che per reprimere "patologie sociali" come l'alcolismo o il dissenso politico - e, in seguito, sulla pianificazione di uno dei sistemi sanitari più efficienti che il mondo abbia mai conosciuto. L'Unione Sovietica vantava infatti di avere più dottori, infermieri e posti in ospedale pro capite di ogni altro paese. E' con questa realtà - che già era andata degenerando dagli anni '70 agli '80 - che bisogna paragonare il disastro di oggi, un disastro sanitario che si è prodotto in appena un anno dal collasso dell'Urss.

Epidemie

Nel 1991 si sono susseguite le epidemie di difterite (200 mila infettati, 5 mila morti), polio ed epatite in tutte le repubbliche dell'ex Unione Sovietica. Nel 1995 l'influenza è stata così violenta che il governo ucraino ha dovuto chiudere per una settimana. Nel '96 il tifo ha colpito il Tagikistan mentre San Pietroburgo combatteva contro il colera e la dissenteria. L'Aids è cresciuto in modo esponenziale, con 20 mila nuovi casi in Ucraina solo nel 2001, mentre la tubercolosi, la sifilide e la gonorrea seguivano a ruota. Alcolismo, tossicodipendenza e una quantità mai registrata altrove di suicidi nel '95 hanno toccato cifre che, secondo gli standard internazionali, sono da considerarsi vere e proprie epidemie.

Solo fra il '92 e il '93, l'aspettativa di vita è scesa di tre anni. In appena otto anni dalla dissoluzione dello stato sovietico, il più grande progetto di assistenza sanitaria che l'umanità abbia mai costruito, si era già dissolto nel caos. Tutti gli operatori sanitari hanno visto ridurre e poi sparire i loro stipendi, e hanno cominciato a prestare servizio a pagamento in ospedali diventati ormai fatiscenti: senza riscaldamento, con acqua corrente razionata, privi di qualsivoglia fornitura medica e, talvolta, della stessa corrente elettrica. Ogni sussidio alla ricerca è stato praticamente interrotto dal '93, cosa che ha di fatto messo fine al lavoro degli epidemiologi addetti al monitoraggio della salute. Da qualche anno non c'è più nessuno che possa fornire una stima affidabile del disastro sanitario in corso.

Nessun paese ha mai subito un così drastico cambiamento in tempo di pace. Basandosi sui successi degli anni '70, i ricercatori prevedevano che, nella sola Russia, ci sarebbe stata una popolazione di 160 milioni entro il 2000. Oggi, dopo dieci anni di crisi sanitaria, ci si aspetta di raggiungere 120 milioni di abitanti nel 2010, ovvero il livello più basso dai tempi della rivoluzione. Ma anche questi pronostici potrebbero rivelarsi ottimistici. E' vero che nel '99 gli omicidi si sono ridotti, ma le morti premature sono continuate e per il 2050 si stima una popolazione fra gli 80 e i 90 milioni, ovvero il numero più basso in oltre due secoli.

Ma i russi non si limitano a morire. Le durissime condizioni economiche e la totale assenza di ammortizzatori sociali, spingono la gente a fare scelte drastiche in materia di figli, invertendo così il rapporto fra nati e morti. Nel 1992 il tasso di mortalità era di 1,6 volte più alto del tasso di natalità, con almeno tre milioni di giovani deceduti come diretta conseguenza della crisi del sistema sanitario, ovvero dieci volte il numero dei ragazzi morti in Afghanistan e nelle guerre cecene messi insieme. Se la situazione non dovesse cambiare solo il 54 per cento dei sedicenni di oggi potrebbe arrivare alla pensione.

E' il mercato bellezza!

La disintegrazione sociale colpisce ancora più duramente una popolazione che per generazioni è stata abituata a contare sullo Stato, sia materialmente che psicologicamente. In Russia, da un mese all'altro, intere città sono state lasciate senza lavoro, e quindi senza tutto ciò a cui il lavoro dava diritto: la casa, il cibo, l'assistenza medica. L'alcolismo, da sempre endemico nella società russa, è esploso a livelli inimmaginabili con tutte le conseguenze che solitamente comporta: violenza familiare, abusi, omicidi, suicidi, malattie e morti causate non soltanto dalle tipiche patologie dell'alcolismo, come la cirrosi epatica, ma da vere e proprie epidemie di avvelenamenti dovuti alla bassissima qualità dei prodotti più a buon mercato. Non è raro che i russi si trovino a bere, al posto della vodka, metanolo o addirittura combustibile per aerei.

L'alcolismo, insieme alla dissoluzione di qualsiasi vincolo sociale, hanno dato luogo a due fenomeni che in Russia si registrano con un'intensità mai vista altrove: i suicidi e gli abbandoni infantili. Eserciti di bambini abbandonati o fuggiti da nuclei familiari particolarmente disturbati popolano le metropoli russe e vivono per strada come i bambini brasiliani, ma con due aggravanti: il loro numero, che fa impallidire le cifre record registrate a San Paolo o a Rio, e i rigori dell'inverno russo, durante il quale vivere per strada equivale a una condanna a morte.

La calata dei microbi

Negli ultimi dieci anni l'Occidente se ne è stato tranquillamente a guardare mentre la brusca transizione al mercato mieteva migliaia di vittime. Da un anno all'altro milioni di persone si sono trovate prive di stipendio, di casa e di cure mediche in un paese dove d'inverno il termometro scende di decine di gradi sotto lo zero. Anche se le conseguenze erano facilmente immaginabili, nessuno, nemmeno l'Organizzazione mondiale della sanità, ha emesso un fiato per segnalare la grave crisi sanitaria che si andava profilando. Perché oggi se ne comincia a parlare?

In primo luogo, a transizione avvenuta, non c'è più il rischio di disturbare il manovratore con inutili appelli alla prudenza - autorevoli analisti sono concordi nell'affermare che sarebbe bastato predisporre degli ammortizzatori sociali sul modello occidentale - ma, soprattutto, appare evidente che il dissesto sanitario non conosce confini. Le Repubbliche dell'ex-Unione Sovietica stanno diventando una fabbrica a cielo aperto di epidemie e batteri antibiotico-resistenti, esportati a flusso continuo attraverso le frontiere. Impossibile, nel villaggio globale, lasciare che il primo esperimento di rivoluzione capitalista violenta segua il suo corso. I disperati fuggono dalle città fantasma dell'industrializzazione forzata, dove le fabbriche sono state chiuse e il cibo non arriva più, e si riversano in Occidente portando con sé il loro carico di malattie non curate o, peggio, curate male. Così l'Occidente si riscopre filantropico e progetta di correre ai ripari.

In fondo è solo una ripetizione - in chiave terribilmente accelerata - del fenomeno che alla fine della rivoluzione industriale portò alla nascita dei sistemi sanitari moderni. Quando cioè i ricchi borghesi scoprirono che la tubercolosi, il colera e il tifo non volevano saperne di restarsene confinati nei ghetti degli operai o dei minatori.

Liberazione 28 luglio 2002
http://www.liberazione.it