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  1. #1
    Sardista po s'Indipendentzia
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    Predefinito QUADERNI SARDISTI. “Brevi cenni di storia della Sardegna e del sardismo”. Marzo 1981

    Anche per venire incontro alla richiesta di Alberich (moderatore del forum Movimento Repubblicani Europei, che ringrazio) nel 3d di benvenuto, e per soddisfare in parte la necessità di far conoscere il “pensiero sardista” a chi si sta affacciando da poco alla politica in Sardegna, tra le tante pubblicazioni sulla storia e ideologia del PSd’A., ho ritrovato quelle dei primi due “QUADERNI SARDISTI” a cura della Federazione Distrettuale di Sassari, risalenti ai primi anni ’80, che sono sufficientemente esaustivi e relativamente sintetici da poter essere riportati.
    In attesa che il Partito abbia un proprio sito internet ufficiale, in cui trovare i propri documenti storici.

    Si tratta di:
    Anno I – n. 1: “Brevi cenni di storia della Sardegna e del sardismo”. Marzo 1981;
    Anno II – n. 2: “Contributi alla conoscenza della dottrina del sardismo e delle sue finalità”. Marzo 1982.

    Pur essendo datati, mantengono intatta l’efficacia dei concetti e, come si potrà notare, tutta la carica preveggente di ciò che ancora oggi, a distanza di 25 anni si dibatte.
    Non ho inserito le foto, riguardanti scene di vita in Sardegna, che avrebbero potuto far “respirare” il testo, perché sarebbe stata una operazione lunga.
    Proverò quindi a riportarli in “3d” separati.
    Consiglierei di stampare i testi, per renderne più agevole la lettura.

    Per la storia del Partito Sardo d’Azione dal 1919 al 1968, segnalo i due volumi di Salvatore Cubeddu: “Sardisti” (Viaggio nel Partito Sardo d’Azione tra cronaca e storia), pubblicati dalla EDES, per la Fondazione Sardinia.

  2. #2
    Sardista po s'Indipendentzia
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    Marzo 1981

    EDITORIALE

    Nuovi stati d'animo, nuovi atteggiamenti e comportamenti, nuove tensioni, nuove e più attente meditazioni stanno via via emergendo all'interno della Società Sarda.
    Gli effetti di una crisi profonda che sta lacerando inesorabilmente il tessuto sociale, le sconcertanti lezioni di malcostume che, a ritmo sempre più incalzante ci vengono proposte dalla classe dirigente preposta al governo della cosa pubblica, le brucianti delusioni sofferte per il fallimento degli esaltati Piani di Rinascita, la paralisi delle attività economiche, la emigrazione inarrestabile, la disoccupazione dilagante, sono tutti episodi che non possono passare inosservati davanti agli occhi della pubblica opinione. Perciò si stanno avvertendo dovunque sintomi di un diffuso malessere, che stimola, soprattutto nelle persone più attente, la volontà di pervenire ad una ponderata pausa di riflessione al fine di poter esprimere un sereno giudizio, sul ruolo, non certo positivo, finora svolto dai partiti politici nazionali (italiani), in favore della « Questione Sarda ».
    I cittadini, è evidente, vogliono uscire dal labirinto delle vacue promesse, vogliono abbandonare la strada degli incubi e delle attese, quella delle falsità e delle prevaricazioni, della dipendenza e della subordinazione, strade che ci rendono impotenti e che ci privano del diritto di scegliere e dirigere il nostro destino.
    Ecco perché si va scoprendo, sempre più insistente, la volontà di individuare nuovi strumenti istituzionali, di stabilire nuovi rapporti costituzionali, prefigurare insomma, traguardi di autonomia molto più avanzati e comunque più consoni alle singolari caratteristiche del nostro territorio, più consoni alle peculiari ragioni storiche, culturali, etniche del nostro popolo.
    I giovani in particolare, e questo è un dato profondamente significativo, si muovono alla ricerca di nuovi spazi politico-culturali, perché sentono vivo, il bisogno di maturare una coscienza politica adeguata alle esigenze dei momento, educata e preparata in funzione delle attuali esigenze di lotta. Da questi giovani appunto, ci viene rivolta oggi, una pressante e sincera richiesta di Sardismo. I Giovani, evidentemente, incominciano a capire che la rinascita della Sardegna, la soluzione della « Questione Sarda », l’elevazione della condizione sociale ed economica del Popolo Sardo, mai potranno verificarsi finché si sceglie di seguire la strada indicata dai partiti italiani i quali, nel rispetto della disciplina che a loro viene imposta dalle superiori centrali nazionali (italiane), sono mobilitati al servizio e per la difesa prioritaria di altri interessi primari, a volte in netto contrasto con quelli sardi.
    Ciascun sardo, lo sì voglia capire o meno, è o può diventare un responsabile dei mali e delle storture che affliggono la nostra terra. E’ o può diventare un responsabile nella misura in cui non ha saputo o non saprà scegliere la via giusta, nella misura in cui non ha saputo o non saprà centrare le proprie energie, ai finì della lotta per la liberazione, nella giusta collocazione politica.
    Non sono pochi - e lo dimostrano le più recenti esperienze elettorali - quelli che via via offrono la loro adesione alla nostra causa, la loro disponibilità nella lotta Sardista e ci chiedono, ovviamente, di avere notizie più dettagliate su ciò che il Sardismo e il Partito Sardo d'Azione hanno rappresentato in Sardegna nel passato e verso quali obiettivi e attraverso quale azione intendono muoversi per il divenire.
    Noi abbiamo recepito puntualmente le richieste che ci sono state rivolte da questi giovani, coraggiosi e volenterosi, e ci accingiamo a soddisfare le loro esigenze. Vogliamo che essi sappiano che, il Sardismo, il Partito Sardo d'Azione, non sono una invenzione campanilistica né una concezione retorica astratta e superata, come amano definirli alcuni avversari, ma sono una realtà storica, politica e culturale saldamente radicata, una forza prorompente, collaudata e più che mai decisa a guidare la battaglia per il riscatto del Popolo Sardo.
    A queste richieste, alla esigenza di conoscere meglio la dottrina e la cultura del Sardismo, noi intendiamo rispondere mediante la diffusione periodica di una serie di « Quaderni » che verranno riprodotti a cura e per iniziativa della Federazione Distrettuale di Sassari.

    ANTONIO MURA

    PREMESSA

    Riprendiamo la pubblicazione dei « quaderni » di informazione sardista, già patrimonio dei partito in diverse occasioni. La crescita del partito e del movimento sardista in generale ci pone di fronte a delle maggiori responsabilità organizzative di preparazione dei militanti e simpatizzanti.
    Ci prefiggiamo pertanto di fornire del materiale per il dibattito, degli stimoli per la valutazione della realtà sarda, in quanto sinora il settore dell'informazione è stato in gran parte patrimonio dei nostri colonizzatori.
    Il Popolo sardo, per poter esercitare il diritto di autodecisione sul proprio destino, raggiungere l'indipendenza e la libertà da qualsiasi vincolo coloniale e poter vincere nelle lotte politiche quotidiane, deve raggiungere una conoscenza profonda della propria realtà, dei propri problemi e dei propri obiettivi. Questi sono in sintesi i motivi che ci hanno spinto alla compilazione di questi quaderni.
    In questo primo numero vogliamo tracciare alcune tappe della storia del popolo sardo, senza pretese di completezza o di analisi approfondite, ma sicuramente cercando di esprimerle nel modo più semplice possibile. La nostra storia, il nostro passato è, per noi, la base per definire il nostro avvenire, per riconoscere l'identità di un popolo che si è sempre opposto alle dominazioni, per trovare le radici di una nazionalità ancora viva.
    Per lo stato italiano e per i suoi studiosi, la storia della Sardegna si identifica con le vicende italiane. Negato dalle scuole, racchiuso in museo dagli studiosi asserviti, il nostro passato deve essere per costoro lettera morta: uno studio del passato fatto di trattati ed eventi politici nel quale il popolo era assente o tuttalpiù rassegnato e sconfitto. Opponendoci a questo disegno non vogliamo proporre falsi miti o visioni idilliache; desideriamo solo riappropriarci della nostra storia, delle nostre lotte e delle nostre umiliazioni nel secoli.
    Il Popolo sardo con la sua storia, la sua cultura, la sua lingua, la sua economia e il suo territorio, ha una propria strada da seguire: e sarà la strada dettata dalla volontà di esistere come popolo e come nazione non più legata a vincoli di dipendenza esterna.



    Capitolo l.
    DAI FENICI Al SAVOIA


    La comunità sarda mantiene i caratteri di una antica civiltà che, nonostante l'evoluzione del mondo moderno, si mantiene viva e vitale.
    Essa è simile alle altre civiltà mediterranee ed allo stesso tempo si distingue da queste per alcuni caratteri ed elementi particolari che si possono riscontrare ormai soltanto presso pochi popoli africani, iberici ed illirici.
    Questa antica civiltà, le cui origini si perdono nella storia, è stata tenuta gelosamente custodita per secoli nell'anima del popolo sardo ed esce fuori con forza ogni volta che i Sardi tentano di liberarsi della situazione coloniale nella quale altri popoli di diversa origine e cultura lo mantengono; questo succede perché non si tratta di un'oppressione militare o tirannica soltanto (come purtroppo avvenne spesso nella storia della Sardegna), quanto di una sorta di occupazione generale, che riguarda il lavoro, il modo di vivere, il modo di pensare e che tende ad assimilare il comportamento,del popolo sardo, con quello di chi, venendo da fuori, viene a comandare.
    Questi tentativi di privare delle loro caratteristiche originali i Sardi e di cancellare il loro carattere nazionale, hanno le loro origini nella preistoria mediterranea.


    1.1. La cultura sarda sotto i Cartaginesi ed i Romani.

    Già molto prima di Cristo i Fenici, poi i Cartaginesi, tentarono di imporre la loro civiltà al popolo isolano. Indubbiamente soprattutto la civiltà cartaginese riuscì in parte nel suo intento; infatti una forma di dominio e di convivenza fecero assimilare ai Sardi larga parte della loro cultura; ne nacque una cultura mista di notevole interesse, che, si badi bene, non annullò i caratteri di quella sarda, anzi li esaltò.
    D'altra parte, successivamente, neppure la lunga occupazione romana, durata circa ottocento anni, e quasi sempre violenta, seppure riuscì a soggiogare lo spirito tenace della comunità sarda e ad imporre la lingua latina, non riuscì a distruggere la personalità e la natura autonoma dei Sardi. Tanto è vero che, dopo una breve dominazione dei Vandali, e in conseguenza della debole amministrazione dell'impero di Costantinopoli, essi riuscirono a darsi nel Medio Evo il governo indipendente di quattro piccoli stati: Torres, Arborea, Cagliari e Gallura.
    La lingua parlata dai Sardi intorno al Mille fu la prima fra quelle neolatine, ricchissima di forme arcaiche e indubbiamente la più vicina al latino della Repubblica Romana.
    Quella stessa lingua che ebbe in realtà, anche grazie alla insularità, un'evoluzione lenta e separata rispetto alle altre lingue neolatine, italiano, provenzale, latino, catalano, francese, spagnolo e lusitano). Essa conserva ancora oggi molti caratteri arcaici e, in un certo senso, davanti alle altre lingue neolatine costituisce una specie dì linguaggio di base comune che più si avvicina al latino classico.


    1.2. Il Medio Evo in Sardegna.

    Ma torniamo alle vicende politiche (cui peraltro quelle linguistiche sono collegate): i quattro stati « federati » della Sardegna, nati dallo sfacelo dell'amministrazione bizantina, rappresentano per la comunità sarda la prima manifestazione di libertà in senso politico cioè il vero stato di «autonomia » rispetto alle colonizzazioni precedenti. Questa esigenza di autonomia è nella personalità dei Sardi, che sono pienamente coscienti di essere i depositari di una civiltà autoctona e nettamente differenziata da quella degli altri popoli mediterranei ed europei.
    Proprio questa indipendenza dell'isola nel Medio Evo, anche di fronte all'invasione islamica dell'Africa Settentrionale, in Spagna ed in Francia, spinse le repubbliche marinare di Genova e di Pisa a tentare di servirsi della Sardegna come di un baluardo difensivo contro una non improbabile invasione musulmana dei continente italiano. Le repubbliche marinare non ebbero la forza né la possibilità di occupare l'isola, ma con l'intrigo politico e con matrimoni dinastici, riuscirono alternativamente e insieme a « dominare » l'isola. Per questo la Sardegna, a differenza della Sicilia, non conobbe la civiltà araba ma soltanto le scorrerie dei corsari saraceni.


    1.3. La dominazione dei Pisani e dei Genovesi.

    La dominazione pisana e genovese fu soprattutto commerciale. Il popolo sardo si era allontanato dal mare sin da quando i Cartaginesi avevano ceduto alla potenza romana. I latini non erano certo un popolo di marinai. Avevano sfruttato la Sardegna per le sue risorse agricole, avevano imposto, con un regime di ferro e di fuoco, la loro lingua e il loro diritto, ma non avevano distrutto l'antica cultura. Vandali e Bizantini, sull'impronta romana, non avevano quasi lasciato tracce. Per questo il lungo periodo di « autonomia » nella quale innestarono la loro influenza i Pisani e i Genovesi, trovava una Sardegna economicamente prostrata ma in cui i caratteri originari della comunità isolana si manifestavano in tutta la loro interezza. Pertanto la dominazione pisana e genovese, nonostante la colonia mercantile di Cagliari, Sassari, Iglesias e di altri centri minori non riuscì affatto ad assimilare né a trasformare in qualche maniera il carattere del popolo sardo.


    1.4. La bolla di Bonifacio VIII. I Catalani.

    Le cose cambiarono dopo la bolla di Bonifacio VIII che cedette i diritti feudali dell'isola alla corona d'Aragona. La Sardegna passò infatti sotto la dominazione di una monarchia potente capace di occuparla. L'isola costituiva una base di appoggio formidabile per i convogli militari e commerciali (la Gran Compagnia Catalana) della confederazione aragonase. E la Sardegna, che resistette alla conquista catalano-aragonese con una guerriglia durata centocinquanta anni,
    si sottomise alla fine; costrinse però la grande confederazione ad accettarla come uno degli stati che ne facevano parte.
    I Sardi, conservarono lingua ed usanze, ed ebbero, fra i primi in Europa, un loro parlamento (Cortes) che costituiva un primo passo verso la moderna democratizzazione.
    L'unione fra Castiglia ed Aragona, seppure rappresentò un abbandono della politica mediterranea della Confederazione Aragonese, ormai priva di potere rispetto alle altre potenze, non mutò di molto la situazione della Sardegna, che continuò a vivere nell'ambito della cultura catalana. I re di Castiglia tuttavia, mentre non soppressero il parlamento, mantenendo in vita lo status di autonomia confederale dell'isola, non la trascurarono completamente, o comunque non più di quanto trascurassero gli altri stati della confederazione (Maiorca, Valencia, Aragona, Principato catalano).
    Il travaso della civiltà catalana dapprima e castigliana successivamente fu notevole e determinante, ma non sufficiente a produrre l'assimilazione e l'integrazione dei Sardi con gli iberici. Soltanto la loro cultura primitiva ebbe modo di arricchirsi ed adeguarsi al mondo moderno.


    1.5. Il Regno Sardo-Piemontese. I Savoia.

    Dopo il trattato di Utrecht e quello di Londra, la Sardegna fu ceduta ai Duchi di Savoia, ed avrebbe dovuto conservare la sua autonomia e le sue prerogative. Il ducato piemontese si era infatti solennemente impegnato, nel sostituirsi alla Spagna, a lasciare intatte nell'isola, la libertà, le usanze, la lingua, ma poco dopo, questo impegno fu calpestato e cominciò una vera e propria conquista. Se la Spagna ritardò notevolmente il passaggio dal feudalesimo all'età moderna (da rilevare solo l’istituzione delle due università di Sassari e Cagliari, tuttora funzionanti e importanti per la vita moderna) i Piemontesi, sulla scia dei loro grande disegno di conquista della penisola italiana, tentarono di desardizzare l'Isola con tutti i mezzi. Per lunghi decenni non lasciarono convocare il parlamento; operarono una penetrazione in profondità rafforzando un regime feudale spietato, una politica fiscale assai dura e inviarono i propri funzionari che instaurarono un regime coloniale fra i più spietati e retrivi; d'altra parte il Piemonte, a differenza della Catalogna esprimeva una civiltà tipicamente contadina lontana dal mare e dai problemi mediterranei; era uno stato feudale con i caratteri tipici dei centro-europei, retto da una dinastia reazionaria e assolutista, che non concepiva la rappresentanza dei parlamenti sardi e che li tollerava male in Sardegna solo perché costretto dal trattato di Londra (1718).
    E così il Piemonte, durante tutto il secolo XVIII, mentre si preparava la rivoluzione francese, non salo non contribuì in alcun modo al progresso della Sardegna; ma instaurò un regime di occupazione così oppressivo che alla fine dei secolo (1796) un movimento rivoluzionario, contro (il feudalismo e contro il malgoverno piemontese, si coalizzò intorno a Giommaria Angioy, figura ancora perfettamente attuale, che aveva assimilato e diffuso le idee del 1789 e aveva per primo, in una memoria assai importante, prospettato l’idea di un governo autonomo dell'isola sulle basi della rappresentanza popolare. Come ovvio, la rivoluzione del 1796 fu soffocata nel sangue; centinaia e centinaia di Sardi furono massacrati, altri costretti a scegliere la via dell'esilio.


    1.6. Dalla rivoluzione di Angioy alla metà dell'800.

    Con i fermenti della rivoluzione di Angioy però i Sardi riacquistarono gradatamente la coscienza di essere una comunità distinta dalle altre e di doversi battere per la libertà nonostante la cieca e spietata oppressione dei Savoia. Ciò malgrado, la pressione savoiarda non solo militare ma anche economica e culturale, spinse i Sardi, nel 1847, con un plebiscito organizzato dal governo piemontese, con l'appoggio di un gruppo di intellettuali, a rinunciare alla loro autonomia e alle loro secolari prerogative di libertà e di indipendenza, per quanto formali che fossero: la Sardegna cessò di battere moneta, il parlamento fu abolito, operatori piemontesi e continentali la invasero in ogni campo, sfruttando le risorse locali con la protezione del governo di Torino.
    La comunità sarda raggiunse così, nella seconda metà del secolo XIX, Il fondo della sua involuzione. L'opera di snazionalizzazione, sotto l’alibi dell'unione con il Piemonte, fu perfezionata al massimo: vennero istituite scuole pubbliche,nelle quali fu proibito l’insegnamento della lingua nell'isola; la maggiore ricchezza della terra - i grandi boschi - fu affidata ai boscaioli piemontesi e toscani. Il suolo rimase brullo; la miseria crebbe fino a raggiungere limiti spaventosi.



    Capitolo 2.
    IL NOSTRO SECOLO


    La fine dell'800 fu per la Sardegna una vera catastrofe: con la chiusura delle barriere doganali della Francia imposte dalle scelte protezionistiche del governo italiano e con il fallimento delle banche isolane, si accentuò la crisi economica e la miseria dei lavoratori sardi.
    La crisi venne aggravata da una serie di calamità naturali: cavallette, siccità, epidemie; nacque così, ai primi del Novecento, l'emigrazione. Dal 1904 al 1910 circa 12.000 lavoratori lasciarono l'Isola per cercare lavoro in Italia e all’estero, senza alcun tipo di qualificazione professionale.
    Nell'unica zona industriale della Sardegna, cioè il Cagliaritano, appena un terzo della popolazione lavorava nelle industrie. La maggior parte degli operai era impegnata nelle miniere, in mano a capitalisti stranieri. Le condizioni di lavoro di questi minatori erano veramente tremende: nessun contratto lavorativo, oltre 12 ore di lavoro nelle gallerie, attrezzi a proprio carico, paga inferiore al 35-50 per cento ai salari nazionali; i minatori avevano inoltre l'obbligo di acquistare i generi alimentari negli empori di proprietà delle compagnie minerarie, a prezzi maggiorati del 20 per cento.
    Si ebbe in quegli anni, ad accentuare le già precarie condizioni dell'economia sarda, un aggravio fiscale, per cui un gran numero di piccoli proprietari vennero espropriati della terra a tutto vantaggio dei grandi possidenti.
    La crisi economica gettò le basi per la nascita dei primi movimenti di ispirazione socialista nell'Isola, nascita che ebbe per culla le zone dei bacino minerario; erano associazioni povere e disorganIzzate, ma che avevano un enorme seguito fra i lavoratori. Cominciarono gli scioperi, le manifestazioni, gli scontri. Nel 1904 a Buggerru, durante uno sciopero, tre lavoratori caddero assassinati dai soldati. Venne così proclamato lo sciopero generale, il primo dello stato italiano.
    La tensione saliva e ben presto i moti investirono tutta la Sardegna, da Tempio a Cagliari, con innumerevoli morti e feriti. La flotta italiana mosse verso i nostri porti in assetto di guerra. L'ordine coloniale venne ristabilito e cominciarono gli arresti. Nei lavoratori sardi si faceva intanto strada la convinzione che i problemi dei contadini, dei pastori e degli operai, andassero risolti con una coscienza « sardista ».


    2.1. La 1a guerra mondiale. Il movimento combattentista.

    Si arriva alla Prima guerra mondiale, alla quale la Sardegna pagò un altissimo tributo di uomini e di sangue: 100.000 sardi, su una popolazione complessiva di 859.000 abitanti, vennero spediti al fronte e la media delle perdite subite fu la più alta in campo nazionale italiano.
    Ma la Grande Guerra fu per i Sardi anche il primo vero momento di aggregazione: si ebbe in sostanza l’uscita dalla chiusura campanilistica della vita in paese d'allora, chiusura che particolari condizioni economiche e sociali mantenevano in vita praticamente da sempre. La vita in comune nella Brigata Sassari e negli altri reparti in cui i Sardi erano presenti rafforzò il senso di appartenenza ad un unico popolo. Chiarì sia ai pastori che ai contadini uniti dalla trincea, in primo luogo, la propria diversità dagli “italiani”; fece balenare l'idea di una giustizia sociale da ottenersi in terra di Sardegna, in virtù dell'eroismo dimostrato in battaglia, idea, peraltro, alimentata dalle promesse dei governo italiano.
    Nel primo dopoguerra nacque su queste basi il movimento combattentistico. Esso ebbe come principale obiettivo la distribuzione delle terre, la formazione di cooperative, l'abolizione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, in aspra polemica con lo stato italiano, reo di non aver mantenuto le promesse fatte al fronte.


    2.2. Nascita del P.S.d'A. e del fascismo in Italia.

    Dal movimento combattentista nacque quasi subito il Partito Sardo d'Azione, con gli obiettivi di rivendicare i diritti della Sardegna nei confronti dello stato italiano e di rendersi interprete delle aspirazioni dei contadini e dei pastori presso la classe politica isolana.
    Anche il fascismo fu per la Sardegna un fenomeno di’importazione. Il movimento degli ex-combattenti, contrariamente a quanto accadeva in Italia, aveva infatti preso tutt'altra strada, creando un partito contadinista e democratico come, il P.S.d’A. Le camicie grigie, comandate da Emilio Lussu, sbaragliarono non poche squadre fasciste, costringendole a lasciare sul campo la bandiera. Mussolini inviò allora in Sardegna un piccolo esercito di camicie nere e per vent'anni fu la notte. L’anima dei Sardismo, insieme a quella di tutti gli uomini liberi e democratici di Sardegna, venne imbavagliata e costretta alla clandestinità. Se a questo si aggiunge che tre fascisti, infiltratisi nella direzione del partito sardo, con un colpo di mano ne avevano decretato lo scioglimento e la fusione addirittura con il Partito Nazionale Fascista, nonostante il netto rifiuto del resto della direzione e delle sezioni, ben si comprende come per i Sardi e per il Sardismo cominciasse un'epoca di tormento e di rabbia impotente. Con la scusa dei sacrifici da compiere in nome della “patria” (italiana), la Sardegna si avviava a diventare ancora più colonizzata di quanto già non lo fosse.
    Ma nonostante che molti, i più isolati, fossero caduti nel tranello delle promesse bugiarde di Mussolini, nonostante assassinii e ferimenti, fra cui quello di Emilio Lussu, il sardismo, o perlomeno la sua anima, non si arrese, e lottò fianco a fianco con gli altri partiti progressisti, nella clandestinità. Per moltissimi sarà il confino, la galera, e spesso anche la morte.


    2.3. Il ventennio fascista in Sardegna e la 2a guerra mondiale.

    Cosa felce il regime fascista in Sardegna?
    Innanzitutto mise in piedi un gigantesco apparato poliziesco, per cui anche i « vagamente sospettati » finivano in carcere, e non certo per banditismo; proibì drasticamente l'uso della lingua sarda; sperperò fiumi di danaro nella realizzazione di « grandiose opere pubbliche » che spesso non servivano a nulla. Non si adoperò in alcun modo per migliorare l'agricoltura e la pastorizia, favorendo invece quei coloni giunti in Sardegna per « omogeneizzare » l’isola alla « madrepatria ». Impose ai Sardi pesantissime tasse che spesso suscitavano vere e proprie rivolte.
    Lo sfruttamento dei lavoratori sardi divenne bestiale. I fascisti infine, usarono ancora una volta i Sardi, a causa dei loro coraggio e del loro spirito di indomiti combattenti, come carne da mandare al macello delle guerre imperialiste volute da Mussolini. In particolare nella guerra d'Etiopia e nella guerra civile spagnola, dove i Sardi furono spediti in massa. Anche gli antifascisti sardi, però, organizzati in Giustizia e Libertà con gli italiani, parteciparono alla Guerra di Spagna: nel fronte repubblicano, guidati da Lussu, nella colonna Rosselli.
    Il bilancio della Seconda guerra mondiale fu disastroso: i paesi vuoti a causa dell'alto numero di caduti, l'economia sconquassata, e una grande ignoranza politica, per cui, più tardi, al referendum, la maggioranza dei Sardi risulterà monarchica.


    2.4. I primi anni dei 2° dopoguerra.

    La Sardegna fu abbandonata dai Tedeschi che ripararono in Corsica, per via dell'accordo fra il generale Basso ed il comando tedesco. In tal modo nell'isola non si ebbe la resistenza. Oggi si discute molto se ciò fu un bene o fu un male ed ognuno ha valide argomentazioni in proposito. Da parte nostra diciamo che l'isola, anche se visse sempre ai margini della guerra (escludendo i disastrosi quanto inutili bombardamenti su Cagliari) era già abbastanza sinistrata senza aggiungervi altri guai. Perciò, se da una parte mancò sul nostro territorio l'apporto diretto del popolo sardo alle lotte per la liberazione, con tutto quello che ne consegue, d'altra parte si risparmiò molto sangue e ciò non ci sembra poco. Del resto anche se la resistenza fosse avvenuta, non avrebbe sicuramente influito granché sulle sorti di una guerra che si giocava effettivamente altrove. Certamente il fatto più importante fu il risveglio dei partiti ed in primo luogo del P.S.d’A. Il partito sardo fu il primo a riapparire sulla scena politica e ciò per il fatto di avere vertice e base esclusivamente in Sardegna e quindi libero dai condizionamenti romani; i partiti italiani, invece, erano troppo impegnati nella resistenza per poter pensare ad organizzarsi nell'isola. Si spiega in tal modo la breve storia dei Partito Comunista Sardo, un partito ad ideologia sardista ed internazionalista, nato in Sardegna sull’onda della popolarità raggiunta dall'ideale autonomistico, al quale vennero affiancati i princìpi dell’internazionale comunista.
    Così in Sardegna partì nuovamente la lotta politica per la autonomia. Purtroppo nel ventennio fascista molti furono gli entusiasmi che si guastarono e si dispersero, e del resto vent'anni non erano passati inutilmente e molte cose erano cambiate. I giovani tornati allora dalla guerra avevano fatto esperienze assai diverse, e nuove acquisizioni ideologiche che inevitabilmente li porteranno a scontrarsi con la vecchia dirigenza rimasta ferma a vent’anni prima. I risultati si vedranno nel '48 con effetti catastrofici per il partito e per la Sardegna.


    2.5. Il risveglio della lotta politica.

    Il risveglio della lotta politica ebbe i suoi riflessi anche nella vita sociale. Non dimentichiamo che l'isola uscì stremata dalla guerra, tanto che gli ultimi anni di essa divennero proverbiali: “la fame del '43 “. Il 1944 fu il più travagliato: la popolazione ebbe momenti di rivolta che non conosceva più dal 1906. E' l'anno dei moti per il pane che seminarono il caos in tutta l'isola provocando morti, feriti, arresti e processi. I fatti più gravi avvennero ad Ozieri, dove per tre giorni la popolazione assaltò le case dei benestanti, e a Sassari dove si assaltarono li forni.
    E’ in questo contesto, e nel desiderio di ricostruzione e di progresso, che ebbero luogo le grandiose lotte per la terra, con l'occupazione e la lavorazione dei terreni incolti, cui seguivano gli interventi della forza pubblica ed i relativi processi. Sulla scena politica sarda, intanto, rispetto al 1920, si presentarono la D.C.,ed il P.C.I., che combatterono con estremo impegno, e purtroppo efficacemente il Partito Sardo, allora il più forte. Bisogna dire che nel frattempo il P.C.I. si era sbarazzato del P.C.S., partito che, seppure avesse poco seguito, era indubbiamente molto più moderno dell'attuale P.C.I. L’operazione non fu indolore, ma poiché i comunisti italiani avevano stravinto il confronto, non ritennero di concedere nulla agli sconfitti, rintanandosi in un assurdo quanto anacronistico antiautonomismo, i cui strascichi sono ben evidenti ancora oggi. Fu Togliatti, un “continentale”, che fra molte resistenze e mugugni, costrinse a Cagliari il P.C.I. a diventare autonomista, sia pure di maniera.


    2.6. La crisi politica del P.S.d'A.

    Bisogna dire comunque che in questo periodo anche gli altri partiti erano decisamente antiautonomisti le se cambiarono opinione dall'oggi ai domani esso fu semplicemente per calcolo politico, in quanto così riuscirono ad erodere buona parte dello spazio tradizionalmente gestito dal Partito Sardo. Purtroppo il P.S.d’A. fu estremamente debole, e nei riguardi della D.C., perché questo partito disponeva di mezzi schiaccianti ed agiva in modo alquanto sleale, e nei confronti del P.C.I., verso il quale difettava soprattutto nella visione ideologica, ferma quasi esclusivamente alla istanza autonomistica.
    Bastò che questi partiti diventassero autonomisti perché si cominciasse a cedere il passo. Fu un periodo di grossa confusione politica ed ideologica e lo stesso P.S.d’A. non ne fu immune, diviso com'era fra vecchi e giovani, indipendentisti, autonomisti, federalisti etc.
    Nessun partito in questo periodo riesce a interpretare pienamente le aspirazioni de popolo sardo.
    Dopo vari compromessi i politici sardi della consulta regionale, nata per affiancare il generale Pinna, commissario governativo dell'Isola, proporranno all'Assemblea Costituente uno statuto per l'autonomia della Sardegna estrema ente modesto e povero. Così, mentre altre regioni avevano già l'autonomia, quella Sarda venne approvata l'ultimo giorno utile con ulteriori tagli e modifiche ed in seguito alle continue proteste di Lussu. In realtà nel 1946 i sardisti avevano
    proposto alla Costituente di estendere alla Sardegna lo statuto siciliano, estremamente più avanzato di quello ottenuto poi dai Sardi, ma esso fu rigettato per colpa di altri partiti, come ad esempio quello liberale, che, in quell'occasione stranamente autonomista, si dichiarò contrario al decreto che il governo stava per emanare, dichiarando che esso era troppo restríttivo e che i Sardi avrebbero fatto da soli; in tal modo il progetto si bloccò, e neanche a farlo apposta, di rincalzo non vi era nulla. Così, in fretta e furia, i politici sardi preparano una bozza di statuto molto più modesto, in quanto al momento della sua formulazione riapparvero in tutta la loro evidenza le riserve antisardiste dei partiti italiani, e ciò fece dire a Lussu, quando lo statuto venne approvato che « ... chiedevamo un leone, e abbiamo ottenuto un gatto, morto per giunta ».


    2.7. « Autonomia »: vittoria vera o apparente?

    Comunque sia, nel 1948 sì concretizzò la più grande aspirazione del Sardismo, quella per cui lo stesso partito sardo era nato, partito che d'ora fin avanti si fregerà del titolo di « padre della autonomia ». Ma questa fu una vittoria vera o apparente?
    Noi pensiamo che essa fu soprattutto apparente. Infatti se da una parte riconoscere le specialità dei Sardi fu di per se una grande vittoria, purtroppo mai valorizzata come avrebbe meritato, d'altra parte l'approvazione di questo statuto servì a spegnere ulteriormente gli entusiasmi nel partito sardo, oramai già diviso dalle lotte interne, in quanto si ritenne dai più di avere ormai raggiunto lo scopo prefisso. E’ facile oggi evidenziare l’errore. L'autonomia venne considerata punto d'arrivo quando invece era solo il punto di partenza, ed essa sarebbe stata gestita sin dall'inizio non dal Partito Sardo, ma dalla D.C. che ne avrebbe annullato l'essenza stessa come oggi è facile constatare.


    2.8. La fuoriuscita di Emilio Lussu dal P.S.d'A.

    Intanto era emersa la frattura tra i sardisti ortodossi e i sardisti innovatori. Era quella l'ora, o sarebbe potuta essere, dell'approfondimento e dell'arricchimento delle vecchie tesi sardiste alla luce degli apporti esterni dei sardisti rientrati dall'esilio. Invece il dibattito fu alquanto sterile e superficiale e impedì anche il formarsi all'interno del partito di una maggioranza e minoranza con i probabili futuri capovolgimenti della dirigenza.
    In tal modo sì arrivò alla traumatica frattura del 1948 con la fuoriuscita di Lussu e dei suoi fedelissimi per inseguire un futuro incerto e destinato a produrre risultati dei tutto insoddisfacenti. E’ ancora da studiare quale fu l’apporto degli altri partiti nei riguardi di questa scissione. Non bisogna dimenticare per esempio che Velio Spano escludeva il P.S.d’A. dal novero delle forze progressiste, accusando il partito di essere diretto da notabili di paese, conservatori e reazionari, e incitava spesso Lussu a liberarsi di queste costrizioni, che lo avrebbero potuto rendere, in seguito, antipopolare e prigioniero di un partito destinato a morire. Conseguenza di questa frattura fu un certo spostamento a destra del partito, che tuttavia in questo periodo continuò ad avere un gran successo, specialmente alle elezioni regionali. Ciò fu dovuto all'attuazione dell’autonomia, rivendicata come vittoria sardista, ma anche alle lotte per la terra, di cui oggi altri partiti si sono appropriati, ma che in realtà sono patrimonio sardista.


    2.9. Il consolidarsi del malgoverno democristiano.

    Mentre al Consiglio Regionale si parlava dell'« esperimento » autonomistico, iniziative imprenditoriali sarde come la società marittima « Sardamare » e l'aerea « Airone », dovevano chiudere in crisi, peraltro ottenendo dal consiglio regionale solo analisi e discussioni.
    Negli anni a seguire, al consiglio si ebbe l'alternanza di giunte di centro centro-destra, e purtroppo le frequenti partecipazioni dei partito sardo al governo con i democristiani.
    In seguito alle lotte per la terra dei disoccupati e dei braccianti agricoli si varò la « legge stralcio » la cui realizzazione in Sardegna vene affidata all’ETFAS e all'Ente per il Flumendosa.
    Nell'intervento, da un lato si ricalcò il « riformismo » sabaudo, dall'altro le colonizzazioni agrarie fasciste; si acquisirono, pagandoli, 115.000 ettari di terra, di cui appena la metà vennero trasformati. Dei principali obiettivi - l’economicità delle aziende, il favorire i piani zonali, lo sviluppo di industrie legate al settore, l’elevazione sociale delle comunità - ben poco si realizzò.
    Nonostante il grosso impiego di fondi, regionali e della Cassa per il Mezzogiorno, che nel decennio superarono i 280 miliardi di lire nel solo settore agropastorale, i risultati furono tragici.
    La dispersione, la frammentazione e l'accentramento della proprietà rimase invariato; l'esodo dalle campagne con interi nuclei familiari è stato valutato intorno alle 280.000 unità in dieci anni; si accentuò pertanto lo spopolamento di intere zone e la Sardegna, insieme alla Calabria, toccò la densità di popolazione più bassa fra le regioni italiane.
    Indennizzi che non arrivavano, macchinari vecchi e riverniciati che sbarcavano come nuovi, zone di trasformazione agraria che finivano alla speculazione turistica, stipendi favolosi e debiti in abbondanza.
    Se l'intervento del mastodontico carrozzone dell’ETFAS non servì a migliorare l'agricoltura, servì certo alla carriera politica di giovani democristiani che, se turchi non erano, di certo erano intrallazzoni: il piano che doveva essere verde cambiò colore nella maniera che tutti conosciamo.
    Nello stesso periodo, in campo industriale, si ebbe il crollo idei settore estrattivo che risultava essere il comparto trainante; pertanto per circa metà degli addetti non rimase,che la strada dell'emigrazione. L'unica occupazione che aumentò, fu quella del commercio al minuto e soprattutto l'impiego nella pubblica amministrazione, con una crescita di 7 volte superiore alla media italiana; anche da qui uscirono tante belle carriere democristiane, piccole, medie e grandi.

    2.10. La grande illusione: il « piano di rinascita ».

    Di rinascita sì iniziò a parlare fin dal '51, allorquando si costituì una apposita commissione che solo otto anni dopo arrivò a formulare un'ipotesi, la cui valutazione, a sua volta, impegnò i politici per altri tre anni. Infine nel '62 si dette l’avvio alla legge n. 588 o legge del “piano di rinascita” con lo stanziamento di 400 miliardi, poi rifinanziato dalla legge n. 509, o legge dei 1.000 miliardi.
    Ebbe così inizio la calata del capitale straniero in Sardegna, nelle industrie, nel turismo, nella stessa agricoltura; sì foraggiarono le “cattedrali” petrolchimiche, gestite da società che, per potere ottenere il finanziamento, risultavano composte da un enorme numero di società-ombra. Si costruirono « opere pubbliche » per poter agevolare le colate di cemento e le lottizzazioni speculative delle compagnie turistiche internazionali. In pochi mesi piccole imprese potevano sorgere, prendere contributi e chiudere. Bastava solo che il richiedente avesse l’accento continentale e buone conoscenze.
    Il credito industriale sardo, si specializzò in quegli anni nel concedere finanziamenti, crediti, esenzioni, mutui, agevolazioni; il risultato che se ne ottenne fu lo sconquasso dell’economia regionale: i profitti non furono infatti reinvestiti in Sardegna ma presero la strada per il Nord, aumentò la disoccupazione come pure l'emigrazione, l'inquinamento e la dipendenza economica.
    I petrolieri ci ripagarono dandoci qualche buon calciatore, appropriandosi di un paio di giornali che li riverissero abbastanza e gettando un po' della loro benzina sul fuoco del sottogoverno, mentre i partiti di sinistra erano impegnati, già da prima di costruire le fabbriche, a prevedere quante commissioni e cellule operaie di partito avrebbero potuto realizzare.
    Allora, solo il Partito Sardo d'Azione era contrario a quel tipo di industrializzazione, e la sua posizione gli valse la derisione delle altre forze politiche!


    2.11. Sardo = delinquente.

    Ancora una volta gli obiettivi non furono mai raggiunti, anzi, i problemi che ci assillavano inizialmente si acuirono, ad iniziare dall'esodo demografico, che nelle zone interne toccò il 13,26 per cento all'anno. Proprio nelle zone interne si svilupparono ampie mobilitazioni popolari, che coinvolsero interi paesi; si ebbero blocchi stradali ed occupazioni di municipi; in queste lotte popolari appariva come controparte lo stato italiano che imponeva una pesante dipendenza colonia-le alla Sardegna. Nei riguardi degli organi regionali si aveva una totale sfiducia. Le rivendicazioni vertevano su obiettivi concreti: pascoli, opere pubbliche e sociali, posti di lavoro.
    Vi fu in quel periodo una recrudescenza dei banditismo. Del resto ciò avviene in Sardegna da secoli, ogni qualvolta la miseria e le contraddizioni si inaspriscono. Le imprese banditesche furono gonfiate ad arte per porre in atto un intervento statale in grande stile; criminologi e sociologi fornirono il retroterra scientifico; giornalisti e RAI manipolarono l'informazione arrivando persino a proporre di « desertificare » la Barbagia con il famigerato napalm; ottomila « baschi blu » ed altri corpi speciali fecero il resto, con le ben note imprese da caccia grossa; e non solo contro i banditi, molti dei quali erano anzi, protetti da certi potenti notabili, ma contro interi paesi, contro un'intera area geografica che metteva in discussione una economia di dipendenza e rivendicava una propria ìdentità: rastrellamenti, stati d'assedio, confino, posti di blocco, fermi, morti « per sbaglio », furono all'ordine del giorno.
    Tutto ciò non bastava: i politici divennero ancora più raffinati: dalla « relazione-Medici » scaturì l’intervento per l’insediamento del polo industriale di Ottana, in precedenza rifiutato dalla grandiosa mobilitazione sardista di Lula. Si puntò cioè ad eliminare, più che il banditismo, la stessa struttura economica e sociale del territorio, struttura sulla quale si fondava la resistenza all'asservimento della Sardegna.
    Fu un errore, non solo perché l'insediamento, rispondendo a fini politici risultò antieconomico, ma soprattutto perché i pastori, diventati operai, non rimasero confinati in fabbrica; essi coinvolsero diversi strati sociali nelle vertenze che divenivano complessive dell'intera popolazione.
    In questi trent'anni di « autonomia » gli emigrati sono diventati 700.000. In cambio è arrivato qualcosa: le basi militari. Decimomannu, Salto di Ouirra, Capo Frasca, Capo Teulada, Tavolara, la Maddalena etc. Americani e Tedeschi, sommergibili ed aerei. E sono regali ben noti.


    2.12. La riforma agro-pastorale.

    Nel 1973, dietro la pressione delle sinistre venne varata la riforma agro-pastorale. Ancora una volta si mirava all’occupazione, ai redditi soddisfacenti, all'ammodernamento delle strutture, alla trasformazione e commercializzazione idei prodotti. Si sollevò un grosso polverone, ci fu una lotta a denti stretti fra i partiti italiani per spartirsi l'influenza sui comprensori agropastorali, che in maggioranza rimasero sulla carta; il « monte dei pascoli », ossia i terreni acquistati per dare lavoro alle cooperative, è a tutt'oggi inattuato.
    Le industrie chiusero i battenti, i traghetti presero altre vie, i prezzi salirono alle stelle; anche alla regione si era in crisi; i politici erano infatti molto preoccupati ad interpretare ed attuare le decisioni, i veti e le dispute che si verificavano ai vertici dei partiti italiani.


    2.13. Un futuro di lotta.

    In questi ultimi anni si è sviluppato un grosso movimento sardista: sul fronte culturale si lotta per il riconoscimento del bilinguismo. Infatti il governo centrale proibisce l'insegnamento nelle scuole primarie della lingua sarda, travisa la storia sarda, nega ai Sardi il diritto di esprimersi secondo le proprio esigenze; per dirne una, anche nei seminari cattolici, dimenticando il canonico Casu e le sue famose prediche in lingua sarda, si proibisce ali sacerdoti e agli allievi di esprimersi in sardo. A tutto questo reagiamo con grande povertà dimezzi ma con estrema fermezza. Il movimento per l'accoglimento della lingua sarda nelle scuole primarie insieme con la lingua ufficiale della Repubblica, secondo quanto prevede l'art. 6 della costituzione, si è sviluppato a tutti i livelli.
    Non crediamo alla buona volontà dei governi nazionali (?) e pertanto confidiamo soprattutto nell'unione delle comunità etniche oppresse e sulla volontà di tutti perché la lotta venga condotta in modo univoco e deciso nelle sedi e nei modi più opportuni.
    Si tratta perciò di organizzare un'unità di intenti e di aspirazioni che vada al di là dei limiti dei gruppi di ispirazione sardista e che superi gli stessi confini di queste forze per ottenere immediatamente il bilinguismo.
    L'asse portante di questa battaglia politica deve essere l'affermazione della connessione profonda che esiste tra lingua, identità nazionale e tradizione politica di rivolta del popolo sardo. E’ necessario trasformare in pratica quanto si è osservato in precedenza sulla storia delle dominazioni. Si deve lottare con forza per il mantenimento dell'identità nazionale sarda e della sua lingua. Ciò significa che il lavoro non andrà condotto esclusivamente a livello di conferenze o di altri accadimenti cosiddetti « culturali » ma che bisognerà calarsi direttamente nei luoghi della cultura materiale dell'isola, nelle campagne, nei porti in crisi, nelle nuove periferie urbane, in breve nei luoghi la cui economia è stata messa a repentaglio dalla presenza delle grandi fabbriche; riscoprire come il processo di esproprio linguistico sia contemporaneo al processo di esproprio politico. Spiegare come l'aggressione economica del governo centrale è possibile attraverso l'aggressione culturale ai modi di vita ed alle tradizioni precedenti. Negando la lingua, la cultura, si nega infatti il significato della nostra esistenza e più in generale ogni capacità di comprensione e dì opposizione nei confronti di quanto accade.
    In questo senso la battaglia che si propone diventa l'analisi critica di tutta la vicenda politica degli ultimi trenta anni, sotto l'angolo visuale della lingua, vista finalmente come parte e cerniera portante di un processo sociale complessivo e non come un suo elemento separato e particolare.
    E’ per questo motivo nostro compito riacquistare la carica di lotta e di entusiasmo dei primi anni; combattere ;per la piena espressione ed indipendenza della Nazione Sarda, affinché essa riesca a svincolarsi da qualsiasi dipendenza coloniale.

    FORZA PARIS!



    AVVISO

    Il gruppo che lavora alla pubblicazione dei quaderni intende procedere con l'apporto di tutti i simpatizzanti e militanti sardisti. Pertanto informiamo che nel prossimo numero affronteremo il problema dei bilinguismo in Sardegna; dei diritto della lingua e della cultura sarda al pieno riconosci,mento nelle scuote e al suo uso negli uffici e negli atti pubblici, dell'attuazione della proposta di legge popolare e di tutti i problemi inerenti a questo argomento. Tutti coloro che intendono collaborare e inviare materiale, lo spediscano al più presto a: « Partito Sardo d'Azione, Federazione Distrettuale di Sassari, via Roma, 16 - 07100 Sassari ».



    HANNO COLLABORATO:

    Agostino Columbano
    Basilio Floris
    Silvana Floris
    Franco Piretta
    Efisio Planetta
    Ennio Sanna



    T.A.S. Tipografia Artigiana Sassarese - Via Scano, 4 - Tel. 238.198 - SASSARI

 

 

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