Aloni: "Distruggere case non è un atto di difesa"


Secondo Shulamit Aloni, una delle fondatrici di Peace Now più volte ministra nei governi Rabin e Peres: "Sharon è un pericolo non solo per la pace ma per la democrazia stessa di Israele".
di Umberto De Giovannangeli

"Inorridisco quando sento parlare della distruzione di case come di un atto difensivo, indispensabile nella lotta contro il terrorismo. No, non è così. Dobbiamo avere il coraggio di dire chiaramente che questa pratica rappresenta un vero e proprio crimine di guerra. Contro cui dobbiamo ribellarci, prima che sia troppo tardi". L'Israele del dialogo si riflette nelle parole, cariche di indignazione, di Shulamit Aloni, una delle fondatrici di "Peace Now", più volte ministra nei governi Rabin e Peres: "Sharon - sottolinea Aloni - è un pericolo non solo per la pace ma per la democrazia stessa di Israele".

Israele ha giustificato la demolizione delle case a Rafah come atto di difesa dopo l'attacco al fortino compiuto dai guerriglieri di Hamas che è costato la vita a 4 soldati israeliani.

"Quelle demolizioni non hanno nulla di difensivo né servono in alcun modo a debellare il terrorismo. Si è trattato di un crimine di guerra, di un atto di vendetta che non ha giustificazione alcuna. Sharon e i suoi generali guerrafondai hanno preso in ostaggio la popolazione civile palestinese. E contro questa pratica aberrante occorre una rivolta morale oltre che una denuncia politica continua. E invece..."

Invece?

"Invece qualcuno continua, anche nella Comunità internazionale, a ritenere che la distruzione di abitazioni o le punizioni collettive inflitte ai civili palestinesi siano il "male minore". Minore rispetto a cosa? A bombardamenti a tappeto che provocherebbero un bagno di sangue? E' questo che attendiamo per sollevarci contro una politica avventurista? Sharon sta trascinando Israele nel baratro di una nuova guerra in Medio Oriente. Chiudere gli occhi di fronte a questa realtà è da irresponsabili. O da complici. Ed io non voglio esserlo".

Ma Sharon sembra avere dietro di sé la maggioranza dell'opinione pubblica israeliana.

"Se anche fosse, ma non ne sarei così sicura, ciò non giustificherebbe il silenzio o la subalternità da parte di quanti, a sinistra, si rifiutano di avallare una politica muscolare, priva di qualsiasi strategia di pace. La forza di Sharon è anche nei balbettii di una parte della sinistra, di chi si è ritagliato il ruolo di "moderatore" dei falchi. Un ruolo subalterno, privo di spessore. Sharon è quello di sempre: un generale che pensa di poter risolvere la questione palestinese per via militare. Una follia, che costerà cara a Israele".

Ciò significa assolvere Arafat?

"No, significa comprendere che lo smantellamento degli insediamenti, l'apertura ad uno Stato palestinese, una cosovranità su Gerusalemme, il miglioramento delle condizioni di vita nei Territori, non sono concessioni fatte ad un nemico ma atti che salvaguardano il bene più prezioso di Israele: la sua democrazia. Un Paese che protrae all'infinito il suo ruolo di oppressore verso un altro popolo è destinato, inevitabilmente, a trasformarsi in regime che nel nome del "Nemico" contro cui far fronte, giustifica ogni abuso e arbitrio. Un regime che tratterà da traditore chiunque oserà metterne in discussione i comportamenti".

Sharon come un pericolo per la democrazia?

"Non è una scoperta. A definirlo come tale sono stati in passati, leader che lo hanno conosciuto molto bene, come Golda Meir e Menachem Begin, che certo non possono essere tacciati di filoarabismo".

Cosa teme di più oggi per Israele?

"La "cloroformizzazione" delle coscienze, il venir meno di quel sentimento di indignazione che nei giorni terribili dell'invasione del Libano portò 400mila persone a manifestare a Tel Aviv. La società israeliana ha al suo interno risorse democratiche straordinarie. Vanno attivate subito, perché oggi viviamo davvero una situazione di emergenza. La nostra sicurezza e il futuro del Paese non possono essere delegate ai vari Mofaz (il capo di stato maggiore dell'esercito israeliano, ndr.) che pensano di poter risolvere il problema-palestinese, annientando l'Anp e umiliando Arafat".

Vorrei tornare sulle case abbattute di Rafah. Crimine di guerra è un'accusa pesantissima.

"Lo stesso Shimon Peres recentemente, in un'intervista a un quotidiano di Tel Aviv, aveva avvertito che, proseguendo nelle punizioni collettive o estendendo le cosiddette eliminazioni mirate, Israele rischiava di finire davanti a una qualche Corte internazionale per crimini di guerra. Ecco, io credo che quel momento si stia avvicinando. E io non voglio che ciò accada, sarebbe un affronto intollerabile, un oltraggio alla memoria dei tanti che hanno dato la loro vita non solo per la sicurezza di Israele ma anche per la difesa della sua essenza democratica".

Israele vive nell'angoscia di nuovi attentati suicidi.

"Un'angoscia che certo non mi è estranea. Ma il punto è: come combatterla? Militarizzando ogni angolo del Paese, perpetuando l'assedio dei Territori palestinesi, eliminando Arafat? O magari dando vita ad una nuova rioccupazione di Gaza e della Cisgiordania? Tutto ciò provocherà solo nuova violenza, rafforzerà le fila dei nemici di Israele e della pace. No, la parola deve tornare alla politica. E al dialogo. L'arma vincente contro i seminatori di odio e di morte".

E' un messaggio rivolto anche agli Stati Uniti?

"Non è difendendo sempre e comunque Israele che si fa il bene del mio Paese. A George W.Bush vorrei ricordare che suo padre seppe opporre un secco no alla richiesta dell'allora premier israeliano Yitzhak Shamir di miliardi di dollari di aiuti. L'allora presidente Bush rifiutò perché Sharon non volle bloccare la costruzione di nuovi insediamenti nei territori occupati. Quel no aprì la strada alla vittoria elettorale di Rabin e alla stagione del dialogo. Ecco, spero che George W.Bush sappia dire, per il bene della pace, un no altrettanto secco all'avventurismo di Ariel Sharon".

(14 GENNAIO 2002, ORE 117)