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    Predefinito Il crollo dell'URSS secondo Negri

    Sto leggendo con interesse - anche se con non poca diffidenza - Impero di Negri - Hardt.

    Bisogna premettere che l'intero libro si inserisce nell’evento fondamentale costituito dall’irruzione della "post-modernità" (cioè il nuovo ordine della globalizzazione) nel mondo moderno. Tale avvento produce secondo Negri alterazioni strutturali a livello politico, sociale, economico e culturale.

    La tesi, affascinante, di Negri è che sostanzialmente il proletariato non ha cessato di vincere negli ultimi vent’anni, ma è stato invece l'artefice sia delle crisi del Capitale del 74-75 sia dei conseguenti cambi di paradigma del capitalismo. Quindi il proletariato è stato artefice anche dell'uscita dalla modernità e dell'entrata nell'ordine della globalizzazione. Cioè il fantomatico "Impero" secondo Negri "costituisce una risposta all’internazionalismo proletario".

    In particolare Negri afferma che la sconfitta degli USA nella guerra del Vientam e le lotte degli anni '70 hanno sancito la fine del modello "disciplinare" (che regolamentava le libertà di movimento e di azione dei corpi in ambiti spazio-temporali appropriati: ciò che il singolo soggetto era a scuola o al lavoro, era diverso da ciò che era a casa, in famiglia, o negli spazi della socialità ludica) e aperto invece la strada alla post-modernità e al mondo globalizzato.

    Questa tesi viene ripresa anche analizzando la caduta dell'URSS e del socialismo realizzato. In particolare Negri afferma che:

    "il sistema (sovietico ndc) è entrato in crisi ed è infine crollato soprattuto per la sua strutturale incapacità di superare il modello della governabilità disciplinare, sia nelle articolazioni produttive tayloriste e fordiste, sia nelle forme del comando politico socialista keynesiano che modernizzavano all'interno del sistema, mentre agivano imperialisticamente all'esterno"

    Cioè L'URSS entrà in crisi perchè perde la sfida della post-modernità. Questa sfida però non viene lanciata dai "nemici" (USA) ma dalla forza lavoro interna caratterizzata da nuove soggettività che chiedevano "nuovi" bisogni rispetto ai quali il sistema sovietico non riuscì a rispondere:

    "L'ideologia della guerra fredda definiva totalitaria quella società mentre, in verità, si trattava di una società attraversata da parte a parte da istanze creative e da tensioni di libertà estremamente forti, tanto quanto erano duri i ritmi dello sviluppo economico e della modernizzazone culturale. L'Unione Sovietica non era una società totalitaria, ma una dittatura burocratica"

    La cosa che colpisce è che Negri mette sullo stesso piano le lotte all'interno del sistema sovietico con quelle del proletariato nei paesi capitalistici, quelle lotte che secondo Negri portò i vai governi (anche L'URSS) in uno stato di crisi costringendoli alle riforme e, infine alla ristrutturazione.

    "Come nei paesi capitalistici, si stavano delineando nuove figure della forza lavoro che esprimevano staordinarie capacità produttive sulla base di nuove virtualità intellettuali delle produzione. La nuova realtà produttiva [...] fu rinchiusa dai leader sovietici nelle gabbie disciplinari di un'economia di guerra, e venne blindata dalle strutture dell'ideologia lavorista e dello sviluppo economico socialista, cioè da una gestione socialista del capitalismo che non aveva più senso."

    "Il gioco micidiale tra repressione ed energia della moltitudine provocò il collasso del mondo sovietico, facendolo cadere come un castello di carte. [...] I Settori del lavoro immateriale e intellettuale ritirarono il loro consenso al regime e il loro esodo lo condannò a morte"

    In conclusione secondo Negri la sconfitta dell'URSS, fu una sconfitta causata dalla vittoria del socialismo nella modernizzazione, in una fase in cui le nuove soggettività desideravano, invece, l'ingresso nelle postmodernità.

    Che ne pensate di questo "originale" teoria???

    Salut,
    Paddy G.

  2. #2
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    Caro Paddy,
    gli argomenti di cui parli sono assai complessi, però voglio contribuire alla discussione inviandoti una recensione del libro di Negri apparsa su una rivista comunista a diffusione molto limitata, ma ben fatta. Ecco il testo e buona lettura:

    UN "SOGNATORE OTTIMISTA"

    (Cassandra nuova serie n. 2- Aprile 2002)

    Michel Hardt, Antonio Negri, IMPERO, Rizzoli, 2001

    Antonio Negri è sempre stato un ottimista e un sognatore, anzi, un sognatore ottimista: se sogna un mostro (ieri lo "Stato-piano", oggi l' "impero"), lo sogna morto; se sogna un eroe (ieri l' '"operaio sociale", oggi la "moltitudine"), lo sogna vivo e vincente. Non lo nego, sognare è bello. Soffrire di allucinazioni, molto meno. E vedere un impero caduto e un comunismo trionfante dove c'è invece un capitalismo aggressivo, uno stato di guerra quasi permanente, un movimento operaio sconfitto, più che una bella utopia mi sembra francamente un'allucinazione. Non voglio tuttavia discutere gli aspetti onirici o allucinati di Empire, che in fondo rappresentano il lato più originale di quest'opera e che qualche cultore del genere fantasy potrebbe anche apprezzare. Preferisco soffermarmi brevemente sui pochi strumenti analitici che Empire suggerisce e che potrebbero anche essere presi sul serio, ma che a me sembrano inadeguati e fuorvianti. In generale, giocare la categoria di "impero" contro quella di "imperialismo" mi pare una mossa tutto sommato perdente: per un amore di novità che ha poi alle spalle il vecchio vizio marxista di leggere ogni trasformazione come uno stadio ulteriore (nella speranza che sia finalmente quello supremo), ci si libera troppo frettolosamente di categorie che forse aiutano a leggere la realtà contemporanea in modo più avvertito. E anche l'idea del declino dello Stato-nazione - che Hardt e Negri non sono certo gli unici a proporre: il dibattito sulla globalizzazione se ne sta nutrendo da anni1 - merita un supplemento di riflessione.
    L'impero di Hardt e Negri, questa nuova forma del potere politico che dello Stato a-vrebbe preso il posto, è a dir poco sfuggente (è nato alla fine del '700 con la Dichiarazione d'Indipendenza americana, oppure nel '900 con il New Deal, o invece "si materializza sotto i nostri occhi" nel Terzo Millennio? pratica l'autentica democrazia, la "disciplina" fordista o il "controllo" postfordista?); tuttavia, verso la fine del volume, un piccolo sforzo di dare almeno l'idea della sua struttura viene compiuto, ricorrendo - almeno come metafora - alla descrizione dell'Impero romano di Polibio. Secondo Polibio, "l'impero romano rappresentava l'apice dello sviluppo politico in quanto riuniva le tre forme 'buone' del governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - rispettivamente incorporate nelle figure dell'Imperatore, del Senato e dei comitia popolari" (p. 294). Analogamente, oggi abbiamo un Imperatore, cioè "un superpotere, gli Stati Uniti, che esercitano l'egemonia sull'utilizzo globale della forza" (p. 290); un Senato, ossia "un gruppo di Stati-nazione che controlla i principali strumenti monetari globali tramite i quali regola gli scambi internazionali" (ibid.), sostenuto dalle "società capitaliste transnazionali" (p. 291) di cui rappresenta gli interessi; e dei comitia, cioè "organismi che rappresentano gli interessi popolari nel dispositivo del potere globale" poiché "la moltitudine non può essere integrata direttamente nella struttura del potere globale, ma deve essere filtrata mediante meccanismi rappresentativi" (ibid.). Questi apparati di mediazione sono assai vari: Stati-nazione, media, organizzazioni religiose, ONG (queste ultime ritenute particolarmente significative data la loro dimensione metanazionale, cfr. pp. 293-296).
    Una ricostruzione suggestiva (anche se decisamente premoderna, se dobbiamo credere a Foucault2), ma fuorviante, in primo luogo per la separazione tra potere economico e potere politico-militare che suggerisce. Qui si fa un brutto passo indietro rispetto alle vecchie (ma almeno moderne) teorie dell'imperialismo. Il termine "imperialismo" coniato a cavallo tra '800 e '900, infatti, designava precipuamente (e non solo presso gli autori marxisti) la connessione tra le politiche di aggressione militare praticate da quelli che erano gli Stati forti, le "grandi potenze" dell'epoca, da un lato, e, dall'altro, processi economici quali l'esportazione di capitali, la formazione del capitale finanziario, l'azione dei grandi monopoli internazionali. Il termine "impero", nell'accezione proposta da Hardt e Negri, spezza proprio tale connessione. La globalizzazione del mercato risulta in quest'ottica un processo esclusivamente economico, in quanto tale sostanzialmente "pacifico" (certo, implica lo sfruttamento e un po' di sana concorrenza, ma nulla ha a che fare con aspetti propriamente militari), addirittura esente da conflitti intercapitalistici, grazie alla gestione sovranazionale degli strumenti monetari3. Viceversa, la guerra ha ragioni extraeconomiche, è puro esercizio di potere da parte di Sua Maestà l'Imperatore USA, oppure è davvero condotta a garanzia di valori universali affidati a un "tertium super partes" (cfr. p. 23 e ss.), e benché gli indici di Borsa siano sensibilissimi ai suoi risultati nulla ha a che fare con gli interessi del mercato e del capitalismo.
    Sarà anche vecchio, vecchissimo "economicismo", ma è poi così sbagliato vedere questioni economiche dietro le ultime guerre condotte dagli Stati Uniti? Questioni di petrolio dietro la guerra del Golfo; la necessità di garantirsi il controllo in un'area economicamente strategica dietro l'attuale intervento in Afghanistan; la volontà di dare segnali forti a possibili competitori economici (la Germania, rafforzata dall'area europea, con le sue mire verso i mercati dei paesi ex socialisti) dietro la recente guerra di Yugoslavia. Certo, esiste anche una logica "di potenza" relativamente (solo relativamente) autonoma: ma anche questa è una logica di parte, si esplica in un quadro - per citare il Foucault che tanto piace ai Nostri - di "concorrenza statale", in quel "tempo indefinito in cui gli Stati devono lottare gli uni contro gli altri" in cui domina la "ragion di Stato"4. In ogni caso, se non ci sono solo ragioni economiche, sicuramente non si sbaglia a dire che ci sono anche queste.
    Del resto, la guerra è anche un enorme business: alimenta un potente settore industriale (materialissimo, e con ricadute enormi in altri settori, materiali e immateriali). E gli Stati Uniti esercitano anche un'egemonia economica: troppo spesso, parlando di crisi, recessione, cattiva salute dell'economia americana, enfatizzando dati negativi relativi alla crescita o al debito di questo paese, si finisce col sostenere che gli Stati Uniti hanno nei confronti degli altri paesi forti una supremazia puramente militare. A mio avviso, dopo la crisi degli anni '70 e le paure degli anni ’80, gli Stati Uniti hanno ampiamente consolidato anche una supremazia economica grazie all’industria bellica (vero moltiplicatore della crescita economica statunitense, altro che welfare), grazie alle ricche ricadute di questa nell’industria civile (trasporti, chimica, componentistica, hardware, software, e altri ancora), grazie alla ricerca scientifica (in gran parte spinta dalla ricerca per scopi militari), grazie non da ultimo a un accorto protezionismo tariffario e non tariffario, a politiche monetarie pro domo sua, a interventi di sostegno delle aziende in crisi: ma che politiche da Stato-nazione per un paese che – a voler dare retta a Hardt e Negri – Stato-nazione non è mai stato! Alla faccia del conclamato neoliberismo, la ricetta USA sembra “più mercato e più Stato”.

    MARIA TURCHETTO
    ________________________
    1 Intermarx (http://www. intermarx.com/) ha offerto un'ottima panoramica di queste posizioni con gli articoli raccolti nel tema "La globalizzazione, l'imperialismo, lo Stato".
    2 "Sino alla fine del XVI secolo, la somiglianza ha svolto una parte costruttiva nel sapere della cultura occidentale" (Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli 1967, p. 31).
    3 Questa è davvero una vistosa semplificazione. Il sistema monetario è proprio quello meno globalizzato nel panorama contemporaneo, a differenza di quanto avveniva in epoche "semplice-mente" imperialiste (con il dominio della sterlina fino alla prima guerra mondiale e quello del dollaro nel secondo dopoguerra).
    4 M. Foucault, Résumé des cours 1970-1982, BFS, Pisa 1994, p. 67.

  3. #3
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    Ho già letto la recensione della Turchetto ma credo che tenda leggermente fuori dal tema che ho posto io, cioè, nello specifico, di una lettura del fallimento dell'URSS.

    La Turchetto si sofferma troppo sulla polemica nominalistica impero/imperialismo, ma non è questo il punto.

    Negri nello specifico offre un analisi originale, ma non troppo: dice che il fallimento dellURSS sta fondamentalmente nella conservazione ad oltranza del modello "disciplinare" fordista e che non seppe sfruttare la potenza delle nuove forze produttive.

    In qualche modo non è solo è una critica forte all'idea del "socialismo in un solo paese", ma si spinge verso la critica all'idea del "socialismo nella modernità" (difatti Negri si spinge alla critica anche verso le esperienze di "Liberazione Nazionale" che nulla sono servite se non ad inglobare i paesi subalterni nella modernizzazione e renderli subalterni all'ordine economico mondiale).

    Marx stesso affermò che "il comunismo o sarà universale o non lo sarà". Purtroppo anche Marx lascia dei buchi incolmabili sulle analisi dei cambi paradigmi del Capitale, e nello specifico nei ruoli degli Stati-Nazione. Il V° libro del Capitale avrebbe dovuto trattare questi temi.

    Vorrei che si discutesse anche su questo punto specifico, cioè sulla capacità di leggere attentamente questo nuovo processo di ristrutturazione e arrivare a capire se è ancora utile "anteporre" alla globalizzazione l'ideologia dello Stato-Nazione oppure, oltre ad essere una strada utopica, è pure una strada sbagliata.

    Salut,
    Paddy Garcia.

  4. #4
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    Ma te Catilina nello specifico come la pensi? Il crollo dell'URSS fu:

    1) Fin dall'inizio dettato dalla strutturazione di un sistema a "capitalismo di stato" (tipico alibi della tradizione bordighista e anarcosindacalista).

    2) Il risultato della dialettica devastante fra la dicotomia burocrazia/classe operaia (tipico alibi trojkista-quartointernazionalista)

    3) Il risultato di una "controrivoluzione" dall'alto (nel periodo di Gorbaciov) con un ruolo decisivo da parte del ceto politico-amministrativo costituito dai dirigenti, dai tecnocrati e dai tecnici delle industrie statali che ha ristabilito una società capitalistica (alibi dei terzointernazionalisti nostalgici di Breznev).

    Oppure???

    Ciao,
    Paddy G.

  5. #5
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    Dopo anni di discussioni (dal 1991 in poi) con tanti compagni, personalmente sono arrivato alla conclusione che un enigma storico come fu quello dell' implosione dell' ex-URSS non possa essere sciolto con una formula schematica. Si può solo operare una ricerca paziente e ardua, data la difficoltà di reperire materiali significativi, su specifici temi, in modo da saperne effettivamente di più, per cominciaere a capire veramente qualcosa.
    A questo proposito, ti consiglio di visitare il sito della rivista che ho ricordato nel mio primo messaggio:

    www.cassandrarivista.it

    Lì, cliccando alla voce "Dibattiti", potrai trovare una serie di interventi circostanziati sul problema fondamentale del ruolo della classe operaia in URSS. Io li ho trovati degni di nota. Bisognerebbe, insomma, procedere con questo metodo.
    Di sicuro, però, so una cosa: che la liquidazione dello "stalinismo" ed il "ritorno a Marx" nei modi in cui sono stati presentati, ad esempio, da Niki Vendola all' ultimo congresso del PRC di per sè non risolvono i problemi, di carattere pratico oltrechè teorico, che si pongono ad un partito comunista nel XXI secolo.

  6. #6
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    Originally posted by Paddy Garcia


    Vorrei che si discutesse anche su questo punto specifico, cioè sulla capacità di leggere attentamente questo nuovo processo di ristrutturazione e arrivare a capire se è ancora utile "anteporre" alla globalizzazione l'ideologia dello Stato-Nazione oppure, oltre ad essere una strada utopica, è pure una strada sbagliata.

    Salut,
    Paddy Garcia.
    Mi stuzzichi su un tema che, come sai, mi è molto caro, stando esso al centro della mia riflessione. Qui voglio ancora una volta ribadire sinteticamente perchè, secondo me, rivolgere da comunisti attenzione e dare dignità all' idea della Nazione, non intesa ovviamente in senso ottocentesco, è valida ancora oggi, anzi forse oggi più che mai.
    Il capitalismo globalizzato ha un intrinseco interesse allo sradicamento di popoli ed individui, all’ eliminazione di ogni resistenza culturale, alla fine delle diversità delle tradizioni, in nome del trionfo di una meccanicità comportamentale di fondo.
    Questo interesse è di tipo economico e mira a trasformare il mondo in un unico e sterminato mercato di consumatori disciplinati, docili, uniformi in una “essenziale”, soffocante omogeneità antropologica; a estendere rapporti sociali di produzione capitalistica; ad inserire manodopera immigrata come ulteriore merce umana per la fase della produzione, con il valore aggiunto di una forza-lavoro a basso costo, da utilizzare anche come leva per il contenimento interno dei salari. Sono peraltro ampiamente tollerate le condotte di vita stravaganti e le variopinte diversità estetiche. Ill multiculturalismo (non a caso enfatizzato a Los Angeles, New York, Londra, Berlino, Parigi, Roma, ma chissà perché non a Manila, Lima, Brazzaville, Nairobi) diviene così la riduzione a gioioso e colorato mondo “etnico” danzante e culinario. Niente da disprezzare, purchè si abbia la consapevolezza che declassare a folklore la valorizzazione di identità nazionali in cui ci si è formati e ci si riconosce, significa esercitare in casa un “colonialismo di ritorno” che le priva del loro portato di indipendenza e di liberazione, qui e altrove, ed immiserisce la stessa dignità degli individui.
    Per la realizzazione di questa società universale di mercato, è chiaro infatti che Stati, popoli, lingue e religioni che resistano all’ assimilazione non sono che ostacoli, in vista di un compiuto passaggio alla futura società globalizzata (multietnica). Auspicare, perciò, la società multietnica significa confermare quella globalizzazione che è la causa prima delle ingiustizie di questo pianeta e, dunque, ritrovarsi paradossalmente a fare il gioco della “mondializzaizone finaziaria”, piuttosto che l’ interesse delle masse disperate di migranti. ll culturalismo differenzialista, facendo propria la valorizzazione delle varie tradizioni, si deve comunque coniugare con i diritti sociali, questo è fuori di dubbio.
    Il punto di forza di ceto multiculturalismo starebbe nella affermazione che si è cittadini del mondo e nella rivendicazione di diritti universali ed uguali per tutti da affermare. Le nazioni dividerebbero, i diritti civili e sociali unirebbero. Ma constatiamo che l’ dea astratta dei diritti di cittadinanza universali ha finora prodotto un’ “inclusione sociale” che si è esplicata esclusivamente ed in modo peraltro discriminante consumando-vendendo-comprando.

  7. #7
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    Originally posted by Catilina
    Dopo anni di discussioni (dal 1991 in poi) con tanti compagni, personalmente sono arrivato alla conclusione che un enigma storico come fu quello dell' implosione dell' ex-URSS non possa essere sciolto con una formula schematica. Si può solo operare una ricerca paziente e ardua, data la difficoltà di reperire materiali significativi, su specifici temi, in modo da saperne effettivamente di più, per cominciaere a capire veramente qualcosa.
    A questo proposito, ti consiglio di visitare il sito della rivista che ho ricordato nel mio primo messaggio:

    www.cassandrarivista.it.

    Lì, cliccando alla voce "Dibattiti", potrai trovare una serie di interventi circostanziati sul problema fondamentale del ruolo della classe operaia in URSS. Io li ho trovati degni di nota. Bisognerebbe, insomma, procedere con questo metodo.
    Di sicuro, però, so una cosa: che la liquidazione dello "stalinismo" ed il "ritorno a Marx" nei modi in cui sono stati presentati, ad esempio, da Niki Vendola all' ultimo congresso del PRC di per sè non risolvono i problemi, di carattere pratico oltrechè teorico, che si pongono ad un partito comunista nel XXI secolo.
    A me l'intervento di Vendola è piaciuto molto e credo che sia stato uno di quelli più applauditi dalla platea congressuale.

    ps
    Il link non funziona.

  8. #8
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    Originally posted by Catilina


    Mi stuzzichi su un tema che, come sai, mi è molto caro, stando esso al centro della mia riflessione. Qui voglio ancora una volta ribadire sinteticamente perchè, secondo me, rivolgere da comunisti attenzione e dare dignità all' idea della Nazione, non intesa ovviamente in senso ottocentesco, è valida ancora oggi, anzi forse oggi più che mai.
    Il capitalismo globalizzato ha un intrinseco interesse allo sradicamento di popoli ed individui, all’ eliminazione di ogni resistenza culturale, alla fine delle diversità delle tradizioni, in nome del trionfo di una meccanicità comportamentale di fondo.
    Questo interesse è di tipo economico e mira a trasformare il mondo in un unico e sterminato mercato di consumatori disciplinati, docili, uniformi in una “essenziale”, soffocante omogeneità antropologica; a estendere rapporti sociali di produzione capitalistica; ad inserire manodopera immigrata come ulteriore merce umana per la fase della produzione, con il valore aggiunto di una forza-lavoro a basso costo, da utilizzare anche come leva per il contenimento interno dei salari. Sono peraltro ampiamente tollerate le condotte di vita stravaganti e le variopinte diversità estetiche. Ill multiculturalismo (non a caso enfatizzato a Los Angeles, New York, Londra, Berlino, Parigi, Roma, ma chissà perché non a Manila, Lima, Brazzaville, Nairobi) diviene così la riduzione a gioioso e colorato mondo “etnico” danzante e culinario. Niente da disprezzare, purchè si abbia la consapevolezza che declassare a folklore la valorizzazione di identità nazionali in cui ci si è formati e ci si riconosce, significa esercitare in casa un “colonialismo di ritorno” che le priva del loro portato di indipendenza e di liberazione, qui e altrove, ed immiserisce la stessa dignità degli individui.
    Per la realizzazione di questa società universale di mercato, è chiaro infatti che Stati, popoli, lingue e religioni che resistano all’ assimilazione non sono che ostacoli, in vista di un compiuto passaggio alla futura società globalizzata (multietnica). Auspicare, perciò, la società multietnica significa confermare quella globalizzazione che è la causa prima delle ingiustizie di questo pianeta e, dunque, ritrovarsi paradossalmente a fare il gioco della “mondializzaizone finaziaria”, piuttosto che l’ interesse delle masse disperate di migranti. ll culturalismo differenzialista, facendo propria la valorizzazione delle varie tradizioni, si deve comunque coniugare con i diritti sociali, questo è fuori di dubbio.
    Il punto di forza di ceto multiculturalismo starebbe nella affermazione che si è cittadini del mondo e nella rivendicazione di diritti universali ed uguali per tutti da affermare. Le nazioni dividerebbero, i diritti civili e sociali unirebbero. Ma constatiamo che l’ dea astratta dei diritti di cittadinanza universali ha finora prodotto un’ “inclusione sociale” che si è esplicata esclusivamente ed in modo peraltro discriminante consumando-vendendo-comprando.
    Il mio pensiero antitetico al tuo, fin dall'inizio, cioè fino all'idea che la cultura, l'identità e la sovranità di un "popolo" possa dipendere dalle frontiere del paese in cui vive.

    Mi pare grottesco che quando, finalmente, le frontiere degli Stati-Nazione di dissolvono, di riproporli a difesa di questa globalizzazione. Se perfino il barbudos Fidel, presidente dell'ultima trincea dissidente, dice che la resistenza al Capitale non passa più per il ruolo degli Stati ma quello dei movimento globali e sociali, una ragione ci sarà.

    La conversione novecentesca della sinistra giacobina in una sinistra nazionale, l'adozione massiccia di programmi nazionali da parte della seconda e della terza internazionale e dallo stesso bolsevismo, nonchè, le lotte di liberazione nazionale, si sono mosse all'interno dell'idea di modernità dettata dal Capitale, esaltando l'idea di "nazione", e cercando di "conquistare" il potere della modernità senza capire che la sfida era quella di supererare la modernità.


    In particolare questo fatto venne denunciato con forza dalla Luxemburg che contrastò all'epoca la politica di "autodeterminazione nazionale" per la Polonia. La luxemburg non si fermò ad analizzare il fatto che il nazionalismo agiva per dividere la clase operaia, ma si avvicinò a una critica della modernizzazione in quanto tale, defininendo la sovranità nazionale come un'espropiazione dei poteri della sovranità territoriale e della mobilitazione delle masse.

    Lo stesso Marx richiamava la neccesità, per la costruzione del comumnismo, di "un'universalità delle relazione umane" senza la quale "tutta la vecchia merda ritornerrebbe".

    Proprio adesso, che con la crisi della modernità e dell'idea dello Stazo Nazione, rinasce la possibilità di attacare il "nemico" frontalmente senza le illusioni create dai pradigmi capitalistici e dalle sue sovrastrutture (Stato-Nazione), dvremo forse tornare indietro?

    Io credo proprio di no, sarebbe l'ennesimo harakiri e la strada più semplice per perdere definitivamente.

    Io non so se questo ordine mondiale, è nato dalle spinte delle soggettività insubordinate come dice Negri oppure sia stata una creazione della mano invisibile del capitalismo per estendere il suo sfruttamento.

    So solo che tutto questoc i offre una ghiotta occasione. Lasciamo le teorie nazionaliste e protezioniste a il Le Pen di turno, non facciamole nostre.

    Saluti,
    Paddy G.

  9. #9
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    Originally posted by Paddy Garcia



    Il link non funziona.
    Avevo sbagliato a digitare. Quello giusto è

    www.cassandrarivista.it

    Che te ne pare?

  10. #10
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    Originally posted by Paddy Garcia


    Il mio pensiero antitetico al tuo, fin dall'inizio, cioè fino all'idea che la cultura, l'identità e la sovranità di un "popolo" possa dipendere dalle frontiere del paese in cui vive.

    Mi pare grottesco che quando, finalmente, le frontiere degli Stati-Nazione di dissolvono, di riproporli a difesa di questa globalizzazione. Se perfino il barbudos Fidel, presidente dell'ultima trincea dissidente, dice che la resistenza al Capitale non passa più per il ruolo degli Stati ma quello dei movimento globali e sociali, una ragione ci sarà.

    La conversione novecentesca della sinistra giacobina in una sinistra nazionale, l'adozione massiccia di programmi nazionali da parte della seconda e della terza internazionale e dallo stesso bolscevismo, nonchè, le lotte di liberazione nazionale, si sono mosse all'interno dell'idea di modernità dettata dal Capitale, esaltando l'idea di "nazione", e cercando di "conquistare" il potere della modernità senza capire che la sfida era quella di supererare la modernità.

    In particolare questo fatto venne denunciato con forza dalla Luxemburg che contrastò all'epoca la politica di "autodeterminazione nazionale" per la Polonia. La luxemburg non si fermò ad analizzare il fatto che il nazionalismo agiva per dividere la clase operaia, ma si avvicinò a una critica della modernizzazione in quanto tale, defininendo la sovranità nazionale come un'espropriazione dei poteri della sovranità territoriale e della mobilitazione delle masse.

    Lo stesso Marx richiamava la neccesità, per la costruzione del comunismo, di "un'universalità delle relazione umane" senza la quale "tutta la vecchia merda ritornerrebbe".

    Proprio adesso, che con la crisi della modernità e dell'idea dello Stazo Nazione, rinasce la possibilità di attacare il "nemico" frontalmente senza le illusioni create dai paradigmi capitalistici e dalle sue sovrastrutture (Stato-Nazione), dovremo forse tornare indietro?

    Io credo proprio di no, sarebbe l'ennesimo harakiri e la strada più semplice per perdere definitivamente.

    Io non so se questo ordine mondiale, è nato dalle spinte delle soggettività insubordinate come dice Negri oppure sia stata una creazione della mano invisibile del capitalismo per estendere il suo sfruttamento.

    So solo che tutto questo ci offre una ghiotta occasione. Lasciamo le teorie nazionaliste e protezioniste ai Le Pen di turno, non facciamole nostre.

    Saluti,
    Paddy G.
    Sgombriamo prima di tutto il campo per evitare inutili equivoci.
    L'attezione che i comunisti rivolgono alla "questione
    nazionale" non può essere confusa con quella che gli riservano i frontisti di Le Pen, mi pare ovvio. E ciò vuoi per la mancanza di accenti xenofobi che troviamo nell' analisi dei comunisti, vuoi per l'abissale distanza delle pratiche e delle teorie economico-sociali che vi sono tra un programma comunista ed uno frontista.
    Detto questo, i richiami di Fidel Castro ai movimenti anti-globalizzazione sono una conferma dell' interesse di questo ormai vecchio rivoluzionario comunista verso tutto ciò che di nuovo si presenta sullo scenario politico mondiale in senso antagonista. E'altrettanto vero che nei suoi interventi risuona anche il termine "Patria" strettamente collegato all' esperienza socialista
    cubana, così come è vero che i più seri problemi per l' imperialismo americano stanno venendo dalla resistenza che- attualmente- proprio entità nazionali (il Venezuela di Chavez, Cuba stessa, la Palestina, l' Iraq) oppongono al suo predominio e quindi alla globalizzazione capitalista.
    Ma i vertici di Rifondazione, soprattutto dopo l' ultimo congresso, hanno puntato a stringere legami con quegli avversari del sistema detti "no-global", cioè con coloro che- da un punto di vista teorico- si richiamano alla visione che tu hai sintetizzato. Ma io mi chiedo: so che cosa fanno Fidel Castro e Chavez nei loro Paesi, chi sono ìnvece questi "no-global" internazionali? Cosa vogliono? E specialmente, che cosa combinano?
    Perchè il subcomandnate Marcos non è stato invitato a Porto Alegre? E' un militarista-hanno detto- porta la divisa, non lo si deve accettare... Ora c'è Attac. Ma qui si inserisce la strana vicenda di Bernard Cassen, figura di spicco di Attac e testa di punta di Le Monde Diplomatique. Cassen ha ammesso di ricevere finanziamenti dalla Fondazione Rockfeller, emanazione della multinazionale Usa per antonomasia, ma non ha detto nulla- a quanto mi risulta- del perchè di questi finanziamenti. E allora ancora io mi domando: perchè il centro dell' Impero finanzia un suo contestatore? E che cosa pensare di ciò che ha affermato l' altro guru no-global, Susan Geroge, che pubblicamente ha di fatto avallato l'intervento imperialista statunitense in Afghanistan, affermando che il mondo, grazie ad esso, si era liberato dei talebani?
    Per venire a noi: è vero o no che, durante la controversia tra il Sud Africa e le multinazionali farmaceutiche sui medicinali anti-Aids, il nostro Vittorio Agnoletto chiese al presidente sudafricano di accettare le richieste delle multinazionali?
    E perchè a Porto Alegre non sono stati invitati Chavez e Castro che pure- come hai fatto notare tu- tanta fiduciosa attenzione avevano riposto nel movimento anti-globalizzazione? I responsabili no-global hanno detto che i due non rifiutano la violenza, che rappresentano degli Stati, mentre il forum era aperto solo alle ONG. E Veltroni e gli altri mille deputati"occidentali" presenti al forum, che cosa rappresentavano? Non erano anch' essi esponenti politici di Stati che praticavano e praticano la violenza? O le guerre contro l'Iraq, la Somalia, la Jugoslavia, l' Afghanistan sono "azioni umanitarie"?
    Insomma, personalmente credo che Rifondazione Comunista non debba oggi precludersi nessuna strada nella lotta all' imperialismo, ma che sia suo interesse seguire senza pregiudizi ciascuna delle due possibilità che oggi sembrano aprirsi per contrastare l' ingiustizia del Sistema. Sarà il tempo a dirci quale è la via che effettivamente conduce ad un' efficace difesa. E l' attesa non sarà lunga.
    Ciao

 

 
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